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La prima stesura di questo libro è durata cinque anni, durante i quali Aladino ha rappresentato il mio unico lavoro di studio e scrittura. Altri anni sono passati per rivederlo, e altri ancora per pubbilcarlo. A distanza di quasi vent'anni dalla pubblicazione, inserisco in questa pagina una nota e due testi, rivolgendomi ancora con gratitudine ad alcune persone senza le quali, fuor di retorica, il libro non sarebbe mai arrivato in porto, come l'editor Fulco Douglas Scotti, incontrato al Ponte alle Grazie, e l'amico Renzo Martinelli, che mi consigliò di cercare il sostegno di Antonio Faeti, fino ad allora per me totalmente sconosciuto, per poi presentarmi al Ponte alle Grazie. Rileggendo per caso la prefazione di Antonio Faeti (http://it.wikipedia.org/wiki/Antonio_Faeti) mi sembra di capire solo ora quanta generosità e quanta attenzione, e quali, ha dedicato al mio dattiloscritto, quando ancora non avevo quasi pubblicato una riga. La mia impressione è che scrivendo la prefazione avesse compreso le linee della mia ricerca meglio di me: con orgoglio e rinnovata gratitudine la inserisco in questa pagina. Lavorando sulla fiaba di Aladino scoprii che c'era un problema filologico, delineato da Francesco Gabrieli (http://it.wikipedia.org/wiki/Francesco_Gabrieli) in premessa alla sua traduzione della prima versione araba della fiaba, in appendice all'edizione einaudiana delle Mille e una notte. Non mi pareva possibile interpretare una fiaba senza sapere se era stata scritta prima in arabo o in francese, e ho scoperto una cosa meravigliosa: che il suo primo narratore, Hanna, che la raccontò a Françoise Galland all'inizio del Secolo dei Lumi, apparteneva al mondo arabo venendo da Aleppo, ma era cristiano maronita e oltre all'arabo parlava il francese e il provenzale. Applicando una personale filologia psicoanalitica, che ha nell'interpretazione dei sogni il suo riferimento essenziale, raggiunsi la certezza che il manoscritto arabo conservato a Parigi, redatto nell'Ottocento come copia fedele di una manoscritto arabo di pochi anni anteriore alla pubblicazione della storia di Galland, era un falso, redatto per vantare un primato arabo nella scrittura della fortunatissima storia. Avevo paura che qualcuno potesse scoprire la stessa cosa, che mi pareva così evidente, e pubblicarla prima di me, e provai sollievo quando ebbi la possibilità di pubblicare un articolo su Aladino (la mia prima pubblicazione in assoluto) nella quale enunciai questa scoperta, che mi parevas così importante. Qualcuno mi metteva affettuosamente in guardia: come osavo affrontare una questione filologica araba senza essere né una filologa né un'arabista, e non sapendo nemmeno leggere l'arabo? Allora chiesi al giornalista Erfan Rashid la cortesia di verificare alcune mie ipotesi sul testo arabo pubblicato nel 1899, che fortunatamente era alla Biblioteca Nazionale di Firenze. Fu lui a farmi pubblicare il mio primo testo su Aladino, liberandomi dalla preoccupazione che qualcuno scoprisse la stessa cosa e la pubblicasse prima di me. Per quanto riguardava la legittimità della mai soluzione al problema filologico, mi suggerì di prendere contatto con Francesco Gabrieli, che aveva intervistato a Roma poco tempo prima. Il grande arabista mi ricevette in veste da camera in una stanza piena di libri, e mi disse con incomparabile modestia che si era preparato alla mia visita rileggendo la storia di Aladino nella sua stessa traduzione. Dopo che gli ebbi spiegato le mie conclusioni e come vi ero pervenuta, mi chiese a quale scuola filologica mi ero formata. A nessuna, come gli risposi: trovò plausibili e anche pubblicabili le mie convinzioni. Qualche tempo dopo mi mandò l'indirizzo di uno studioso arabo, Muhsin Mahdi (al quale si deve la prima edizione filologica - l'unica che io sappia - di un manoscritto arabo quattrocentesco delle Mille e una notte) che aveva lavorato su Aladino: lo studioso mi rispose che era pervenuto alle mie stesse conclusioni, fortunatamente per voi [europei] e sfortunatametne per noi [arabi]. L'ultima volta che scrissi a Gabrieli perché mi confortasse, mi rispose con una letterina nella quale mi diceva che secondo lui nessuno sapeva sulla fiaba di Aladino tutto quello che sapevo io. Mentre posso ancora scrivere ad Antonio Faeti, e dirgli quello che non avevo capito quando scrisse quella prefazione, e nemmeno quella successiva, per il mio libro su Cenerentola, e ancora, quella per il libro scritto a quattro mani con Silvia Albertazzi sui motivi fiabeschi nella letteratura postcoloniale, non posso più scrivere a Francesco Gabrieli, né all'altro grande studioso che mi è stato vicino, con una corrispondenza rada e pochi incontri personali, ma costante, dal 1975 alla sua morte. Un contatto prezioso: una sua lettera è appesa nel mio studio di psicoanalista, dove non figurano né il diploma di laurea, né gli attestati che legittimano la mia professione di psicoterapeuta. Devo spiegare la natura di questo incontro, avvenuto secondo il principio di serendipity. La mia tesi di laurea in filosofia, nella materia di psicologia, è la prima dedicata a Roberto Assagioli e alla psicosintesi. La parte più interessante della tesi venne dalle riviste che tirai fuori dagli armadi della Biblioteca Marucelliana, riviste fiorentine dei primi anni del Novecento, come La Voce, come Psiche e Il Leonardo: su quest'ultima apparve il primo testo di Freud tradotto in italiano, proprio da Roberto Assagioli, che visitò Freud a Vienna.. Il solo libro che mi chiarì qualcosa del fervore e del valore delal cultura italiana di quegli anni fu Cronache di filosofia italiana. 1900-1943 (Bari, 1955) di Eugenio Garin (http://it.wikipedia.org/wiki/Eugenio_Garin), del quale non ero mai stata allieva, nonostante insegnasse a Firenze quando approdai all'università. Mi colpìrono la chiarezza, il rigore e la passione intellettuale di Garin, e soprattutto l'onestà intellettuale. Sono tornata al clima di quegli anni studiando le fiabe raccolte in tutta l'Italia da demologi della statura di Pitré, De Gubernatis, Imbriani, quando il fervore del lavoro culturale raggiungeva da noi livelli di grande valore, quasi concependo e formando un'identità italiana che sarebbe stata spazzata via dalla prima guerra mondiale, dal fascismo, e finalmente dalla spartizione fra due chiese, una rossa e una bianca, del dopoguerra. Chiesi a Eugenio Garin di farmi da correlatore per la tesi. Eugenio Garin in un colloquio privato declinò cortesemente, perché aveva lasciato l'università di Firenze per la Normale di Pisa. perché, mi disse, non sopportava più che molti dei suoi colleghi si fossero trasformati da docenti universitari in capipopolo, e che gli studenti non considerassero importante lo studio Nella sua casa, nitida come la sua mente mi indicò nella altissima libreria alle sue spalle, illuminata dal sole pomeridiano, la collezione completa della rivista Psiche, dicendomi di tornare da lui dopo la laurea. Non l'ho fatto, perché il mio innamoramento per il tema è finito con la laurea, nel 1976. Nel 1980 mi sono innamorata delle fiabe, e presto è diventato un matrimonio. Ho scritto allora a Garin una lettera alla quale avevo allegato qualche foglio battuto a macchina con le mie prime intuizioni, probabilmente buone, sicuramente non pubblicabili. Garin mi rispose con un biglietto scritto con inchiostro blu, nel quale mi diceva che gli erano sempre interessate le fiabe, ma non aveva mai osato dirne nulla, e ancora mi consigliò di continuare. La sua scrittura regolare, un po' inclinata, così chiara, mi mette nostalgia. Durante la scrittura del libro su Aladino, che ha assorbito tutto il mio lavoro di studio e ricerca dal 1982 al 1987, con le ferie passate nella Biblioteca Nazionale a leggere i meravigliosi volumi del Fondo Benn, gli mandavo una lettera con le fotocopie dei dattiloscritti dei capitoli, uno ad uno, e lui mi rispondeva sempre, anche se non gli chiedevo nulla, o forse proprio per questo. Era una relazione gratuita. Ricercavo da sola, mi muovevo nelle storie di Aladino, arabe e francesi, rinarrate in inglese, in italiano, per adulti, per bambini, come in un labirinto, dove incontravo personaggi favolosi come le loro storie: Michel Sabbagh, il copista che scrisse a mano la versione araba, quella tradotta da Gabrieli nel 1948, retrodatandola abbastanza da poter vantare un primato arabo per Aladino, nella stesura, se non nella pubblicazione. Il copista Sabbagh, che lavorava alla Bibliothéque Nationale de France, fece una copia perfetta della fortunatissima storia della lampada meravigliosa, variando la versione di Galland. Appose sulle pagine la tradizionale invocazione degli scrittori arabi, che invocavano Kabikaj, genio degli insetti, perché difendesse l'opera dai tarli della carta. C'era sir Richard Burton, viaggiatore e scrittore vittoriano, le cui Mille e una notte sono bellissime, combinando una grande cultura e una libertà espressiva al limite della spregiudicatezza, o Mardrus, il medico orientale che scrisse una versione delle Mille e una notte asserendo che era quella vera, originale, corredandola di particolari osé estranei ai manoscritti arabi, che sarebbero entrati a far parte della percezione europea dell'opera. Marcel Proust aveva e leggeva sia l'opera di Françoise Gallad che quella di Mardrus. Senza dimenticare lo stesso Gabrieli e gli arabisti italiani da lui diretti, che negli anni dolorosi dell'ultima guerra mondiale tradussero integralmente l'edizione araba ottocentesca di Bulaq, e il loro lavoro resta una delle edizioni migliori del mondo, per bellezza e cura filologica. Scoprivo quel che amavo, e amavo quel che scoprivo: l'intimità di scambi fra Oriente e Occidente, la capacità di migrazione delle fiabe e la loro vitalità, la loro natura di creature narrative tanto forti da poter passare lentamente o repentinamente dagli ambienti culturali più raffinati, come l'Accademia dgli Stravaganti della quale faceva parte Giambattista Basile, alle comunità analfabete di contadini e artigiani, come quelle che ascoltarono i demologi italiani fra la fine del secolo XIX e i primi decenni del XX. Sembrava che Aladino e i suoi geni potenti e imprevedibili, il più famoso legato alla lampada, l'altro all'anello, mi portassero in labirinti mai immaginati, aprendo luoghi imprevedibili, in un lavoro che sembrava non aver fine. In effetti dai labirinti delle fiabe, sempre comunicanti con i sogni notturni e il linguaggio dei fantasmi inconsci, non sono mai uscita, anche se il libro su Aladino ha avuto la sua conclusione. Leggendo quel che mi scrissero quasi vent'anni fa Antonio Faeti, Francesco Gabrieli ed Eugenio Garin, ho l'impressione che sapessero meglio di me sapessero cosa stavo facendo, che mi vedessero muovere senza esitazione e senza garanzie, come un personaggio di fiaba che cammina cammina cammina. La psicoanalisi, come esperienza diretta, professionale, come teoria, è lo strumento di questa ricerca, ma per sua natura non offre garanzie. A distanza di tanti anni, rileggendo la prefazione di Antonio Faeti e la lettera di Eugenio Garin, mi sembra giusto condividerle con chi capita nel mio sito. |
INDICE
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Prefazione di Antonio Faeti
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Ogni ermeneutica del fiabesco rimanda, naturalmente, alle altre interpretazioni, illustri o meschine, che si sono applicate a questo ambito, certo più vasto, sfuggente e indeterminato di altri. Dopo un non breve periodo della mia vita in cui ho fatto molti sforzi per purificare e rendere quasi limpido il mio rapporto con le fiabe, ho ceduto, ho dovuto cedere, alla loro magnifica incoerenza e ho preso ad accettarle così, come un caravanserraglio dell'Immaginario in cui, per la verità, mi interessano soprattutto gli scambi, le relazioni imprevedibili, i colloqui appena accennati, le sorprendenti coincidenze, i soprassalti di opacità. Da quando si studiano le «leggende metropolitane» ho poi allargato ancora il campo di cui, in realtà, mi occupo. Perché, scorrendo le pagine di molti quotidiani, scorgo spesso, nel suo farsi, la nascita di un'autentica fiaba urbana, spesso creata anche da voci che parlano perché sono costrette ad esprimersi, dato che paure, domande inespresse, lancinanti urgenze di dire premono nei loro animi. Cresce la percentuale di vecchi, conficcati in malo modo entro una realtà che li rifiuta anche quando ribadisce di volerli accettare, e allora aumentano la possibilità che si creino fiabe, perché i vecchi fraintendono, introducono equivoci, immettendo errori e bizzarrie nel circuito comunicativo. Devono, infatti, molto spesso, fingere di conoscere le regole di un gioco che è del tutto assurdo, irreale, legato a comportamenti di cui ignorano il senso. Una mattina l'autobus si ferma bruscamente, ha davanti a sé una consistente fila di automobili, cominciano ad apparire agenti di varie polizie, pubbliche e private, e molti carabinieri. Io conosco la ragione dell'ingorgo: si inaugura l'Anno accademico con una prestigiosa prolusione, l'Aula magna dell'Ateneo è collocata al centro di un sistema intricato di piccole strade, c'è un bel po' da fare per proteggere certe illustri personalità convenute a glorificare l'evento, la fila si è creata così. Io so cosa sta succedendo, ma sto zitto. Sono io, in realtà, la causa del pubblico scatenarsi di una rilevante affabulazione collettiva che fornisce prontamente un risultato non disprezzabile. Un fatto lieve promuove il compiersi della narrazione: un vecchio borbotta che c'è stato un attentato, che hanno ucciso il presidente della Repubblica, hanno messo una bomba, come quella che dilaniò la stazione nel 1980. Viene creduto subito. Altri vecchi concorrono a migliorare l'informazione: gli attentatori sono trafficanti di droga, venuti da Medellin. Un vecchio, più distinto degli altri, si tocca i baffi eleganti con un dito: lui sa altre cose, ma allude, pronuncia mezze frasi, ammicca nell'aria. C'è una complicità della giunta, anzi del sindaco, lui da tempo ha precisi sospetti, ma non può sbottonarsi troppo. Poi altre voci alludono a emissari dall'Est in disfacimento, mentre si precisano i termini della collocazione della bomba: c'era un vecchio rifugio antiaereo, lì a due passi, l'hanno utilizzato per nascondere l'esplosivo. I ricordi di guerra si mescolano alle descrizioni relative all'attentato. Tornano anche in scena fascisti, partigiani, repubblichini. Una signora vestita con uno Chanel datato, ma ancora splendido, dice che lì, poi, ci sono anche le gallerie sotterranee usate dai cardinali per andare dalle loro amanti, ma un vecchio, che indossa un'antica tuta da operaio, soggiunge che lui da tempo temeva per la vita del nostro vescovo, perché si espone troppo sulla stampa locale e sulle televisioni private. Io guardo l'orologio, so che fra un poco inizierà davvero la cerimonia di apertura dell'Anno accademico, l'ingorgo si scioglierà, tutto ritonerà normale. Infatti, mentre il magmatico brusio prosegue, l'autobus riprende la sua corsa, giunge in piazza, tutti gli affabulatori tacciono. Mentre scendo mi dico che ci sarà un bambino di quattro anni, lasciato, da due giovani genitori che vanno ancora in discoteca, alle cure del nonno fantasioso e astioso, isolato e saturnino, che, tra l'irritazione per il ruolo di baby-sitter (lui che era all'Intendenza di finanza) e la voglia di sbrigarsi a far addormentare il bambino, racconterà, e il bambino ascolterà rapito. Mi chiedo quale sarà il bambino di quattro anni che saprà di un attentato in cui il capo del cartello di Medellin ha fatto saltare in aria il vescovo di Bologna, ex partigiano e nemico delle discoteche. Un tempo, dicevo, ero rigido nell'utilizzare le risorse dell'ermeneutica del fiabesco. Se utilizzavo Propp rifiutavo Caillois, e viceversa. Jung, in visita alle città rupestri degli indiani Pueblos, disse di avere ascoltato, lì, il respiro dei msiteri eleusini. E io non posso evitare di aggiungere che, in quello stesso luogo, si svolgono molte avventure di Tex Willer, e, con ostentata improntitudine, dico che, ovviamente, tra Jung e Tex si colloca Novalis. Tutto è fiaba, sì, però è anche stato scritto che ci sono fiabe da taverna e fiabe da salotto. Pensando a Tom chiuso nella grotta, penso anche a fiabe da rifugio antiaereo, ovvero a fiabe da labirinto, da sotterraneo, da cantina. Il libro che il lettore si accinge a gustare tiene conto, generosamente, delle moltissime identità che alle fiabe si possono assegnare, e interpreta, certamente, ma con una leggerezza che si può ottenere solo quando si possiede molta dottrina. Aladino diventa un'altra fiaba, c'è un nuovo «c'era una volta». Si può alludere al senso autentico di planetaria fratellanza e amicizia che ora scaturisce dall'interpretazione di questa fiaba: passata tra voci e mani, nascosta e disvelata, a cavallo di etnie diverse, carica di simboli variegati, la fiaba realizza e raccomanda un confronto affettuoso. Ben pochi libri, oggi, possono offrire tanto spazio al dialogo vero tra culture e tra atteggiamenti. Ben pochi libri sono, come questo, attuali nella loro sapiente inattualità, e futuribili nei sedimenti che offrono, durevoli e propedeutici nei confronti di nuove scelte culturali. |