INDICE
Introduzione La storia cornice La storia del principe calligrafo e il duello magico Analisi Conclusione |
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INTRODUZIONE
servire
qualcuno umilmente per un tempo che appare
interminabile. Le leggi di non
contraddizione, di irreversibilità
temporale, di costanza nella forma, che
rendono stabile la realtà quotidiana, sono sospese e infrante. La legge della stabilità, della permanenza delle forme, della misurabilità delle distanze e dell'irreversibilità del tempo, è sospesa, oltre che nel sogno notturno e nel delirio, nelle personalità dominate dalla presenza di elementi scissi, da equazioni simboliche. Queste implicano una coincidenza e, quindi, un'interscambiabilità, tra gli oggetti psichici, desiderati o temuti, e le loro rappresentazioni. Il paziente border-line presenta equazioni simboliche confuse con oggetti della vita comune, con i quali intrattiene una relazione apparente. Nel lavoro analitico è possibile osservare che la persona, pur presentandosi nel contesto sociale come ben adattata, fornita in certi casi di un alto grado di istruzione, ha un mondo affettivo primitivo, vive relazioni di tipo diadico, e deve fronteggiare una continua minaccia di annientamento. L'identità che presenta è una sorta di involucro, che copre la sua struttura arcaica, dominata dall'onnipotenza/impotenza infantile. In una prospettiva kleiniana e bioniana possiamo osservare che su questo tipo di paziente incombe la minaccia di una potenza distruttiva legata all'invidia, mentre il pensiero simbolizzante è interdetto a causa del rifiuto di accettare la rottura della relazione diadica, che impedisce di entrare nella depressione e procedere verso l'elaborazione del lutto. Le figure magiche della fiaba personificano l'onnipotenza infantile, modificando la realtà in una misura illimitatamente superiore rispetto alle attività comunemente possibili. Il dispiegamento della magia provoca l'istantanea realizzazione sia dei desideri, ricchezza, potenza, unione con l'essere amato, sia degli impulsi distruttivi, morte e distruzione dei nemici. Le fiabe rappresentano inoltre, accanto a questa ambivalente onnipotenza, un assetto di realtà analogo a quello stabile e consensuale di ogni giorno. Come all'inizio non erano in mano al soggetto, alla fine i talismani devono tornare nel regno della magia, lasciando il soggetto in una realtà trasformata, ma priva di ulteriori alterazioni magiche. Comprendere come si manifesta la magia nelle fiabe significa indagare come certi racconti universali, sogni collettivi ricorrenti, rappresentino relazioni tra onnipotenza infantile e potenza adulta. Ogni fiaba di magia contiene elementi di impotenza infantile, abbandono nel bosco, carestie che minacciano di morte un'intera città, elementi di onnipotenza infantile, il talismano che consente di estrarre tesori, di raggiungere in un istante il luogo che appariva inaccessibile, ed elementi della realtà di ogni giorno. A questa si deve tornare alla fine della storia: nelle Mille e una notte si dice che i protagonisti della storia appena raccontata vissero felici fino a che non giunse: "...Colei che separa gli amanti e rovina le migliori compagnie...". Il fine di tornare alla realtà quotidiana è raggiunto anche dai noti adagi dei contastorie, del tipo: "Stretta la foglia, larga la via/ dite la vostra che ho detto la mia", che riportano al gioco della finzione narrativa l'attenzione investita nelle vicende narrate. La presenza nelle fiabe di rappresentazioni simboliche profonde è stata indagata sia in campo freudiano che junghiano. La fiaba risponde plasticamente all'interpretazione, perché racconta un dramma psichico centrale in ogni teoria psicoanalitica: la vicenda dell'onnipotenza/impotenza infantile. Per le storie più antiche delle Mille e una notte ci pare particolarmente efficace il modello kleiniano e bioniano, che utilizzeremo per Il principe calligrafo. Vorremmo in ogni caso, nell'ambito della concezione rappresentazionale che caratterizza la nostra ricerca, evitare di stabilire tra le figure della fiaba e le figure di una particolare impostazione psicoanalitica un'equivalenza che, per quanto corretta, rischia di risultare poco utile per una comunicazione non dogmatica, che intende rivolgersi sia ad analisti di impostazione diversa, sia a studiosi di altri campi disciplinari. Interpretare significa usare una chiave che consente di visitare un luogo altrimenti poco accessibile. Ma gli oggetti psichici profondi, della cui sostanza sono costituiti gli scenari e le figure della fiaba, come quelli del sogno notturno, possono avere mille nomi, come il lapis alchemico, e restare innominabili.
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LA STORIA CORNICE La storia di cui proponiamo una lettura psicoanalitica, appartiene alla raccolta araba Le Mille e una notte. Ricordiamo la vicenda di Shahriyar, sultano delle Indie, che, dopo aver scoperto il tradimento della sua sposa, la uccise, e vagò per il mondo incerto se continuare a vivere e regnare dopo aver subito una ingiuria tanto grande. Un giorno giunse in riva al mare e vide un demone, che aveva rapito una fanciulla la notte delle nozze e la teneva prigioniera in una cassa in fondo al mare, legata con catene d'oro e d'argento. La fanciulla riusciva a tradirlo regolarmente. Allora Shahriyar tornò al suo regno, deciso a non subire mai più un tradimento: ogni sera si faceva condurre una fanciulla vergine, e alle prime luci del giorno la faceva soffocare dal visir. Trascorso qualche tempo, la crudeltà del sultano aveva causato perdita e lutto, quando la figlia del visir, Shahrazad, che conosceva innumerevoli storie, volle essergli condotta in sposa, contando di trovare il modo di salvare se stessa e tutte le fanciulle della città. Narrava storie ogni notte, nell'ora che precede la luce del giorno, e, inducendo il desiderio del sultano di conoscere la fine di una storia, o di sentirne una nuova, ancora più bella, Shahrazad ottenne che l'esecuzione fosse rimandata di mattino in mattino. Dopo mille e una notte di racconti, chiese al sultano di lasciarla in vita. Shahriyar disse allora che da tempo l'aveva perdonata rinunciando al suo crudele proposito, benedisse lei e chi l'aveva generata per la sua saggezza e la sua costanza, e proclamò un tempo di feste in tutto il Paese. Al rifiuto della sofferenza della perdita, corrisponde nel sultano la coattiva uccisione della parte con la quale può nascere la relazione. Shahrazad, nel nucleo più antico della raccolta, gli propone storie avvincenti che raccontano di crudeltà e misericordia, di tradimenti e fedeltà, declinate attraverso espansioni e contenimenti della onnipotente magia. La comunicazione tra Shahrazad e il sultano ha luogo verso il mattino, è al limite tra la notte e il giorno. Come la relazione analitica, non appartiene né alla vita quotidiana, che dovrebbe essere il campo dell'esperienza concreta, né alla solitudine densa di fantasmi del sogno notturno. Nel setting si tesse una trama che consente al paziente di presentare 6 gli oggetti psichici scissi, aggregati in equazioni simboliche, che, saturando la vita psichica, impediscono sia la relazione con l'altro che lo strutturarsi di un'attività simbolica. Nello spazio affettivo transferale e controtransferale i fantasmi presentati possono essere contenuti, l'equazione simbolica può cedere spazio e consentire la costruzione del legame. Solo a questo punto può iniziare un'attività di simbolizzazione, che coniuga il riconoscimento dell'altro da sé e la rinuncia all'onnipotenza infantile. Non solo la storia di Shahrazad, ma anche le storie che racconta riguardano la trasformazione dall'onnipotenza infantile alla potenza adulta, dalla negazione della sofferenza e della perdita, che implica il misconoscimento della relazione affettiva, all'accettazione del limite, che rende possibile la relazione affettiva con l'altro da sé. Il finale della storia di Shahrazad, e delle storie che narra, conduce a una rappresentazione del valore psichico al quale dovrebbe pervenire chi intraprende il viaggio psicoanalitico, che Melanie Klein designa col termine gratitudine. Molti dei personaggi di Shahrazad sono guidati dal desiderio di narrare o ascoltare storie. Chi presta ascolto al racconto, ne riconosce il valore, e trasforma la sua decisione, umanizzandola, ottiene salvezza, chi non vuol accoglierne il messaggio è perduto. per quanto sia potente. La vicenda del principe calligrafo fa parte di una storia che occupa quaranta notti di racconti. Presenteremo la storia cornice limitandoci agli elementi indispensabili per comprendere la vicenda che abbiamo scelto. Nella ventinovesima notte Shahrazad raccontò al sultano che una volta un facchino di Baghdàd aveva portato molti cibi prelibati a tre bellissime dame. Sulla porta d'ingresso della loro casa, a lettere d'oro, stava scritto: Chi parla di cose che non lo riguardano rischia di sentire parole che non gli piaceranno. Vedendo che le dame erano sole, il facchino chiese di essere ammesso al loro convito, affermando che una riunione di soli uomini non è mai compiutamente bella, come una di sole donne. Le dame risposero che ricevendo estranei temevano di divulgare i loro segreti, ma il facchino replicò che è invece bene confidarsi con chi è degno di fiducia e sa mantenere il silenzio. Le dame decisero allora di permettergli di restare, purché prestasse un giuramento: qualsiasi cosa vedesse o sentisse nella loro casa, non avrebbe chiesto spiegazioni. Più tardi bussarono e furono ammessi, prestando lo stesso giuramento del facchino, tre mendicanti ciechi da un occhio, e successivamente tre mercanti stranieri. Questi ultimi erano in realtà il califfo Harun ar-Rashid, signore dei credenti, il suo visir e il suo boia, che quella notte percorrevano in incognita le vie della città. A un certo punto del lieto convito una delle tre dame si alzò, si fece portare due cagne nere e diede a ciascuna di loro cento frustate, poi, piangendo, le abbracciava e le carezzava. Turbati e già colmi di meraviglia, i convitati videro allora la seconda dama sedersi al centro della stanza. La terza prese il liuto e intonò una melodia struggente, che narrava di un amore perduto: la seconda dama gridò, si lacerò le vesti, e mostrò il seno sfregiato da cicatrici. La curiosità degli uomini era tanto grande che, trascurando il giuramento prestato, chiesero spiegazioni. Immediatamente una delle dame battè le mani ed apparvero sette schiavi neri, ciascuno dei quali atterrò uno degli ospiti, e, tenendolo con la scimitarra alla gola, restò in attesa degli ordini. Allora il facchino le supplicò di essere clementi, e le dame concessero la vita a lui e agli altri, a patto che ciascuno raccontasse la sua storia, e come fosse giunto alla loro casa a Baghdàd. Appena finivano di raccontare, le padrone di casa dicevano loro che potevano andar via, ma ciascuno voleva restare per sentire la storia dei compagni di convito. Si venne a sapere che i tre mendicanti si erano conosciuti solo davanti alla porta delle dame, che erano figli di re, e avevano perso l'occhio a causa di eventi meravigliosi e terribili. Il secondo di loro raccontò questa storia. |
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....di un
leone grande come un toro, e noi fummo in preda
al terrore. La fanciulla gridò: - Vattene,
cane! Il demone
rispose: - Tu, traditrice, tu mi hai tradito e
hai rotto il giuramento. Non
avevamo giurato noi due di non
metterci mai l'uno contro
l'altro? Lei
disse - Tu maledetto, come potrei serbar fede a un
patto stipulato con uno come
te? Il demone gridò: - E
allora ricada su di te ciò che hai
rotto - e con la bocca spalancata si lanciò
contro la fanciulla, che in un
istante si strappò un capello e appena
lo ebbe fatto ondeggiare
nell'aria mormorando un incantesimo,
lo trasformò in una spada dalla lama
tagliente, con la quale colpì
il leone, tagliandolo in due. Ma mentre le
due metà volavano via, la
testa rimase e si trasformò in
uno scorpione. La fanciulla
velocemente si trasformò in un
immane serpente, e i due
combatterono un'aspra battaglia per
molto tempo . E poi lo scorpione
si trasformò in un avvoltoio e volò
via dal palazzo, e la fanciulla prese la
forma di un'aquila e volò dietro
all'avvoltoio. I due erano andati via da
molto tempo, ma all'improvviso la
terra si aprì e dalla fenditura emerse
un gattaccio maculato, che miagolava,
sputava e soffiava. Era inseguito da
un lupo, e i due combatterono nel
palazzo per molto tempo, e quando il gatto vide
che stava perdendo dal lupo, fece un
verso acuto, si trasformò in un verme,
e si infilò in una melagrana che si trovava
accanto alla fontana. La
melagrana si gonfiò come un'anguria
striata, e il lupo si trasformò
immediatamente in un gallo bianco come
la neve. La melagrana volò nell'aria e cadde
sul pavimento di marmo della sala,
rompendosi in tanti pezzi, e appena
i chicchi si sparsero dappertutto, il
gallo si mise a beccarli. Li beccò
tutti, tranne uno che si trovava sull'orlo
della fontana. E poi il gallo
cominciò a gridare e a cantare, a
sbattere le ali, a muovere il becco come
chiedendoci: - C'è rimasto ancora
qualche chicco? Ma noi non
capimmo, e lui emise un verso stridulo così
forte che noi credemmo che il
palazzo stesse cadendo sulle nostre
teste. E poi al gallo capitò di girarsi verso
l'orlo della fontana. Si lanciò
per beccare il chicco, e allora quello
rotolò nella fontana, diventò un pesce, e si
immerse nell'acqua. Il gallo si
trasformò immediatamente in un pesce
più grosso e si tuffò dietro a lui, e i due
scomparvero nel fondo della
fontana per un tempo molto lungo. E poi
noi sentimmo alti gridi, versi e
mugolii, che ci facevano
tremare, e un momento dopo il demone venne
fuori come una fiamma lucente. Il
demone soffiò fuoco e scintille dalla
bocca, dalle narici e dagli occhi, e combatté la
fanciulla per molto tempo,
finché le loro fiamme li avvolsero, e il
fumo riempì il palazzo finché ci
rassegnammo certi di soffocare,
mentre stavamo pervasi dalla paura per le nostre
vite, certi della disgrazia e
della dannazione, e mentre il
fuoco infuriava e diventava più forte,
noi gridammo: - Non v'è potenza né
forza che in Dio, l'Onnipotente, il
Magnifico! All'improvviso, prima
che potessimo accorgercene, il demone
dardeggiò come una fiamma fuori dal fuoco, e con
un balzo fu nel salone di fronte
a noi, soffiando fuoco sui nostri
visi, e la fanciulla lo inseguiva, con
un alto grido. Appena il demone
soffiò il fuoco verso di noi, le scintille
volarono, e, mentre ero lì con
le sembianze di una scimmia, una
di quelle mi colpì l'occhio
destro e lo distrusse. Una seconda
scintilla colpì il re, bruciandogli metà del
volto, con la barba e il mento, e il
colpo gli fece rotolare fuori una
fila di denti. Una terza
scintilla colpì il servo nel petto e
lo uccise sull'istante. In quel
momento, mentre eravamo sicuri
della distruzione e ci consideravamo perduti senza
rimedio, sentimmo un grido: - Dio è grande, Dio è
grande! Lui ha conquistato e trionfato, lui ha
sconfitto l'infedele! Era il
grido della figlia del re, che proprio in
quel momento aveva sconfitto il
demone. Noi guardammo e vedemmo un
mucchietto di cenere. Signora di Perfezione
riapparve con la sua forma e si fece portare una
ciotola d'acqua, la rese incantata con parole
misteriose, e aspergendo il principe annullò
l'incantesimo del demone e gli restituì la sua
figura umana. Ma disse al sultano che non ci
sarebbe stato nessun matrimonio, perché nel
duello il fuoco le era penetrato dentro e la
stava consumando. Non aveva avuto difficoltà
fino a quando, non riuscendo a trovare in tempo
l'ultimo chicco della melagrana, aveva dovuto
aprire altri domini della magia, fino a
quello del fuoco, dal quale nessuno può uscire
indenne. Era riuscita a vincere, ma era
stata ferita a morte. Il sultano e il
principe piansero con lei, che di lì a poco,
gridando: "Il fuoco! il fuoco!", divenne
un mucchietto di cenere.
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ANALISI In questa storia si tratta della crescita come possibilità di simbolizzazione, che non corrisponde al possesso di una cultura consensuale. L'enfasi è posta sul sistema segnico per eccellenza, la scrittura. Il principe appare impotente nonostante l'immensa quantità di segni che possiede, di fronte alle figure arcaiche che non ne riconoscono il valore. L'istruzione che ha ricevuto non lo ha fornito di strumenti per essere principe: non sa organizzare alcuna difesa del suo seguito dai predoni, né è in condizione di elaborare una strategia personale quando giunge alla città nemica. Non pensa alla fuga, con la quale potrebbe tornare dal padre, andare verso le Indie o cercare un'altra città. E' dominato dalla distruttività con la quale si scontra uscendo dalla tutela paterna, e non ha capacità di pensare, di contenere la contraddizione ed elaborarla. Restando nell'ambito della letteratura, possiamo ricordare, al suo opposto, la figura che per eccellenza è caratterizzata dare ali processi di pensiero: Ulisse. Quando l'identità si fonda sulla capacità di simbolizzazione, il soggetto resta saldo nella sua forma, nell'espressione della sua umanità, anche quando si trova, come Ulisse, nelle situazioni più distruttive, come nell'antro di Polifemo. Alla capacità di simbolizzare corrisponde nelle fiabe, come nella psiche, la capacità di affrontare e superare condizioni distruttive. Anche quando le storie parlano di disgrazie che si abbattono sul soggetto innocente, ciò che conta è il modo in cui il soggetto elabora una strategia efficace per contenere il danneggiamento o volgere gli eventi in suo favore. E' evidente che nell'esperienza umana, fin dalla nascita, si danno situazioni distruttive, intrapsichiche e provenienti dal mondo esterno. La fiaba, nelle sue mille e una forma, è anche una storia di come gli uomini affrontano le forze disgreganti che incontrano nella vita: in termini psicoanalitici, di come gli uomini affrontano le modalità predatorie dell'onnipotenza infantile. Il sapere come insieme di segni scissi dall'esperienza, come quello del principe calligrafo, rappresenta un tentativo di controllare le strutture arcaiche attraverso oggetti consensuali di copertura, embricati a desideri infantili. I segni separati dai significati profondi saturano l'identità-involucro del soggetto, che può presentarsi fornito di un sapere mirabile. La struttura psichica rivestita da questi segni resta dominata dall'onnipotenza, e le sue figure non hanno con le figure culturali l'articolazione flessibile che la simbolizzazione consente. E' quindi destinata a subire uno scacco dall'esperienza, che fa sgretolare l'identità-involucro e l'apparente accordo tra figure consensuali e fantasmi infantili. Il principe si trova dominato dagli aspetti primitivi e distruttivi della sua struttura psichica. La sua identità-simulacro, la sapienza che lo aveva reso celebre, ridondante di segni senza vita rivela la sua impotenza, sbiadisce, scompare nella città del nemico del padre. Il calligrafo privo di risorse fa allora il taglialegna, ma il suo destino è quello di confrontarsi col padre negativo, opposto complementare del padre che lo aveva fornito di tanta istruzione. La regressione del principe è parallela allo sgretolamento dell'identità-involucro. La scena è invasa da una realtà affettiva arcaica, prigioniera, legata ai fantasmi della relazione diadica confusiva. Al posto di una relazione tra sé e altro da sé troviamo meccanismi di identificazione proiettiva con il genitore onnipotente, che può dispensare la vita e la morte. Il regno del nemico del padre è allo stesso tempo il regno del padre-nemico, ostile al principe quanto indifferente alle sue conoscenze di tutte le discipline. In questo regno il demone, che nel regno dei credenti dovrebbe sottomettersi all'autorità dei sovrani, tiene prigioniera la madre-sposa. Il rapimento nella notte delle nozze, prima dell'unione con lo sposo, rappresenta in termini junghiani la cattura dell'elemento femminile da parte dell'elemento pulsionale scisso, che imprigiona la fanciulla, bloccando nel momento critico delle nozze la possibilità di accedere a una una relazione adulta. In ogni caso la situazione attua un possesso violento, rimandando a fantasmi sado-masochistici. Il padre è demoniaco, onnipotente, violento. La madre-amante è prigioniera di questo essere non umano da un numero di anni che può corrispondere all'età del principe. Nel sotterraneo il tempo è come sospeso, come lo spazio è un non-luogo della realtà: splendida rappresentazione della regressione alla madre, della reinfetazione, dove le leggi che consentono di orientarsi, di creare processi di apprendimento e di memoria, non esistono, come nelle coazioni. Le parole incise sulla soglia sono antitetiche rispetto all'arte della calligrafia del principe: hanno una potenza magica e implicano una relazione segreta, mentre i segni del principe non hanno potenza né lo aiutano a entrare in relazione. L'iscrizione magica è il mistero che lega stabilmente il demone alla principessa, e il principe si illude di poter rompere il legame spezzando l'oggetto che ne reca la cifra. Possiamo considerarla una rappresentazione dell'attacco rivolto al legame tra i genitori. La distruzione della cifra magica, del segreto dell'unione parentale, provoca distruzione, smembramento, ferite. Anche in questo caso il principe non guida la sua vita: come ha sempre fatto si lascia portare, dal piacere, dalla collera, infine dalla paura. Il demone di questa storia ha in comune con quello incontrato nel suo peregrinare da Shahriyàr la messa in atto di tutti gli accorgimenti magici per non essere tradito. Entrambi i demoni tengono prigioniera la donna che hanno rapito, ed entrambi ne subiscono il tradimento. Vale a dire che la diade genitoriale indifferenziata deve fatalmente essere aggredita, perché si compia il percorso regressivo e dalla condizione di disperazione che ne consegue possa nascere il riconoscimento della sofferenza, e l'elaborazione del lutto. Viene da pensare che se l'antico narratore arabo avesse conosciuto la teoria kleiniana, non avrebbe potuto rappresentarla in maniera più puntuale: quando il principe supplica il demone di non distruggerlo con la sua rappresaglia, paragona sé stesso all'invidioso e lui all'invidiato. Raccontando questa storia il principe riconosce di essere stato dominato dall'invidia. Gli attacchi rivolti contro l'oggetto buono, collocato alternativamente dentro e fuori di sé, occupano lo spazio psichico e impediscono ai processi di simbolizzazione di aver luogo. Il principe viene abbandonato dal demone in un luogo deserto, non umanizzato, dopo aver subito l'incantesimo e la perdita della forma umana. E' difficile non restare ammirati dalla potenza rappresentativa della fiaba, quando il principe calligrafo viene trasformato nell'animale più simile all'uomo, che l'uomo stesso vede come una sua grottesca imitazione. Possiamo dire che la conoscenza di discipline apprese in maniera scissa rispetto alla propria realtà psichica scimmiotta la vera cultura, senza possibilità creative, limitandosi a sterili riesposizioni e imitazioni dei prodotti di altri. Producono aridi scimmiottamenti i tentativi di coprire conflitti profondi attraverso operazioni che non è corretto definire di apprendimento, e che appaiono come tentativi abortiti di sublimazione. Non è raro, e non solo nel lavoro analitico, osservare pratiche di tipo cannibalico rivolte alla cultura, che viene frammentata e incorporata senza che possa nutrire, perché nessuna elaborazione è possibile, o atteggiamenti di tipo sadico-anale, quando l'oggetto culturale, sia libro, sia informazione, viene collezionato ossessivamente. La figura della scimmia sta alla figura umana come il dominio dei segni consensuali scissi dalla realtà personale sta alla competenza affettiva e di pensiero che lega i processi simbolici personali alle rappresentazioni collettive. In questa condizione di perdita il principe è però capace di porsi in relazione con il mondo esterno, forse la forma della scimmia è quella più corrispondente alla sua realtà psichica. Improvvisa una barchetta col tronco, si ingrazia il capitano della nave, e con un movimento rapido si impadronisce della pergamena per dar prova della sua perizia. Nella città di mare viene accolto con ogni onore da un sovrano che, come suo padre, tiene nel massimo conto l'arte della scrittura, trovando che il possesso di questo requisito possa far passare in secondo piano l'aspetto animale. L'opposizione tra il dominio dei segni consensuali e quello in cui gli stessi segni sono privi di valore ha causato la perdita d'identità e di forma del principe. La storia esige che i due mondi entrino in rapporto. Sono vicini nel re e nella principessa: Signora di Perfezione domina la sfera della magia mentre suo padre ne ignora la potenza, e questi loro mondi entrano in contatto di fronte al principe-scimmia. Il padre chiede alla figlia di rendere la forma umana al principe, senza desiderio di conoscere per quale ragione sia stato stregato, e senza domandare alla figlia cosa significhi per lei rompere l'incantesimo. La principessa, dopo aver vantato il suo immenso potere, dichiarandosi obbediente lo mette al servizio della volontà del padre. Con le sue cifre magiche traccia il cerchio nel quale affronterà il demone. In molte storie delle Mille e una notte possiamo incontrare uomini e donne stregati, e incantesimi che ridanno loro forma umana, ma nessun duello magico. Lo scontro metamorfico si trova in una storia che più di ogni altra mette in scena una separazione estrema tra la legge consensuale e le misteriose regole della magia. In forma di leone il demone ricorda alla principessa il loro giuramento, di non affrontarsi mai, al quale la fanciulla risponde che il suo legame con la legge del padre rende nullo quel patto. La principessa dà battaglia al demone in nome della legge paterna, ma con i mezzi magici dei quali anche il demone dispone, mentre il principe scimmia e il re sono impotenti. La permanenza nella forma, la sua stabilità, sono proprietà di un'identità pregnante, che si trasforma attraverso relazioni di scambio, non attraverso atti predatori, incorporazioni. Il duello mette in scena una discontinuità di forme. Le trasformazioni sono catastrofi. In un punto che è legato alla magia, in un punto incantato, la forma non mantiene la sua pregnanza e la continuità che le consente di essere stabile. La successione delle figure può ricordare la frenesia di un delirio o certe immagini ipnagogiche e ipnopompiche. Il rapporto tra le forme contrapposte della principessa e del demone configura modalità predatorie che riportano all'oralità e ai meccanismi di relazione arcaici, di identificazione proiettiva e introiettiva. Ricordiamo che il duello ha lo scopo di fare ritrovare al soggetto della storia una forma perduta catastroficamente. L'abilità nel passaggio catastrofico sembra essere lo strumento specifico della potenza magica nella sfida, e si esprime sia nella rapida intuizione della forma adatta a incorporare l'avversario, sia nella capacità effettiva di portare a compimento la predazione, annientandolo. Mentre al demone basta essere preda che efficacemente sfugge, alla principessa serve invece diventare predatore. Il demone nella prima forma, quella di leone, vuole distruggere la principessa, è predatore, ha fauci enormi, ma subito dopo assume forma di preda, e la principessa sarà predatore e inseguitore fino al dominio del fuoco. La predazione, che esprime la voracità, implica la preda, la forma che rischia l'annientamento per incorporazione. L'identificazione proiettiva esiste insieme alla reazione schizoide, di fuga dal predatore. Niente è più bizzarro di questa sfida di magia. E' come se solo passando attraverso innumerevoli forme si esaurisse un potenziale bizzarro, in termini bioniani, e potesse quindi ripristinarsi una stabilità minima perduta, la forma umana del principe. Opposte e analoghe sono alternativamente le forme dei duellanti. All'inizio le forme sono opposte: la coppia leone/fanciulla con la spada ricorda l'arcano maggiore XI dei Tarocchi, il cui significato simbolico è il dominio delle pulsioni. Subito dopo abbiamo scorpione e serpente, entrambi legati alla terra oscura e capaci di dare la morte con il veleno. A questi succedono due forme simili per le grandi ali, ma contrapposte, perché l'avvoltoio è legato alla morte, mentre l'aquila è solare, e come tale è simbolo regale della legge paterna. Gatto e lupo sono animali notturni, trasgressivi rispetto alla legge degli uomini. Il vertice espressivo del duello è nel verme che entra nella melagrana facendola scoppiare. L'essere meno strutturato, quindi più distante dalla forma umana, penetra in un simbolo universale della fecondità femminile , e lo fa esplodere, mentre i suoi chicchi, i suoi frutti nascosti, si spargono, come schegge schizoidi, dappertutto. Catturare e quindi neutralizzare gli elementi separati impegna l' animale che saluta il giorno col canto, e il biancore del gallo è sottolineato a enfatizzarne la valenza solare. Ma questa metamorfosi non basta a controllare la dispersione e la scissione operata dal demone-verme, e la fanciulla-gallo con versi perturbanti chiede aiuto al padre e al principe. La loro cecità di fronte al mondo della magia impedisce loro di favorire la sua ricerca. E le forme tornano ad essere simili, due pesci entrano nella vasca del cortile segreto, aprendo il dominio delle acque, dopo aver giocato nel dominio della terra e dell'aria. Nessuno, dirà la fanciulla morendo, resiste dopo aver aperto il dominio del fuoco: dove le forme riconoscibili sono dissolte, e la fiamma divora più del leone, del lupo, del grande uccello. L'estremo dominio dello scontro catastrofico è il dominio della distruzione delle forme stesse. Non c'è più un corpo che contenga il demone e la principessa, che articoli la loro lotta: pervadono l'intero palazzo, colmandolo di scintille e di fumo. La distruzione sembra inevitabile, nel buio illuminato da bagliori di morte. Alla fanciulla-predatore e al demone-preda succede un fuoco in cui non si può dare neppure quella coppia arcaica preda-predatore che è pur sempre una forma. La distruzione manifesta i suoi effetti irreversibili sul volto, la parte più espressiva, del re e del principe. Al principe la perdita dell'occhio resterà oltre il duello, come a sancire la sua incapacità, perché non ha saputo vedere la funzione della cifra magica sulla soglia del sotterraneo della sposa-prigioniera, né ciò che gli chiedeva la principessa-gallo. Nella storia sono contigue l'invocazione di Dio da parte degli astanti, il danno inflitto dal demone che dardeggia dal duello di fuoco contro di loro, e il grido di vittoria della principessa. Signora di Perfezione ha il tempo di aspergere d'acqua incantata la scimmia, che torna principe. La diversità tra la principessa e il demone ha dato il frutto che la legge del padre ha chiesto, ma la loro eguaglianza diviene identità nella morte: entrambi sono ridotti a un mucchietto di cenere. Il principe calligrafo riprende il cammino con una catastrofe parziale, una ferita, una diminuzione del suo essere, che asseconda volontariamente accentuandola e incrementandone il senso con valenze collettive: si rasa il mento e si taglia i capelli, in segno di lutto, e veste gli abiti di un ordine mendicante. Col suo dolore finalmente inelusibile il principe si mette in cammino vestito della sua sofferenza, e del suo rimorso per la morte che ha provocato. La non volontarietà, l'inconscienza del soggetto nelle azioni distruttive non è più vissuta come non responsabilità, perché il calligrafo riconosce che si tratta della sua storia, e sua è la responsabilità del viaggio. |
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CONCLUSIONE
Quando fu il loro turno, il califfo e i suoi dignitari raccontarono di essere mercanti di Mossul capitati per caso di fronte alla porta delle dame. Paghe delle storie meravigliose ascoltate, le dame liberarono tutti i loro convitati, e il califfo curò che i tre principi mendicanti fossero ospitati degnamente per quella notte. Al mattino fece chiamare anche le tre dame e, dopo aver svelato loro che avevano ospitato il califfo in persona, chiese quale storia le avesse condotte a comportamenti tanto sorprendenti. Seppe
che la fanciulla che aveva le cicatrici sul seno
era stata sposa di suo figlio, che l'aveva
punita tanto duramente e abbandonata per una
piccola infedeltà. La prima dama raccontò una storia di magia, e le
due cagne erano le sue sorelle invidiose, che avevano voluto
persino ucciderla. Una demone l'aveva salvata e aveva incantato le
sorelle, obbligando lei a frustarle ogni sera: se non lo avesse
fatto la demone sarebbe venuta e avrebbe
inflitto a lei stessa la punizione.
Il
califfo Harun ar-Rashid fece comparire la
demone, e le ordinò di restituire alle due
sorelle la forma umana. Fece riconciliare suo
figlio con la sposa, diede in mogli le tre
sorelle ai tre principi mendicanti e si sposò
lui stesso, con la terza dama, quella che non
aveva raccontato nessuna storia.
Comprendiamo perché i tre
principi penitenti volessero trovare ascolto
presso il signore dei credenti. Ci troviamo di
fronte a un personaggio unico nelle fiabe arabe, una rappresentazione paterna in armonia con i
valori simbolici trascendenti espressi dal
monoteismo, che si prende cura del suo popolo. Il potere di Harun
ar-Rashid, la cui figura storica è servita da
spunto per la creazione del personaggio delle Mille e una notte, delimita il
dispiegamento della magia. Abbiamo
cinque racconti, fatti dai tre principi
mendicanti e dalle due dame. All'interno di
questi sono
contenute numerose altre storie: in quella del
terzo principe compaiono addirittura altri dieci
personaggi che hanno perduto l'occhio destro per
aver voluto vedere
ciò che non avrebbero dovuto vedere; non
raccontano la loro storia individuale, ma dicono
che ciascuno ne avrebbe una meravigliosa.
L'incontro tra il facchino
e le dame, il convito che inizia col giuramento
di rispettare l'iscrizione aurea della casa, di
non curarsi dei segreti degli altri per non
incorrere in sventure, sembra dischiudere il suo
opposto, il desiderio irrefrenabile di udire
cose mai viste e sentire cose mai sperimentate.
E' questo il desiderio di racconti che fa
muovere in incognita per le strade della sua
capitale il califfo, che opera, lui solo, una
relazione tra le storie notturne e la realtà del
giorno. Che allo stesso tempo è relazione tra il
mondo della magia e il mondo della legge, della
consensualità e della stabilità delle forme.
Il
signore dei credenti sembra muoversi nelle due
realtà quasi con la stessa naturalezza, senza
dubitare del valore, della verità di entrambe.
Il dramma dell'invidia, dell'impotenza e
dell'onnipotenza infantile, le sue catastrofi
marcate dalle figure magiche, si conclude nelle
cinque storie in un dolore, in una penitenza. La
liberazione viene nel momento in cui, a prezzo
della vita, la vicenda diviene comunicazione,
racconto, mentre gli eventi si ordinano in una
storia. Il destinatario ultimo della storia è il
califfo, che usa il suo potere in primo luogo
per esigere che il superamento del segreto
chiuso nella dimora delle dame si manifesti come
narrazione, poi per mettere fine alla pena,
restituendo ai tre principi mendicanti la
dignità che meritano per nascita e per le
sofferenze, e forma umana alle due sorelle
stregate.
Il
califfo è figura di relazione tra il mondo
soggetto alle catastrofi della magia infantile e
il mondo regolato dalla religione storica e
dalle sue norme. Dove la demone aveva decretato
una pena senza appello per le due sorelle
invidiose, il califfo decreta che è tempo di
liberazione e di unione stabile tra le parti
maschili e quelle femminili.
Harun ar-Rashid libera dalle coazioni, accoglie l'appello di chi è nel lutto, esercita una funzione paterna che protegge l'identità come struttura di relazione con tutte le altre parti rappresentate nella storia. Non per la sua perizia di calligrafo, né per il suo straordinario sapere in tutte le discipline, ma per le sofferenze e le catastrofi che ha provocato e attraversato, il principe trova pace e unione presso il califfo, come i suoi compagni e le sue compagne di convito. Accostiamo
il sapere iniziale del principe calligrafo,
costitutivo dell' identità-involucro, alla
competenza simbolica del califfo, che lega
comprensione della magia e norma, liberando il
soggetto dalle ipoteche dell'arcaismo
infantile.
Un istante prima di svegliarsi: il quadro di Salvador Dalì contiene una vicenda che rappresentandosi alla luce del giorno partecipa della stabilità formale della coscienza, e nascendo dal sogno vi porta il mistero della vita psichica che si svolge quando c'è assenza di luce, dietro le palpebre. Animali che si divorano, la donna addormentata minacciata da un'arma, la melagrana, rimandano ai contenuti della storia che abbiamo ripercorso. L'elefante col suo obelisco che il quadro non contiene completamente ci sembra portatore del senso che le sorprendenti storie delle Mille e una notte trasportano attraverso lo spazio e il tempo. |
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NOTE Nella tradizione delle Mille e una notte, in caratteri misteriosi era scritto il nome segreto di Dio sul sigillo di Salomone. Il suo anello per questo era il talismano più potente delle storie magiche, e poneva Salomone, per volontà di Dio, al comando di tutti gli esseri delal terra, compresi i demoni. Con la forza del su osigillo Salomone costringeva i demoni ribelli, che rifiutavano di convertirsi all'Islam e di riconoscere la sua autorità, a entrare nei boccali di rame, che venivano poi gettati in fondo al mare. In questa tradizione possiamo leggere la metafora del rapporto tra l'assetto monoteistico e il mondo più arcaico. Il demone come rappresentante dell'onnipotenza infantile deve sottomettersi alal struttura più evoluta e cooperare con questa, altrimenti viene rimosso, sigillato, nel fondo del mare. Giacendo nell'inconscio, accade che per caso venga ripescato, come nella storia del demone, e il rimosso riaffiorando genera catastrofi e nuove storie. Ringrazio l'arabista Muhsin M. Mahdi, dell'Università di Harvard, per avermi inviato la traduzione inglese del brano riportato, da me reso in italiano. Fa parte della versione di H. Haddawi dal testo arabo del XIV secolo, conservato a Parigi, noto come il Manoscritto di Galland. Muhsin Mahdi inviandomela mi segnalava come particolarmente interessante per un'interpretazione psicoanalitica questo straordinario duello magico. [vedi i riferimenti ad Haddawi in Bibliografia; vedi anche, dallo stesso manoscritto, al 2004 non ancora tradotto in italiano, il testo integrale de La storia delle tre mele] Il termine regressione indica un movimento da strutture complesse della personalità a strutture infantili, meno differenziate. Nel paziente border-line possiamo però dire che si tratta di un moto apparente, in quanto non possiamo affermare che ci sia stata una storia del soggetto. Senza che si sia stabilita una irreversibilità del tempo, l'emergere sulla scena psichica di fantasmi legati al dramma dell'impotenza/onnipotenza infantile e a relazioni diadiche appare come regressivo, ma è la manifestazione di un movimento tra elementi dell'identità-involucro ed equazioni simboliche, strutture atemporali. Si potrebbe dire che in questi casi ogni possibilità di movimento verso le relazioni adulte e la simbolizzazione implica una discesa nel sotterraneo, una perdita di struttura. In realtà questo movimento ha maggiore rispondenza con la verità psichica del soggetto delle presentazioni legate all'identità-involucro. È implicito che gli abitanti della città non conoscono la vera fede, quella monoteista, altrimenti la perfetta conoscenza del Corano basterebbe al principe per essere onorato. Il lettore avrà probabilmente associato il duello tra Merlino e la maga Magò messo in scena da Disney nel cartone animato La spada nella roccia (Usa 1963), che somiglia troppo al duello arabo per non dipenderne direttamente. Desideriamo qui ricordare la splendida versione della storia nel film di P.P. Pasolini Il fiore delle Mille e una notte (Italia-Francia 1974), con Franco Citti nella parte dle demone. Il duello magico mette in scena una successione di predazioni che sono rappresentabili in geometria topologica con la catastrofe a grinza. Nella teoria di René Thom sull'origine del linguaggio il "cappio di predazione" ha un'importanza e una posizione analoghe al concetto di identificazione proiettiva e introiettiva nella concezione psicoanalitica. Vedi R. Thom, Stabilità strutturale e morfogenesi, 1980 [...] [Vedi Thom in Bibliografia] Riteniamo che in una fiaba il vertice espressivo sia contemporaneamente vertice letterario, estetico, e vertice di pregnanza simbolica. Nelle Mille e una notte le melagrane sono spesso usate per designare i seni ben formati. In un'altra storia il califfo convoca un demone che ha condannato due fratelli invidiosi alla forma di due cani neri, e le ordina di restituire loro la forma umana. Il fratello li ha ormai perdonati, ma, come la dama di Baghdàd, subirebbe la collera della demone se non li bastonasse ogni sera. La demone chiede allora a suo padre se anche i demoni devono obbedienza al califfo. Il demone padre le risponde che se il califfo volesse, per il potere conferitogli da Dio, con un cenno li ridurrebbe come un gregge di pecore in mano al beccaio. Vedi Le Mille e una notte a cura di Francesco Gabrieli [...] [Trova in Bibliografia] Notiamo qui, sperando di tornare in seguito sull'intera storia, che i racconti degli altri due principi presentano significative analogie con quella del calligrafo: l'assoluta assenza di figure materne, l'incapacità di elaborare un vero pensiero, la mancanza di simbolizzazione. Anche gli altri due principi ciechi da un occhio si sono trovati a vedere ciò che non dovrebbe essere visto o a non vedere ciò che dovrebbe essere visto. In una delle due storie compare il motivo dell'incesto. Impossibile non ricordare la cecità di Edipo, analogamente collocata tra la colpa legata al vedere e l'entrata nella fase del lutto, dell'elaborazione della colpa. Simmetricamente, nella storia delle tre dame è assente la figura paterna, che con la norma liberi dalla coazione distruttiva dell'invidia. |