[...]
La partenza del maggiore Bright
Dai Cavaradossi era arrivato un
maresciallo dei carabinieri che aveva disertato.
La Tina non voleva ospitarlo, le sembrava un
rischio troppo grande, ma Artemio aveva insistito:
l'uomo era parente di una sua cognata, che gli
aveva mandato a dire se poteva nasconderlo, perché
se i fascisti lo avessero preso non ne sarebbe
uscito vivo. L'ex maresciallo aveva la barba
lunga, era stracciato e magrissimo. Non veniva
nemmeno a tavola, stava nascosto nel solaio e la
Tina gli portava lassù qualcosa da mangiare. A
volte si dimenticavano che ci fosse. Il maggiore
Bright chiese se il maresciallo era dalla loro
parte e Nino si mise a ridere e disse: "Quello
vuole solo nascondersi, deve averne viste tante
che gli è passata anche la voglia di parlare. Ci
sono altri nascosti come lui nelle case, che
aspettano la liberazione senza fare nulla, si
contentano di mangiare qualcosa, giusto per
sopravvivere. Non si può mica obbligarli a
combattere! Il mio amico Nanni, Achille, quello
che ti ho fatto conoscere ieri, aveva preso un
disertore che stava per arruolarsi nelle brigate
nere. Volevano impiccarlo, ma lui ha giurato che
si sarebbe chiuso in solaio a casa sua e che ne
sarebbe uscito solo alla fine della guerra. Così
lo hanno accompagnato a casa e hanno detto a sua
madre che lo tenesse ben fermo, perché appena lo
avessero visto in giro gli avrebbero sparato".
Bright scuoteva la testa, accanto alle crudeltà,
ai processi sommari, alle esecuzioni, c'erano
storie incredibili, che facevano pensare a dei
bambini che giocano alla guerra. Chi mai avrebbe
saputo descrivere quale fenomeno incredibile era
la lotta di resistenza da quelle parti?
Cavaradossi si mise a raccontare di quella volta
che un gruppo di partigiani di Concordia si era
incontrato con alcuni partigiani di Revere.
Ciascuno dei due comandanti aveva intimato l'ALT e
chiesto la parola d'ordine, ma un gruppo aveva la
parola d'ordine della provincia di Mantova,
l'altro quella di Modena. Avevano già impugnato le
armi, ciascuno pensava che gli altri potessero
essere brigatisti neri, fino a che uno di Revere
aveva riconosciuto la voce di un suo amico e lo
aveva chiamato per nome: solo allora si erano
tranquillizzati.
Nino restava in silenzio, contrariamente al suo
solito, sperando che il racconto finisse presto,
che si passasse a un altro argomento, invece
Bright si divertiva, e Cavaradossi allungava la
storia con tanti particolari, di come dopo si
erano rallegrati perché non era capitata una
tragedia. Perché Cavaradossi aveva tirato fuori
quella storia, che gli riapriva la sua ferita,
dell'uomo ucciso solo perché non aveva detto la
parola d'ordine? Quando Cavaradossi concluse
dicendo: "Ci vuole poco ad accopparsi, troppo
poco", Nino parlò all'improvviso, quasi senza
averci pensato: "A me è capitato di uccidere un
innocente perché non sapeva la parola d'ordine".
Era successo nell'aprile del 1944. Nino tornava
alla Ca' Bianca dopo essere stato a una riunione
da Borselli per programmare un attacco alla
caserma di Sant'Antonio in Mercadello, dove si
erano fermati sei tedeschi con una camionetta. Era
arrivato a meno di un chilometro dalla Ca' Bianca
quando aveva sentito un fischio. Un piviere
dorato? poi il fischio si era ripetuto e gli era
sembrato che qualcuno si muovesse lungo il ciglio
del canale d'irrigazione, tra le canne. Aveva
chiesto: "Chi va là?", e non aveva sentito
risposta. L'aveva gridato più forte, chiedendo la
parola d'ordine: l'altro aveva risposto dicendo
che era un amico, e lui aveva fatto fuoco. Allora
qualcuno aveva gridato in lontananza: "Nino, Nino,
cos'hai fatto! non sparare, sono Primo!". L'uomo
che Nino aveva ucciso era un amico di Primo che
era tornato dal fronte e voleva unirsi a loro.
"Quella notte, concluse Nino, ho avuto voglia di
non essere mai nato".
Intorno alla tavola si fece silenzio, poi la Tina
disse: "Nino, bisognerebbe che tutti avessero
coscienza come te, lo dicono in tanti, lo sai..."
Bright annuiva, poi disse: "Vuoi dirmi perché hai
ucciso un innocente?". "Veniva avanti nel buio, e
non diceva la parola d'ordine, ho sparato e l'ho
ucciso. Avrei dovuto aspettare, era una notte
tranquilla". Bright disse: "E se lui fosse stato
un nemico e ti avesse scaricato addosso la sua
pistola?". "Grazie Bright," disse Nino, "ma non
era un repubblichino né un tedesco. E non avrebbe
fatto fuoco".
"E' la guerra. Tutti noi vorremmo che la guerra
fosse giusta, impossibile," disse l'americano, "ma
la penso come Tina, e anzi vorrei che tutti qua
fossero come te. Farò tutto possibile perché il
prossimo lancio porti a voi nuove armi. Sei un
grande soldato, uno dei migliori che ho
incontrato, comandante Nino".
Era la prima volta che Nino aveva sentito il
desiderio di parlare di quella notte tragica, di
cui si vergognava e che avrebbe voluto cancellare,
come un incubo. Nino si sentiva grato a Bright,
che aveva fiducia davvero in lui e nella
resistenza della Bassa modenese, se dopo due
settimane che viveva in mezzo a loro aveva deciso
che meritavano un lancio di armi, ce n'era bisogno
davvero. Per fortuna non tutti gli americani erano
come il generale Alexander.
Sdraiato nel rifugio, accanto a Bright che si era
subito addormentato, Nino ricordava l'autunno del
1943, quando era già tornato da Modena e tutto
sembrava così appassionante, e facile, quando si
pensava che la pace sarebbe venuta in poche
settimane.
Le uniche armi che avevano allora erano quelle che
lui e altri che la pensavano allo stesso modo
avevano portato via di nascosto dalla caserma.
Rivedeva i volti di tanti ragazzi stranieri che in
quel periodo passavano per la Valle, fuggiti dai
campi di prigionia tedeschi. Perfino qualche
tedesco capitava da loro, affermando che non era
mai stato per Hitler, e che ora non voleva più
combattere. Si sarebbero fermati con loro anche
due francesi, ma li avevano fatti ripartire perché
non sapevano andare in bicicletta. Poi avevano
ospitato due polacchi malati, forse di sifilide,
li avevano fatti curare nell'asilo di Concordia,
c'era una suora che faceva anche l'infermiera
all'ospedale. E tanti italiani non volevano
ripartire per il fronte, o non volevano essere
arruolati nell'esercito della Repubblica di Salò:
molti di loro erano diventati partigiani. Poi
avevano fatto incursione nell'ufficio
dell'anagrafe a Concordia e a San Possidonio,
distruggendo i ruolini di leva, così era diventato
troppo difficile per i repubblichini perseguitare
i ragazzi che non volevano combattere quella
sporca guerra accanto ai tedeschi.
In ottobre Borselli lo aveva chiamato per
incaricarlo di portare sano e salvo a Ferrara un
colonnello inglese, Chatwin, che era in missione
segreta. Il colonnello Chatwin aveva un
meraviglioso fucile automatico, uno sten col
silenziatore che si piegava in due con un solo
gesto: si poteva nascondere dappertutto, sembrava
fatto apposta per i partigiani. Il colonnello lo
aveva fatto provare a Nino, che se ne era
innamorato.
Nino gli aveva procurato una bicicletta ed erano
partiti insieme, lui davanti con l'unico mitra di
tutta la Bassa, e il colonnello dietro. Lungo la
statale Nino aveva usato il mitragliatore diverse
volte, e il colonnello ogni volta che stendeva
qualcuno diceva: "Good! Bene, molto bene Nino!". A
Ferrara, il colonnello si era levato lo sten e lo
aveva dato a Nino insieme a una delle sue colt,
dicendo: "Good luck, buona fortuna partigiano!".
Nino ricordava la gioia che aveva provato: il
colonnello alleato lo considerava un soldato vero!
e ora questo era capitato di nuovo con Bright, che
credeva nella lotta partigiana, e gli avrebbe
fatto mandare anche armi, armi nuove, adatte a
loro!
Nino quella notte sognò che era venuta la
liberazione, era primavera e lui tornava dai suoi
genitori. Aveva stivali alti e una giubba militare
con le stellette, e al suo fianco pendeva la
sciabola. "Cum' at' sé bel! come sei bello!",
esclamava sua madre, mentre suo padre sorrideva
con le lacrime agli occhi e diceva: "Sono
orgoglioso di te, Nino, sei proprio un comandante,
più importante di quello al quale io facevo
l'attendente nella prima guerra mondiale", e Nino
li abbracciava, e poi accendeva la radio e si
mettevano a ballare. Ma una donna entrava, non era
Gemma, era un donna giovanissima ma vestita di
nero, col viso velato da un pizzo molto bello. Lui
la faceva ballare, e si sentiva leggero, solo
voleva vedere il viso della donna, che invece gli
scompariva tra le braccia all'improvviso,
lasciandolo solo.
La voce di Tina svegliò lui e Bright per la
colazione, c'era il latte appena munto, e su in
cucina, accanto al fuoco, era seduta Giuditta,
infreddolita, avvolta in uno scialle scuro.
L'aveva portata Armando, che era venuto a prendere
Bright con un carro da morto. "E' il mezzo più
sicuro che abbiamo in questo momento, l'abbiamo
requisito alle pompe funebri di Mirandola", disse
Armando. "O.K., va bene," disse il maggiore, "non
sono superstizioso, possiamo andare con quel
macchinone con la croce...". Tutti risero, e Nino
guardò Giuditta: "Ciao comandante, volevo salutare
il maggiore Bright", gli disse, e poi,
rivolgendosi all'americano: "E' stato bello
parlare con te, maggiore Bright, è stato bello per
me conoscerti. Porta con te il nostro ricordo,
anche noi ti ricorderemo". Bright non parlava,
annuiva e faceva buffi gesti con le braccia,
faceva finta di non essere commosso. Nino si
teneva in disparte, Bright alla fine lo chiamò, e
stringendogli la mano disse: "You're the best,
comandante Nino, addio!". Fu Giuditta che più
tardi spiegò: "Ha detto che sei il migliore"
[...]
Il lancio
Il lancio era stato fissato al
Ponte alla Pioppa per l'una di notte dell'11
febbraio 1945, purché non ci fosse nebbia. E ce
n'era stata fino al giorno prima, quando il sole
invernale l'aveva dissolta, mostrando gli alberi
coperti da due dita di brina, simile alla neve, ma
più lucente, ghiacciata. Il freddo sembrava
alleato dei tedeschi, quell'inverno non voleva
allentare la morsa. Ma il cielo restò chiaro, e la
nebbia non tornò all'imbrunire, venne invece
Armando col solito camioncino a prendere il
comandante. Con lui c'era Giuditta, che si era
fatta portare con la scusa che aveva voglia di
parlare un po' con la Tina Cavaradossi, ma si
sentiva angosciata, come se quel lancio
nascondesse un pericolo per Nino.
Quella sera c'erano solo due aringhe da dividere
in sei per accompagnare la polenta, e Agenore
raccontò una cosa che gli diceva suo padre, di
quando era piccolo. A quei tempi un'aringa bastava
per una settimana: si appendeva con un filo al
lume al centro della tavola, e tutti ci
accostavano la fetta a turno per insaporirla. Il
bambino più piccolo una volta aveva tenuto per
tanto tempo la fetta attaccata all'aringa sospesa,
e allora suo nonno gli aveva detto: "Sgòrd,
ingordo, vuoi scoppiare?". Mentre ridevano Armando
disse che anche suo nonno raccontava la stessa
storia, e tutti risero ancora di più.
Dopo cena Nino e Armando partirono, Giuditta
rimase alla finestra a salutarli mentre si
allontanavano sulla strada tra i campi bianchi di
brina. Sarebbero tornati prima di giorno, se
andava tutto bene. Giuditta era inquieta, e lo
disse alla Tina, che cercò di rassicurarla, ma la
ragazza non riuscì a prendere sonno.
Oltre a quel camioncino, i partigiani avevano un
carro tirato da un somaro, un mulo, e due carri
funebri, quello di Mirandola e quello di
Concordia. Questa volta ci sarebbero state armi
nuove, oltre alla roba da mangiare, e bisognava
essere ben pronti a portarle al sicuro. Con Nino e
Armando c'era Primo, il commissario politico
Borselli, e due compagni partigiani del G.A.P. di
Disvetro. Erano tutti fieri di aver meritato quel
lancio, l'arrivo delle armi avrebbe alzato il
morale di tutti. Nelle ultime settimane c'erano
stati problemi: dei partigiani nuovi si erano
presentati in una casa armati e avevano chiesto
dei soldi per la Resistenza. Per fortuna i
proprietari erano antifascisti ed erano andati a
chiedere spiegazioni da Borselli. Ma quanti altri
erano stati derubati? e quanti si erano prestati a
questo gioco? I partigiani avevano fatto un
processo, e avevano deciso di fucilare quei due
ladri, per dare l'esempio. A primavera ci sarebbe
stata la liberazione, mancavano ormai uno o due
mesi, si trattava di resistere. Giorè Boschieri
aveva litigato con Borselli, voleva che la gente
non girasse armata facendo quello che voleva: un
uomo, solo perché era stato direttore della Banca
durante il fascismo, era stato ucciso in casa sua,
mentre guardava dalla finestra, da una raffica di
mitragliatrice. Nino diceva che bisognava
combattere per difendere la gente, e alla fine
della guerra chi doveva pagare avrebbe pagato
secondo giustizia, anche se era stato un
partigiano. Il lavoro politico aumentava, e
ell'imminenza della liberazione tornavano
contrasti vecchi e ne nascevano di nuovi, mentre
si combatteva ancora per sopravvivere.
Ma ora si doveva pensare al lancio: a mezzanotte
tutti erano al Ponte alla Pioppa, e cominciarono
ad accendere dei fuochi per gli aerei. Ne
arrivarono due all'ora stabilita, e scaricarono
una quantità di pacchi mai vista: carne in
scatola, cioccolata, latte in polvere, caffè,
caramelle, gallette... ma neanche una pistola.
"Accidenti al maggiore Bright!" disse Armando, "ci
ha preso in giro!". "No," disse Nino nascondendo
la sua delusione, "se lui avesse potuto ce le
avrebbe fatte mandare le armi. E' che Alexander
vuole sfamarci un po', non aiutarci a combattere".
Delusi, caricarono tutti i pacchi sui carri
funebri e sugli altri mezzi, poi partirono:
davanti alla colonna c'erano Nino e Armando sul
camioncino, i due partigiani di Disvetro guidavano
i carri funebri, Borselli era sul carro col somaro
e Primo tirava il mulo chiudendo la fila.
Procedevano lentamente, ma quando furono
all'altezza delle case della Madonna della Spina
il mulo, che era stato requisito una settimana
prima da quelle parti, diede uno strattone a Primo
e si lanciò verso la sua stalla con tutte le
confezioni di cioccolata. Primo si mise a
rincorrerlo, gridò: "Questo mulo della malora
vuole farmi correre per tre chilometri, ma giuro
che lo riacchiappo! Nino, mi dispiace non venire
con te alla Ca' Bianca, ma ci vediamo domani!".
Nino e Armando ridevano pensando che il mulo aveva
disertato e si era preso anche la cioccolata, ma
Primo lo avrebbe convinto a ripensarci. Poi toccò
ai due carri funebri lasciare Nino per andare a
Disvetro, le casse erano state contate e sarebbero
state distribuite ai diversi G.A.P. Erano le
quattro di notte quando il camioncino e il carro
tirato dal somaro arrivarono alla Ca' Bianca.
Giuditta era ancora sveglia e corse ad aprire la
porta, felice che le sue paure fossero prive di
ragione. "Avete trovato nessun fascista? quante
armi hanno lanciato?". "Purtroppo nessuna
arma, nemmeno questa volta, ma è andato tutto
bene. Cercheremo di resistere al meglio con quel
poco che abbiamo", le rispose Nino toccando le due
pistole e lo sten che portava come sempre. Si
alzarono i Cavaradossi, e aiutarono a nascondere
le casse sotto la paglia, nel fienile. Poi
andarono nel rifugio con Nino, Armando e Borselli,
e si addormentarono.
Giuditta era felice che tutto fosse andato liscio,
e pregustava la gioia di rivedere Nino la mattina
dopo, sarebbero stati a parlare insieme davanti al
fuoco. Mentre si stava addormentando sentì una
voce da fuori: "Cavaradossi! Agenore!". Chi poteva
essere? si affacciò la Tina che domandò: "Chi
siete, che volete? è notte!". L'uomo gridò: "Qui
nascondete dei fascisti, sono venuto a
prenderli!". "Ma chi vi ha mandato?" disse
Agenore, non lo sapete che qui ci sono i
partigiani? altro che fascisti!", e dicendo così
aveva fatto segno alla moglie di andare ad
avvertire Nino e gli altri.
Anche Giuditta si era alzata ed era corsa in
cucina dietro alla Tina, che si era diretta
all'acquaio, sotto al quale partiva un tubo di
ferro che arrivava nel rifugio, per parlare con
Nino.
"Nino, svegliati, Armando, Borselli,
svegliatevi!". Nino chiese: "Che c'è Tina?".
"Nino, non mi piace, c'è uno armato fino ai denti
che non conosciamo, ma ci ha chiamati per nome,
dice che cerca i fascisti, ma come mai, chi glielo
ha detto, non sa che qui c'è il comando?". "Tina,"
disse Nino, "cercate di trattenerlo che intanto
salgo io". Il comandante si mise i pantaloni e
imbracciò lo sten, preparandosi a salire mentre si
svegliavano anche i suoi compagni. Agenore gridò:
"Tina! Tina, Giuditta! fermatelo, è entrato in
casa!". Le due donne lo sentirono entrare in
cucina, gli si pararono davanti ma lui corse verso
la stalla. "Ma siete impazzito, là c'è il rifugio
del comando della Bassa modenese! Fermatevi, non
vi abbiamo mai visto!". Spingendole da parte
l'uomo andò avanti, e mentre Nino saliva spalancò
la porta con due pistole spianate. Con lui
apparvero Tina e Giuditta, gridando, e Nino toccò
il grilletto. Ma si sentì colpire al petto,
un'esplosione nel cuore, cadeva, cadeva, in
un'imboscata.
Guardò verso Giuditta, che gridò il suo orrore,
vedendolo accasciarsi, la guardò per un istante,
lei corse su lui, gli
sollevò il collo, mentre il sangue intrideva
rapido la camiciola, e intanto Armando gridava:
"Assassino!", ma quello
lo colpì mentre saliva dal rifugio. Si sentì la
voce del commissario politico che diceva il suo
nome, e allora quello sconosciuto che aveva
ammazzato Nino e Armando si fermò di colpo, disse:
"Ma sono partigiani?" e cadde in ginocchio sulla
paglia intrisa di orina di vacca, gridando come un
pazzo: "Ho sbagliato! ho sbagliato!".
Giuditta teneva la testa di Nino, che non parlava
più, muoveva le labbra come se avesse sete, "Vuoi
bere Nino?" gli chiese Giuditta guardandolo, e
Nino fece di no con la testa. Poi cercò di dire
qualcosa ancora, allentò la presa sullo sten e la
sua testa si abbandonò sul braccio di Giuditta. La
Tina cercava di soccorrere Armando, che era ancora
vivo, ma sanguinava abbondantemente, teneva gli
occhi chiusi, ansimava. Agenore partì in
bicicletta per andare a cercare un dottore, ma
quando tornò anche Armando era morto.
Il partigiano sconosciuto era di Medolla, e disse
che era meglio se era morto lui, quando seppe chi
aveva ucciso. Forse cercava l'ex-maresciallo dei
carabinieri, quello che non scendeva nemmeno a
mangiare. Nella confusione della tragedia Giuditta
restò seduta con Nino fra le braccia,
accarezzandogli i capelli, sentiva che qualcosa di
lei era morto insieme al comandante. Era così
bello, sembrava addormentato, se non fosse stato
quel sangue colato a terra, sul pavimento della
stalla, mentre le vacche stolide continuavano a
dimenare la coda e a muggire, ruminando come
sempre. Non riuscivano a convincere Giuditta a
lasciare Nino, non voleva staccarsi, dovettero
portarla via con la forza, si faceva giorno quando
la lasciarono da Giorè, che alla notizia della
morte di Nino non disse una parola, e rimase muto
per tre giorni. Il commissario Borselli decise di
tenere il più possibile segreta la morte del
comandante, non voleva che si demoralizzassero i
partigiani della Bassa e i contadini che li
sostenevano: nessuno era amato come Nino.
[...]
|
IL
LIBRO E ALTRI RICORDI FAMILIARI
Rivedendo questa pagina tanti anni dopo la sua
scrittura, vado col pensiero alla cappella dedicata ai
giovani partigiani nel cimitero di Concordia sulla
Secchia, nella Bassa Modenese, terra d'origine di mio
padre Raul, fratello maggiore di Rino, lo zio che non
ho mai conosciuto, per il quale, su proposta di
Antonio Faeti, ho scritto questo romanzo. Lo zio Rino,
il cui nome è stato dato a mio fratello, a una mia
cugina di primo grado, e a un cugino e a una cugina di
secondo grado, è sempre stato presente nella mia
memoria, nello stesso 'reparto' di un altro zio,
Pietro, fratello maggiore della mia mamma, morto e
disperso in Grecia saltando in aria col treno che
l'avrebbe riportato in Italia per un attentato
partigiano.
Il ricordo delle due nonne, che cucivano e ricordavano
e piangevano e poi si asciugavano le lacrime e poi
potevano anche ridere poggiando il lavoro a maglia sul
grembo, è sempre presente nella mia mente, insieme al
rispetto costante dei miei genitori nei loro
confronti.
Lo zio Rino e lo zio Pietro erano anche insieme ai
santi e alle sante, come quelli del calendario, e non
avevo dubbi su come mi avrebbero amata, su come li
avrei amati. Questo li rendeva presenti con la loro
assenza, come le fotografie dello zio Rino - se ne era
fatte solo due nella vita - in camera della nonna
Linda, e quella dello zio Pietro nel medaglione al
collo della nonna Ada. Il nome che mi hanno dato le
onorava e mi invitava a onorarle, ormai a onorare la
loro memoria. Traducendo il romanzo di Tabish Khair
'Night of Happiness', che uscirà in italiano nei
prossimi mesi, e riflettendo sulla presenza degli
assenti - dei morti - come punto originario di
catastrofe di homo sapiens, da quando nel paleolitico
ha cominciato a elevare pietre gigantesche sulle
sepolture, in questi giorni collettivamente dedicati a
ricordare i nostri morti, desidero onorare la memoria
di Rino ricordando che gli sono dedicate la
scuola elementare di Concordia s. Secchia (immagine a
sinistra) e una
via di Modena. Una delle sue due fotografie col
suo nome è anche sul Sacrario
della Ghirlandina a Modena, e sul cippo che si trova a Mirandola.
Nell'immediato dopoguerra gli era stata intitolata la
Casa del Popolo, intitolazione che fu cancellata pochi
anni dopo, quando la Casa del Popolo si trasferì dalla
ex Caserma dei carabinieri ai nuovi locali, poco dopo
il ritorno dal campo di prigionia in Germania di mio
padre, che aveva aderito alla scissione saragattiana
di Palazzo Barberini del 1947.
Negli anni Settanta, al tempo del compromesso storico,
rappresentanti del Partito Comunista concordiese
vennero a chiedere ai miei nonni - mio padre, già
consigliere comunale socialdemocratico - al loro
arrivo si era alzato da tavola ed era andato a letto
per il riposo pomeridiano - di intitolare per la
seconda volta la Casa del Popolo allo zio Rino. Il mio
nonno, che aveva conosciuto sia il Lazzaretto di
Reggio Emilia che i primi miracolosi psicofarmaci,
parlava, la nonna annuiva scuotendo la testa. C'ero
anch'io a tavola, come spettatrice silente. Il nonno
disse di no, e i due 'compagni' proposero allora
l'intitolazione della scuola elementare. Il nonno
disse di sì, la nonna aggiunse in dialetto che
andava bene che 'd'i' putin' ricordassero il suo Rino.
Mi chiedo se l'attuale sfrangiamento della politica,
come se un filo tirato facesse disfare tutta una
coperta, non venga anche dalle forzature e dalle
menzogne che troneggiavano dal dopoguerra. Dalla
storia del nostro paese, a quella di tante, quasi
tutte, le famiglie, non c'è stato mai un vero accordo
su chi fosse giusto e chi ingiusto, chi fosse stato
giustamente onorato e ingiustamente trascurato. La mia
compagna di liceo, Licia Anticati, di famiglia
contadina come la mia, aveva uno zio morto
giovanissimo durante la Resistenza, che non ho
dimenticato scrivendo il romanzo. Ma non riposava
nella cappella dello zio Rino, dov'era anche la cugina
di mio padre, morta di malattia subito dopo la guerra,
che aveva
partecipato come staffetta alla resistenza
figlia del fratello della mia nonna, capo del CLN di
Concordia. La famiglia cattolica della mia amica, si
era opposta.
La mia famiglia pareva certa che lo zio Rino fosse
stato ucciso da quel partigiano vagante non per
errore, ma per ordine di altri partigiani che temevano
quel che avrebbe potuto rivelare il mio zio dopo la
guerra. Quando scrissi questo romanzo, il mio fratello
Rino, forte della sua investitura avvenuta attraverso
il nome, non mi risparmiò le sue critiche per non aver
abbracciato questa convinzione. Gli spiegai che la mia
indagine e il ricordo dei discorsi sentiti in casa -
sempre brevi e a voce bassa, e solo dei nonni e del
babbo - mi avevano convinto che era impossibile
raggiungere una certezza a questo riguardo. Mio
fratello mi aveva detto che se il babbo fosse stato
ancora vivo mi avrebbe diseredato. Con la perfidia
della sorella maggiore, dopo aver osservato che il
babbo mi aveva minacciato di questo per farmi smettere
di fumare, ma non aveva mai messo in atto questa
minaccia, avevo concluso dicendo a mio fratello che
poteva ben scrivere lui un altro libro. Mio fratello,
come mia madre e diversamente da me e da mio padre,
non ha mai pensato, forse nemmeno desiderato, di
scrivere e pubblicare alcunché.
Il mio piccolo romanzo me lo aveva chiesto Antonio
Faeti per i Delfini che dirigeva, ma poi lo aveva
rifiutato dicendomi che era troppo bello per il
profilo della collana. L'avevo dato volentieri al
Comune di Concordia, al quale l'aveva proposto un
partigiano che avevo intervistato per questo mio
lavoro, al quale poi avevo mandato una copia del
manoscritto. Nella presentazione alla quale partecipai
nel palazzo settecentesco del Comune di Concordia di
giovani ce n'erano pochi, ma i partigiani
sopravvissuti sembrava fossero venuti tutti, a
sorridermi grati per aver raccontato la loro storia,
almeno un po'. Qualche anno dopo il libro era stato
adottato come libro di lettura alla scuola media di
Concordia, e pochi anni fa fui invitata a parlare del
mio libro a San Possidonio per un 25 aprile. L'invito,
come scoprii quella sera, veniva da una giovane
assessore che aveva letto il libro in terza media.
L'unione dei miei genitori aveva lasciato separate le
loro posizioni politiche e la loro origine, ben di più
di quanto si potesse pensare. Come ci siamo civilmente
divisi i beni che ci avevano lasciato, come la casa
nella quale vivo e scrivo, ci siamo divisi la loro
eredità 'politica', e anche la convinzione sulla
ragione della morte dello zio Rino.
Che ancora sorride con lo zio Pietro, su un nuvola
piena di luce, bello come lui - i più belli, i morti
in guerra - e pensare a loro come quando ero bambina,
da me sola o sentendo le nonne, mi aiuta a sperare che
questa vita che si presenta così caotica e priva di
direzione possa fluire domani, come è fluita
finora.
Infine: il terremoto che ha flagellato la Bassa
Modenese e Concordia nel 2012 ha danneggiato il cimitero con la cappella dei
partigiani e delle staffette, dove riposa, se
non ricordo male, anche un soldato straniero.
Ancora una cosa. Mio padre ha pubblicato un libro che
ha scritto in sei mesi quando era stato costretto al
riposo dopo aver subito un intervento al cuore: Coltivare.
Di cuore è morto nel 1986, un anno dopo l'intervento,
pochi giorni dopo aver saputo da Giannozzo Pucci che
la LEF glielo avrebbe pubblicato. Il libro è stato
ristampato più volte ed è tuttora in vendita. Il babbo
aveva fatto in tempo a rinunciare ai diritti d'autore,
per facilitarne la diffusione: lo considerava utile, e
aveva ragione. Nella scheda che lo presenta online ci
sono alcune inutili inesattezze: la terra coltivata da
mio padre era circa due ettari, non se ne era
interessato granché, fino al momeineto in cui, in
maniera improvvisa, dopo un fastidioso prurito
conseguente all'irrorazione di non so che nel
pescheto, aveva deciso di cominciare a coltivarlo
senza pesticidi né concimi chimici. L'incontro con la
biodinamica era venuto dopo.
Mi piacerebbe somigliare al babbo e allo Rino, mi
piacerebbe credere che mi muovo per un movimento del
cuore, l'ideologia viene dopo, e conta meno.
Peretola,
3 novembre 2018
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