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SI SCEGLIE IL POLLO
DA SVUOTARE E FARCIRE |
SI SVUOTA IL POLLO COMINCIANDO DAGLI AGGETTIVI |
SI PRELEVANO GLI
AGGETTIVI, PRIMO INGREDIENTE DEL RIPIENO |
SI FARCISCE IL POLLO
COL PRIMO INGREDIENTE DEL RIPIENO |
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Pascoli L'aquilone |
Il pollo di Pascoli
svuotato degli aggettivi |
Gabriele
D'Annunzio La pioggia nel pineto |
Il pollo di Pascoli
farcito con gli aggettivi di D'Annunzio |
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C'è
qualcosa di nuovo oggi nel sole anzi d'antico: io vivo altrove, e sento che sono intorno nate le viole. Son nate nella selva del convento dei cappuccini, tra le morte foglie che al ceppo delle quercie agita il vento. Si respira una dolce aria che scioglie le dure zolle, e visita le chiese di campagna, ch'erbose hanno le soglie: un'aria d'altro luogo e d'altro mese e d'altra vita: un'aria celestina che regga molte bianche ali sospese... sì, gli aquiloni! È questa una mattina che non c'è scuola. Siamo usciti a schiera tra le siepi di rovo e d'albaspina. Le siepi erano brulle, irte; ma c'era d'autunno ancora qualche mazzo rosso di bacche, e qualche fior di primavera bianco; e sui rami nudi il pettirosso saltava, e la lucertola il capino mostrava tra le foglie aspre del fosso. Or siamo fermi: abbiamo in faccia Urbino ventoso: ognuno manda da una balza la sua cometa per il ciel turchino.39 Ed ecco ondeggia, pencola, urta, sbalza, risale, prende il vento; ecco pian piano tra un lungo dei fanciulli urlo s'inalza. S'inalza; e ruba il filo dalla mano, come un fiore che fugga su lo stelo esile, e vada a rifiorir lontano. S'inalza; e i piedi trepidi e l'anelo petto del bimbo e l'avida pupilla e il viso e il cuore, porta tutto in cielo. Più su, più su: già come un punto brilla lassù lassù... Ma ecco una ventata di sbieco, ecco uno strillo alto... - Chi strilla? Sono le voci della camerata mia: le conosco tutte all'improvviso, una dolce, una acuta, una velata... A uno a uno tutti vi ravviso, o miei compagni! e te, sì, che abbandoni su l'omero il pallor muto del viso. Sì: dissi sopra te l'orazïoni, e piansi: eppur, felice te che al vento non vedesti cader che gli aquiloni! Tu eri tutto bianco, io mi rammento. solo avevi del rosso nei ginocchi, per quel nostro pregar sul pavimento. Oh! te felice che chiudesti gli occhi persuaso, stringendoti sul cuore il più caro dei tuoi cari balocchi! Oh! dolcemente, so ben io, si muore la sua stringendo fanciullezza al petto, come i candidi suoi pètali un fiore ancora in boccia! O morto giovinetto, anch'io presto verrò sotto le zolle là dove dormi placido e soletto... Meglio venirci ansante, roseo, molle di sudor, come dopo una gioconda corsa di gara per salire un colle! Meglio venirci con la testa bionda, che poi che fredda giacque sul guanciale, ti pettinò co' bei capelli a onda tua madre... adagio, per non farti male |
C'è
qualcosa di A1 oggi nel sole, anzi d'A2: io vivo altrove, e sento che sono intorno nate lùe viole. Son nate nella selva del convento dei cappuccini, tra le A3 foglie che al ceppo delle quercie agita il vento. Si respira una A4 aria che scioglie le A5 zolle, e visita le chiese di campagna, ch'A6 hanno le soglie: un'aria d'A7luogo e d'A8 mese e d'A9 vita: un'aria A10 che regga A11 A12 ali A13... sì, gli aquiloni! È questa una mattina che non c'è scuola. Siamo usciti A14 tra le siepi di rovo e d'albaspina. Le siepi erano A15, A16; ma c'era d'autunno ancora qualche mazzo A17 di bacche, e qualche fior A18 A19; e sui rami A20 il pettirosso saltava, e la lucertola il capino mostrava tra le foglie A21 del fosso. Or siamo A22: abbiamo in faccia Urbino A23: ognuno manda da una balza la sua cometa per il ciel A24. Ed ecco ondeggia, pencola, urta, sbalza, risale, prende il vento; ecco pian piano tra un A25 dei fanciulli urlo s'inalza. S'inalza; e ruba il filo dalla mano, come un fiore che fugga su lo stelo A26, e vada a rifiorir lontano. S'inalza; e i piedi A27 e l'A28 petto del bimbo e l'A29 pupilla e il viso e il cuore, porta tutto in cielo. Più su, più su: già come un punto brilla lassù lassù... Ma ecco una ventata di sbieco, ecco uno strillo A30... - Chi strilla? Sono le voci della camerata mia: le conosco tutte all'improvviso, una A31, una A32, una A33... A uno a uno tutti vi ravviso, o miei compagni! e te, sì, che abbandoni su l'omero il pallor A34 del viso. Sì: dissi sopra te l'orazïoni, e piansi: eppur, A35 te che al vento non vedesti cader che gli aquiloni! Tu eri tutto A36, io mi rammento. solo avevi del rosso nei ginocchi, per quel nostro pregar sul pavimento. Oh! te felice che chiudesti gli occhi A37, stringendoti sul cuore il più A38 dei tuoi A39 balocchi! Oh! dolcemente, so ben io, si muore la sua stringendo fanciullezza al petto, come i A40 suoi pètali un fiore ancora A41! O A42 giovinetto, anch'io presto verrò sotto le zolle là dove dormi A43 e A44... Meglio venirci A45, A46, A47 di sudor, come dopo una A48 corsa di gara per salire un colle! Meglio venirci con la testa A49, che poi che A50 giacque sul guanciale, ti pettinò co' A51 capelli 52 tua madre... adagio, per non farti male. |
Taci. Su le soglie del bosco non odo parole che dici umane; ma odo parole più nuove che parlano gocciole e foglie lontane. Ascolta. Piove dalle nuvole sparse. Piove su le tamerici salmastre ed arse, piove su i pini scagliosi ed irti, piove su i mirti divini, su le ginestre fulgenti di fiori accolti, su i ginepri folti di coccole aulenti, piove su i nostri vólti silvani, piove su le nostre mani ignude, su i nostri vestimenti leggieri, su i freschi pensieri che l’anima schiude novella, su la favola bella che ieri t’illuse, che oggi m’illude, o Ermione. Odi? La pioggia cade su la solitaria verdura con un crepitìo che dura e varia nell’aria secondo le fronde più rade, men rade. Ascolta. Risponde al pianto il canto delle cicale che il pianto australe non impaura, né il ciel cinerino. E il pino ha un suono, e il mirto altro suono, e il ginepro altro ancóra, stromenti diversi sotto innumerevoli dita. E immersi noi siam nello spirto silvestre, d’arborea vita viventi; e il tuo vólto ebro è molle di pioggia come una foglia, e le tue chiome auliscono come le chiare ginestre, o creatura terrestre che hai nome Ermione. Ascolta, ascolta. L’accordo delle aeree cicale a poco a poco più sordo si fa sotto il pianto che cresce; ma un canto vi si mesce più roco che di laggiù sale, dall’umida ombra remota. Più sordo e più fioco s’allenta, si spegne. Sola una nota ancor trema, si spegne, risorge, trema, si spegne. Non s’ode voce del mare. Or s’ode su tutta la fronda crosciare l’argentea pioggia che monda, il croscio che varia secondo la fronda più folta, men folta. Ascolta. La figlia dell’aria è muta; ma la figlia del limo lontana, la rana, canta nell’ombra più fonda, chi sa dove, chi sa dove! E piove su le tue ciglia, Ermione. Piove su le tue ciglia nere sì che par tu pianga ma di piacere; non bianca ma quasi fatta virente, par da scorza tu esca. E tutta la vita è in noi fresca aulente, il cuor nel petto è come pèsca intatta, tra le pàlpebre gli occhi son come polle tra l’erbe, i denti negli alvèoli son come mandorle acerbe. E andiam di fratta in fratta, or congiunti or disciolti (e il verde vigor rude ci allaccia i mallèoli c’intrica i ginocchi) chi sa dove, chi sa dove! E piove su i nostri vólti silvani, piove su le nostre mani ignude, su i nostri vestimenti leggieri, su i freschi pensieri che l’anima schiude novella, su la favola bella che ieri m’illuse, che oggi t’illude, o Ermione. |
umane nuove lontane sparse salmastre arse scagliosi irti divini 10 fulgenti accolti folti aulenti silvani ignude leggieri freschi novella bella 20 solitaria rade australe cinerino diversi innumerevoli silvestre arborea ebro molle 30 chiare terrestre aeree sordo roco umida remota sordo fioco sola 40 argentea folta muta lontana fonda nere bianca virente fresca aulente 50 intatta acerbe congiunti disciolti verde rude silvani ignude leggieri freschi 60 novella bella |
C'è qualcosa di
umano oggi nel sole, anzi di nuovo: io vivo altrove, e sento che sono intorno nate le viole. Son nate nella selva del convento dei cappuccini, tra lontane foglie che al ceppo delle quercie agita il vento. Si respira una sparsa aria che scioglie le salmastre zolle, e visita le chiese di campagna, ch'arse hanno le soglie: un'aria di scaglioso luogo e d'irto mese e di divina vita: un'aria fulgente che regga accolte folte ali aulenti... sì, gli aquiloni! È questa una mattina che non c'è scuola. Siamo usciti silvani tra le siepi di rovo e d'albaspina. Le siepi erano ignude, leggiere; ma c'era d'autunno ancora qualche mazzo fresco di bacche, e qualche fior novello bello; e sui rami solitari il pettirosso saltava, e la lucertola il capino mostrava tra le foglie rade del fosso. Or siamo australi: abbiamo in faccia Urbino cinerino: ognuno manda da una balza la sua cometa per il ciel diverso. Ed ecco ondeggia, pencola, urta, sbalza, risale, prende il vento; ecco pian piano tra innumerevoli dei fanciulli urli s'inalza. S'inalza; e ruba il filo dalla mano, come un fiore che fugga su lo stelo silvestre, e vada a rifiorir lontano. S'inalza; e i piedi arborei e l'ebro petto del bimbo e la molle pupilla e il viso e il cuore, porta tutto in cielo. Più su, più su: già come un punto brilla lassù lassù... Ma ecco una ventata di sbieco, ecco uno strillo chiaro... - Chi strilla? Sono le voci della camerata mia: le conosco tutte all'improvviso, una terrestre, una aerea, una sorda... A uno a uno tutti vi ravviso, o miei compagni! e te, sì, che abbandoni su l'omero il pallor roco del viso. Sì: dissi sopra te le orazïoni, e piansi: eppure, umido te che al vento non vedesti cader che gli aquiloni! Tu eri tutto remoto, io mi rammento. solo avevi del rosso nei ginocchi, per quel nostro pregar sul pavimento. Oh! te felice che chiudesti gli occhi sordi, stringendoti sul cuore il più fioco dei tuoi soli balocchi! Oh! dolcemente, so ben io, si muore la sua stringendo fanciullezza al petto, come gli argentei suoi pètali un fiore ancora folto! O muto giovinetto, anch'io presto verrò sotto le zolle là dove dormi lontano e fondo... Meglio venirci nero e bianco, virente di sudor, come dopo una fresca corsa di gara per salire un colle! Meglio venirci con la testa aulente, che poi che intatta giacque sul guanciale, ti pettinò gli acerbi capelli congiunti tua madre... adagio, per non farti male. |
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SI SVUOTA IL POLLO DEI VERBI | SI
PRELEVANO I VERBI SECONDO INGREDIENTE DEL RIPIENO |
SI FARCISCE IL POLLO CON IL SECONDO INGREDIENTE |
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Il pollo di Pascoli, già farcito con gli aggettivi di D'Annunzio, svuotato dei verbi | Si
prelevano i verbi che servono da L'amica di nonna Speranza di Guido Gozzano |
Il pollo di Pascoli,
già farcito con gli aggettivi di D'Annunzio, ora con i
verbi di Gozzano |
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C'è
qualcosa di umano oggi nel sole anzi di nuovo: io V1 altrove, e V2 che V3- intorno -V3 le viole. V4 nella selva del convento dei cappuccini, tra lontane foglie che al ceppo delle quercie V5 il vento. Si V6 una sparsa aria che V7 le salmastre zolle, e V8 le chiese di campagna, ch'arse hanno le soglie: un'aria di scaglioso luogo e d'irto mese e di divina vita: un'aria fulgente che V9 accolte folte ali aulenti... sì, gli aquiloni! È questa una mattina che non c'è scuola. V10 silvani tra le siepi di rovo e d'albaspina. Le siepi erano ignude, leggiere; ma c'era d'autunno ancora qualche mazzo fresco di bacche, e qualche fior novello bello; e sui rami solitari il pettirosso V11 e la lucertola il capino V12 tra le foglie rade del fosso. Or siamo australi: abbiamo in faccia Urbino cinerino: ognuno V13 da una balza la sua cometa per il ciel diverso. Ed ecco V14, V15, V16, V17, V18, V19 il vento; ecco pian piano tra innumerevoli dei fanciulli urli s'V20. S'V21; e V22 il filo dalla mano, come un fiore che V23 su lo stelo silvestre, e V24 a V25 lontano. S'V26; e i piedi arborei e l'ebro petto del bimbo e la molle pupilla e il viso e il cuore, V27 tutto in cielo. Più su, più su: già come un punto V28 lassù lassù... Ma ecco una ventata di sbieco, ecco uno strillo chiaro... - Chi V29? Sono le voci della camerata mia: le V30 tutte all'improvviso, una terrestre, una aerea, una sorda... A uno a uno tutti vi V31, o miei compagni! e te, sì, che V32 su l'omero il pallor roco del viso. Sì: V33 sopra te le orazïoni, e V34: eppure, umido te che al vento non V35 V36 che gli aquiloni! Tu eri tutto remoto, io mi V37. solo avevi del rosso nei ginocchi, per quel nostro V38 sul pavimento. Oh! te felice che V39 gli occhi sordi, V40 sul cuore il più fioco dei tuoi soli balocchi! Oh! dolcemente, so ben io, si V41 la sua V42 fanciullezza al petto, come gli argentei suoi pètali un fiore ancora folto! O muto giovinetto, anch'io presto V43 sotto le zolle là dove V44 lontano e fondo... Meglio V45ci nero e bianco, virente di sudor, come dopo una fresca corsa di gara per v46 un colle! Meglio V47 con la testa aulente, che poi che intatta V48 sul guanciale, ti V49 gli acerbi capelli congiunti tua madre... adagio, per non V50 male. |
Loreto
impagliato e il busto d’Alfieri, di Napoleone, i fiori in cornice, (le buone cose di pessimo gusto!) il caminetto un po’ tetro, le scatole senza confetti, i frutti di marmo protetti dalle campane di vetro, un qualche raro balocco, gli scrigni fatti di valve, gli oggetti col mònito, salve, ricordo, le noci di cocco, Venezia ritratta a musaici, gli acquerelli un po’ scialbi, le stampe, i cofani, gli albi dipinti d’anemoni arcaici, le tele di Massimo d’Azeglio, le miniature, i dagherottipi: figure sognanti in perplessità, il gran lampadario vetusto che pende a mezzo il salone e immilla nel quarzo le buone cose di pessimo gusto, il cùcu dell’ore che canta, le sedie parate a damasco chermisi... rinasco, rinasco del mille ottocento cinquanta! I fratellini alla sala quest’oggi non possono accedere che cauti (hanno tolte le fodere ai mobili: è giorno di gala). Ma quelli v’irrompono in frotta. È giunta è giunta in vacanza la grande sorella Speranza con la compagna Carlotta! Ha diciassette anni la Nonna; Carlotta quasi lo stesso: da poco hanno avuto il permesso d’aggiungere un cerchio alla gonna; il cerchio ampissimo increspa la gonna a rose turchine: più snella da la crinoline emerge la vita di vespa. Entrambe hanno uno scialle ad arancie, a fiori, a uccelli, a ghirlande: divisi i capelli in due bande scendenti a mezzo le guancie. Son giunte da Mantova senza stanchezza al Lago Maggiore sebbene quattordici ore viaggiassero in diligenza. Han fatto l’esame più egregio di tutta la classe. Che affanno passato terribile! Hanno lasciato per sempre il collegio. O Belgirate tranquilla! La sala dà sul giardino: fra i tronchi diritti scintilla lo specchio del Lago turchino. Silenzio, bambini! Le amiche — bambini fate pian piano! — le amiche provano al piano un fascio di musiche antiche: motivi un poco artefatti nel secentismo fronzuto di Arcangelo del Leuto e di Alessandro Scarlatti; innamorati dispersi, gementi il «core» e «l’augello», languori del Giordanello in dolci bruttissimi versi: «... caro mio ben» credimi almen, senza di te, languisce il cor! Il tuo fedel sospira ognor, cessa crudel tanto rigor!» Carlotta canta, Speranza suona. Dolce e fiorita si schiude alla breve romanza di mille promesse la vita. O musica, lieve sussurro! E già nell’animo ascoso d’ognuna sorride lo sposo promesso: il Principe Azzurro, lo sposo dei sogni sognati... O margherite in collegio sfogliate per sortilegio sui teneri versi del Prati! Giungeva lo Zio, signore virtuoso di molto riguardo, ligio al Passato al Lombardo-Veneto e all’Imperatore. Giungeva la Zia, ben degna consorte, molto dabbene, ligia al Passato sebbene amante del Re di Sardegna. «Baciate la mano alli Zii!» dicevano il Babbo e la Mamma: e alzavano il volto di fiamma ai piccolini restii. «E questa è l’amica in vacanza: madamigella Carlotta Capenna: l’alunna più dotta, l’amica più cara a Speranza». «Ma bene... ma bene... ma bene...» — diceva gesuitico e tardo lo Zio di molto riguardo — «Ma bene... ma bene... ma bene... Capenna? Conobbi un Arturo Capenna... Capenna... Capenna... Sicuro! Alla Corte di Vienna! Sicuro... sicuro... sicuro...». «Gradiscono un po’ di marsala?» «Signora Sorella: magari». E sulle poltrone di gala sedevano in bei conversari. «...ma la Brambilla non seppe... — È pingue già per l’Ernani; la Scala non ha più soprani... — Che vena quel Verdi Giuseppe!... «...nel marzo avremo un lavoro — alla Fenice, m’han detto — nuovissimo: il Rigoletto; si parla d’un capolavoro. — «...azzurri si portano o grigi? — E questi orecchini! Che bei rubini! E questi cammei?... — La gran novità di Parigi... «...Radetzki? Ma che! L’armistizio... la pace, la pace che regna... Quel giovine Re di Sardegna è uomo di molto giudizio! — «È certo uno spirito insonne... — ...e forte e vigile e scaltro! — «È bello? — Non bello: tutt’altro... — Gli piacciono molto le donne... «Speranza!» (chinavansi piano, in tono un po’ sibillino) «Carlotta! Scendete in giardino: andate a giuocare al volano!» Allora le amiche serene lasciavano con un perfetto inchino di molto rispetto gli Zii molto dabbene. Oimè! Chè, giocando, un volano, troppo respinto all’assalto, non più ridiscese dall’alto dei rami d’un ippocastano! S’inchinano sui balaustri le amiche e guardano il Lago, sognando l’amore presago nei loro bei sogni trilustri. «...se tu vedessi che bei denti! — Quant’anni? — Vent’otto. — Poeta? — Frequenta il salotto della Contessa Maffei!» Non vuole morire, non langue il giorno. S’accende più ancora di porpora; come un’aurora stigmatizzata di sangue; si spenge infine, ma lento. I monti s’abbrunano in coro: il Sole si sveste dell’oro, la Luna si veste d’argento. Romantica Luna fra un nimbo leggero, che baci le chiome dei pioppi arcata siccome un sopracciglio di bimbo, il sogno di tutto un passato nella tua curva s’accampa: non sorta sei da una stampa del Novelliere Illustrato? Vedesti le case deserte di Parisina la bella non forse? Non forse sei quella amata dal giovane Werther? «...Mah!... Sogni di là da venire. — Il Lago s’è fatto più denso di stelle — ...che pensi?... — Non penso... — Ti piacerebbe morire? «Sì! — Pare che il cielo riveli più stelle nell’acqua e più lustri. Inchìnati sui balaustri: sognamo così fra due cieli... «Son come sospesa: mi libro nell’alto!... — Conosce Mazzini... — E l’ami? — Che versi divini!... Fu lui a donarmi quel libro, ricordi? che narra siccome amando senza fortuna un tale si uccida per una: per una che aveva il mio nome». Carlotta! Nome non fine, ma dolce! Che come l’essenze risusciti le diligenze, lo scialle, le crinoline... O amica di Nonna conosco le aiuole per ove leggesti i casi di Jacopo mesti nel tenero libro del Foscolo. Ti fisso nell’albo con tanta tristezza, ov’è di tuo pugno la data: vent’otto di Giugno del mille ottocento cinquanta. Stai come rapita in un cantico; lo sguardo al cielo profondo, e l’indice al labbro, secondo l’atteggiamento romantico. Quel giorno — malinconia! — vestivi un abito rosa per farti — novissima cosa! — ritrarre in fotografia... Ma te non rivedo nel fiore, o amica di Nonna! Ove sei o sola che — forse — potrei amare, amare d’amore? |
1impagliato 2protetti 3fatti 4ricordo 5ritratta 6dipinti 7sognanti 8pende 9immilla 10canta 11rinasco 12possono 13accedere 14hanno tolte 15v’irrompono 16È giunta 17d’aggiungere 18increspa 19emerge 20scendenti 21Son giunte 22viaggiassero 23Han fatto 24Hanno lasciato 25dà 26scintilla 27fate 28provano 29dispersi 30gementi 31credimi 32languisce 33sospira 34cessa 35canta 36suona 37si schiude 38sorride 40sognati sfogliate Giungeva 43Baciate 44alzavano 45diceva 46Conobbi 47Gradiscono 48sedevano 49seppe 50m’han detto |
C'è
qualcosa di umano oggi nel sole, anzi di nuovo: io impaglio altrove, e proteggo che sono intorno fatte le viole. Son ricordate nella selva del convento dei cappuccini, tra lontane foglie che al ceppo delle quercie ritrae il vento. Si dipinge una sparsa aria che sogna le salmastre zolle, e pende sulle chiese di campagna, ch'arse hanno le soglie: un'aria di scaglioso luogo e d'irto mese e di divina vita: un'aria fulgente che immillano accolte folte ali aulenti... sì, gli aquiloni! È questa una mattina che non c'è scuola. Cantavano silvani tra le siepi di rovo e d'albaspina. Le siepi erano ignude, leggiere; ma c'era d'autunno ancora qualche mazzo fresco di bacche, e qualche fior novello bello; e sui rami solitari il pettirosso rinasceva e della lucertola il capino poteva tra le foglie rade del fosso. Or siamo australi: abbiamo in faccia Urbino cinerino: a ognuno accede da una balza la sua cometa per il ciel diverso. Ed ecco toglie, irrompe, giunge, aggiunge, increspa, emerge il vento; ecco pian piano tra innumerevoli dei fanciulli urli scende. Giunge; e viaggia il filo nella mano, come un fiore che si fa su lo stelo silvestre, e si lascia dare lontano. Scintilla; e i piedi arborei e l'ebro petto del bimbo e la molle pupilla e il viso e il cuore, fanno tutto in cielo. Più su, più su: già come un punto prova lassù lassù... Ma ecco una ventata di sbieco, ecco uno strillo chiaro... - Chi disperde? Sono le voci della camerata mia: gemono tutte all'improvviso, una terrestre, una aerea, una sorda... A uno a uno tutti vi credo, o miei compagni! e te, sì, che languisci su l'omero il pallor roco del viso. Sì: sospiravo per te le orazïoni, e cessai: eppure, umido te che al vento non cantasti altro che suono di aquiloni! Tu eri tutto remoto, io lo schiusi, solo avevi del rosso nei ginocchi, per quel nostro sorridere sul pavimento. Oh! te felice che sognasti gli occhi sordi, sfogliando nel cuore il più fioco dei soli tuoi balocchi! Oh! dolcemente, so ben io, si sfogliava la sua giunta fanciullezza al petto, come gli argentei suoi pètali un fiore ancora folto! O muto giovinetto, anch'io presto bacerò sotto le zolle là dove alzasti lontano e fondo... Meglio dirci nero e bianco, virenti di sudor, come dopo una fresca corsa di gara per conoscere un colle! Meglio gradire con la testa aulente, che poi che intatta sedeva sul guanciale, ti seppe gli acerbi capelli congiunti tua madre... adagio, per non dire male. |
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SI SVUOTA IL POLLO DEI SOSTANTIVI |
SI PRELEVANO I NOMI
TERZO INGREDIENTE DEL RIPIENO
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IL POLLO È SERVITO C'E QUALCOSA DI UMANO OGGI |
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Il pollo di Pascoli, già farcito con gli aggettivi di D'Annunzio e i verbi di Gozzano, ora svuotato dei sostantivi | Si
prelevano i nomi che servono da La ginestra di Giacomo Leopardi (1831) |
Servendo il nostro pollo di Pascoli
farcito con gli aggettivi di D'Annunzio, i verbi di
Gozzano e i sostantivi di Leopardi, si adottano minime modifiche sintattiche
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C'è qualcosa di umano oggi nel
S1, anzi di nuovo: io impaglio altrove, e proteggo che sono intorno fatte le S2. Son ricordate nella S3 del S4 dei S5, tra lontane S6 che al S7 delle S8 ritrae il S9. Si dipinge una sparsa S10 che sogna le salmastre S11, e pende sulle S12 di S13, ch'arse hanno le S14: un'S15 di scaglioso S16 e d'irto S17 e di divina S18: un'aria fulgente che immillano accolte folte S19 aulenti... sì, gli S20! È questa una S21 che non c'è S22. Cantavano silvani tra le S23 di S24 e d'S25. Le S26 erano ignude, leggiere; ma c'era d'S27 ancora qualche S28 fresco di S29, e qualche S30 novello bello; e sui S31 solitari il S32 rinasceva e della S33 il S34 poteva tra le S35 rade del S36. Or siamo australi: abbiamo in faccia S37 cinerino: a ognuno accede da una S38 la sua S39 per il S40 diverso. Ed ecco toglie, irrompe, giunge, aggiunge, increspa, emerge il S41; ecco pian piano tra innumerevoli dei S42 S43 scende. Giunge; e viaggia il S44 nella S45, come un S46 che si fa su lo S47 silvestre, e si lascia dare lontano. Scintilla; e i S48 arborei e l'ebro S49 del S50 e la molle S51 e il S52 e il S53, fanno tutto in S54. Più su, più su: già come un S55 prova lassù lassù... Ma ecco una S56 di sbieco, ecco uno S57 chiaro... - Chi disperde? Sono le S58 della S59 mia: gemono tutte all'improvviso, una terrestre, una aerea, una sorda... A uno a uno S60 vi credo, o miei S61! e te, sì, che languisci su l'S62 il S63 roco del S64. Sì: sospiravo per te le S65, e cessai: eppure, umido te che al S66 non cantasti altro che S67 di S68! Tu eri tutto remoto, io lo schiusi, solo avevi del rosso nei S69, per quel nostro sorridere sul S70. Oh! te felice che sognasti gli S71 sordi, sfogliando nel S72 il più fioco dei soli tuoi S73! Oh! dolcemente, so ben io, si sfogliava la sua giunta S74 al S75, come gli argentei suoi S76 un S77 ancora folto! O muto S78, anch'io presto bacerò sotto le S79 là dove alzasti lontano e fondo... Meglio dirci nero e bianco, virenti di S80, come dopo una fresca S81 di S82 per conoscere un S83! Meglio gradire con la S84 aulente, che poi che intatta sedeva sul S85, ti seppe gli acerbi S86 congiunti tua S87... adagio, per non dire male. |
Qui su
l’arida schiena del formidabil monte sterminator Vesevo, la qual null’altro allegra arbor né fiore, tuoi cespi solitari intorno spargi, odorata ginestra, contenta dei deserti. Anco ti vidi de’ tuoi steli abbellir l’erme contrade che cingon la cittade la qual fu donna de’ mortali un tempo, e del perduto impero par che col grave e taciturno aspetto faccian fede e ricordo al passeggero. Or ti riveggo in questo suol, di tristi lochi e dal mondo abbandonati amante e d’afflitte fortune ognor compagna. Questi campi cosparsi di ceneri infeconde, e ricoperti dell’impietrata lava, che sotto i passi al peregrin risona; dove s’annida e si contorce al sole la serpe, e dove al noto cavernoso covil torna il coniglio; fûr liete ville e cólti, e biondeggiâr di spiche, e risonâro di muggito d’armenti; fûr giardini e palagi, agli ozi de’ potenti gradito ospizio; e fûr cittá famose, che coi torrenti suoi l’altèro monte dall’ignea bocca fulminando oppresse con gli abitanti insieme. Or tutto intorno una ruina involve, ove tu siedi, o fior gentile, e quasi i danni altrui commiserando, al cielo di dolcissimo odor mandi un profumo, che il deserto consola. A queste piagge venga colui che d’esaltar con lode il nostro stato ha in uso, e vegga quanto è il gener nostro in cura all’amante natura. E la possanza qui con giusta misura anco estimar potrá dell’uman seme, cui la dura nutrice, ov’ei men teme, con lieve moto in un momento annulla in parte, e può con moti poco men lievi ancor subitamente annichilare in tutto. Dipinte in queste rive son dell’umana gente «le magnifiche sorti e progressive». Qui mira e qui ti specchia, secol superbo e sciocco, che il calle insino allora dal risorto pensier segnato innanti abbandonasti, e vòlti addietro i passi, del ritornar ti vanti, e procedere il chiami. Al tuo pargoleggiar gl’ingegni tutti, di cui lor sorte rea padre ti fece, vanno adulando, ancora ch’a ludibrio talora t’abbian fra sé. Non io con tal vergogna scenderò sotterra; ma il disprezzo piuttosto che si serra di te nel petto mio, mostrato avrò quanto si possa aperto; bench’io sappia che obblio preme chi troppo all’etá propria increbbe. Di questo mal, che teco mi fia comune, assai finor mi rido. Libertá vai sognando, e servo a un tempo vuoi di novo il pensiero, sol per cui risorgemmo della barbarie in parte, e per cui solo si cresce in civiltá, che sola in meglio guida i pubblici fati. Cosí ti spiacque il vero dell’aspra sorte e del depresso loco che natura ci die’. Per queste il tergo vigliaccamente rivolgesti al lume che il fe’ palese; e, fuggitivo, appelli vil chi lui segue, e solo magnanimo colui che sé schernendo o gli altri, astuto o folle, fin sopra gli astri il mortal grado estolle. Uom di povero stato e membra inferme che sia dell’alma generoso ed alto, non chiama sé né stima ricco d’òr né gagliardo, e di splendida vita o di valente persona infra la gente non fa risibil mostra; ma sé di forza e di tesor mendíco lascia parer senza vergogna, e noma parlando, apertamente, e di sue cose fa stima al vero uguale. Magnanimo animale non credo io giá, ma stolto, quel che nato a perir, nutrito in pene, dice: — A goder son fatto, — e di fetido orgoglio empie le carte, eccelsi fati e nòve felicitá, quali il ciel tutto ignora, non pur quest’orbe, promettendo in terra a popoli che un’onda di mar commosso, un fiato d’aura maligna, un sotterraneo crollo distrugge sí, ch'avanza a gran pena di lor la rimembranza. Nobil natura è quella ch’a sollevar s’ardisce gli occhi mortali incontra al comun fato, e che con franca lingua, nulla al ver detraendo, confessa il mal che ci fu dato in sorte, e il basso stato e frale; quella che grande e forte mostra sé nel soffrir, né gli odii e l’ire fraterne, ancor piú gravi d’ogni altro danno, accresce alle miserie sue, l’uomo incolpando del suo dolor, ma dá la colpa a quella che veramente è rea, che de’ mortali madre è di parto e di voler matrigna. Costei chiama inimica; e incontro a questa congiunta esser pensando, siccom’è il vero, ed ordinata in pria l’umana compagnia, tutti fra sé confederati estima gli uomini, e tutti abbraccia con vero amor, porgendo valida e pronta ed aspettando aita negli alterni perigli e nelle angosce della guerra comune. Ed alle offese dell’uomo armar la destra, e laccio porre al vicino ed inciampo, stolto crede cosí, qual fôra in campo cinto d’oste contraria, in sul piú vivo incalzar degli assalti, gl’inimici obbliando, acerbe gare imprender con gli amici, e sparger fuga e fulminar col brando infra i propri guerrieri. Cosí fatti pensieri quando fien, come fûr, palesi al volgo; e quell’orror che primo contra l’empia natura strinse i mortali in social catena, fia ricondotto in parte da verace saper; l’onesto e il retto conversar cittadino, e giustizia e pietade altra radice avranno allor che non superbe fole, ove fondata probitá del volgo cosí star suole in piede quale star può quel c’ha in error la sede. |
1schiena 2monte 3arbor 4fiore 5cespi 6ginestra 7deserti 8steli 9contrade 10cittade 11donna 12tempo 13impero 14aspetto 15fede 16ricordo 17passeggero 18suol 19lochi 20mondo 21amante 22fortune 23compagna 24campi 25ceneri 26lava 27peregrin 28sole 29 serpe 30covil 31coniglio 32ville 33colti 34spiche 35armenti 36giardini 37palagi 38ozi 39potenti 40ospizio 41città 42torrenti 43monte 44bocca 45abitanti 46ruina 47fior 48danni 49cielo 50odor 51profumo 52deserto 53piagge 54lode 55stato 56gener 57cura 58natura 59possanza 60misura 61seme 62nutrice 63moto 64momento 65moti 66rive 67gente 68sorti 69secol 70calle 71pensier 72passi 73ingegni 74sorte 75padre 76ludibrio 77vergogna 78disprezzo 79petto 80obblio 81età 82mal 83libertà 84pensiero 85barbarie 86civiltà 87fati 88vero 89sorte |
C'è qualcosa di
umano oggi nella schiena, anzi di nuovo: io impaglio altrove, e mi protegge che sono intorno fatti i monti. Son ricordati nell'albero, nel fiore, nei cespi, tra lontane ginestre che ai deserti degli steli ritraggon le contrade. Si dipinge una sparsa cittade che sogna la salmastra donna, e pende sul tempo dell'impero, ch'arso ha l'aspetto: una fede di scagliosi ricordi, d'irti passeggeri e di divini suoli: un'aria fulgente che immillano accolti folti luoghi aulenti... sì, i mondi! È questa un'amante che non è fortuna. Cantavano silvani tra le compagne di campi e di ceneri, la lava era ignuda, leggera; ma c'eran di pellegrini ancora, e qualche sole fresco di serpe, e qualche covile novello bello; e fra i conigli solitari le ville rinascevano, e nel colto le spiche potevan tra gli armenti radi dei giardini. Or siamo australi: abbiamo in faccia il palagio cinerino: ognuno accede da un ozio ai suoi potenti, per ospizi diversi. Ed ecco toglie, irrompe, giunge, aggiunge, increspa, emerge la città! Ecco pian piano tra innumerevoli torrenti dai monti scende. Giunge; e viaggia sulla bocca degli abitanti come rovina che si fa sul fiore silvestre, e si lascia dare lontano. Scintilla; e i danni arborei e l'ebro cielo dell'odore e il molle profumo e il deserto e le piagge, fanno tutto in lode. Più su, più su: già come uno stato prova lassù lassù... Ma ecco un genere di sbieco, ecco una cura chiara... - Chi disperde? È la natura delle possanze mie: gemono tutte all'improvviso, una terrestre, una aerea, una sorda... A una a una la misura vi credo, o miei semi! e te, sì, che languisci sulla nutrice il moto roco del momento. Sì: sospiravo per te i moti, e cessai: eppure, umido te che alla riva non cantasti altro che gente di sorta! Tu eri tutto remoto, io mi schiusi, solo avevi del rosso nel secolo, per quel nostro sorrider sulle calli. Oh! te felice che sognasti i pensieri sordi, sfogliando nei passi i più fiochi dei soli tuoi ingegni! Oh! dolcemente, so ben io, si sfogliava la sua giunta sorte al padre, come l'argenteo suo ludibrio, una vergogna ancora folta! O muto disprezzo, anch'io presto bacerò sotto il petto là dove alzasti lontano e fondo... Meglio dirci nero e bianco, virenti d'oblio, come dopo una fresca età di male per conoscer libertà! Meglio gradire col pensiero aulente, che poi che intatta sedeva sulla barbarie, ti seppe l'acerba civiltà congiunta: il tuo fato... adagio, per non dire male. |
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