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SORGENTE DI MERAVIGLIE

LE PIÙ BELLE FIABE ITALIANE
ANTICHE E POPOLARI
REGIONALI E ALLOGLOTTE

  ADALINDA  GASPARINI       PSICOANALISI E FAVOLE

curate da Adalinda Gasparini e Claudia Chellini

che le hanno scelte dalle raccolte regionali
della seconda metà dell'Ottocento
e dei primi decenni del Novecento
e le hanno trascritte, tradotte, introdotte e commentate
per condividere con chi la cerca
questa insuperabile ricchezza italiana dai mille colori

FOSCHI EDITORE
Santarcangelo di Romagna - Gruppo Rusconi Libri S.p.A

dal 2018 al 2024 e continua


REGIONI PER LE QUALI IL VOLUME DELLA RACCOLTA È GIÀ DISPONIBILE
Veneto
2018
Sicilia
2018
Toscana
2019
Emilia Romagna
2019
Sardegna e isole alloglotte tabarchina e catalana
2020
Campania
2021
Lombardia
2022
Lazio e giudaico-romanesco
2022
Calabria e isole alloglotte
albanese, grecanica e occitana
2023
Friuli Venezia Giulia, isole alloglotte, e altre parlate
2024
Marche, in preparazione
2024
Piemonte

Basilicata

Valle d'Aosta/Vallée d'Aoste

Puglia

Liguria

Umbria

Molise

Trentino Alto-Adige/Trentino-Südtirol
Abruzzo










INDICE DEI VOLUMI

VENETO
2018
Prefazione impossibile di Giovan Francesco Straparola

1. La Gatta
2. L’huomo salvatico /L'uomo selvatico
3. Biancabella e la biscia sua sorella
4. Re porco
5. El re Bufon / Il re Buffon
6. Brancaleone
7. La poavola
8. Flamminio senza paura
9. La conza-senare / Cenerentola
10. La bella prigioniera
11. L’ugel bel verde / L'augel belverde
12. Tre giovani figliuoli del re di Serendippo

SICILIA
2018
Intervista impossibile a Giuseppe Pitrè

1. Re d’Anìmmulu / Re d'Arcolaio
2. Sfurtuna
3. Lu Re d’Amuri / Il Re d’Amore
4. Catarina La Sapienti / Caterina la sapiente
5. Rosamarina / Rosmarina
6. Li figghi di lu cavuluciddaru / Le figlie dell’erbaiolo
7. La grasta di lu basilicò / Le foglie del basilico e le stelle del cielo
8. La sora di lu Conti / La sorella del conte
9. Dammi lu velu! / Dammi il velo!
10. Gràttula-beddàttula / Dattero Beldattero (Cenerentola)

TOSCANA
2019
Prefazione impossibile di Collodi

1. La Cenerentola
2. Re Porco
3. Prezzemolina
4. Giovannino senza paura
5. Il canto e ’l sòno della Sara Sibilla
6. Cicerchia e i ventidua ladri
7. La scatola di cristallo
8. La Regina Marmotta
9. Il mortaio d’oro
10. Barbablù
11. Occhi-Marci
12. La Maga
13. Il Gatto con gli stivali
                                              14. Soldatino
                                              15. Il Gatto Mammone
                                              16. L'Aquila d'oro

EMILIA ROMAGNA
2019
Intervista impossibile alle sorelle Manfredi e Zanotti

1. Cindrella / Cenerentola
2. A ladr’ unurà / Il ladro onorato
3. E drago dal sètt tèst / Il drago dalle sette teste
4. La fola dèl candlir / Il candeliere
5. L’om sabadgh  / L’uomo selvatico
6. La Fola di tri Prencip Bisti / I tre principi bestie
7. La fola di Bianca come neve e rossa come sangue / Bianca come neve e rossa come sangue
8. La mamma di San Pietro
9. La fola dèl Muretein / Il Morettino
10. La fola dla malediziôn de sèt fiù / La maledizione dei sette figli
11. La culumbena bianca / La colombina bianca

SARDEGNA
2020
Prefazione impossibile di Grazia Deledda

1. Sa bitella de sos corros d'oro/ La vitella dalle corna d'oro (Cenerentola)
2. La rundalja de Belindu lu mostru (La Bella e la bestia; Catalano di Alghero)
3. U Sciaixettu / Cecino (Tabarchino)
4. Is tresgi bandius / I tredici banditi (Biancaneve)
5. La parilthoria de su puzzone ildhe / La fiaba dell'Uccello Verde
6. La lampana de oro / La lampada d'oro
7. Maria Intaulata / Maria Intavolata (Pelle d'asino)
8. Lu Babborcu / Il Babborco
9. S'Orcu e is duais gomais / L'Orco e le due comari
10. Crimintinu
11. Nostra Signora del Buon Consiglio (Racconto di Grazia Deledda)

CAMPANIA
2021
Prefazione impossibile di Adriana Basile

1. La Gatta cennerentola /  La Gatta Cenerentola (Cenerentola)
2. Ninnillo e Nennella / Nini e Nina (Hänsel e Gretel)
3. Petrosinella / Prezzemolina (Rapunzel)
4. L'Orza / L'Orsa (Pelle d'asino)
5. Gagliuso / Il Gatto con gli stivali
6. La serva d'aglie / La foresta d'agli (Fantaghirò)
7. Lo cunto dell'uorco / La fiaba dell'orco (Il ciuchino caca-zecchini)
8. Le tre Fate (La bella e la brutta)
9. La papara / La papera (L'oca d'oro)
10. Sole, Luna e Talia (La Bella addormentata nel bosco)

LOMBARDIA
2022
Intervista impossibile a Vittorio Imbriani

1. Scindirin-Scindiroeu / Cenerin Cenerella (Cenerentola)
2. El Corbattin / Il Corvetto (Il Re porco)
3. L'Ombrion / L'Ombrone
4. I tre tosànn del re / Le tre figlie del re
5. La Scindoreura / La ceneraia
6. El sidellin / Il secchiello
7. I tre naranz / I tre aranci
8. La Stella Diana
9. El Tredesin / Tredicino
10. La regina in del desert / La regina nel deserto
11. La storia del pestù d'or / La fiaba del pestello d'oro

LAZIO
2022
Avvertenza di Giggi Zanazzo

1. Rana rana
2. Bel Miele e Bel Sole
3. Er vaso de pèrsa
4. Gli tustamintu du 'na fata
5. La torta
6. Er Surtano
7. Belinda e er Mostro
8. Er matto
9. Gli Giagantu
10. Le ventiquattro fije
11. Er bambaciaro
12. Li tre sordati
13. Lo specchio
                                              14. La Fata Morgana
                                              15. La schiavetta
                                              16. I nomi d'aa gente, tre sonetti (Giudaico romanesco)
                                                     I     'Na prima sfornata
                                                    II     'N antrea scérpa
                                                    III    ...E poi basta
                                                           Lessico


CALABRIA
2023
Intervista impossibile a Letterio di Francia

1. Chioccia d’oru / Chioccia d’oro
2. La ricotta janca / La ricotta bianca
3. Trimi e llinderna / Il giovane e la lampada (Albanese)
4. La Bella di sette veli / La Bella dei sette veli
5. I tri cicorari / Le tre erbaiole
6. Mastrou Bëninhë / Mastro Benigno (Occitano)
7. L'acqua di l'occhi e la Bella di setti veli / L'Acqua degli occhi e la Bella dei setti veli
8. Canti grecanici
                E poi ithela / E poi vorrei
                Te prìcaddide tis ozzia / Le cicorie della montagna
                Cazzedda pu ciumase monachi / Fanciulla che dormi sola
                I fata ossu sto liri / La fata dentro l'iride
                O Turco agapise mia reomopulla / Il Turco amava una fanciulla Greca
                                                             Ta agropicciugna / Le colombe selvatiche
                                                             Desperato e sporte tuzzèo / Disperato le porte picchio

                                              9. Favolosa Calabria, di Giacomo Marafioti, teologo francescano calabrese del XVII secolo.


FRIULI-VENEZIA GIULIA
2024
Introduzione di Ornella Sardo

  1. Meni Fari (friulano)
  2. Pierissùt / Pieruccio (friulano)
  3. La mari di san Pieri / La madre di san Pietro (friulano)
  4. La fie e la fiastre / La figlia e le figliastre (friulano)
  5. La cjamese de l'om content / La camicia dell'uomo contento (istroveneto di Pola)
  6. I tri fardai / I tre fratelli (rovignese)
  7. Biela Fronte / Bella Fronte (rovignese)
  8. Andrianiela (rovignese)
  9. La Conzazenera / Cenerentola (istrioto o ladino istriano)
10. Storia de le fade e de un pastor de Beska ne l'isola de Veja / Storia delle fate e di un pastore
      di Beska nell'isola di Veja (veglioto).
11. L'amur dei tri naranci / L'amore delle tre arance (rovignese)
12. La zialla e la furmia / La cicala e la formica (muglisano)
                                              13. La Duaicessa (resiano o slavo friulano)
                                              14. El fio prodigo / Il figliol prodigo (versioni triestina, tergestina, saurana, bisiaca)
                                              15. Canti istrioti o ladino-istriani
Boûtete fora, pirsighèin d'amure / Vieni fuori peschina d'amore,
Vuoltite biundulèina inverso lai / Voltati biondina da questa parte
I' son stato a la guiera, a la batalgia / Io son stato alla guerra, alla battaglia
Biela, se ti vedissi li galiere / Bella, se tu vedessi le galere




VENETO
PREFAZIONE IMPOSSIBILE DI GIOVAN FRANCESCO STRAPAROLA

Or non sono molti mesi dacché mi son sentito chiamare, e non ho potuto sottrarmi al gentile appello delle signore curatrici di questo libretto.
Devo dire che era molto tempo che nessuno mi chiamava e ammetto che, vedendo la felicità con la quale ultimamente il mio collega Giambattista Basile è stato chiamato da più parti, in Italia e all’estero, ero un po’ geloso, ma cinquecento anni di oblio, raramente interrotto da uno studioso qua e là, mi hanno insegnato la virtù della pazienza.
Eppure vi posso assicurare che di pazienza in vita ne ho avuta poca, visto che non ho perso tempo a ricorreggere la mia opera più importante, Le piacevoli notti. Chi io sia stato davvero, nessuno finora l’ha scoperto, e se ci sono documenti che possono risolvere la questione della mia identità, ancora non sono stati trovati. Molti pensano che il mio cognome, Straparola, sia uno pseudonimo, un nom de plume, come dicono a Parigi, dove la mia raccolta in francese si leggeva fin dal Cinquecento.
Qualcuno ha pensato che come dignitario della Serenissima potrei aver passato molti decenni nel Vicino e Medio Oriente, e spiega così il mio lungo silenzio, dalla pubblicazione a mio nome di una raccolta di poesie in stile petrarchesco (1508) a quella delle Piacevoli notti (1550-53), dalle quali le maggior parte delle fiabe di questo libretto sono state tratte.
Anche sull’anno della mia nascita si fanno congetture: alcuni studiosi pensano che quando uscì il mio libro di poesie io non dovessi avere meno di vent’anni, e quindi non sarei nato dopo il 1495. Ma d’altra parte Le piacevoli notti furono pubblicate fra il 1550 e il 1553, e altri studiosi hanno pensato che a quell’epoca non dovessi avere più di settant’anni, vista la mia intensa attività di scrittore: non sarei quindi nato prima del 1480. Qualcuno ha pensato che sia sempre io l’autore di un’altra opera, pubblicata nel 1557, e in questo caso certo non sarei morto prima di quell’anno…
Ma che importa? Che differenza fa che io sia stato un ambasciatore di Venezia, con incarichi tanto importanti da non poter figurare come autore di una raccolta di novelle poco rispettosa della comune morale, o che sia stato un colto mercante capace di scrivere in gioventù poesie petrarchesche, e in vecchiaia novelle boccaccesche?
Le signore curatrici di questo libro mi riconoscono in ogni caso la libertà narrativa di cui godono solo le persone di solida cultura, e le mie rapide traduzioni dal latino, come quella de La Bella prigioniera (vedi il commento della Bella alla fine della fiaba), confermano questa ipotesi.
Sono stato il primo a dare alle stampe delle fiabe vere e proprie, ma solo pochi specialisti se ne ricordano. Se fossi sempre io ad aver scritto quel libro del 1557, Il peregrinaggio di tre giovani figliuoli del re di Serendippo, pubblicandolo con il nome di Cristoforo Armeno, sarei il primo ad aver tradotto in una lingua europea un’opera persiana. Se non sono stato io, è stato qualcuno che mi somigliava, per estro e libertà espressiva. Serendippo, ve lo devo dire, è un antico nome dello Sri Lanka, l’isola che si è chiamata anche Ceylon, detta anche la lacrima d’India. Qui potete leggere le sue prime pagine, così saprete da dove ha avuto origine la parola serendipity, che vuol dire trovare qualcosa di importante mentre se ne sta cercando un’altra: si usa anche in ambito scientifico!
Per questo le curatrici hanno voluto inserire l’inizio del Peregrinaggio come ultima favola, ricordando come un tempo grandi e piccini, riuniti tutti insieme nelle aie, si lasciavano incantare dalle narrazioni fiabesche. Ai bambini può piacere moltissimo questa storia di tre giovani che, dopo essere stati cacciati dal genitore, riescono con la loro intelligenza a meritare il rispetto e l’ammirazione di un imperatore. E se un adulto, dopo averla letta per sé, gliela racconta con la sua voce, ne potrà fare la prova.
Accanto alle mie fiabe ne trovate anche due popolari, raccolte a Venezia da Domenico Giuseppe Bernoni (1828-1877), un appassionato studioso del folklore veneziano vissuto nell’Ottocento, il secolo in cui moltissimi intellettuali si dedicarono alla ricerca e alla registrazione delle usanze e delle tradizioni popolari di tutta Italia.
Preparando questo libretto le signore curatrici hanno reso omaggio alla tradizione letteraria delle fiabe che caratterizza il Veneto e che ha influenzato non solo il patrimonio narrativo italiano: dovete sapere che il mio libro è stato un best seller europeo fin dal Cinquecento.
Era comunque doveroso ricordare anche la tradizione popolare e dialettale di questa regione, che ha avuto tanta importanza soprattutto nelle grandi opere teatrali del Settecento: le due fiabe raccolte da Bernoni, scelte tra le più diffuse in Italia e in Europa, rendono appieno la vivacità del dialetto veneziano.
Vorrei farvi un’ultima confidenza prima di tornare nel mio mondo.
Il desiderio delle mie signore curatrici è di concedere anche a chi non è specialista di poter godere della bellezza delle fiabe antiche e dialettali, anche grazie alle traduzioni nella lingua italiana del XXI secolo.
E poi, trascrivendo le fiabe dal veneziano letterario del Cinquecento e da quello popolare dell’Ottocento, le curatrici sono state proprio attente: hanno mantenuto la grafia originale, lasciando ad esempio tutte le acca che si usavano nel Cinquecento e che ora non si usano più. Hanno perfino lasciato le virgole in un modo che oggi non è più considerato corretto. Ma si sa, la lingua cambia nel corso del tempo, e cambiano anche le regole della scrittura. Solo in alcuni casi le curatrici si sono permesse di modificare il testo originale, per rendere più leggibile e comprensibile il testo. Per esempio, ne Le piacevoli notti e nel Peregrinaggio spesso non ci sono gli accenti, perché allora non sempre si scrivevano, oppure sono scritti su parole in cui nell’italiano contemporaneo non si scrivono più. E voi lettori del XXI secolo non siete proprio abituati a tutto questo, e quindi le curatrici li hanno inseriti dove mancavano e non li hanno trascritti dove potevano creare confusione, in modo che leggendo non vi resti difficile capire il racconto.
Per lo stesso motivo, troverete in questo volume che i discorsi diretti sono tutti preceduti da due punti e una lineetta: io non li ho scritti così e neanche Bernoni. Nel Cinquecento, infatti, si scriveva tutto di seguito, bastava il contesto del discorso a far capire di cosa si trattava, mentre nell’Ottocento si usavano le virgolette e le lineette, spesso insieme, ma non si andava a capo. Voi siete abituati in modo diverso, nei vostri libri i discorsi diretti sono sempre introdotti da un segno (ma uno solo, o le virgolette o le lineette) e poi sono messi a capo.
Un po’ mi dispiace per questi cambiamenti introdotti da queste signore curatrici, devo però riconoscere che la grafia usata nell’ultima edizione filologica della mia opera (2000) è molto diversa da quella che si trova nei volumi pubblicati da me.
Quello che importa è la soddisfazione di sapere che leggerete le mie fiabe nella vostra lingua quotidiana e che allo stesso tempo potrete vedere come anche la lingua scritta e stampata sia viva e cambi: ciò che oggi è considerato sbagliato un tempo era considerato corretto e quel che oggi è giusto domani potrebbe essere un errore.
SICILIA
INTERVISTA IMPOSSIBILE A GIUSEPPE PITRÈ

- Professor Pitrè, con questo nostro libro abbiamo voluto rendere omaggio alla sua grande raccolta di fiabe, che occupa i primi quattro dei venticinque volumi della “Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane”, che uscì fra il 1871 e il 1913. Si è certo trattato di un lavoro immenso, tanto che il 10 aprile 1916, il giorno dopo la sua morte, il Ministro di grazia e giustizia Orlando, pensando all’intera sua produzione, ebbe a dire in Parlamento che neppur le accademie si accingono a opere di tanta mole e le portano a compimento. Pensando alla fatica che ci è costato questo libretto, dove abbiamo riprodotto solo dieci delle sue trecentosette fiabe, non riusciamo a capacitarci di come abbia potuto esercitare contemporaneamente la professione di medico.

- È già dal 1866, in cui presi la laurea di medico-chirurgo, che l’ho esercitata come mezzo che poteva rendermi indipendente dal governo. Per chi ama la cultura, è meno costoso dedicare molte ore al lavoro e allo studio che perdere la propria libertà, ed è bello sapere di aver contribuito alla formazione del nostro patrimonio nazionale, grazie all’ “Archivio per lo studio delle tradizioni popolari” (Trimestrale, 1882-1906). Questa rivista, che ho fondato e diretto, ha raccolto i contributi dei grandi studiosi di tutta Europa e di persone comuni che, fornite di una buona cultura, raccoglievano e mi trasmettevano materiali delle loro regioni. L'unico paese che possieda oramai una bibliografìa è appunto l'Italia, con 6680 numeri di opere, opuscoli, articoli fino al 1904, e con 3000 altri da quell'anno al 1911.

- Suo padre era un marinaio, morto nel 1847, quando lei aveva appena sei anni. A sua madre, che ha fatto di tutto per farla studiare, lei ha dedicato i volumi delle fiabe siciliane e l’ha definita la sua Biblioteca delle tradizioni popolari. Pensa che ci sia una gerarchia fra le fiabe colte e quelle popolari? Il suo amore per le seconde, potrebbe dipendere dalle sue origini?

- Facciamo pure le maggiori riserve circa la superiorità di una classe sociale sull' altra; non possiamo farne però circa a certe qualità di una di esse, quella del popolo. Negare a questa la eterna freschezza degli affetti, la bontà infinita del sentimento, la ricchezza inesauribile della vena, è negar fede alla realtà. Bisogna capire e sentire il dialetto siciliano per capire e sentire la squisitezza delle fiabe che sono riuscito a cogliere di bocca alle mie varie narratrici.

- Questo volume appartiene alla collana “Sorgente di meraviglie”: l’Italia è la sorgente della immensa varietà di narrazioni e lingue. Ci siamo poste la domanda su come trascrivere le fiabe nei vari dialetti con la massima fedeltà, evitando però che questo ne rendesse difficile la fruizione a chi non è uno specialista della materia. Immaginiamo che raccogliendo fiabe in tutta la Sicilia, incluse le isole alloglotte albanesi, dalla viva voce di narratori e narratrici analfabeti, lei si sia posto un problema simile al nostro, per quanto di ben diverse proporzioni.

- V'ha una scuola di filologi che cercando rendere tal quale il suono delle parole vorrebbe con segni grafici rendere ogni suono dialettale e, più ancora, vernacolo. È noto a chi abbia un po' di pratica di queste discipline, che grandi, molteplici, svariati sono i suoni e che qualunque segno grafico ordinario riesce sempre inefficace a renderli. I dittonghi, i jati, le attenuazioni, i rafforzamenti, le aspirazioni, le atonie son tali e tante che mal si può presumere di ritrarre secondo la pronunzia popolare la parola. Ho quindi scelto un metodo misto che facilitando quanto più la intelligenza delle parole con una grafia assai stretta alla fonica rendesse nel miglior modo la caratteristica delle parlate varie in mezzo al dialetto comune.

- Lei, professore, non ha solo ricercato le tradizioni popolari con una fedeltà e uno spirito scientifico da considerare rari, se non unici, nel suo tempo, tanto che ha meritato la stima di grandi studiosi italiani, europei e americani. Anche se molto tardi, lo Stato italiano ha riconosciuto il suo merito istituendo per lei nel 1910 a Palermo la prima cattedra di Demopsicologia. Sappiamo che questa materia, la Psicologia dei popoli, nasce insieme all’antropologia e, almeno in Italia, la anticipa. Ci potrebbe spiegare cosa è questa materia?

- Per noi la Demopsicologia studia la vita morale e materiale dei popoli civili, dei non civili e dei selvaggi. Meno civili essi sono, più importante ne è la materia. Questa vita è documentata dai diversi generi di tradizioni orali ed oggettive. Fiabe e favole, racconti e leggende, proverbi e motti, canti e melodie, enimmi e indovinelli, giuochi e passatempi, giocattoli e balocchi, spettacoli e feste, usi e costumi, riti e cerimonie, pratiche, credenze, superstizioni, ubbie, tutto un mondo palese ed occulto, di realtà e di immaginazione, si muove, si agita, sorride, geme a chi sa accostarvisi e comprenderlo. I suoi sorrisi, i suoi gemiti, le sue voci, insignificanti pei più, sono rivelazioni per l'uomo di scienza, che vi sente l'eco lontana di schiatte e di generazioni tramontate da secoli. Cielo e terra parlano all'incolto pastore, alla ingenua femminuccia, all' incosciente bambino, al vecchio, che tante cose ha viste ed udite: tutti depositari e conservatori tenaci del passato. E parlano anche gli elementi singoli della natura, popolata di spiriti: parla il mare col mugghiare delle sue onde, col tremolar delle sue acque placide e coi suoi mostri misteriosi; parlano i laghi e gli stagni morti, le fonti e le sorgenti piene di vita ed i torrenti strepitosi; parlano i monti inaccessibili con le loro rupi scoscese e le paurose spelonche; parlano i boschi e le foreste impenetrabili, ispiranti sacro terrore.

- Abbiamo riprodotto e tradotto per questo volume dieci delle sue fiabe, nella speranza di dare un contributo alla conoscenza sua opera. Se esistesse un paradiso per chi raccoglie e rinarra fiabe con tanta forza poetica, passione e competenza nell’espressione letteraria e popolare, lei vi siederebbe accanto a Giambattista Basile e Giovan Francesco Straparola. Dove secondo noi si trova anche la grande studiosa Marian Roalfe Cox della Folklore Society di Londra, di cui lei apprezzò il libro del 1893, “Cinderella. Three Hundred and Fort-five Variants”. Non molti studiosi, allora come oggi, ne riconoscono il valore.

- Scrivendo di donne bisogna intinger la penna nei colori dell'iride, e sparger le parole della polvere d' oro delle ali di farfalla.

Le parti in corsivo sono fedelmente tratte dai seguenti testi di Giuseppe Pitrè, quelle in corso sono parafrasi delle intervistatrici:

Giuseppe Pitrè, Fiabe novelle e racconti popolari siciliani, raccolti e illustrati da Giuseppe Pitrè, Con Discorso preliminare, Grammatica del dialetto e delle parlate siciliane, Saggio di novelline albanesi di Sicilia e Glossario. Palermo: Luigi Pedone Lauriel Editore, 1875. Quattro voll. Disponibile online, Internet Archive.
Volume primo: https://archive.org/details/afm3499.0004.001.umich.edu;
Volume secondo: https://archive.org/details/fiabenovelleera02pitrgoog;
Volume terzo: https://archive.org/details/fiabenovelleera01pitrgoog;
Volume quarto: https://archive.org/details/fiabenovelleera00pitrgoog. Ultimo accesso: 25/06/2017.


TOSCANA
PREFAZIONE IMPOSSIBILE DI COLLODI

Volendo accontentare le gentili signore che curano questa collana, avevo dapprima pensato di scrivere come prefazione un paio di pagine edificanti, sullo stile di Perrault, quando aggiunge una morale alla fine del Gatto con gli stivali. In sostanza dice che la voglia di lavorare e qualche dote portano al successo più dei patrimoni e dei titoli ereditati. Non contento, dice anche che con una bella figura e buone maniere un giovane possa far innamorare perfino una principessa. Eppure aveva appena raccontato che la principessa della fiaba si era innamorata quando lo aveva visto in abiti regali e non suoi, e credendolo un marchese, come i padroni dei miei genitori: Marchese di Carabas! La vita non è facile, anche se le fiabe una loro verità ce l’hanno, ma non quella che pretendevano i cortigiani del Re Sole. E così, traducendo questa fiaba dal francese, un po’ sono stato fedele, ma alla fine ho fatto a modo mio. La mia morale è questa:
La storia del gatto del signor marchese di Carabà è molto istruttiva,
segnatamente per i gatti e per i marchesi di Carabà.
Eh sì, non mi riesce essere edificante, in un tempo in cui tanti edifici crollano d’improvviso, e devo ammettere di non essere stato proprio uno stinco di santo. Riguardo al lavoro, ce l’avevo, ma i soldi non mi bastavano mai, perché mi piaceva giocare come Pinocchio, e per quanto a volte cercassi di metter la testa a posto, il mio burattino c’è riuscito meglio di me. D’altra parte, se non avessi avuto tanto bisogno di guadagnare, l’editore Paggi non sarebbe riuscito a convincermi a tradurre le fiabe francesi, che si pubblicarono nel 1876. In quegli anni il napoletano Vittorio Imbriani, che come me aveva combattuto per l’indipendenza d’Italia, stava raccogliendo fiabe a Firenze e avrebbe pubblicato la Novellaja fiorentina nel 1877, mentre Gherardo Nerucci le stava raccogliendo dalle sue parti, e avrebbe pubblicato le Sessanta novelle popoalri montalesi nel 1880. Sia io che Nerucci nel 1848 eravamo a combattere a Curtatone e Montanara. Dell’Imbriani in questa raccolta trovate due novelle, di Nerucci sette. Ci sono anche quattro novelle di Giuseppe Pitrè, lo studioso siciliano che oltre a pubblicare quattro volumi di fiabe della sua Sicilia – dai quali le signore curatrici hanno preso dieci fiabe per il volume dedicato a quell’isola – trovò il tempo per raccoglierne tante qui in Toscana. Di mio in questa antologia ci sono solo due traduzione da Perrault, ma non ho motivo di essere geloso. Sono l’autore del libro più tradotto nel mondo dopo la Bibbia: si può leggere Pinocchio in duecentosessanta lingue! E vi risparmio l’elenco delle edizioni, illustrate o no. Alla faccia dei francesi che credevano di aver inventato loro le fiabe! Per non dire di quell’americano che faceva i film: non gli perdonerò mai di aver vestito Pinocchio come uno sprovveduto bimbetto tirolese.
Devo ammettere che se non avessi giocato d’azzardo non avrei avuto bisogno di soldi. Se non avessi avuto bisogno di soldi non avrei accettato di tradurre le fiabe francesi. Se non avessi tradotto le fiabe francesi non avrei pensato a Pinocchio, che scrivevo a singhiozzo una puntata per volta, quando ero squattrinato.
Poi successe che i bambini cominciarono a scrivermi alla redazione del Giornale per i bambini perché volevano sapere come faceva Pinocchio a salvarsi dalla impiccagione. Beh, a un certo punto mi ero stancato del burattino e mi pareva che andasse bene finire la storia così.
Ma quando non riuscii più a resistere alle richieste dei bambini e a quelle dell’editore – che mi prometteva anche dei veri zecchini – feci mandare dalla Fata Turchina il falco che spezzasse la corda alla quale era impiccato Pinocchio e il can barbone che glielo portasse a casa dove poteva curarlo perbenino.
Non credo che l’editore Paggi sapesse che Perrault e le Madame del Re Sole avevano tradotto e rimaneggiato fiabe italiane vecchie di qualche secolo, e ancora pochi sanno che l’Italia è la culla dei racconti: se credete che esageri, provate aleggere le storie, magari cominciando da Fabulando. Quanto poi alla Toscana, non pensate al mio Pinocchio, né alla Divina Commedia né al Decameron: leggete anche solo L’aquila d’oro in questo volumetto, tratta da una raccolta del Trecento, che contiene le prime versioni di Giulietta e Romeo e del Mercante di Venezia, per limitarci alle due che quel quel bardo inglese rese immortali.
Forse non è un caso se di rimbalzo dalla Francia le fiabe sono tornate a casa in Italia, e non è nemmeno un caso se qui a Firenze la mia penna, l’entusiasmo dei bambini e un certo bisogno di zecchini abbiano messo al mondo il più bel burattino che mai sia scappato ai gendarmi.

EMILIA ROMAGNA
INTERVISTA IMPOSSIBILE ALLE SORELLE MANFREDI E ZANOTTI

Care sorelle Zanotti e Manfredi, Teresa e Angiola, Maddalena e Teresa, avreste mai immaginato che la vostra Ciaqlira, la prima traduzione del Cunto de li cunti di Basile, avrebbe avuto tanta, e positiva, influenza sulle fiabe dell’Italia del Nord? Raccogliendo le fiabe per questo volume dedicato all’Emilia-Romagna possiamo dire che l’influsso del vostro lavoro è stato sorprendente.

Dobbiamo dire anzitutto, dal luogo in cui ci troviamo, oltre due secoli dopo la nostra vita terrena, che parleremo con un sola voce, come nell’Avvertiment al Lettor premesso alla nostra Ciaqlira in lingua bolognese. No, non potevamo immaginarlo, ma la nostra fatica è stata davvero grande, e non meno grande la passione e il divertimento con cui abbiamo letto e tradotto quelle cinquanta favole. E come se non bastasse la diffusione straordinaria delle fòle, il nostro libro, che non avevamo nemmeno firmato, è stato preso a modello per le regole e l’ortografia del nostro dialetto!

Perché avete scelto un titolo così particolare? E che significa banzola?

La banzola, è la chiacchierona, la cantastorie, sempre pronta a dire un cunto, una fola. Se accanto al fuoco c’è la banzola, quella seggiolina rotonda, come uno sgabello, ma con la spalliera, è il posto ideale per la chiacchierona. Accanto alla mamma, o alla nonna, accanto al fuoco: accanto alla nostra Cindrella, ovvero alla Gatta Cennerentola del Basile. Che bella fòla! Pare che la passione di noi donne per le scarpe venga da quelle che indossa lei per andare a conquistare il principe, o il re.

Nel vostro Avvertiment al Lettor abbiamo creduto di sentire che oltre al grande scrittore napoletano avevate in mente un altro grande scrittore. Abbiamo sbagliato?

Avete capito bene, care banzole, prendendo le fiabe di Basile, non potevamo certo dimenticare il primo grande scrittore di fòle, o novelle, del mondo: il toscano Giovanni Boccaccio. Lui dedica il suo Decameron alle donne che soffrono perché hanno perduto il loro amore e devono restare chiuse in casa, senza svaghi. Noi abbiamo dedicato la nostra Ciaqlira alle donne che devono aspettare che i loro cari tornino a casa, dopo il lavoro, dopo un viaggio o dopo la guerra. L’attesa a volte è troppo lunga, e viene sonno, ma non ci si può addormentare, anche noi che abbiamo studiato e scritto, e aiutato i nostri fratelli nei loro studi, siamo state tante volte ad aspettare…

Se sapevate che le donne sono diffidenti nei confronti di un libro scritto da donne, perché avete insistito su questo punto? Non vi conveniva scegliere uno pseudonimo maschile?

Ma noi volevamo che fosse chiaro che era un libro scritto da donne e dedicato alle donne. Certo, le lettrici, non meno dei lettori, storcono il naso di fronte a un libro scritto da donne, soprattutto se si intitola Ciaqlira. Ma a noi stava a cuore dire che le fòle, le favole, possono sembrare matterie, sogni privi di senso, mentre sono cose estremamente serie, come i sogni. Che hanno sempre goduto di una certa considerazione, anche prima che Freud ne facesse la via maestra della sua scienza. Chi non sa che matteria e buon senso si combattono e si uniscono come due innamorati, poteva e può ancora come allora, chiudere qualunque libro di favole o di novelle che dir si voglia.

Care sorelle Manfredi e Zanotti, anche il nostro lavoro, come il vostro, è una chiacchiera, e vi pensiamo con affetto e grande stima. Quando abbiamo visto che il 29 agosto 1997, all’Osservatorio San Vittore di Bologna hanno scoperto un asteroide e lo hanno chiamato 13225 Manfredi, abbiamo creduto che finalmente avessero pensato anche a voi, e invece i dedicatari sono solo i tre fratelli maschi della famiglia Manfredi. Non è giusto!

Forse su un piano maschile. Ma noi, care le nostre chiacchierone del XXI secolo, siamo vissute quando le fiabe conquistavano l’Europa, e sapevamo che non sarebbero più state dimenticate. I nostri figli sono nostri, e vivono e prosperano, anche se non portano il nostro cognome, e i nostri libri sono nostri anche se non li firmiamo, come è capitato alla nostra Ciaqlira dla banzola. Quanto alle stelle, brillano anche se non si sanno nominare.

Che bella conclusione, care sorelle Manfredi e Zanotti! Grazie per l’intervista che ci avete concesso, ma dobbiamo chiedervi di perdonarci se abbiamo deciso di mettere a disposizione dei nostri lettori la vostra introduzione, anonima, alla prima edizione della Ciaklira. Serva, il nostro piccolo libro, a far ricordare i vostri nomi, che sono stati troppo spesso dimenticati.


INTRODUZIONE DELLE QUATTRO SORELLE MANFREDI E ZANOTTI ALLA LORO OPERA

Io non vorrei che il titolo che figura sulla copertina di questo libro vi spaventasse. Voi sentendo il nome di Chiacchiera capirete subito, che è stato fatto da una donna, con un brutto frontespizio tale che lo richiudete senza leggere nulla, subito dopo averlo aperto, pensando che vi si trovino solo delle bagattelle. Ma provate, abbiate pazienza, leggete qualche pagina: cascherà il mondo? Per quanto sembri obbligatorio, nei confronti di tutto quello che fanno le donne, aver la puzza sotto al naso, nel caso che ve lo foste tappato, vorrei ora che mi faceste il piacere di stapparvelo, quanto basta perché abbiate il tempo di guardare alcune di queste favole. Anche nelle matterie può esserci qualche sentenza utile per la correzione dei costumi. Supposto dunque che vogliate ascoltarmi, comincerò dicendo che queste favole, che abbiamo tratto dalla lingua napoletana, e a confessarla com'è, lo so anch'io, che faranno arrabbiare per essere state tradotte con poco garbo, soprattutto nel caso che venissero confrontate con il libro dal quale sono state tratte. Qui ora direte una cosa, e mi pare che avrete ben ragione di dirla, cioè: che bisogno c'era che proprio io mi mettessi a fare la dottoressa traduttrice, quando queste favole stavano tanto bene nella  loro lingua? Dite il vero, non posso contestarlo, ma dirò anch'io due cose (ma ce ne potrebbero essere anche tre) in mia difesa. La prima cosa, che è sempre pronta alla bisogna, è che le donne mettono il naso dove non dovrebbero metterlo, e questa è la prima. La seconda è che non è così facile trovare questo libro di favole napoletane, perché so ben io, che fatica è stata trovarlo, e io ce l'ho grazie a un favore, che mi ha fatto una mia amica, della quale ho grande stima, che si è presa la briga di farlo venire da Napoli apposta per farmene dono; della qual cosa mi pregio.
Trovando dunque queste favole così gustose, e vedendo che era tanto difficile poterle avere in napoletano, cominciai a provare a tradurle nella mia lingua bolognese per poterle andare a leggere a Tizio e Caio. Il caso poi ha voluto, che queste favole fossero viste da qualcuno che si è dato pena di farle stampare, perché fosse più facile trovarle. Non posso negare che abbiano perso molta di quella grazia che hanno nella loro lingua originale, e anche se la sostanza delle favole è la stessa, non c'è tanta fedeltà nella loro traduzione, in parte perché non ho trovato in bolognese dei proverbi che volessero dire lo stesso di quelli napoletani, e ve ne ho anche messi dei nostri, che magari non vorranno proprio dire quello che dicevano gli altri; in parte perché c'erano moltissime cose che io non capivo, e che ho poi sistemato alla bene e meglio, e questo avrà causato qualche lacuna qua e là. Chi leggerà il napoletano vedrà anche che ci sono delle cose che non sono state affatto tradotte, e questo perché sono digressioni che ho considerato possibile tralasciare senza che ne derivasse alcun danno alla sostanza della favola. Insomma, che sia stata una matteria questa cosa che ho fatto, o una cosa che possa andare, io l'ho fatta, perché se ne serva chi passa molto tempo a sedere accanto al camino nelle sere d'inverso, ad aspettare i suoi, che tornino a casa, e che non arrivano mai: è una cosa che stanca, e stanca tanto: non dite a me che non è vero. Se vi piaceranno, l'avrò caro, se non vi piaceranno, il peggio che potrà capitare è che non le leggiate dopo che vi hanno convinto una volta, e che troverete qualcos'altro, che non vi faccia addormentare. Addio, state sveglie, che ci avrete gusto.

SARDEGNA
PREFAZIONE IMPOSSIBILE DI GRAZIA DELEDDA

Sono nata in Sardegna… Ho vissuto coi venti, coi boschi, colle montagne. Ho guardato per giorni, mesi ed anni il lento svolgersi delle nuvole sul cielo sardo. Ho mille e mille volte poggiato la testa ai tronchi degli alberi, alle pietre, alle rocce per ascoltare la voce delle foglie, ciò che dicevano gli uccelli, ciò che raccontava l’acqua corrente. Ho visto l’alba e il tramonto, il sorgere della luna nell’immensa solitudine delle montagne, ho ascoltato i canti, le musiche tradizionali e le fiabe e i discorsi del popolo. E così si è formata la mia arte, come una canzone, o un motivo che sgorga spontaneo dalle

labbra di un poeta primitivo.

Le curatrici di questo piccolo libro dicono che queste mie parole, che pronunciai davanti ai reali di Svezia per il conferimento del Nobel, ricordano le fiabe, come le mie descrizioni dei paesaggi sardi. Sono come un paesaggio dell’anima, dove una fata o una creatura sperduta possono entrare.
lL luogo è selvaggio e pittoresco, gli alberi altissimi e folti, le rocce coperte di muschio, il suolo disuguale nascosto da una folta vegetazione silvestre. Le felci d’oro ondeggiano alla brezza dei boschi, l’ellera, le liane, i rovi verdeggianti e le borraccine dai fiori rossi tappezzavano le rupi erte, gli enormi massi tagliati a picco, dalle cui cime si godono immensi orizzonti stendentisi sino al mare sotto la curva di un magnifico cielo, paesaggi verdi, vallate bionde, ondulate, nude, montagne e altre montagne ancora, villaggi azzureggianti nella lontananza, finché l’occhio si stanca nella nebbia che vela l’orizzonte dietro cui sorridono le pianure del sud inondate di sole e di verzura. I ruscelli cadono mormorando sul granito e i giunchi crescono nell’umidità, all’ombra degli alberi susurranti, e le gazze cantano allegramente nell’azzurro di quei boschi non ancora profanati dalla scure dell’uomo.
I grilli cantavano per la valle e i loro trilli incessanti, tremuli, argentini, si spandevano per l’aria rorida della notte bianca, quasi note di chitarre microscopiche, misteriose, suonate da piccole fate nascoste fra i giunchi e le ginestre della valle. Non altro rumore interrompeva l’alto silenzio del plenilunio: la vegetazione secca, gli alberi e i sambuchi olezzavano senza essere scossi da un solo fremito di brezza, e le acque immobili del fiume dormivano corrompendo quella notte orientale, bella e fatale come i sogni celesti causati dall'ascisc e dall'oppio.

Adalinda e Claudia hanno confessato che, come la maggior parte dei loro contemporanei, non avevano mai letto i miei racconti né i miei romanzi, come se il grande premio che ho ricevuto – seconda donna nella storia del Nobel per la letteratura, e prima e unica donna italiana a tutt’oggi – fosse stato dato a caso. Hanno cominciato a leggere la mia opera quando hanno scoperto che alla fine dell’Ottocento, in corrispondenza con Angelo De Gubernatis, studioso di tradizioni popolari e orientalista, avevo cominciato a raccogliere fiabe dalla viva voce del popolo. Sono andata negli ovili, nelle case più povere e più oscure, tra il fumo e la miseria, ho detto bugie, mi sono finta malata per sapere le medicine popolari. Alla fine dell’Ottocento le leggende e le fiabe erano di moda, e lo sono ancora: basta pensare ai giochi elettronici e alle serie TV.
Ai miei tempi c’era una bellissima fioritura degli studi popolari, verso cui tutti, pensatori, scrittori, poeti, volgevano lo sguardo, quasi ad un fresco lido ove approdare, dopo tante oscure tempeste letterarie. Come pensano le curatrici di questo libretto, la leggenda, come la fiaba, è aristocratica, è artistica, è volgare e popolare nello stesso tempo; desta lo stesso interessamento nello spirito fine della signora colta e nella fantasia rozzamente poetica della popolana; nell’animo sognatore dell’artista e nella percezione spregiudicata e indagatrice dello scienziato. La leggenda e la fiaba richiamano l’attenzione del poeta e dello storico, che cercano nel loro fusto le tracce delle generazioni sepolte, l’indole delle generazioni viventi e il germe di quella delle generazioni future. Allora come ora possono destare lo stesso fremito nei circoli gai dei salotti eleganti, e negli intenti animi dei pastori riuniti intorno al triste focolare – nei fanciulli e nei grandi.

Contos de fuchile – racconti da focolare –, con questo dolce nome che rievoca tutta la tiepida serenità delle lunghe serate famigliari passate accanto al paterno camino, da noi vengono chiamate le fiabe, le leggende e tutte le narrazioni favolose e meravigliose, smarrite nella nebbia di epoche diverse dalla nostra. Il popolo sardo, specialmente nelle montagne selvagge e negli altipiani desolati dove il paesaggio ha in se stesso qualcosa di misterioso e di leggendario, con le sue linee silenziose e deserte o con l’ombra intensa dei boschi dirupati, è seriamente immaginoso, pieno di superstizioni bizzarre e infinite. Nella stretta mancanza di denari in cui si trova ha bisogno di figurarsi tesori immensi, senza fine, nascosti sotto i suoi poveri piedi, sicché, dando retta alle dicerie vaghe, susurrate a mezza voce, con un tremito nell’accento e un lampo negli occhi, si crederebbe che il sotto-suolo di tutta l’isola è sparso di monete d’oro e di perle preziose.

Somigliavo alla mia terra, che può essere povera e nascondere tesori, quando scrissi al famoso intellettuale De Gubernatis, e non mi vergognavo né della mia bassa statura né delle mie altissime ambizioni: Sono piccina piccina, sa, sono piccola anche in confronto delle donne sarde che sono piccolissime, ma sono ardita e coraggiosa come un gigante e non temo le battaglie intellettuali. Solo così potevo sperare di esprimere scrivendo l’amore per l’isola nella quale sono nata.
Sì, io amo molto la Sardegna; posso dire anzi che  è il mio grande amore. L’amo nelle sue terre, nei suoi monti, nel suo cielo, in mia madre, nella nostra vita, nei nostri costumi, e vorrei, non so, vorrei fare tutto da me per illustrarla e farla amare dai continentali. Allorché leggo il suo nome nei giornali d’oltremare io provo un sussulto, quasi si trattasse di un nome magico, legato misteriosamente a tutto il mio essere. E sono gelosa di coloro che scrivono cose sul Nuorese, la mia regione natia e la più bella, la più caratteristica dell’isola, perché vorrei riservarmi tutto il diritto di illustrarla io, solo io, a poco a poco. Ma questo non fa di me una scrittrice regionale per quanto molti intellettuali e critici italiani mi rimuovano come se la fossi. Credo dipenda dal fatto che non è facile comprendere quello che invece hanno visto bene i giudici di Stoccolma. L’amore per la Sardegna fa della mia opera lo specchio della mia anima, e in ogni anima, per la magia umanissima della letteratura, il mondo intero si riflette, con il dolore e la gioia, l’entusiasmo e la disperazione, l’atto crudele e quello generoso: il singolo soggetto e tutti gli uomini, in tempi diversi e sotto diversi cieli.

CAMPANIA
PREFAZIONE IMPOSSIBILE DI ADRIANA BASILE

Sono Adriana, Adriana Basile. Sì, sono la grande cantante lirica, richiesta in tutte le corti di questa penisola che ora si chiama Italia. Sì, so che per voi la cosa più importante è che sono la sorella di Giambattista, so che tutti gli applausi che ho ricevuto col mio canto di soprano oggi non valgono una delle fiabe scritte da mio fratello, il mio caro, carissimo fratello. Ma non mi dispiace. Ho avuto tanti onori in vita che non ne sentirò mai la mancanza, mentre il mio adorato fratello ne ha avuti molti meno di me, e ne meritava almeno altrettanti. E nemmeno ora viene onorato come meriterebbe: gli vengono dedicate, se va bene, poche righe nei libri di storia della letteratura italiana che si leggono all'Università, mentre nei licei di solito non lo si nomina nemmeno. Eppure, caro il mio pubblico, le sue fiabe sono state e sono rinarrate incessantemente, in tutto il mondo, sì, perfino da quell'americano del cinema, Walt Dosney, o Desney o Disney, come si chiama? Mi consolo pensando che quel che veramente conta è che le creature di un grande letterato vivano e si moltiplichino per secoli, più degli apprezzamenti dei critici letterari e degli spazi nelle antologie.
Della mia arte è rimasta solo la memoria nelle cronache del mio tempo, perché la voce, allora, non veniva registrata, e forse nessuno si ricorderebbe di me anche se ero una cantante straordinaria, perché nessuno può più ascoltarmi. Mi ricordate come la sorella di Giambattista, colei che ha fatto pubblicare il suo capolavoro: che lo sappiate o no, senza di me, delle sue cinquanta meravigliose favole si sarebbe persa anche la memoria, perché insieme a tante carte inutili stavaper finire nel fuoco. Era l'inverno del 1632, e ancora ci minacciava l'epidemia che era stata fatale per il mio povero fratello, e il servitore che mi aiutava a liberare il suo palazzo di Giugliano, mentre stava per gettare nel camino un nfascio di carte legate con un nastro lesse a voce alta:
Non è chiù cosa goliosa a lo munno, magne femmene meie, quanto lo sentire li fatti d'autro, né senza ragione veduta chillo gran felosofo mese l'utema felicità de l'ommo in sentire cunte piacevole; pocca ausolianno cose de gusto, se spapurano l'affanne, se dà sfratto a li penziere fastidiuse e s'allonga la vita...
L'ho subito fermato, e appena ho preso in mano quelle carte ho capito che erano le fiabe che da anni andava scrivendo, anche ascoltando i racconti della povera gente, da quando era Governatore di Giugliano, per volere del Duca di Acerenza, sua signoria Gian Galeazzo Pinelli, che tanto teneva alla sua persona, essendo lui stesso un fine letterato. Ne aveva letta qualcuna anche a me, poche, perché vivevamo in luoghi diversi, non come a Mantova, quando eravamo giovani ed eravamo entrambi a Napoli, alla corte del nobile Luigi Carafa, o a Mantova, presso i Gonzaga, grandi patroni delle arti. Sapete come mi chiava il duca, che aveva Monteverdi come maestro di cappella? La sirena di Posillipo!
Ma non è di me che voglio parlare, ma di mio fratello, che avevo portato con me a Mantova, dove apprezzavano le sue doti di poeta, chiedendogli di scrivere per me qualche madrigale...
Tornando alle favole, che avrebbe scritto negli ultimi anni della sua vita, ora ricordo la mia preferita, Li sette palommielle, l'ottavo racconto della quarta giornata. Mi disse che per il personaggio della sorellina che salva i suoi fratelli aveva pensato sia a me che all'Adrianella, la sua nipote  preferita. Ah, Adrianella, la mia cara figliola, che da me aveva ereditato la voce sublime e potente...aveva incantato tutta l'Italia, e anche la Francia! Povero caro fratello mio, aveva pensato a noi raccontando di quella sorellina, e a sé stesso pensando al pellegrino che grida di dolore per il benoccolo che gli ha fatto un gatto mammone... La sorellina cura il povero pellegrino, ma così facendo trasforma i suoi sette fratelli in sette colombini, e per salvarli va a cercare la mamma del Tempo. Ai piedi della montagna dove abita questo dio, ancora immortale, ritrova il pellegrino, che le insegna come ottenere quel che cerca senza farsi male... Il pellegrino l'aiuta ad affrontare il Tempo, come Giambattista ha aiutato me e l'Adrianella a rimanere donne oneste e serene ottenendo successi che avrebbero ben potuto darci alla testa... la sorellina, la fanciulla, come scrisse, senza peccato, alla quale lui insegna ad affrontare ostacoli altrimenti impossibili, e poi muore... scusate, devo trovare un fazzoletto..
Facendo stampare il libro dopo la sua morte, non ho avuto dubbi, solo il Duca di Acerenza meritava che gli fosse dedicato il Cunto de li cunti. Trattenemiento de li peccerille, al quale mio fratello ha dedicato gli ultimi anni della sua vita. Nessuno prima del Duca aveva capito lo straordinario ingegno di Giambattista, e come spesso capita ai geni come lui aveva suscitato solo incomprensione o invidia. Lo aveva nominato Governatore di Giugliano, la città della nostra famiglia, e cercava sempre la sua compagnia, del resto entrambi facevano parte dell'Accademia degli Oziosi, anche se mio fratello ozioso non era di certo, visto che curava la pubblicazione di grandi scrittori, e scriveva madrigali, libretti d'opera, poemi, e novelle o favole che dir si voglia.
Nella dedica del primo volume, pubblicato a Napoli nel 1634, ho anche chiamato Pentamerone l'opera di mio fratello, per ricordare la sua grande ammirazione per il genio toscano: come cento fiabe o novelle che dir si voglia – parole di Boccaccio – raccontate in dieci giornate formavano il Decameron, cinquanta fiabe o novelle che dir si voglia erano narrate in cinque giorni nel nostro Pentameron, Pentamerone.
Più famoso come Pentamerone, che come Cunto de li cunti, il libro arrivò anche alla corte francese, dove lo portò con sé proprio mia figlia Adrianella, che veramente si chiamava Eleonora, come Eleonora de' Medici, la duchessa di Mantova, madre del nostro duca Vincenzo. L'Adrianella aveva trionfato a Napoli come soprano quando aveva appena sedici anni, e quando il suo successo si era ripetuto a Firenze e a Roma, era stata chiamata a Parigi dal cardinale Mazzarino, primo ministro del re Luigi XIII e di Luigi XIV, il Re Sole, che poté dire che sul suo impero il sole non tramontava mai. Ma nel 1644, quando arrivò a corte l'Adrianella, Luigi XIV aveva appena sei anni e chi regnava era sua madre Anna d'Austria.
Quel che ora importa ricordare non è tanto il trionfo della mia Adrianella a Parigi, si sa che era brava quanto me nel canto, anche se dicevano che non era altrettanto bella, ma il fatto che fu lei a diffondere alla corte francese le fiabe del Pentamerone, perché il piccolo Re Sole amava le fiabe e ne chiedeva sempre di nuove: solo quelle scritte da Giambattista riuscivano ad accontentarlo. Di questo non ci sono testimoni, ma io so che è vero, prova ne sia che qualche decennio  più tardi l'architetto del Re Sole, Charles Perrault, si appassionò alle fiabe, che non erano mai passate di moda alla corte parigina, e non è difficile vedere che la fonte della sua Peau d'Åne, Pelle d'asino, è L'Orza del Cunto. Così come Sole, Luna e Talia, la bella addormentata di mio fratello ha ispirato La Belle au bois dourmant, Le tre fate sono la fonte della favola Les fées e Le Chat botté somiglia troppo alla Gatta di Gagliuso per non dipendere da questa fiaba del Cunto. Per non dire di Cendrillon, che è la Gatta cennerentola di Giambattista, con tanto di riconoscimento grazie alla scarpa, stratagemma che tutti hanno adottato raccontando questa fiaba.
Oltre un secolo dopo, due fratelli tedeschi hanno scritto una raccolta di fiabe che è più famosa di quella di Giambattista, e se è vero che lo hanno apprezzato e lodato, è altrettanto vero che i Grimm non hanno mai detto quali e quante fiabe hanno tratto dal Cunto de li cunti. Per limitarci a tre esempi, pensate a Hänsel e Gretel, che ha la sua fonte in Ninnillo e Nennella, a Rapunzel, che deriva da Petrosinella, come l'Oca d'oro dalla Papara. Ma aspettate, c'è anche la fiaba che amo più di tutte le altre perché mi sembra il congedo del mio amato fratello da me, da Adrianella e dal mondo stesso, sì, Li sette palommielle. I fratelli tedeschi hanno tratto la figura della buona sorellina che si trova in due delle loro favole più struggenti, I sette corvi e I sei cigni: leggere per credere.
So che vi sono studiosi per i quali le fiabe, che nascono dalla creatività umana, possono nascere somigliandosi sorprendentemente senza aver rapporti fra loro, come si somigliano uomini e donne anche senza essere parenti, e per questi studiosi non è detto che le Belle addormentate nel bosco abbiano in Talia la loro sorella maggiore, e nemmeno che La Gatta cennerentola sia la sorella maggiore delle Cenerentole, Cendrillon o Cinderella che sono venute dopo il Pentamerone.
Io invece penso che la sorgente di tante fiabe sia nel capolavoro di mio fratello, e ho accettato di scrivere la prefazione a questo volumetto dedicato a Giambattista perché Adalinda e Claudia, e anche Giovanni che ha lavorato con loro, la pensano come me. Ma vorrei farvi osservare, cari lettori, che se avesse ragione chi non riconosce nel libro di mio fratello la prima versione di fiabe che nel mondo si leggono e si guardano al cinema e in TV, dovrebbe considerare Giambattista Basile una specie di indovino, perché avrebbe anticipato tante storie che sarebbero state raccontate per almeno quattrocento anni dopo di lui.
Non solo il suo talento narrativo è di quelli che si manifestano una volta ogni cent'anni, ma la sua padronanza della parola ne fa un giocoliere e un sacerdote che solo un'altra volta si è manifestata nella storia, in Inghilterra, ai tempi della regina Elisabetta I, sì, con Shakespeare. Lo so, penserete che se non fossi sua sorella non lo ammirerei tanto, ma provate a leggere le sue fiabe con l'aiuto della traduzione a fronte, gustate la sua lingua che a differenza della lingua inglese, che è la lingua del mondo intero, non è nemmeno quella che si parla a Napoli, dove per farlo leggere è stato tradotto nel napoletano contemporaneo da Simone, o De Simone, per i nomi sono proprio negata. Ho saputo recentemente che uno scrittore italiano del Novecento, Calvo, Calvino o Calvetto, ha definito Giambattista Basile un deforme Shakespeare partenopeo. Possibile che nemmeno un insigne letterato abbia capito che il talento per la lingua e la narrazione di mio fratello non solo ricorda quello del Bardo, ma gli è pari?

Ora, mio caro pubblico, è tempo che vi saluti augurandovi buona lettura, congedandomi come Giambattista alla fine del Pentamerone:
e buon prode ce faccia, e sanetate,
ch'io me ne venne a pede, a pede
co na cocchiarella de mele.
Qualcuno non ha capito? E va bene, traduco:
buon pro vi faccia, e salute,
che io me ne andai passo passo
con un cucchiaino di miele.

LOMBARDIA
INTERVISTA IMPOSSIBILE A VITTORIO IMBRIANI

- Caro professor Vittorio Imbriani, speriamo voglia concederci una piccola intervista, ora che stiamo per dare alle stampe un volume di fiabe nel dialetto milanese, quasi tutte tratte dalla raccolta che lei ha pubblicato a sue spese nel 1872 in soli quaranta esemplari, e che noi abbiamo letto insieme alla Novellaja fiorentina del 1877.

- Da parecchi anni, io raccoglievo fiabe e novelline popolari. Fino al 1872 avevo accumulato materiale, proponendomi di pubblicare in seguito ogni cosa insieme, ravvicinando e confrontando le diverse lezioni del medesimo racconto, diverse per dialetto e pel modo, in cui svolgesi il tema. In seguito, riflettendoci meglio, ho risoluto di stampare separatamente le novelle raccolte in ciascun dialetto. Procrastinavo il lavoro di raffronto e di paragone, pel quale era necessario un accumulo preventivo di materiale, che da un solo mal potevo procacciarmi. Se a me non fosse riuscito mai di eseguirlo, altri più felice sarebbe sottentrato prima o poi nel mio luogo; e mi sarebbe stato merito l’avergli agevolato il compito. Cominciai quindi dal mandar fuori un gruzzoletto di fiabe, facezie e novelline lombarde, raccolte in Milano stessa e nel contado. Poi, come sapete, dando alle stampe le novelle fiorentine, ho completato il lavoro con raffronti di letteratura italiana di tutti secoli e di altre fiabe simili raccolte da studiosi come la tedesca Laura Gonzenbach, il veneziano Domenico Giuseppe Bernoni, i toscani Angelo De Gubernatis e Gherardo Nerucci, e il siciliano Giuseppe Pitrè.
 
- Ma come ha fatto, professore, a trascrivere dalla viva voce delle narratrici delle fiabe in dialetto milanese?

- Del lavoro stesso dirò, ch'io non ne sono gran fatto contento. Sapevo, nell'imprenderlo, di non trovarmi in condizione da condurlo bene; sapeva, nel cominciarne la stampa, di aver fatta cosa mediocre: veggo ora anche più apertamente i difetti dell'opera. Ma ripeto quel, che dicevo, principiando la stampa di questa raccolta di fiabe milanesi: - «Dove nessuno fa, chi pel primo fa, quantunque non faccia, se non mediocremente, ha forse diritto almeno a qualche indulgenza.» - Specialmente la spero da' milanesi. E naturale, che, stenografando queste fiabe, abbia talvolta frainteso; che, nel trascrivere, abbia spesso errato; che l'ortografia non sia sempre giusta. Ripeto, io non ho udito sillaba di meneghino prima del sesto lustro. Forse, anzi senza forse, non ho incontrato le migliori novellatrici di Milano; forse, narrando in presenza mia, quelle persone si credevano in obbligo di nobilitare, di aulicizzare il dettato loro, più che non sogliano fare nelle veglie od innanzi ad un crocchio di fanciulli tutti milanesi (perchè già un poco il nobiliteranno sempre nel narrare, in Milano come a Napoli, come in Toscana e come in ogni altro luogo). Ma sarò troppo lieto, se un Ambrosiano puro sangue, per mostrarmi come avevo a fare, vorrà sobarcarsi ad una fatica consimile. Non pretendevo se non dare un esempio; non mi considero se non come un precursore. Fortunato, se potrò destare in altri l'amore per questi studî. Almeno sarà pruova dell'assoluta comunanza d'interessi e di studî fra tutti gl'Italiani; dell'affetto profondo con cui le varie provincie si amano; del sentire ciascuna di esse come cosa propria anche ciò, ch'è più speciale delle altre; questo fatto, che sarebbe stato impossibile fino a pochi anni sono: cioè, l'aver dato fuori un Napolitano di Napoli la prima raccolta di esempi e panzane milanesi.

- Avrebbe mai immaginato che nel dialetto di Milano sarebbe rimasta la sola? E fino a metà del XX secolo non abbiamo avuto altre raccolte di fiabe in dialetto lombardo. Non siamo interessate alle raccolte successive alla prima guerra mondiale, dopo la quale la cultura dialettale è cambiata per effetto del disprezzo con il quale la considerava la propaganda fascista, mentre dopo la seconda guerra mondiale l'hanno modificata la televisione e gli altri media. Consideriamo prezioso, e meritevole di maggiore diffusione lavori come il suo, professore, anche solo pensando alle sue raccolte di fiabe, senza parlare degli studi pionieristici e rigorosi che ha pubblicato in tanti campi. Forse i tempi sono maturi per una sua riscoperta.

- Di gente di volgo, come son tanti, quantunque non sel credano; e molti li tengano in pregio; ed abbiano stampato libercoli e libri; e sian ricchi di censo; e figurino anche in parlamento, e abbiano cattedre per ottenere le quali hanno persino respinto me, che avavo una preparazione supoeriore a quella di qualunque mio concorrente, che m'importa? So perché cianciano, e montano le loro parole, ma non mi turbano la coscienza, essendomi nota la scoscienzatezza di chi parla; non mi affliggono, perché non li curo. Ma voi che mi volete un po' di bene, voi ben sapete quale io mi sia, e con quanto disinteresse abbia sempre amato la Scienza e l'Arte, e che ma ho consentito a castrarle, a frodarle del minimo de' loro diritti. Ora il primo dritto che spetta ad ogni opera di Scienza o d'Arte si è quello consacrato dallo Statuto largitoci dal Magnanimo Re Carlo Alberto nel 1848, di non venir giudicate che da' giudici naturali e secondo legge; vale a dire nel caso nostro, di non esser considerate che come Scienza od Arte. Nel trascrivere queste novelle, francamente, non ho pensato a nessuna altra cosa che alle novelle; sono stato fedele al dettato delle narratrici analfabete, di mio ho dato alle loro parole e ai loro personaggi la vita lunga che senza la stampa non avrebbero avuto. Quel che sentii io scrissi, essendo ben lungi dall'approvare ogni azione delle loro storie, di consentire in ogni loro opinione. Dato e non concesso che sian personaggi tali da riscuotere l'approvazione di tutti, che c'entro io? Se col narrare alcune loro vicende farò sì che Stella Diana e Tredicino ovvero el Tredesin vivano per un poco nella mente del lettore, e se l'interesse per il loro essere e le loro peripezie supera un momento quello per la vita d'ogni giorno, e ne fa dimenticare per un attimo la sconsolata miseria, non potrò dire di aver raggiunto lo scopo dell'Arte? E che mi resta a desiderar di più?
Qui fo punto e lascio la parola alle mie e vostre fiabe meneghine. Vi prego di non dimenticarmi e di chiedere per me ai vostri lettori milanesi un po' d'arrendevolezza e d'indulgenza quando accadrà che scoprano che un napoletano ha frainteso le parole della loro lingua popolare.

- Professore, aspetti, ci dedichi qualche altro istante del suo tempo, non possiamo lasciarvi andare prima di ringraziarvi per aver riletto e riconosciuto nel suo valore il capolavoro secentesco di Giambattista Basile.

- Ah, certo, il mio Gran Basile che pubblicai nel 1875 sul «Giornale Napoletano»! Incredibile che un capolavoro italiano, anche scritto in napoletano, fosse negletto! Dico, mie care, abbiamo la prima raccolta di fiabe pubblicata al mondo, dalla quale si sono diffuse, o almeno influenzate in Italia prima, poi nell'Europa intera, con Perrault e i Grimm, e poi in America, dove Disney le ha trasformate in tanti film, e ora in tutto il mondo...  Ma voi pensate che senza di me il Cunto de li cunti potrebbe essere ancora in qualche soffitta?

- Beh, caro professore, speriamo di no. Ma uno studioso che, per usare le sue parole molti tengono in pregio; e ha stampato libercoli e libri, ha affermato in occasione dell'uscita del film di Matteo Garrone del 2015, Tale of tales, interamente tratto dalle fiabe di Basile, che sperava di essere consultato, lui che, così diceva, aveva tirato fuori Basile dalle soffitte letterarie...

- Lo so, lo so, e non mi meraviglia, perché io non ho mai creduto nelle sorti magnifiche e progressive che hanno accecato tanti studiosi del mio tempo. Il nuovo ordine sperato nel Novecento ha prodotto disastri a mio parere, e i difetti degli intellettuali del mio tempo non sono spariti. Fiabe quindi, per dimenticare, anche se per poco, la dura realtà. A proposito, siete riusciti a sconfiggere l'ultima pandemia?

LAZIO
AVVERTENZA DI GIGGI ZANAZZO (1906)

Chi di voi non ricorda, o lettori, i castelli incantati, piccoli re e reginelle innamorate, diavoli in lotta con i buoni genii, perfide madrigne e innocenti figliastre, orridi mostri e benefici uccelli, aquile parlanti, fate benefiche, draghi dormienti con gli occhi aperti e tregende di streghe e danze macabre... E d’intorno una nuvola che nasconde ogni cosa. Ma ecco apparire una bellissima fata tutta scintillante d’oro, la quale, come per incanto, ridona la vita a un prode cavaliero ucciso dal fiato nauseabondo d’un drago... Le cose più belle e le più orribili insomma? Chi di voi non le ricorda descritte con tinte fosche e con misurate cadenze dalla vecchia nonna, o dalla vecchia fantesca nelle lunghe serate d’inverno? Ebbene ecco quanto vi tornerà alla memoria leggendo queste novelle e favole, di cui parte ho udito narrarmi nella mia fanciullezza, e parte ho raccolto molti anni sono da vecchie narratrici, e che ora, pubblico col solo intento di presentare un saggio delle tradizioni popolari di Roma, una delle città meno esplorate in fatto di letteratura popolare.
Ho detto meno esplorate, perché infatti, mentre delle altre Provincie d’Italia abbiamo avuto dotti raccoglitori di tradizioni popolari, ed all’estero addirittura una schiera di valorosi i quali hanno spiegato una meravigliosa attività nel raccogliere fiabe olandesi, francesi, russe, polacche, austriache, ungheresi, valacche, sassoni, inglesi, boeme, slave, danesi, norvegesi, irlandesi, tedesche, e perfino nella lontana Mongolia e della Calmucchia, qui in Roma, meno che il professor Francesco Sabatini, cultore di letteratura popolare, non credo che altri se ne sia occupato.
Poteva questa mia pubblicazione riuscire più ampia; ma non l’ho voluto, sia perché queste favole, novelle e leggende, come già dissi, le ho raccolte la maggior parte nella mia fanciullezza, e quindi rispecchiano, dirò così il sapore e il carattere del mio tempo: sia perché in quelle che anche le donne del popolo raccontano ora, in cui il nostro dialetto, per necessità delle cose, si è tanto imbastardito, si risente un certo gusto di letteratura che se però non le guasta, toglie ad esse quella impronta d’originalità tutta popolare, e quella ingenuità così schietta.

«Queste» dirò coll’illustre prof. Pitrè, «le novelle che se ne stanno da tanti secoli confinate nel basso volgo. Ora se noi non vogliamo udirle a raccontare per mero diletto, facciamo opera di salvarle dal vortice nel quale minaccia tra volgerle l’avverso andazzo ognora crescente. Fu detto, e forse con esagerazione, che alcune delle Märchen (novelle), raccolte dai fratelli Grimm, invano si cercherebbero ora in Germania. Se la cosa è vera, noi dovremmo da ciò trarre argomento per affrettarsi a raccogliere quanto di tradizioni ci sarà possibile affine di serbarle a durevole monumento. Le tradizioni ci vennero fedelmente lasciate dai padri nostri, e com'essi a noi, così noi dovremmo tramandarle ai figli nostri. Chi si pensa che le si debbano sbandire perché perpetuatrici di pregiudizi, non si appone al vero. Errore, disse Seneca, è il creder tutto, errore egualmente il non creder nulla. Questi che comunemente si dicono pregiudizi, rappresentano fenomeni fisici e naturali, resti di storia sformata e intieri miti e parti di miti dalla immaginazione dei volghi alterati; e il pregiudizio, l’errore del popolo, quando esiste, e anch'esso documento per lo storico, non meno che pel psicologista».


CALABRIA
INTERVISTA IMPOSSIBILE A LETTERIO DI FRANCIA


- Caro professore, grazie per averci concesso questa intervista! Avendo dato uno sguardo al nostro lavoro avrà notato che due terzi delle fiabe calabresi sono tratte dalla sua preziosa raccolta. Come le è nato il desiderio di raccogliere fiabe?

- Erano le grandi vacanze scolastiche del 1901, tra il luglio e il dicembre, ai miei tempi veniva concesso agli ozi un tempo che ora pare troppo lungo, ma chissà... Torno a rispondere alla vostra gentile domanda: nella sessione estiva di quell'anno avevo conseguito il mio diploma di dottore in lettere nella Reale Università di Pisa, e ritornato in famiglia, nella mia Calabria natìa, attendevo il concorso per alcune borse di studio. E intanto oziavo. Oziavo; ma con la testa piena dei libri del Pitrè, dell'Imbriani, del Comparetti e di tanti altri benemeriti studiosi di tradizioni popolari, italiani e stranieri, che da poco avevo letti, per trarne direttive e materiali a comporre la mia tesi di laurea. Per ingannare la lunga attesa del concorso, durante la quale erano pochi i libri a mia disposizione, pensai bene di comporre, come gli studiosi che amavo tanto, una modesta raccolta di fiabe e novelle calabresi. Mi stimolava all'impresa anche il fatto, poco lusinghiero per la mia terra, che quasi tutte le regioni dell'Italia, Sardegna compresa, avevano ormai le loro brave collezioni di racconti popolari, ad eccezione della mia dolce Calabria. La raccolta cominciata in quella lontana estate, per alterne vicende, è stata pubblicata solo nel 1929 con questa dedica: Alla mia terra natìa/consacro questi umili fiori selvatici/da me colti nei verzieri sempre rigogliosi/della tradizione popolare.

- Questo suo amore per la Calabria ha toni ancora più intensi nelle pagine secentesche del teologo francescano Girolamo Marafioti, che raccoglie le lodi che dai tempi antichi hanno celebrato la vostra regione. A noi sono sembrate eccessive, per esempio quando la Calabria è paragonata al Paradiso Terrestre. Oppure quando il teologo afferma che la produzione di seta calabrese era tale che tutti gli abitanti avrebbero potuto vestire quotidianamente della seta che veniva esportata in Italia e nel mondo intero.

- Care signore, devo contraddirvi: quel che afferma Marafioti è proprio vero e mi si stringe il cuore pensando che ancora oggi la Calabria sia la Cenerentola delle regioni italiane. Dal XII secolo Catanzaro e Palermo erano i principali centri europei per la produzione della seta e già intorno al Mille in Calabria si contavano ben 24.000 gelsi. Solo nel secolo di Marafioti, la Francia contestò il primato italiano grazie al contributo di molti artigiani di Catanzaro. Permettetemi di ricordare che il celebre telaio Jacquard fu realizzato nel XV secolo dal tessitore catanzarese Giovanni, noto in Francia come Jean Le Calabrais.
Per quanto riguarda il mio lavoro, durante quelle lunghe vacanze del 1901, non potevo sopportare che la mia regione non avesse la sua raccolta di fiabe, mentre proprio nella mia famiglia, fra le persone che mi vivevano accanto, circolavano storie magnifiche, che nulla avevano da invidiare a quelle raccolte in Sicilia dal grande Pitrè. La Cenerentola d'Italia, bagnata da due mari famosi e ricca di secolari tradizioni, aspettava ancora, senz'alcuna speranza, la venuta provvidenziale del principe, che la togliesse dalla cenere e la collocasse sul trono, come ne aveva ben diritto, per la sua storia millenaria di svariate civiltà e per le ignorate virtù dei suoi abitanti. Una varietà di culture che voi avete avuto modo di conoscere: altrimenti non avreste incluso nella raccolta della mia regione tre isole alloglotte: albanese, grecanica e occitana.

- Grazie del riconoscimento, professore! Dobbiamo ammettere però che ci pareva impossibile che la Calabria nel XVII secolo avesse una tale industria della seta.

- Siete perdonate, anche perché grazie a voi tornano a risuonare le parole che io ho raccolto dalla viva voce di narratrici come Annunziata Palermo, sua sorella Maria, la madre Soccorsa e il padre Agostino. Veramente anzitutto cominciai a chiederle a mia madre, che con le fiabe aveva allietato la mia infanzia, continuai con le mie sorelle e i miei fratelli, tante volte premuti e tormentati dalle mie insistenti richieste. Allargai la cerchia delle mie conoscenze, passando man mano dai parenti agli amici, dai vicini di casa ai lontani, non risparmiando seccature e fastidi ai miei valenti collaboratori; i quali peraltro, vinte le prime e più difficili ripugnanze, divennero in seguito volontariamente più numerosi, ed anche più scelti.

- Può dirci quale fosse il grado di cultura delle sue narratrici e dei suoi narratori?

- Le mie narratrici erano analfabete la maggior parte, o d'una cultura ancor vergine, in quanto molte di esse, purtroppo, – e lo stesso potrei dire degli uomini – non avevano potuto approfittare del benefizio dell'istruzione, sia pure elementare, o non avevano oltrepassato la quarta classe. Perciò, se in parecchi casi si dovrà ammirare, nei racconti qui raccolti, compiutezza e garbo di esposizione, delicatezza di sentimenti, finezza di osservazioni psicologiche, vivacità ed arguzia, non si dimentichi che tutto ciò è dovuto interamente alla viva intelligenza, alla prontezza e tenacia della memoria, coltivata da una generazione all'altra, all'acume infine dei miei modestissimi informatori, sprovvisti, è vero, di cultura, ma rotti a tutte le difficoltà della narrazione, pronti a commuoversi alle vicende avventurose dei loro eroi prediletti e a immedesimarsi con essi.

- Ci perdoni professore, ma ci riesce difficile credere che la bellezza di queste fiabe non debba qualcosa alla sua penna. Come recita il proverbio toscano, la novella nun è bella se sopra nun ci si rappella. E lei non avrebbe affatto arricchito il dettato popolare?

- Care signore, come già dicevo, io non ci ho messo del mio, nella prosa che ho fedelmente trascritta, che qualche soggetto taciuto, come spesso accade nel parlare, e proprio quand'era necessario alla chiarezza. D'altra parte, vorrei rileggere con voi che sembrate un po' sospettose, la chiusa della Ricotta bianca, o, meglio, Ricotta janca, che nessuno studioso potrebbe inventare. Ho visto con piacere che è a questa fiaba che avete dedicato la copertina della nostra raccolta.

Ricordate? Dopo tante peripezie e tanti pericoli, anche mortali, il principe, il re, la regina, e i loro piccini, sono finalmente sani e salvi, e vanno a pranzo. Noi siamo felici insieme a loro, la fiaba entra nella realtà quotidiana... o forse è la vita di ogni giorno che per un istante è illuminata da una luce fiabesca? Annunziata Palermo, che è la più eloquente e sicura delle mie collaboratrici, mi disse le parole che ho riportato senza cambiare una sillaba:

A menziornu, poi, fìciaru nu bellu pranzu, sulu tra iddi, ca non volìvanu persuni estranii e si mìsaru a tàula, filici e cuntenti. Pe iddi la campana, ddu jornu, sonava a festa, e adessu stavi sonandu pe nui, mi finimu la fàula e mi jamu a mangiari chiddu chi trovamu.

Davvero le campane di Palmi stavano suonando il mezzodì, davvero ci alzammo con quella allegria bambina dei finali felici, e come i protagonisti della fiaba andammo a mangiare quel che Annunziata aveva preparato la mattina presto.

FRIULI VENEZIA GIULIA
INTRODUZIONE DI ORNELLA SARDO (2024)


Sono nata negli anni della seconda guerra mondiale a Pola, quando Pola era ancora una città italiana. Vivevo con mia madre, mio padre e la mia nonna, che è stata la persona più importante della mia vita. I miei genitori lavoravano e io passavo il mio tempo con lei. Ricordo che mi portava al mercato. Il mercato di Pola era bello, era un mercato coperto, con una struttura in ferro e vetro. Una costruzione moderna, che mi affascinava. E per quel che si poteva in tempo di guerra era anche fornito, c’era verdura, frutta, ma anche pesce, carne. E poi era un punto di ritrovo e la nonna conosceva tutti e tutti la conoscevano. Ma erano gli anni della guerra e durante il giorno capitava spesso di sentire le sirene che davano l’allarme e allora correvamo tutti nei rifugi antiaerei. Quello dove andavamo noi era di fronte a casa nostra e per farmi andare più velocemente, la nonna, mentre chiudeva le finestre, mi diceva di andare con la mia valigetta sempre pronta sulla soglia di casa, in modo che uno dei nostri vicini mi ci portasse. Ricordo che una volta mi spaventai moltissimo, perché tutti scappavano e nessuno pensava a me e mi misi a piangere gridando, in dialetto, “Nissun me vol!” E allora un ragazzo si fermò, mi tirò su con una mano sola e mi disse “Stai tranquilla, ti porto io! E la nonna viene subito” E infatti, poco dopo che eravamo entrati nel rifugio arrivò anche la nonna e io mi calmai. Quella è stata una delle pochissime volte che ho parlato in dialetto con qualcuno che non fosse la mia nonna. Perché i miei genitori mi parlavano in italiano, mentre lei, che l’italiano lo conosceva molto poco e lo parlava con difficoltà, mi parlava nel suo dialetto che era un misto fra veneto e istriano e che io conservo nel cuore come una lingua dolcissima.

Purtroppo, a causa della situazione in cui versava l’Istria, ho dovuto vivere per ben due anni lontana dalla mia nonna. Nell’estate del 1945, infatti, il clima a Pola era molto teso: i tedeschi si erano ritirati, erano giunti i cosiddetti “titini”, i partigiani jugoslavi capeggiati da Tito, ed era arrivato anche l’esercito degli Alleati. Si percepiva un senso di precarietà e una grande preoccupazione, ci si chiedeva cosa sarebbe accaduto a noi, italiani, in una città doppiamente occupata. Allora mia madre decise di portarmi in un posto più sicuro, con l’idea che se poi la situazione fosse migliorata saremmo tornate. Mio padre rimase per via del suo lavoro e per custodire il più possibile quello che era nostro. Restò anche la nonna che non voleva abbandonare la sua casa.

Preparammo così il nostro viaggio per andare a Roma, dove viveva la sorella della mamma con il marito e i figli. Come forse sapete, nel ’45 il territorio di Pola era sotto il controllo degli Alleati, ma il resto della penisola istriana era assegnata alla Jugoslavia. Per uscire da Pola, potevamo soltanto tentare la via del mare. Così, su una barca partimmo dalla nostra città, lasciando i nostri affetti, la nostra casa, la vita che conoscevamo. Era appena passata una tempesta e il mare era molto agitato. Non solo, il fondo del mare era pieno di mine inesplose. E a tutti il barcaiolo chiedeva di prestare molta attenzione a guardare se si vedevano le mine. Lo chiese anche a me, che avevo appena quattro anni, perché era indispensabile che tutti collaborassero per non rischiare di esplodere durante il tragitto. Arrivammo dunque dall’altra parte dell’Adriatico e da lì a piedi fino a Bologna. Mia madre aveva la febbre, eravamo stanche e spaventate. Ci mettemmo ancora una settimana prima di arrivare a Roma, con mezzi di fortuna, un po’ in treno, per quel poco che funzionavano i treni, un po’ a piedi, un po’ grazie alla generosità di un passaggio. E alla fine ecco finalmente Roma! Ero così triste che mi parve una città buia e ostile. Andammo ad abitare con la zia, ma la convivenza non era facile: loro erano in tanti, i miei cugini erano tutti maschi e io mi sentivo tanto sola. La mamma, poi, doveva lavorare tantissimo: aveva trovato un posto come segretaria di un avvocato e in più dipingeva la seta per fare i cuscini.

Passarono due anni così. E finalmente arrivò anche la nonna. Il papà no perché fu trasferito a Brindisi e ci raggiunse alcuni anni dopo. Nel frattempo la mamma cercò un’altra sistemazione: abbiamo cambiato molte case, tutte piccolissime perché non potevamo permetterci altro, ma insomma eravamo in un posto nostro.

Intanto avevo compiuto sei anni e iniziai ad andare a scuola. Non fu facile, perché continuavo a sentirmi un’estranea in quella grande città dalla quale non mi sentivo accolta. Mi dicevano: “Sei di Pola? E chi l’ha mai sentita? E poi che ci siete venuti a fare qua?”

Per fortuna c’era la mia nonna, che ogni settimana mi portava a fare cicoria e il venerdì si mangiava sempre uovo sodo e cicoria. Era un cibo povero, ma nel mio ricordo niente è più buono di quell’uovo sodo e cicoria mangiato con la nonna!

Nel 1948 andammo infine ad abitare al Villaggio Giuliano, sorto nella parte meridionale di Roma. Lì nel ’37 erano iniziati i lavori per l'allestimento dell'Esposizione Universale di Roma che si sarebbe dovuta tenere nel 1942 ed era stato costruito un complesso abitativo chiamato Villaggio Operaio E42 dove vivevano le persone impegnate in questo lavoro. A causa della guerra, l’Esposizione Universale non ci fu mai e quelle case furono abbandonate. Furono occupate in seguito dai profughi giuliani. Pensate che nel 1948 ci fu addirittura l’inaugurazione ufficiale del Villaggio Giuliano, alla presenza del segretario del Consiglio dei ministri e della moglie del presidente del Consiglio. Lì trovai finalmente un luogo familiare. E trovai anche Nerina, che divenne la mia amica del cuore, l’unica, oltre alla nonna, con la quale parlavo in dialetto. Era la lingua delle nostre confidenze, ed è rimasta per me, la lingua intima degli affetti più profondi.


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ultimo aggiornamento: 20 maggio 2024