Più non esistono al mondo storie semplici.
Ed ora mi ascolti, e non m'interrompa, di
grazia, ad ogni piè sospinto. (D. Grossman,
1986, Vedi alla voce: amore. Tr. it.
Mondatori, Milano 1988; p. 304).
L'ascoltatore ha il potere e l'intenzione di
uccidere il narratore: una metafora della crudeltà
del campo nazista, del nostro tempo? Niente
affatto, questa è la relazione esistente nella
coppia narratore/ascoltatore per eccellenza,
quella di Shahrazad e di Shahriyar, sultano delle
Indie. E non ha forse ogni lettore questo potere
sul suo autore? gli basta chiudere il libro.
La storia di alcune storie che forma l'oggetto di
questo lavoro anticipa alcuni punti di una mia
ricerca sulle relazioni tra il romanzo antico e la
fiaba. Si tratta di una riflessione sul motivo
dell'enigma e della strutturazione del soggetto
nella sua appartenenza alla comunità.
B. Il racconto psicoanalitico
A proposito della relazione tra i racconti
letterari e le storie che emergono nel setting
ripensiamo a Le storie che curano di James
Hillman (1983; tr. it. Raffaello Cortina Editore,
Milano 1984), dove lo psicoanalista junghiano
individua nelle costruzioni teoriche di Freud e di
Jung una pregnanza narrativa in grado di
promuovere il senso e il racconto del paziente. Ma
la tendenza a privilegiare la dimensione narrativa
implica il rischio di mutuare dalla letteratura un
paradigma esplicativo del racconto psicoanalitico.
Ammaniti e Stern scrivono:
Perdendo ogni riferimento alla realtà
storica e alle basi biologiche dell'individuo,
l'unico criterio di validazione della
psicoanalisi diviene quello della narratività,
quello che Sherwood definisce "una spiegazione
ampia e singolare all'intera storia del caso in
un singolo paziente": spiegare vuol dire
riorganizzare i fatti in un insieme
intellegibile che costituisce una storia unica.
A questo punto il problema della scientificità
della psicoanalisi verrebbe completamente a
cadere e la verità sarebbe legata
inscindibilmente alla storia del caso. (A
cura di M. Ammaniti e D.N. Stern, Rappresentazioni
e narrazioni, Laterza, Roma-Bari 1991; p. 7)
E se invece la psicoanalisi col suo lavoro sul
racconto che si forma nella relazione analitica,
intesa come relazione affettiva, si interrogasse
sulla funzione collettiva dell'immaginario della
letteratura? Di cosa è fatta la letteratura, qual
è il suo fondamento ? su cosa si fondano la
varietà e la costanza delle fiabe di magia ?
perché un romanzo è bello e rivelatore per i suoi
contemporanei ?
Ho l'impressione che la realtà della letteratura,
della poesia, del racconto, sia indagabile anche
come evento significativo all'interno di una
relazione affettiva, collettiva e immaginaria.
Forse le stesse leggi, leggi intrapsichiche, come
quelle che presiedono alla formazione del sogno,
reggono l'oggetto letterario e la nostra vita
interiore. La domanda, per la quale non ho alcuna
risposta, è questa: cosa fa di un racconto il
racconto che funziona, di parole poetiche la
poesia, in quali dosi occorre mescolare il
meraviglioso, la magia e gli elementi della vita
quotidiana in modo che ne nasca una fiaba?
Dal momento in cui Freud riconobbe il carattere
allucinatorio del trauma infantile che i suoi
pazienti rievocavano come origine dei loro
disturbi, la psicoanalisi ha tentato di
individuare un punto fermo, quasi un motore
immobile per i fenomeni psichici. Che è via via
stato spostato all'indietro, con un procedimento
umoristicamente descritto da Michael Balint come
teoria valigia: dai primi anni di vita del bambino
si retrocede ai primi mesi, ai primi giorni, e
finalmente alla vita intrauterina (M. ed. E.
Balint, 1959, La regressione; tr. it.
Raffaello Cortina Editore, Milano 1983).
L'accostamento del processo analitico alla
letteratura potrebbe anche sembrare un prodotto
della delusione di fronte all'impossibilità di
individuare questa specie di motore immobile, di
arrivare con certezza a una causa prima
dell'accadere psichico. "Se non riesco a
sciogliere l'enigma, allora dirò che l'enigma non
ha soluzione": questo sembrano dire gli
psicoanalisti, se l'affascinante accostamento alla
letteratura li induce a descrivere la psicoanalisi
secondo paradigmi di tipo narratologico. È nostro
interesse piuttosto rivolgere l'indagine verso
l'approfondimento di fondamenti psichici comuni
per il racconto letterario, fiaba o romanzo, e la
vicenda che prende forma all'interno della
relazione analitica, storia personale che è la
parte degli eventi della relazione, che può e
vuole essere pronunciata, farsi espressione
verbale, e racconto. Lo snodarsi del romanzo
personale che si costruisce nella rimemorazione
analitica, seduta dopo seduta, produce una storia
che può essere raccontata anche fuori dalla stanza
d'analisi, come nell'esposizione di un caso
clinico. Ma non è che una parte della catena di
eventi, polarizzati intorno alla relazione
affettiva transferale e controtransferale, che
costituisce l'insieme dell'analisi. Nota 2
La metafora relativa alla dimensione letteraria,
narrativa, della vicenda analitica può descrivere
nessi tra le parti del racconto, tra le sue
figure, può descrivere come funziona, non perché
funziona. Chiedersi perché nell'analisi si attuino
processi di trasformazione presuppone la tensione
verso una regola, la possibilità di conoscere
qualcosa che sia cosmos, che aiuti a dar conto di
una realtà che per la sua perturbante complessità
appare come caos fino a che non se ne siano
individuate le costanti, le leggi. La tensione
verso questa comprensione è una parte inelusibile
del lavoro psicoanalitico. L'estrema complessità
dell'accadere psichico pone il ricercatore in una
situazione di apparente stallo: se ricorre a una
teoria-valigia- tutto dipende dal conflitto
edipico, tutto dipende dal seno cattivo, tutto
dipende dalla capacita di rêverie della madre... -
satura la sua domanda e chiude la ricerca
epistemologica con una formulazione mitica. Se
rinuncia alla possibilità di un'epistemologia
psicoanalitica si trova confuso con discipline che
non ambiscono a uno statuto scientifico, come la
letteratura o il misticismo. Ma se sopporta
pazientemente – se patisce, soffre - la situazione
perturbante di questo stallo, lo psicoanalista ha
la possibilità di osservare forme costanti nei
processi di trasformazione. Può anche confrontare
la sua indagine con i nuovi paradigmi di altre
scienze che si occupano di fenomeni complessi,
ritenuti prima inaccessibili alla descrizione
scientifica. Nota
3
Per quanto riguarda la riflessione sul rapporto
tra fiaba e romanzo antico, mi pongo questa
domanda: quale realtà psichica si rappresenta
nelle opere che contengono il motivo dell'enigma?
È un motivo di grande interesse, perché nella
storia costituisce il punto di catastrofe, di
ribaltamento, di trasformazione radicale.
La verità letteraria, e la verità della narrazione
dialogica che si fa nel setting, il racconto che
tiene, corrisponde a una possibilità di
revisionare, valorizzare, arricchire,
l'autorappresentazione di sé. Possiamo paragonarla
a una carta topologica della propria realtà
psichica, verbalizzata, linguistica, attraverso la
quale ci orientiamo nel mondo, interno ed esterno,
apprendendo dall'esperienza e preparandoci a
vicende nuove.
Si può pensare alla mente come a una sorta di
carta topologica che rappresenta la realtà,
intrapsichica ed esterna, fondamento delle
relazioni con se stessi e con gli altri, nella
quale il linguaggio ha una funzione essenziale, ma
non assoluta. Col linguaggio noi nominiamo le
parti del nostro paesaggio, le comunichiamo. Ma
fare del linguaggio un nuovo essere in sé, un
motore immobile oltre il quale non ha senso
spingere l'indagine, mi sembra un'operazione che
rischia di far rientrare dalla finestra il vecchio
attaccamento a una pretesa realtà oggettiva. Il
cambiamento di paradigma scientifico nel quale la
psicoanalisi è stata soggetto, porta a comprendere
che ci muoviamo verso nuove formulazioni della
conoscenza, indispensabili per comprendere meglio
la nostra vita interiore e le nostre relazioni.
C. Il racconto di Edipo: la tragedia
La Sfinge, il suo enigma ed Edipo formano la
figura essenziale della psicoanalisi. Ogni volta
che si riprende la storia di Edipo e si rimette in
gioco nella teoria psicoanalitica, ci troviamo a
ripensare la condizione umana, a rimeditare i
valori della nostra cultura. Edipo uccide il padre
e ne prende il posto nel letto della madre. Ogni
bambino passa attraverso il gioco desiderante di
Edipo. Se non attraversa questa vicenda, si parla
di struttura pre-edipica, significando una mente
fissata al rapporto diadico madre-bambino.
L'assenza del terzo elemento, del padre, polarità
che costringe la rottura del legame originario con
la figura materna, permettendo l'uscita dalla
relazione simbiotica, marca una personalità
incapace di pervenire alla posizione genitale,
generativa, interdice la maturità della condizione
adulta.
Il desiderio incestuoso di Edipo come protagonista
della sua tragedia appartiene realmente al
soggetto quanto il desiderio rivelato da un sogno:
se abbiamo sognato la morte di una persona, anche
se nel sogno piangevamo angosciati, dobbiamo
pensare che quella persona rappresenta il
bersaglio di una nostra pulsione aggressiva. Nota 4
La storia di Edipo racconta dell'essere umano che
deve recidere la fusione originaria con i genitori
indifferenziati, onnipotenti, capaci di dispensare
la rovina o la salvezza al soggetto. Che deve
proprio per questo allontanarsene, se non vuole
rinunciare a costruire la propria identità e la
propria appartenenza a una comunità più vasta
della famiglia originaria.
La tragedia di Edipo mette in scena l'ambivalenza
dell'andare oltre, nel tentativo di sottrarsi alla
potenza tirannica del legame originario, nel
confronto con il proprio destino. Il destino,
uccidere il padre e unirsi con la madre, è
rivelato dall'oracolo di Delfi quando Edipo vive
con il re e la regina di Corinto credendosi loro
figlio. L'eroe abbandona Corinto per fuggire il
rischio dell'incesto. Ma il sentiero imboccato da
Edipo riporta ai genitori reali, non simbolizzati:
abbattere l'enigmatica Sfinge si risolve nel suo
opposto. L'eroe che si allontana dal noto -
l'immagine idealizzata dei genitori frutto della
rimozione del fantasma originario - ritrova i
fantasmi che si riattivano dopo il compimento del
percorso eroico. La funzione della coppia
genitoriale adottiva potrebbe essere in questa
chiave il risultato della rimozione, che ha
protetto il soggetto dalla distruttività del padre
e della madre originari, distruttività
rappresentata dal mito relativo al padre di Edipo.
L'oracolo aveva predetto a Laio che se avesse
generato un figlio questo avrebbe causato la sua
morte e la rovina della sua stirpe. Tra gli uomini
si ripete una storia già narrata come mito di dei:
Crono ha evirato il padre Urano, e divora i suoi
figli per non essere spodestato. Dopo aver
instaurato il suo ordine spodestando il padre
Crono, Zeus sa che la dea Teti genererà un figlio
più forte del padre. Se il padre sarà un dio,
causerà la fine del suo ordine olimpico. Per
mantenere il loro potere gli dei si accordano e
costringono Teti a sposare il mortale Peleo.
Nascerà il più grande degli eroi, impotente di
fronte alla morte: Achille.
Il timore di perdere il dominio è nella storia di
tanti padri prima che il destino di determinare la
fine del loro dominio sia nella storia di
altrettanti figli. Storia tragica che muove da
maledizioni, condanne e oscuri oracoli: il
soggetto, la coscienza, la sua indagine, la sua
scelta, sono sovrastati da qualcosa che preesiste
al soggetto stesso. Freud attualizza il mito: la
vicenda edipica è rimossa nell'inconscio che parla
oscuramente attraverso i sogni notturni. L'adulto
in analisi è giocato, o costretto a giocare, dal
bambino che è stato e che deve ricostruire o
costruire la sua storia, come Edipo interrogando
l'oracolo e Tiresia, ritrovando ciò che non
ricorda, riconoscendo ciò che non ritiene suo.
Edipo è concepito da Laio nell'ebbrezza, e
abbandonato alla nascita sul monte. Il padre gli
fora le caviglie perché nessuno voglia prendere un
bambino così danneggiato. Da questo viene il nome
di Edipo, dai piedi gonfi. In un racconto più
antico di quello di Sofocle, Edipo viene affidato
alle acque, come innumerevoli personaggi di miti,
di storie e di fiabe.
Dopo essere stato raccolto da un pastore, Edipo
viene adottato dal re e della regina di Corinto,
che crede i suoi veri genitori.Quando l'oracolo di
Delfi gli predice che ucciderà il padre e giacerà
con la madre, l'eroe fugge per evitare l'incesto.
In quel tempo la città di Tebe subiva la
maledizione della Sfinge, che troneggiava su una
colonna nella piazza principale della città o su
una rupe lungo la via d'accesso a Tebe. Poneva a
tutti il suo enigma:
C'è sulla terra un animale che può avere
quattro, due o anche tre gambe ed è sempre
chiamato con lo stesso nome.
È il solo tra gli esseri viventi che si muovono
in terra, in cielo e in mare, che muti natura.
Quando egli cammina appoggiato a un minore
numero di piedi, la sua velocità è maggiore.
(K. Kerényi, 1963 Gli dei e gli eroi della Grecia;
tr. it. Garzanti, Milano 1984; 2 voll.; vol. II,
p. 105)
Racconta il mito che nella città di Tebe il
popolo si riuniva per cercare la soluzione, e non
trovandola doveva offrire vittime umane in pasto
al mostro. Nella sua fuga da Corinto Edipo uccide
a un crocevia Laio che vuole imporgli
violentemente il suo diritto a passare, e
successivamente lungo il cammino ascolta e
scioglie l'enigma della Sfinge, che potrebbe
sembrare un piccolo indovinello. Perché la sua
soluzione marca un passaggio così forte, come
punto di catastrofe, luogo di trasformazione?
Liberata Tebe dalla maledizione, Edipo diventa re
e prende il posto del padre ucciso da lui stesso
sposando sua madre Giocasta.
Chi pone l'indovinello? un essere che nella
molteplicità della sua natura contiene gli
elementi non differenziati tra loro, ali,
serpente, donna, leone. Ricordiamo il fantasma
genitoriale kleiniano, che combina pene e seno,
ciò che sta prima della storia, della vicenda non
ancora narrata del soggetto a se stesso, che
precede la formazione stessa del soggetto.
Sfinx da sfinghèo, che significa soffocare,
strangolare, togliere la vita. La Sfinge, nata dal
rapporto incestuoso tra il mostro Echidna e suo
figlio, il cane Orthos, è un essere infero,
caotico, rappresenta una complexio oppositorum.
Tebe è maledetta dalla sua presenza, trovarsi al
cospetto della Sfinge, su uno stretto sentiero o
nel cuore della città, significa dover affrontare
il suo enigma. Non risolverlo significa subire la
sua condanna a morte. Risolverlo significa
diventare re, compiere il cammino eroico, ma allo
stesso tempo trovarsi di fronte al senso
impossibile, delle origini.
Non può trattarsi di un semplice indovinello. La
banalità apparente, è il velo della complessità
perturbante. In effetti dare la soluzione implica
abbracciare con un solo sguardo le tre età
dell'uomo. La società con i suoi valori di leggi e
di religione ha tra le sue funzioni essenziali
quella di separare e segnare con riti e norme la
differenza tra il bambino, l'adulto, il vecchio -
l'intimità con la madre, la generazione,
l'indebolimento fisico che prepara la morte.
Risolvere l'enigma implica vedere che nonostante
tutte le separazioni uno solo è l'animale,
l'essere dotato di anima, che attraversa questi
cambiamenti ma continua a vivere
contemporaneamente queste tre posizioni.
Osserviamo nella storia di Edipo due punti di
catastrofe, mutamenti radicali di stato nel
soggetto che ritroviamo anche in altri racconti.
Il primo è costituito dall'oracolo che predice un
destino che si tenta di evitare con ogni mezzo.
Come Laio non vorrebbe generare, Edipo fugge da
Corinto per non uccidere il padre e unirsi alla
madre. Il destino si realizza puntualmente, e la
fuga contro il destino si realizza come corsa
incontro al destino.
Il secondo è rappresentato dalla Sfinge, essere
mortifero, legato a uno statuto formale arcaico,
numinoso, la cui funzione distruttiva, con molte
trasformazioni, è svolta nelle fiabe dalla fata
offesa della Bella addormentata, dalla regina di
Biancaneve, e da tutte le madri o matrigne che
perseguitano figli e figlie. Dobbiamo ricordare
che il motivo della predizione di un destino
fatale - quando la fanciulla compirà quindici anni
si pungerà con un fuso, o le entrerà sotto
l'unghia una resta di lino, e morirà ... - genera
sempre una strategia volta ad eliminare l'intera
sfera di attività che ruota attorno all'oggetto
mortifero: nel reame nessuno più deve filare.
L'interpretazione psicoanalitica di questi motivi
ha insistito prevalentemente sull'oggetto
rimossso, fallico e lacerante.
Può essere opportuno osservare che la fiaba
rappresenta la dinamica della rimozione con
l'inevitabile ritorno del rimosso: un'intera sfera
della vita - il lavoro femminile della filatura -
viene eliminata, nel tentativo di isolare e
controllare il perturbante. La fata dimenticata
dal re al battesimo di Rosaspina predice che al
suo cambiamento di stato - dall'infanzia all'età
adulta - si punga con un fuso e muoia. Ricordiamo
che il motivo dell'oracolo, della predizione,
della premonizione, è presente come apertura in
innumerevoli opere letterarie. Ne citiamo una sola
tanto vicina a Edipo, da esserne quasi una
versione: La vida es sueño, di Pedro
Calderon de la Barca.
In questa opera teatrale del Seicento spagnolo il
re, interrogando le stelle, viene a sapere che il
figlio che sta per nascere lo detronizzerà. C'è
un'attenuazione della tragicità di Edipo, ma
uccidere e detronizzare sono come la stessa parola
psichica, solo che la distruzione è
deletteralizzata. Meno letterale è parallelamente
l'eliminazione del figlio, Sigismondo, che viene
incatenato lontano dalla città, dalla comunità, in
un luogo deserto.
A questo punto introduciamo un concetto che ci
preme molto, relativo alla scansione temporale,
per osservare una differenza profonda tra le forme
letterarie che articolano la vicenda scandita
dall'enigma. Come per Edipo, per Rosaspina e per
Sigismondo la predizione si rivela fondata, ma...
c'è un lungo sonno, o il sentimento di un sogno.
Il sonno di Talia, la principessa della storia di
Basile che corrisponde alla Bella Addormentata,
non è provocato da un fuso, ma da una resta di
lino che si infila sotto un'unghia (Giambattista
Basile, 1634-1636, Cunto de li cunti, a cura di M.
Rak, Garzanti, Milano 1986). Il fuso e la resta di
lino sono entrambi appuntiti e intrusivi, ed
appartengono alla sfera degli strumenti femminili.
Pare che la necessità - e l'impossibilità - di
sfuggire alla condizione di vittima del genitore
dello stesso sesso sia in Edipo e Sigismondo come
in Rosaspina e Talia. L'oggetto appuntito legato
al lavoro femminile riguarda un attributo materno
fallico, che impedisce la crescita, e con essa la
vita. Così Laio e il padre di Sigismondo vogliono,
in gradi diversi, negare la possibilità di
crescere ai figli di cui temono la potenza, come
Crono e Zeus. Mentre l'azione negativa viene
condotta dal genitore dello stesso sesso del
protagonista, il genitore dell'altro sesso è
assente, neanche nominato, oppure non si pone
attivamente di fronte a questa distruttività. Il
figlio è solo di fronte al genitore antagonista.
Ma torniamo a Edipo. Dopo aver risposto alla
Sfinge diviene contemporaneamente padre, marito e
figlio, uomo con tre, con due e con quattro gambe.
L'impossibilità di cogliere da chi si è nati, chi
si è e chi si genera: questo nasconde e rivela col
suo enigma la Sfinge, aquila, donna, leone e
serpente. Edipo rompendo il dominio della Sfinge
opera come eroe della conoscenza. Indagine,
enigma: è il tema dell'eroe che vince con
la forza della mente. Anche per sconfiggere i
draghi e i mostri è necessario unire alla forza e
al coraggio un'astuzia; il drago, come la Sfinge,
rappresenta un ordine primordiale, arcaico, Può
darsi un istante di conoscenza vera, conoscenza
della nostra natura, che prescinda dalla rottura
del dominio della madre arcaica, della sua natura
indifferenziata? No, sembra dire la storia
d'Edipo, come la psicoanalisi stessa, mentre allo
stesso tempo dare una risposta al suo enigma apre
gli abissi della solitudine interiore e può
togliere la luce della realtà: Edipo conoscendo la
sua origine si acceca a va pellegrino, fuggito da
tutti.
Ma proviamo ad osservare la scansione degli
avvenimenti che provocano o patiscono Edipo e gli
altri personaggi che abbiamo nominato: mentre
Edipo fugge passando da Corinto a Tebe, Sigismondo
ha un tempo lungo da trascorrere, anche se in
catene, viene istruito, e poi gli viene concessa
una prova. Talia, Biancaneve e Rosaspina dormono a
lungo, anche un secolo intero - dormono, sognano,
durante il loro sonno comunque qualcosa cambia
intorno a loro: un re cacciatore o un principe
passano dalla loro dimora sepolcrale, la loro
condanna si mitiga e finisce la pena che priva di
vita il soggetto.
Pensiamo ora a quel sonno che dura anche
cent'anni, un tempo senza tempo, un tempo
impossibile, che ricorda il numero magico delle
notti di racconto di Shahrazad, mille e una, un
tempo magico. In altri contesti al posto del sonno
possiamo trovare un lavoro scandito da numeri
magici: sette paia di scarpe e sette mazze di
ferro da consumare peregrinando, sette fiasche di
lacrime da colmare... Che tempo è questo?
Nella tragedia gli avvenimenti si riattualizzano,
si consumano, accadono, senza respiro, nella fiaba
sono staccati dal tempo che passa, in umili
lavori, in lunghe peregrinazioni di cui non si
dice molto, se non che va fatto, e il soggetto
paziente lo fa. Si enuncia la pausa, si dà nome e
dignità all'attesa piena di pathos tra due eventi.
E' una pausa di respiro tra figure d'azione -
nascita, maledizione, combattimento, morte,
risveglio,
nozze. Nella descrizione psicoanalitica questo
tempo ha un valore chiave, che sfugge se si è
completamente catturati dalla classificazione
degli eventi, dei fatti, degli oggetti simbolici.
La tragedia di Edipo si consuma senza respiro, e
si conclude col volontario accecamento dell'eroe,
che lascia Tebe e giunge pellegrino vicino ad
Atene, nel territorio sacro di Colono.
I cittadini del demo di Colono, che era la patria
di Sofocle, sono presi da orrore e vorrebbero
cacciarlo: Edipo afferma che non sarà ricordato
come empio, ma come infelice, perché la sua colpa
non è stata volontaria, ma decisa dal destino.
Edipo nel lutto ha compreso che c'è un destino al
quale neppure l'eroe solutore di enigmi sfugge. In
cambio dell'ospitalità che il re di Atene, Teseo,
concede a lui esule e stanco, gli rivela segreti
che renderanno la polis più forte della nemica
Tebe. Sarà sepolto a Colono, e la presenza del suo
sepolcro renderà più forte la città giusta, Atene,
che ha saputo accoglierlo nella sua disgrazia.
Notiamo che la possibilità di accoglimento e
pacificazione per Edipo viene dopo un lungo
peregrinare, che non è descritto da Sofocle, ma
costituisce l'intervallo tra Edipo re e Edipo a
Colono. La funzione della città ben governata è
essenziale perché Edipo trovi pace. Senza la
protezione di Atene Edipo e le sue figlie
sarebbero trascinati da Creonte a Tebe, dilaniata
dalla guerra fratricida per il potere.
Si presenta un tema di grande respiro, che
meriterebbe un'ampia riflessione psicoanalitica:
il conflitto individuale nella ricerca della
conoscenza, dopo il lutto, si placa solo
pervenendo alla città giusta, che ha pietà del
debole e gli fa scudo. Siamo di fronte a una
radice psicologica dell'utopia e della politica.
D. Il racconto di Kalaf e Turandot: la fiaba
A Parigi, all'inizio del Settecento, Pètis de
La Croix raccontava nei suoi Mille et un jours
di Kalaf, figlio di un antico kan dei tartari
Nogais, che...
... superava tutti gli altri principi in
bellezza, ingegno e coraggio, che egli
eguagliava in dottrina i dotti più venerabili,
che penetrava il senso mistico del Corano e
conosceva a memoria le tradizioni del profeta,
infine lo definiscono come eroe dell'Asia e
fenice d'Oriente. In effetti a soli diciott'anni
il principe non aveva già più rivali al mondo. (Pètis
de
La Croix, 1712, Storia di Kalaf e della
principessa della Cina, nei Mille e un
giorno, tr. it. Mondatori, Milano 1985; 2
voll.; vol. I; p. 150)
Una guerra distrugge il regno dei Nogais, e
Kalaf fugge con la sua famiglia. Dopo un attacco
dei briganti, resta con i suoi genitori senza
tesori e senza seguito in mezzo alle montagne.
Affrontando luoghi impervi e deserti, Kalaf
sostiene i genitori che vorrebbero morire, finché
giungono in una città, dove incontrano un ospite
gentile che racconta loro la sua storia. Era un
principe, e dopo aver vissuto avvenimenti
straordinari si è
dato alla vita solitaria per meditare sulle sue
perdite. Quando si viene a sapere che il nemico ha
chiesto anche presso al re di quella città di
mettere a morte il principe Kalaf e i suoi
genitori, i tre esuli si rimettono in cammino,
fino a giungere in un'altra città, dove il
principe Kalaf deve mendicare per i suoi.
Racconta la storia che dopo aver cercato
inutilmente di lavorare come facchino, Kalaf si
addormentò come un mendicante, e al risveglio vide
accanto a sé:
... un falcone d'una singolare bellezza.
Aveva la testa adorna d'un pennacchio di mille
colori, e portava al collo un collare di foglie
d'oro incrostate di diamanti, topazi e rubini. (Ivi,
p. 196)
Comprendendo che il falcone doveva appartenere
al re del Paese, glielo riportò, e il re ne fu
così felice che gli concesse di chiedere tre cose.
Kalaf allora chiese per i suoi genitori che
fossero ospiti del re, e per se stesso un cavallo
e un'armatura da cavaliere, e infine una borsa di
monete d'oro. Il re lo accontentò, così Kalaf
partì per cercare fortuna, e gli capitò di
fermarsi da una vecchietta nel reame della Cina.
Da lei seppe la storia della principessa Turandot
e del buon sovrano della Cina, triste a causa di
questa sua unica figlia. La vecchietta dice a
Kalaf che Turandot, colta e raffinata, è tanto
bella che i pittori si vergognano dei loro
ritratti, troppo inferiori alla sua grazia, ma
... invaghita com'è di se stessa ...
(Ivi, p. 201)
rifiuta ogni pretendente. Si sarebbe lasciata
morire se il re suo padre non le avesse accordato
il diritto di sottoporre a ogni pretendente alcuni
enigmi: chi non era capace di risolverli doveva
morire. Il re della Cina aveva creduto che
conoscendo il bando nessun pretendente si sarebbe
presentato, invece molti ne giungevano, attratti
dalla ineguagliabile bellezza di Turandot. Ma
mentre il re prova dolore per la morte di tanti
nobili giovani,
... ella gode agli spettacoli feroci che la
sua bellezza offre ai cinesi. E' tanto vanitosa,
che il principe più amabile le appare non solo
indegno di lei, ma persino insolente per avere
osato rivolgere il pensiero al suo possesso.
Perciò considera l'esecuzione capitale come il
giusto castigo della sua temerarietà. (Ivi,
p. 203)
Kalaf dubita sia della bellezza della
principessa Turandot, sia della difficoltà degli
enigmi, ma la vecchietta lo mette in guardia:
Non esistono enigmi più tenebrosi di quelli
della principessa, e rispondervi è praticamente
impossibile. (Ivi, p. 204)
Quando gli accade di vedere il ritratto della
principessa, Kalaf se ne innamora, e vuole
affrontare la prova. Quando il sovrano della Cina
cerca di dissuaderlo, Kalaf gli risponde:
Può darsi che il cielo voglia servirsi di
me per troncare questo orrendo gioco. (Ivi,
p. 217) Nota 5
La vecchietta, i genitori di Kalaf, il re, i
saggi della Cina, tentano di convincerlo a non
rischiare la vita, avendo una funzione simile a
quella del coro tragico di fronte all'eroe che
corre incontro al suo destino. Sono figure che
animano una rappresentazione molteplice,
deletteralizzando piano piano il fantasma
originario: parallelamente l'incesto non è più
letterale, ma rappresentato dal rifiuto delle
nozze, dall'impossibilita' dell'unione. Dunque
Kalaf si presenta alla prova, e ascolta gli enigmi
di Turandot:
"Ebbene, ditemi, qual è la creatura ch'è
d'ogni paese, amica di tutto il mondo, e che non
ha eguali?"
"Mia signora" rispose Kalaf "è il sole".
"Ha ragione" esclamarono tutti i dottori "è il
sole".
"Qual è la madre" riprese la principessa "che
dopo aver partorito i suoi piccoli, li divora
tutti quando sono divenuti grandi?"
"E' il mare" rispose il principe dei Nogais
"perché i fiumi che vanno a morire in lui, hanno
origine da lui".
"Qual è l'albero" gli disse "le cui foglie sono
tutte nere da un lato e bianche dall'altro?"
(Ivi, p. 224)
E dopo aver posto il suo ultimo enigma, per
confondere l'abile solutore, Turandot si toglie il
velo. Kalaf ammutolisce, abbagliato dal suo
bellissimo viso, ma poi si riprende e risponde che
l'albero è l'anno, composto di giorni e di notti.
Ora Turandot impallidisce, e ancora decisa a
rifiutare uno sposo vorrebbe proporre altri
enigmi, mentre il padre le impone di rispettare il
patto. A questo punto accade qualcosa che esce
dalla logica della crudele principessa della Cina:
il vincitore Kalaf rimette in gioco le nozze con
un ribaltamento. Lui pone un enigma, e se Turandot
riuscirà a trovare la soluzione tornerà padrona di
se stessa:
Come si chiama il principe che dopo aver
patito mille disavventure e mendicato il pane,
si trova in questo momento al colmo della gioia
e della gloria? (Ivi, p. 227)
La domanda di Kalaf riguarda l'identità del
soggetto, come l'enigma della Sfinge riguardava la
natura dell'uomo. Kalaf dà tempo alla principessa
fino al mattino successivo per trovare la
soluzione, e nella notte di attesa è felice e
sicuro che l'indomani sarà vincitore. La sua
emozione e la sua sicurezza sono espresse dalla
famosissima romanza di Giacomo Puccini: nessun
dorma è la cosa che tutti si ripetono nella
capitale della Cina per ordine di Turandot, che
vuole che la città vegli per cercare il nome del
suo pretendente. Durante la notte una principessa
schiava di Turandot, innamorata di Kalaf, cerca di
convincerlo a fuggire con lei, dicendogli che la
principessa della Cina ha deciso di farlo uccidere
prima che si alzi il sole. Abbandonandosi alla
disperazione il principe pronuncia il suo nome, ma
resta deciso ad affrontare il suo destino. Per
vendicarsi la schiava svela il nome a Turandot,
che al mattino dà la risposta al principe dei
Nogais. Kalaf cade senza sensi, ma subito dopo la
principessa, liberamente, si dichiara pronta alle
nozze.
La scena dominata dal rifiuto dell'unione e dalla
fissazione al legame originario è piena di
personaggi e di storie parallele. Le vicende sono
numerose peripezie nel corso delle quali si
moltiplica la rappresentazione dell'oggetto
interno perturbante e minaccioso: l'incesto.
L'incesto può essere rappresentato nella fiaba
dall'impossibilità dell'unione, come dal disprezzo
di un sesso verso l'altro sesso.
L'enigma è posto dalla donna: la Sfinge è d'altra
parte un essere femminile. La soluzione
dell'enigma non è soluzione della vicenda del
soggetto: nel momento del trionfo eroico Edipo e
Kalaf perdono ciò che avevano ottenuto in premio.
Ritrovarlo significa conquistare il cuore, non
acquisirne il diritto di possesso.
C'è nelle storie d'enigma il postulato della
necessità del viaggio eroico, e subito dopo
l'enunciazione del limite di questo percorso
eroico: risolvere l'enigma, trionfare con il
pensiero, consente di superare un ostacolo
inelusibile ma non risolve il conflitto. Occorre
un miracolo, occorre che si apra il cuore alla
grazia, perché l'unione sia possibile.
E. Il racconto di Apollonio di Tiro: il
romanzo
L'Historia Apollonii regis Tyri fu
scritta probabilmente nel III secolo d.C., non si
sa se si tratti di una composizione latina
sumodelli greci, o di una traduzione da un
originale greco perduto. Questo romanzo antico ha
goduto di una fortuna di pubblico immensa in
Europa fino al XVII secolo. La prima versione in
volgare inglese, del sec. XI, costituisce un
patrimonio fondamentale della letteratura inglese,
anche per l'opera di Shakespeare che mutò il nome
del protagonista in Pericle, Pericles prince
of Tyre.
La scena in Shakespeare si svolge in diversi,
svariati paesi, dispersedly in various
countries. Si può considerare questa scena
indefinita come una chiave per entrare nel romanzo
antico: Apollonio è un protagonista errante, si
muove coprendo lunghe distanze, e patisce il
viaggio. Il tempo passa nel corso del racconto, un
tempo che modifica l'aspetto del protagonista, che
invecchia, imbruttisce fino a diventare
irriconoscibile, dispera di trovare una soluzione
positiva per la sua vita. Il primo modello
narrativo di questo viaggio che non è mito
astorico ma storia personale, col tempo che passa
articolando l'esperienza e la trasformazione del
soggetto è l'Odissea. Nota 6
Nella tragedia gli avvenimenti sono costretti,
sigillati, intorno al cardine delle tre unità
aristoteliche, di tempo, di spazio e di azione.
Accadono in un tempo assoluto. E' un tempo simile
a quello dell'acting con caratteristiche
psicotiche: l'atto non si ancora al passato né si
dilata nel futuro. Nota
7
Gli eventi e i personaggi della fiaba c'erano una
volta, lontano lontano... in un tempo vago, non
mitico né storico, ma indeterminato. L'arco del
tempo è ampio ma sempre indefinito: camminò per
tanto, tanto tempo, consumò sette mazze di ferro e
riempì sette fiaschi di lacrime, serviva la
matrigna e le sorellastre avendo per sé il posto
della cenere... Chi potrebbe precisare quanti
mesi, o anni, Cenerentola abbia servito le
sorellastre? quanto abbia impiegato la principessa
a riempire sette fiaschi di lacrime?
Si parla di una durata, di una percezione
intrapsichica del tempo, che non ha una traduzione
storico-oggettiva. A questo tempo indeterminato
che si dispiega tra eventi catastrofici
corrisponde un'indeterminazione nell'identità. I
soggetti sono un re, una principessa, un
contadino... Solo i protagonisti hanno un nome
proprio, nessuno ha mai un cognome: Aladino,
Biancaneve, Rosaspina, Giufà... Nota 8.
E sono sempre uguali a se stessi, sempre belli,
hanno un volto e un corpo appena sbocciati, per
quanto camminino, lavorino, attendano. Se poi sono
brutti, persino deformi, possono diventare
meravigliosi in un batter d'occhio. Non hanno
caratteristiche somatiche che li rendano
riconoscibili, unici. Turandot è bellissima, come
Biancaneve e Rosaspina, ma non sappiamo nemmeno se
era bruna o bionda: sappiamo che quando svela il
suo viso Kalaf ammutolisce, e questo può e deve
bastare. Gli attanti fiabeschi sono meravigliose
marionette, pronte a prendere vita appena si forma
la coppia narratore/ascoltatore,
scrittore/lettore: è la vita del lettore che
riempie della sua carne, delle sue proprie
rappresentazioni personali, articolandole con i
suoi oggetti psichici, le figure del racconto. Né
compare mai nelle fiabe un paesaggio in senso
moderno: la natura non viene descritta. Ci sono
montagne aspre, mari perigliosi, città opulente o
colpite dalla carestia, deserti, ci sono luoghi
simbolici dell'umore, che a ciascuno possono
appartenere. A tutto il mondo appartiene la stessa
fiaba, mentre il romanzo moderno è calato nella
sua realtà spaziotemporale.
Abbiamo osservato che in Turandot non esiste
incesto letterale ma solo legame edipico
rappresentato dal rifiuto delle nozze. In
Apollonio l'incesto esiste letteralmente, ma non è
compiuto dal soggetto. Come Kalaf, Apollonio re di
Tiro si presenta fornito di una grande sapienza:
Ego ab adolescentia mea natus Tyro, Apollonius
appellatus, cum ad omnem scientiam pervenissem nec
esset aliqua, quae a nobilibus et regibus
exerceretur, quam ego nescirem, regis ero
Anthiochi quaestionem solvebam et filiam eius in
matrimonio acciperem. Sed ille ei foedissima sorde
sociatus .... per impietatem coniux effectus est
filiae suae. Me quoque machinabatur occidere.
(cit. da P. Goolden, The Old English
Apollonius of Tyre, Oxford 1967; p. 37) Nota 9
Se l'enigma proposto dalla Sfinge poteva
apparire anche troppo semplice, quelli risolti da
Kalaf avevano la forma di comuni indovinelli, che
svelano con metafore oggetti simbolici e concreti
fondamentali - il sole, il mare, l'anno. Con
Apollonio ci troviamo invece di fronte a un enigma
pronunciato dal re Antioco che vela e svela
proprio il rapporto incestuoso. Nelle diverse
redazioni è presente un'oscurità ambigua che non
si risolve in senso logico: appare il carattere
della passione incestuosa, che il solutore di
enigmi Apollonio svela senza poterla sciogliere.
La non corrispondenza tra i testi, per quando
possa dipendere da differenti redazioni, è tale da
rinforzare la perturbante ambiguità dell'enigma,
dove appaiono interscambiabili sposo, fratello,
padre.
Vale la pena osservare di seguito, nell'ordine, il
testo latino, la sua traduzione italiana, il testo
in volgare inglese e quello di Shakespeare.
Scelere vereor,
Materna carne vescor.
Quaero patrem meum, meae
Matris virum, uxoris meae
Filiam, nec invenio. |
Mi trasporta un delitto;
mi cibo delle carni di mia madre;
cerco un fratello mio,
figlio di mia madre,
marito di mia moglie,
e non lo trovo. |
(cit. da Goolden, op. cit., p. 7) |
(Storia di Apollonio..., cit., p. 1317) |
I am borne along by crime
I devour my mother's flesh
I seek my brother, the husband
of my mother, the son of my
|
wife. I do not find him. |
I am no viper, yet I feed
On mother's flesh which did me breed.
I sought an husband, in which labour
I found that kindness in a father.
He's father, son, and husband mild;
I mother, wife, and yet his child.
How that may be, and yet in two,
As you will leave, resolve it you. |
(cit. da Perry, 1967, p. 296) |
(Shakespeare, The complete Works,
Tudor Edition; Collins, L;ondon and Glasgow
1966; p. 1241) Nota 10 |
Il romanzo antico dice che Apollonio, dopo
aver sentito l'enigma:
...se ne andò un po' in disparte e,
facendo ricorso a tutta la sua cultura e a
tutta la sua abilità, con l'aiuto di Dio, ne
venne a capo. Tornò allora dal re e così gli
parlò: - O re mio signore, tu mi proponesti un
indovinello: eccoti la soluzione. Dicesti: "Mi
trasporta un delitto" e non mentisti: basta
che tu guardi te stesso. Aggiungesti: "Mi cibo
delle carni di mia madre" e nemmeno in questo
mentisti: guarda tua figlia. (Storia di
Apollonio..., cit, p. 1318)
Vedendosi scoperto il re Antioco dice ad
Apollonio che sta sbagliando, e che l'aspetta per
la soluzione il giorno dopo. Avendo capito che la
sua vita è in pericolo, il principe Apollonio
parte in segreto, e abbandona in seguito la sua
stessa patria con una flotta carica di grano. Dopo
essere approdato a una città oppressa dalla
carestia, ne sfama gli abitanti e questi erigono
una statua in suo onore. Poi si rimette per mare e
in un terribile naufragio annega tutto il suo
seguito. Attaccato a una tavola il principe di
Tiro finisce sulla spiaggia di Cirene, dove chiede
aiuto a un vecchio pescatore:
Il pescatore, soltanto a vedere il povero
giovane buttato ai suoi piedi, n'ebbe profonda
pena. Lo fece alzare e, presolo per mano, lo
portò alla sua povera capanna ove gli offrì da
mangiare quel che meglio potè; poi, per
manifestargli più compiutamente tutta la pietà
che sentiva per lui, si tolse il mantello, lo
divise in due parti uguali, e gliene porse
una, dicendo: - Questo è tutto quello che
posso darti. (Ivi, p. 1324)
Dopo averlo vestito e nutrito, il pescatore
gli suggerisce di andare in città dove potrà forse
trovare qualcuno misericordioso, e conclude:
Una cosa però voglio ricordarti; che se
un giorno, con l'aiuto di Dio, sarai
restituito alla tua dignità, non ti dimentichi
di questo mio povero mantello. (Ivi)
Così Apollonio va nella città, e nel ginnasio
per caso gioca a palla con il re Archistrate, che
colpito dalla sua destrezza lo invita alla sua
reggia. Qui Apollonio incontra la figlia di
Archistrate, che porta il suo stesso nome. La
principessa Archistrate è bellissima e vive col
padre, come Turandot e come la figlia di Antioco,
ma in questa reggia l'amore tra padre e figlia ha
carattere sublimato, di tenera sollecitudine.
Mentre Apollonio narra delle sue sofferenze al re
e ai nobili, la principessa prova pietà e
ammirazione per lui.
Passa un po' di tempo, e quando il re chiede a sua
figlia di scegliersi uno sposo, Archistrate,
confessandogli che si è innamorata, indica così
l'oggetto del suo amore:
Amo naufragum a fortuna deceptum
(cit. da Goolden, cit., p. 49)
Un naufrago abbandonato dalla fortuna era
Ulisse di fronte a Nausicaa, come era sventurato
il principe Kalaf, che di questa condizione aveva
fatto l'enigma per Turandot.
Si rappresenta un personaggio di stirpe regale che
spinto dal desiderio di conoscere e di risolvere
enigmi, dopo essere stato privato di tutto dal
mare o dai predoni, si presenta fornito delle sue
sole caratteristiche soggettive. La sua identità,
il suo nome, non risultano da attributi oggettivi
- reggia, trono, abiti regali e servitori - ma
solo dalla sua persona. Possiamo rischiare
un'ipotesi: non è questa la natura del soggetto,
del soggetto del romanzo? Non è perdendo tutti i
segni della ricchezza e della potenza regale che
il soggetto si definisce come unico, come essere
umano che ottiene favore in base alla sua
intelligenza, al suo carattere, alla nobiltà che
ha sede nel segreto del cuore? Pensiamo ora alla
vicenda del soggetto nel cammino analitico: le
resistenze alla trasformazione proteggono
l'involucro di identità costituito attraverso
processi di rimozione e lacune nel processo di
simbolizzazione. L'identità involucro non consente
di articolare il proprio vissuto con l'altro da
sé. Al posto di un vero ascolto di se stessi e
dell'altro si sono installate rigide anticipazioni
e previsioni delle risposte che saturano
l'esperienza e impediscono di apprendere da essa.
Il soggetto in analisi resiste in quanto teme il
naufragio, cerca di nascondersi, per evitare di
misurarsi con l'enigma che ha a che fare col
legame originario. Nota
11
Tornando al solutore di enigmi del romanzo antico,
si racconta che Apollonio si sposò felicemente con
la principessa Archistrate, e qualche tempo dopo
giunse notizia che il re Antioco e sua figlia
erano morti carbonizzati, puniti così dagli dei
per la loro colpa. È interessante notare che anche
in una delle storie più antiche de Le Mille e
una notte una coppia incestuosa viene
trovata carbonizzata per punizione divina:
rappresentazione della distruttività del legame
incestuoso quando viene vissuto letteralmente,
senza trasformazioni. Nota
12
Dato che risolvendo l'enigma aveva acquistato
diritto a quel trono, Apollonio vuole partire con
la sua sposa per prenderne possesso. Ma durante il
viaggio Archistrate, che è incinta, ha un parto
prematuro e perde la vita. Disperato Apollonio fa
costruire una grande cassa, rivestita di lamine di
piombo e di pece perché l'acqua non vi penetri, e
accanto ad Archistrate, vestita con abiti regali,
pone una borsa di monete d'oro e un'iscrizione,
perché chiunque la trovi provveda a darle una
degna sepoltura. La cassa giunge sulla spiaggia di
Efeso, dove viene aperta da un grande medico che
si trova in riva al mare con i suoi discepoli.
Viene preparato un solenne funerale, e il maestro
incarica un discepolo di preparare il corpo per il
rogo. Il romanzo ci racconta di un'antica
operazione di medicina:
Il giovane s'accostò al corpo della
fanciulla, le aprì sul petto la veste, sparse
il liquido unguento e, palpando delicatamente
con le sue mani esperte, esaminò il torace,
esplorò il corpo ancor tepido e ne fu
sorpreso, provò i battiti del polso, cercò se
qualche segno dessero le orecchie e le narici,
saggiò le labbra con le sue labbra, e da un
lievissimo alito si accorse che la vita
lottava ancora con la morte. Chiamò allora i
suoi servi e fece collocare quattro torce ai
quattro lati del catafalco. Sotto l'azione del
calore una sottil nebbia d'aria calda avvolse
il corpo della donna, e il sangue rappreso
cominciò a sciogliersi.
Il giovane se ne accorse e gridò al maestro: -
Cheramone, hai sbagliato; la donna, che tu
credevi morta, è viva; e, perché tu non abbia
dubbi sulla verità di quanto affermo, con un
energico trattamento la metterò subito in
grado di respirare.
Senz'altro aggiungere, portò la fanciulla in
camera sua e l'adagiò sul suo lettuccio; fece
poi scaldare dell'olio, v'inzuppò un batuffolo
di lana e glielo passò sul petto. Il sangue,
che s'era completamente coagulato, in virtù
del calore si liquefece e il respiro, rimasto
bloccato, ricominciò a fluire attraverso le
viscere. (Storia di Apollonio...,
cit., p. 1337)
Archistrate si riprende e trovandosi separata
dal suo sposo chiede di potersi consacrare al
servizio di Diana Efesia.
Intanto Apollonio continua il suo viaggio, approda
alla città di Tarso che aveva salvato dalla
carestia, e affida la sua bambina a una coppia
amica. Tornerà a prenderla solo quando saranno
trascorsi quattordici anni, durante i quali
viaggerà per mare, perché il lutto che ha subito
gli ha tolto ogni desiderio di regnare. Infine
giura solennemente che non si taglierà i capelli,
né la barba, né le unghie, fino al giorno delle
nozze della figlia. Torna il motivo del lutto
dell'eroe solutore di enigmi, e come nella
tragedia implica l'impossibilità di regnare. La
città resta priva di re. Nota 13
Osserviamo a questo punto qualche fortissima
parentela tra il romanzo antico e la fiaba. La
morte apparente di Archistrate, e la cura con cui
viene allestita una cassa nella quale viene posta
con splendidi abiti, ci ricorda Biancaneve nella
bara di cristallo. Entrambe sono accomunate dalla
morte apparente e dal meraviglioso risveglio. Non
si può escludere un debito della fiaba verso il
romanzo di Apollonio, che ebbe una grande
diffusione in Europa dal III al XVII secolo. Nota 14
Si racconta nel romanzo che la figlia di
Apollonio, Tarsia, cresceva bellissima, molto più
bella della sua coetanea, figlia dei coniugi ai
quali il padre l'aveva affidata. La gente che le
vedeva insieme confrontava la bellezza dell'una
con la bruttezza dell'altra: la matrigna decise
allora di sbarazzarsi di Tarsia, chiamò un suo
fattore e gli ordinò di ucciderla. Come Biancaneve
di fronte al cacciatore, Tarsia si mette a
supplicare il fattore, chiedendogli cosa ha fatto
di male per meritare la morte. In quel momento
sopraggiungono i pirati, che la rapiscono per
venderla come schiava.
La figlia di Apollonio e di Archistrate viene
comprata da un lenone di Mitilene, che si
ripromette di guadagnare molto con la sua
bellezza. Ma Tarsia si rivela degna figlia di un
grande solutore di enigmi, e ad ogni cliente
racconta la sua storia riuscendo a impietosirlo al
punto che tutti i clienti del bordello se ne vanno
senza toccarla e donandole l'oro che il lenone
esigeva per le sue prestazioni. Questo accade
anche quando si reca da lei il re di Mitilene, che
finisce per prenderla sotto la sua protezione,
mentre tutti sono ammirati dalla sua grazia e
dall'acutezza del suo spirito.
Nel frattempo, trascorsi i quattordici anni,
Apollonio di Tiro va a prenderla, ma i perfidi
genitori adottivi gli fanno credere che sia morta
di malattia, mostrandogli una falsa tomba.
Disperato, Apollonio riprende a vagare per mare,
finché un giorno la sua nave approda a Mitilene,
ma solo i marinai scendono a terra. Quando il re
di Mitilene chiede per quale ragione il comandante
non si fa vedere, gli rispondono che il loro
signore ha perduto la sposa e la figlia, e per
questo resta sempre solo, al buio, sotto coperta.
Il re di Mitilene chiede di vederlo, ma non
ottiene che un rifiuto. Allora manda a chiamare
Tarsia, perché rallegri il re con i suoi canti, le
sue arguzie e i suoi enigmi. Apollonio vorrebbe
che la fanciulla se ne andasse, e per questo le
offre una borsa di monete d'oro, ma Tarsia gli
dice che la prenderà solo se risponderà ad alcuni
indovinelli. Naturalmente Apollonio trova la
soluzione, poi le chiede di lasciarlo solo a
piangere i suoi morti. Tarsia insiste cercando di
strapparlo al suo isolamento: Apollonio, preso
dalla collera, la colpisce violentemente. Tarsia
cade, è ferita, sanguina, e piangendo racconta la
storia delle sue disgrazie, finché Apollonio
capisce di aver ritrovato la figlia che piangeva
morta.
Dopo l'agnizione, il re di Mitilene la chiede in
sposa, e Apollonio finalmente si taglia la barba,
i capelli e le unghie lunghi quattordici anni.
Cambia gli abiti da lutto con vesti regali, e si
mette in mare accompagnato dagli sposi per
visitare i suoi regni. Una notte sogna la dea
Diana che gli dice di andare a renderle un
sacrificio nel tempio di Efeso. Seguendo il sogno,
Apollonio si reca nel tempio di Diana Efesia e di
fronte alla statua della dea racconta tutta la sua
storia.
Non aveva ancor finito di dire queste e
altre simili cose che sua moglie balzò in
piedi, balzò in piedi e se lo strinse al
petto. Apollonio, che nemmeno lontanamente
pensava che la sacerdotessa di Diana potesse
esser la sua sposa, che piangeva perduta, la
respinse, ma quella, gridando fra il pianto:
Io sono la tua sposa, la figlia del re
Archistrate – se lo strinse di nuovo fra le
braccia e prese a dirgli: - Tu sei Apollonio
di Tiro, tu se il mio Apollonio, sei il
naufrago che io perdutamente amai...(Ivi,
p. 1363; sottolineatura mia)
Infine tutti insieme si recano a Cirene, dal
vecchio re Archistrate. dove Apollonio nomina suo
conte il vecchio pescatore che gli aveva dato metà
del suo mantello. Ha un altro figlio da
Archistrate.
Visse d'amore e d'accordo con la consorte
settantaquattro anni, tenendo i regni
d'Antiochia, di Tiro e della regione di
Cirene, e nulla mai turbò la sua pace e la sua
tranquillità.
Scrisse le vicende sue e dei suoi e ne fece
due volumi, che mise a disposizione del
pubblico, uno nel tempio di Diana
Efesia, l'altro nella sua biblioteca. (Ivi,
p. 1366; sottolineatura mia)
Ed ecco la storia che nella storia stessa
viene scritta: la vicenda che essendo raccontata
ha permesso tante volte di riconoscersi e
riabbracciarsi. Quattordici anni di separazione,
di viaggi per mare, di brani di fiaba, legati da
descrizioni di luoghi e di personaggi secondari
che muovono la scena, moltiplicando le occasioni
di esperienza e di incontro. Come nella vicenda di
Shahrazad e Shahriyar, il racconto rende possibile
il racconto, in un gioco che crea possibilità di
vita.
F. Auctor,
lector
Abbiamo osservato che l'enigma compare come
segno di un cambiamento catastrofico in Edipo, in
Turandot e in Apollonio di Tiro. Nelle tre storie
è presente il motivo dell'incesto, con una
gradazione nella letteralità del suo compiersi:
nella tragedia, Edipo, dopo aver sciolto l'enigma,
sposa la propria madre; nel romanzo antico
l'incesto non è attuato dai protagonisti, e
Apollonio sciogliendo l'enigma rivela la relazione
e inizia il suo viaggio. Nel caso di Turandot
abbiamo una principessa che pone l'enigma, contro
le intenzioni del padre, perché è offesa dalla sua
volontà di farla sposare, e Kalaf scioglie con
l'enigma l'ostacolo all'unione.
Nei tre casi il legame con l'origine impedisce la
nuova unione e lascia il regno senza re: Tebe è
infettata dalla peste finché è presente
l'incestuoso, Edipo. Antiochia non avrà un nuovo
re a causa delle nozze che il vecchio re interdice
possedendo la figlia. Il padre di Turandot, viene
detto nella favola, si angustiava perché se la sua
unica figlia non si fosse sposata non ci sarebbe
stato un erede per il regno della Cina.
I solutori di enigmi risolvono il problema del
governo della città: ci piace immaginare che per
questo Shakespeare abbia mutato il nome di
Apollonio in quello di Pericle, signore di Atene,
la polis che Edipo protegge dall'empia Tebe.
Abbiamo detto all'inizio che si tratta di storie
non semplici: in tutti questi casi si va oltre il
compimento del cammino eroico, come se la posta in
gioco fosse, con le nozze regali, l'esistenza e la
protezione del luogo della vita comune, il
benessere della città. La presenza del motivo
dell'incesto legato a questo tema ci porta a
ripensare al Freud di Totem e Tabù, alla barriera
dell'incesto come origine della società. Si tratta
di staccarsi dallo schema originario, e di
sviluppare rappresentazioni che permettano la
trasformazione, creando nuove figure. Jung pensava
a un essere umano caratterizzato da una facultas
signatrix fin dal momento in cui si costituiva
come essere umano; prima che dal dramma del
desiderio incestuoso, l'uomo junghiano è portato a
simbolizzare, a formare immagini, parole.
L'enigma e l'incesto s'intrecciano in un nodo
essenziale per l'eroe della conoscenza, del
viaggio di esplorazione. Il soggetto subisce un
destino di allontanamento dal suo regno, fino a
riconoscere l'ineluttabile potenza del destino,
nella miseria e nel lutto della separazione. È
un'immagine di abbandono totale quella di
Apollonio nel fondo della nave, solo, con unghie,
capelli e barba di quattordici anni. Di fronte
alla miseria di Edipo, che è l'eroe per eccellenza
della tragedia greca, i cittadini di Colono lo
compiangono come portatore della sofferenza umana:
Non esser nati è la sorte migliore
o almeno appena nati ritornare
a quel mondo da cui siamo venuti;
subito ritornare, perché quando
s'è perduta la bella giovinezza
con le lievi follie che ci recava,
ditemi quale pena
può essere scacciata via lontano?
Quale dolore manca?
(Sofocle, Edipo a Colono, in
Edipo re, Edipo a Colono, Antigone;
Garzanti, Milano 1987; p. 138)
Ai soggetti delle storie come queste è
indispensabile una straordinaria abilità
mercuriale per sciogliere l'enigma, ma non basta.
Nessuno dei tre ottiene pace attraverso quella, e
anche il regno conquistato è impossibile da
mantenere. Alla fine, il gioco degli affetti, la
compassione, l'amore liberamente espresso da
Turandot, portano lo scioglimento del conflitto
sigillato dall'enigma. Alla fine, dopo che si è
camminato, navigato, sofferto lungo la strada,
dopo che si sono raccontate storie.
Dopo un tempo che è narrazione, storia del
soggetto. Se non si dà spazio e tempo perché si
dispieghi la sua trama - dispersedly in various
countries - il conflitto è tragico e senza
appello.
Ciò che caratterizza l'assenza di racconto è
l'adesione automatica alle microstrutture
quotidiane, o il distacco automatico dalle stesse
strutture. Nel primo caso il romanzo è impossibile
perché descrive ossessivamente ogni gesto, di ogni
ora, di ogni giorno, di ogni anno, di tutta la
vita, ed è incontestabile in senso astratto che la
nostra trama abbia un debito con ciascuno di
questi frammenti. Rispetto alla possibilità di
conoscere e apprendere dall'esperienza, la
necessità di tener conto di tutti i dettagli
determina una posizione pseudo-razionale, marcata
da un'equazione simbolica a carattere paranoide.
Il soggetto non ha distanza dagli oggetti, si
affatica per stringere i minimi dettagli, per
resistere al terrore di perdersi
nell'indeterminatezza.
Nel secondo caso il romanzo è impossibile perché
in una formula si chiude il senso - o il non senso
- della vita: "Vanità della vanità, tutto è
vanità". Pensiamo alla depressione, quando il
senso manca perché gli oggetti sono
insignificanti, non meritano di essere articolati,
legati da una trama. Nel primo caso
l'impossibilità è un vortice che tende a perdersi
nell'infinito, nel secondo tende allo zero. L'uno
e l'altro rendono incomprensibile la vita, ma
entrambi sono concetti limite, impossibili da
catturare: ogni racconto che tiene implica una
rinuncia a possederli e insieme una rinuncia ad
annullarli, a definirli, a dimenticarli. Ogni
racconto si dipana, come uno stratagemma, filo
d'Arianna della lingua, nel labirinto della
realtà.
Il racconto ha una realtà complessa e ben poco
definita, ma dubitando della possibilità di farsi
contenitore e contenuto, lector, colui che
raccoglie, e auctor, colui che accresce, si
rinuncia al nutrimento del nostro sogno di verità,
senza il quale non si intraprende un cammino di
conoscenza.
I nessi che Jung ci ha insegnato a trovare tra la
psiche e le costruzioni culturali dell'uomo di
tutti i tempi, ineriscono forse a questo centro di
irradiazione: possiamo pensare alla letteratura
come luogo d'incontro con i nostri fantasmi
coniugati all'esperienza dei secoli, l'esperienza
che gli uomini nei secoli hanno fatto e raccontato
con gli stessi fantasmi. Il fatto che oggi tante
persone scrivano tentando di essere auctores
indica probabilmente lo stesso bisogno di identità
vera che trova spazio nella vicenda analitica.
Dobbiamo immettere la rappresentazione della
nostra identità in un contenitore, setting o
relazione letteraria - auctor/lector - dato che
ognuno ha da essere protagonistta della propria
storia, o non può trasformarsi. Il concetto di
Hillman, espresso ne Le storie che curano,
non ci porta a spiegare la psicoanalisi con la
letteratura, ma a cercare una radice comune al
racconto letterario e al racconto psicoanalitico.
Ci si incontra per comunicarsi il proprio esperire
in modo che, facendosi contenitore l'uno
dell'altro, si raccolga e si accresca il valore
della vita, della psiche. Si raccolga, lectores,
si accresca, auctores.
E c'è altro: ogni relazione che ha successo, nel
senso che succede, accade, è vera, nella quale ci
si fa alternativamente contenuto e contenitore
dell'altro, richiama il desiderio di relazioni
nuove, molteplici, in una dimensione esogamica che
articoli la vita comune e il desiderio del
soggetto, in un luogo dove l'ascolto sia
possibile: una città.
Le parole dello zio Anshel, scrittore ebreo per
ragazzi, ricordano la forza e la fragilità, il
dramma e la ricchezza della relazione tra il
narratore e l'ascoltatore, metafora della
relazione analitica come di ogni incontro tra
esseri umani, che vogliono e possono comprendersi
nella loro diversità e nella loro identità:
Più non esistono al mondo storie
semplici. Ed ora mi ascolti, e non
m'interrompa, di grazia, ad ogni piè sospinto.
NOTE
- Nota 1
- Il tema e le storie di questo articolo sono
state presentate nella conferenza Fiaba e
romanzo. Trasformazioni e costanti del
discorso interiore, il 30 gennaio 1993
presso l'Istituto Psicoanalitico di Psicodramma
e Attività Espressive di Firenze, del quale Rappresentazioni
è la rivista.
- Nota 2
- Nel lavoro di gruppo di ricerca permanente che
ispira l'orientamento teorico di questa rivista
è preminente l'attenzione rivolta alla funzione
eidopoietica, rappresentativa, della psiche. Per
alcune formulazioni di quanto segueè doveroso
far riferimento alla ricerca epistemologica,
centrata sulla realtà trasformazionale presente
nel lavoro analitico, attualmente condotta da
chi scrive con Silvana Calori e Sebastiano
Tilli.
- Nota 3
- Tra i modelli scientifici che si occupano di
fenomeni complessi, si fa riferimento in
particolare alla Teoria delle catastrofi
di René Thom: Stabilità strutturale e
morfogenesi (1972); tr. it. Einaudi,
Torino 1980; Modelli matematici della
morfogenesi; tr. it. Einaudi, Torino 1985.
- Nota 4
- Il detto comune, secondo il quale sognando la
morte di una persona le si allunga la vita,
potrebbe avere la funzione di addolcire il
turbamento che questo tipo di sogno provoca,
bilanciando in qualche modo il contatto
perturbante con la pulsione distruttiva.
- Nota 5
- Quasi con le stesse parole Shahrazad risponde
al visir suo padre quando cerca di impedirle di
andare in sposa al crudele sultano Shahriyar,
che usava uccidere alel prime luci dell'alba la
fanciulla presa in sposa al tramonto: "Per Dio,
padre mio, fammi sposare questo re. O vivrò, o
servirò, sacrificandomi, da riscatto alle figlie
dei musulmani, e sarò causa della loro salvezza
da lui". (Le Mille e una notte, cit.,
vol. I, p. 7)
- Nota 6
- Si può osservare che Ulisse è un protagonista
bifronte, volto sia all'orizzonte atemporale del
mito che a quello storico del romanzo. Nel suo
viaggio patisce e invecchia, ma allo stesso
tempo, per l'intervento di Atena, ringiovanisce
e si rinvigorisce più volte. Il tempo dell'Odissea
oscilla tra il tempo storico, umano, e il
tempo astorico, mitico e divino.
- Nota 7
- La definizione di presente assoluto
come tempo dell'acting psicotico è di Silvana
Calori. Se la personalità è dominata da questo
stile il soggetto vive una condizione tragica di
coazione a ripetere, verso la morte. Come per
ogni fenomeno patologico è possibile osservare
frammenti di presente assoluto nella persona normale:
basta pensare all'esplosione di collera, quando
ci si scaglia contro un bersaglio in maniera
iperbolica, totalizzante. Ogni situazione
dominata
- da un'emozione violenta è in qualche modo un
presente assoluto, e gli avverbi che ne
caratterizzano il discorso sono sempre e
mai.
- Nota 8
- Per lo spunto di questa riflessione ringrazio
Silvana Calori, che mi ha fato notare che nessun
personaggio di fiaba ha un cognome.
- Nota 9
- "Io nato a Tiro, chiamato Apollonio, sin dalla
mia adolescenza avendo compreso ogni scienza, e
non essendocene alcuna, che sia praticata dai
nobili e dai re, che io non conoscessi, invero
scioglievo l'enigma del re Antioco e avrei avuta
in sposa sua figlia. Ma costui, unito a lei con
la più turpe e infame inclinazione ... per
empietà è divenuto coniuge di sua figlia. Anche
me tramava di uccidere". (Trad. mia)
- Nota 10
- "Non sono vipera eppur mi pasco | della carne
della madre ond'io nasco. | Cercai un marito e
la maritale | sua tenerezza trovai in un padre.
| Lui è padre, figlio, sposo e amante | io
madre, figlia e sposa nonostante. | Come ciò
possa essere in due persone, | se tu vuoi vivere
danne la ragione". Trad. di Salvatore Rosati, Shakespeare,
Tutte le opere, a cura di Mario Praz,
Sansoni, Firenze 1989; p. 1087.
Nota 11
Per il tema
dell’identità involucro vedi il mio
articolo Un istante prima
di svegliarsi. Analisi della storia
del principe calligrafo; in Rappresentazioni. Studi
psicoanalitici, n. 3, Edizioni
ETS, Pisa 1993.
Nota 12
Si tratta del Racconto del terzo mendicante,
contenuto nella Storia del facchino e delle
ragazze, nelle Mille e una notte,
prima versione integrale dall'arabo
diretta da
Francesco Gabrieli; Einaudi, Torino 1980; 4 voll.;
vol. I, pp. 64 sgg. Inoltre, nella Legenda
Aurea di Jacopo da Varagine, viene
incenerita da un
fulmine una madre che, dopo aver chiesto
inutilmente rapporti incestuosi al proprio figlio,
lo accusa di aver tentato di violentarla. (Leggenda
Aurea, trad. it.di
C. Lisi, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze
1990, 2 voll.; vol. I, p. 14)
- Nota 13
- La condizione di vergogna successiva al
tradimento viene rappresentata come
incompatibile con l'esercizio del potere regale
anche nelle Mille e una notte. Quando i
sultani Shahriyar e Shahzaman subiscono il
tradimento delle loro spose, lasciano il regno e
si mettono in viaggio per il mondo, perché, come
dice Shahriyar: "...a nulla ci serve più il
regno". (Le Mille e una notte, cit., vol.
I, p. 5).
- Nota 14
- Possiamo osservare che la fine della grande
fortuna del romanzo antico greco e latino
coincide in Europa con la nascita e la
diffusione delle fiabe come genere letterario.
Vorrei ipotizzare un passaggio di testimone tra
i due generi: una parte della rappresentazione
psicologica collettiva del romanzo antico viene
espressa dalla fiaba. In questo senso un'altra
parte, quella relativa alla vicenda, al viaggio,
di formazione, del soggetto, viene rappresentata
dal romanzo moderno, in primo luogo da Don
Chisciotte.
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