ADALINDA GASPARINI                PSICOANALISI E FAVOLE
Prefazione di Mino Milani
da NINO
LA VALLE ROSSA

Amministrazione Comunale di
Concordia s. Secchia (MO) 1995

[...]

La partenza del maggiore Bright

Dai Cavaradossi era arrivato un maresciallo dei carabinieri che aveva disertato. La Tina non voleva ospitarlo, le sembrava un rischio troppo grande, ma Artemio aveva insistito: l'uomo era parente di una sua cognata, che gli aveva mandato a dire se poteva nasconderlo, perché se i fascisti lo avessero preso non ne sarebbe uscito vivo. L'ex maresciallo aveva la barba lunga, era stracciato e magrissimo. Non veniva nemmeno a tavola, stava nascosto nel solaio e la Tina gli portava lassù qualcosa da mangiare. A volte si dimenticavano che ci fosse. Il maggiore Bright chiese se il maresciallo era dalla loro parte e Nino si mise a ridere e disse: "Quello vuole solo nascondersi, deve averne viste tante che gli è passata anche la voglia di parlare. Ci sono altri nascosti come lui nelle case, che aspettano la liberazione senza fare nulla, si contentano di mangiare qualcosa, giusto per sopravvivere. Non si può mica obbligarli a combattere! Il mio amico Nanni, Achille, quello che ti ho fatto conoscere ieri, aveva preso un disertore che stava per arruolarsi nelle brigate nere. Volevano impiccarlo, ma lui ha giurato che si sarebbe chiuso in solaio a casa sua e che ne sarebbe uscito solo alla fine della guerra. Così lo hanno accompagnato a casa e hanno detto a sua madre che lo tenesse ben fermo, perché appena lo avessero visto in giro gli avrebbero sparato".
Bright scuoteva la testa, accanto alle crudeltà, ai processi sommari, alle esecuzioni, c'erano storie incredibili, che facevano pensare a dei bambini che giocano alla guerra. Chi mai avrebbe saputo descrivere quale fenomeno incredibile era la lotta di resistenza da quelle parti? Cavaradossi si mise a raccontare di quella volta che un gruppo di partigiani di Concordia si era incontrato con alcuni partigiani di Revere. Ciascuno dei due comandanti aveva intimato l'ALT e chiesto la parola d'ordine, ma un gruppo aveva la parola d'ordine della provincia di Mantova, l'altro quella di Modena. Avevano già impugnato le armi, ciascuno pensava che gli altri potessero essere brigatisti neri, fino a che uno di Revere aveva riconosciuto la voce di un suo amico e lo aveva chiamato per nome: solo allora si erano tranquillizzati.
Nino restava in silenzio, contrariamente al suo solito, sperando che il racconto finisse presto, che si passasse a un altro argomento, invece Bright si divertiva, e Cavaradossi allungava la storia con tanti particolari, di come dopo si erano rallegrati perché non era capitata una tragedia. Perché Cavaradossi aveva tirato fuori quella storia, che gli riapriva la sua ferita, dell'uomo ucciso solo perché non aveva detto la parola d'ordine? Quando Cavaradossi concluse dicendo: "Ci vuole poco ad accopparsi, troppo poco", Nino parlò all'improvviso, quasi senza averci pensato: "A me è capitato di uccidere un innocente perché non sapeva la parola d'ordine".
Era successo nell'aprile del 1944. Nino tornava alla Ca' Bianca dopo essere stato a una riunione da Borselli per programmare un attacco alla caserma di Sant'Antonio in Mercadello, dove si erano fermati sei tedeschi con una camionetta. Era arrivato a meno di un chilometro dalla Ca' Bianca quando aveva sentito un fischio. Un piviere dorato? poi il fischio si era ripetuto e gli era sembrato che qualcuno si muovesse lungo il ciglio del canale d'irrigazione, tra le canne. Aveva chiesto: "Chi va là?", e non aveva sentito risposta. L'aveva gridato più forte, chiedendo la parola d'ordine: l'altro aveva risposto dicendo che era un amico, e lui aveva fatto fuoco. Allora qualcuno aveva gridato in lontananza: "Nino, Nino, cos'hai fatto! non sparare, sono Primo!". L'uomo che Nino aveva ucciso era un amico di Primo che era tornato dal fronte e voleva unirsi a loro. "Quella notte, concluse Nino, ho avuto voglia di non essere mai nato".
Intorno alla tavola si fece silenzio, poi la Tina disse: "Nino, bisognerebbe che tutti avessero coscienza come te, lo dicono in tanti, lo sai..." Bright annuiva, poi disse: "Vuoi dirmi perché hai ucciso un innocente?". "Veniva avanti nel buio, e non diceva la parola d'ordine, ho sparato e l'ho ucciso. Avrei dovuto aspettare, era una notte tranquilla". Bright disse: "E se lui fosse stato un nemico e ti avesse scaricato addosso la sua pistola?". "Grazie Bright," disse Nino, "ma non era un repubblichino né un tedesco. E non avrebbe fatto fuoco".
"E' la guerra. Tutti noi vorremmo che la guerra fosse giusta, impossibile," disse l'americano, "ma la penso come Tina, e anzi vorrei che tutti qua fossero come te. Farò tutto possibile perché il prossimo lancio porti a voi nuove armi. Sei un grande soldato, uno dei migliori che ho incontrato, comandante Nino".
Era la prima volta che Nino aveva sentito il desiderio di parlare di quella notte tragica, di cui si vergognava e che avrebbe voluto cancellare, come un incubo. Nino si sentiva grato a Bright, che aveva fiducia davvero in lui e nella resistenza della Bassa modenese, se dopo due settimane che viveva in mezzo a loro aveva deciso che meritavano un lancio di armi, ce n'era bisogno davvero. Per fortuna non tutti gli americani erano come il generale Alexander.
Sdraiato nel rifugio, accanto a Bright che si era subito addormentato, Nino ricordava l'autunno del 1943, quando era già tornato da Modena e tutto sembrava così appassionante, e facile, quando si pensava che la pace sarebbe venuta in poche settimane.
Le uniche armi che avevano allora erano quelle che lui e altri che la pensavano allo stesso modo avevano portato via di nascosto dalla caserma. Rivedeva i volti di tanti ragazzi stranieri che in quel periodo passavano per la Valle, fuggiti dai campi di prigionia tedeschi. Perfino qualche tedesco capitava da loro, affermando che non era mai stato per Hitler, e che ora non voleva più combattere. Si sarebbero fermati con loro anche due francesi, ma li avevano fatti ripartire perché non sapevano andare in bicicletta. Poi avevano ospitato due polacchi malati, forse di sifilide, li avevano fatti curare nell'asilo di Concordia, c'era una suora che faceva anche l'infermiera all'ospedale. E tanti italiani non volevano ripartire per il fronte, o non volevano essere arruolati nell'esercito della Repubblica di Salò: molti di loro erano diventati partigiani. Poi avevano fatto incursione nell'ufficio dell'anagrafe a Concordia e a San Possidonio, distruggendo i ruolini di leva, così era diventato troppo difficile per i repubblichini perseguitare i ragazzi che non volevano combattere quella sporca guerra accanto ai tedeschi.
In ottobre Borselli lo aveva chiamato per incaricarlo di portare sano e salvo a Ferrara un colonnello inglese, Chatwin, che era in missione segreta. Il colonnello Chatwin aveva un meraviglioso fucile automatico, uno sten col silenziatore che si piegava in due con un solo gesto: si poteva nascondere dappertutto, sembrava fatto apposta per i partigiani. Il colonnello lo aveva fatto provare a Nino, che se ne era innamorato.
Nino gli aveva procurato una bicicletta ed erano partiti insieme, lui davanti con l'unico mitra di tutta la Bassa, e il colonnello dietro. Lungo la statale Nino aveva usato il mitragliatore diverse volte, e il colonnello ogni volta che stendeva qualcuno diceva: "Good! Bene, molto bene Nino!". A Ferrara, il colonnello si era levato lo sten e lo aveva dato a Nino insieme a una delle sue colt, dicendo: "Good luck, buona fortuna partigiano!". Nino ricordava la gioia che aveva provato: il colonnello alleato lo considerava un soldato vero! e ora questo era capitato di nuovo con Bright, che credeva nella lotta partigiana, e gli avrebbe fatto mandare anche armi, armi nuove, adatte a loro!
Nino quella notte sognò che era venuta la liberazione, era primavera e lui tornava dai suoi genitori. Aveva stivali alti e una giubba militare con le stellette, e al suo fianco pendeva la sciabola. "Cum' at' sé bel! come sei bello!", esclamava sua madre, mentre suo padre sorrideva con le lacrime agli occhi e diceva: "Sono orgoglioso di te, Nino, sei proprio un comandante, più importante di quello al quale io facevo l'attendente nella prima guerra mondiale", e Nino li abbracciava, e poi accendeva la radio e si mettevano a ballare. Ma una donna entrava, non era Gemma, era un donna giovanissima ma vestita di nero, col viso velato da un pizzo molto bello. Lui la faceva ballare, e si sentiva leggero, solo voleva vedere il viso della donna, che invece gli scompariva tra le braccia all'improvviso, lasciandolo solo.
La voce di Tina svegliò lui e Bright per la colazione, c'era il latte appena munto, e su in cucina, accanto al fuoco, era seduta Giuditta, infreddolita, avvolta in uno scialle scuro. L'aveva portata Armando, che era venuto a prendere Bright con un carro da morto. "E' il mezzo più sicuro che abbiamo in questo momento, l'abbiamo requisito alle pompe funebri di Mirandola", disse Armando. "O.K., va bene," disse il maggiore, "non sono superstizioso, possiamo andare con quel macchinone con la croce...". Tutti risero, e Nino guardò Giuditta: "Ciao comandante, volevo salutare il maggiore Bright", gli disse, e poi, rivolgendosi all'americano: "E' stato bello parlare con te, maggiore Bright, è stato bello per me conoscerti. Porta con te il nostro ricordo, anche noi ti ricorderemo". Bright non parlava, annuiva e faceva buffi gesti con le braccia, faceva finta di non essere commosso. Nino si teneva in disparte, Bright alla fine lo chiamò, e stringendogli la mano disse: "You're the best, comandante Nino, addio!". Fu Giuditta che più tardi spiegò: "Ha detto che sei il migliore"

[...]



Il lancio

Il lancio era stato fissato al Ponte alla Pioppa per l'una di notte dell'11 febbraio 1945, purché non ci fosse nebbia. E ce n'era stata fino al giorno prima, quando il sole invernale l'aveva dissolta, mostrando gli alberi coperti da due dita di brina, simile alla neve, ma più lucente, ghiacciata. Il freddo sembrava alleato dei tedeschi, quell'inverno non voleva allentare la morsa. Ma il cielo restò chiaro, e la nebbia non tornò all'imbrunire, venne invece Armando col solito camioncino a prendere il comandante. Con lui c'era Giuditta, che si era fatta portare con la scusa che aveva voglia di parlare un po' con la Tina Cavaradossi, ma si sentiva angosciata, come se quel lancio nascondesse un pericolo per Nino.
Quella sera c'erano solo due aringhe da dividere in sei per accompagnare la polenta, e Agenore raccontò una cosa che gli diceva suo padre, di quando era piccolo. A quei tempi un'aringa bastava per una settimana: si appendeva con un filo al lume al centro della tavola, e tutti ci accostavano la fetta a turno per insaporirla. Il bambino più piccolo una volta aveva tenuto per tanto tempo la fetta attaccata all'aringa sospesa, e allora suo nonno gli aveva detto: "Sgòrd, ingordo, vuoi scoppiare?". Mentre ridevano Armando disse che anche suo nonno raccontava la stessa storia, e tutti risero ancora di più.
Dopo cena Nino e Armando partirono, Giuditta rimase alla finestra a salutarli mentre si allontanavano sulla strada tra i campi bianchi di brina. Sarebbero tornati prima di giorno, se andava tutto bene. Giuditta era inquieta, e lo disse alla Tina, che cercò di rassicurarla, ma la ragazza non riuscì a prendere sonno.
Oltre a quel camioncino, i partigiani avevano un carro tirato da un somaro, un mulo, e due carri funebri, quello di Mirandola e quello di Concordia. Questa volta ci sarebbero state armi nuove, oltre alla roba da mangiare, e bisognava essere ben pronti a portarle al sicuro. Con Nino e Armando c'era Primo, il commissario politico Borselli, e due compagni partigiani del G.A.P. di Disvetro. Erano tutti fieri di aver meritato quel lancio, l'arrivo delle armi avrebbe alzato il morale di tutti. Nelle ultime settimane c'erano stati problemi: dei partigiani nuovi si erano presentati in una casa armati e avevano chiesto dei soldi per la Resistenza. Per fortuna i proprietari erano antifascisti ed erano andati a chiedere spiegazioni da Borselli. Ma quanti altri erano stati derubati? e quanti si erano prestati a questo gioco? I partigiani avevano fatto un processo, e avevano deciso di fucilare quei due ladri, per dare l'esempio. A primavera ci sarebbe stata la liberazione, mancavano ormai uno o due mesi, si trattava di resistere. Giorè Boschieri aveva litigato con Borselli, voleva che la gente non girasse armata facendo quello che voleva: un uomo, solo perché era stato direttore della Banca durante il fascismo, era stato ucciso in casa sua, mentre guardava dalla finestra, da una raffica di mitragliatrice. Nino diceva che bisognava combattere per difendere la gente, e alla fine della guerra chi doveva pagare avrebbe pagato secondo giustizia, anche se era stato un partigiano. Il lavoro politico aumentava, e ell'imminenza della liberazione tornavano contrasti vecchi e ne nascevano di nuovi, mentre si combatteva ancora per sopravvivere.
Ma ora si doveva pensare al lancio: a mezzanotte tutti erano al Ponte alla Pioppa, e cominciarono ad accendere dei fuochi per gli aerei. Ne arrivarono due all'ora stabilita, e scaricarono una quantità di pacchi mai vista: carne in scatola, cioccolata, latte in polvere, caffè, caramelle, gallette... ma neanche una pistola.
"Accidenti al maggiore Bright!" disse Armando, "ci ha preso in giro!". "No," disse Nino nascondendo la sua delusione, "se lui avesse potuto ce le avrebbe fatte mandare le armi. E' che Alexander vuole sfamarci un po', non aiutarci a combattere". Delusi, caricarono tutti i pacchi sui carri funebri e sugli altri mezzi, poi partirono: davanti alla colonna c'erano Nino e Armando sul camioncino, i due partigiani di Disvetro guidavano i carri funebri, Borselli era sul carro col somaro e Primo tirava il mulo chiudendo la fila.
Procedevano lentamente, ma quando furono all'altezza delle case della Madonna della Spina il mulo, che era stato requisito una settimana prima da quelle parti, diede uno strattone a Primo e si lanciò verso la sua stalla con tutte le confezioni di cioccolata. Primo si mise a rincorrerlo, gridò: "Questo mulo della malora vuole farmi correre per tre chilometri, ma giuro che lo riacchiappo! Nino, mi dispiace non venire con te alla Ca' Bianca, ma ci vediamo domani!". Nino e Armando ridevano pensando che il mulo aveva disertato e si era preso anche la cioccolata, ma Primo lo avrebbe convinto a ripensarci. Poi toccò ai due carri funebri lasciare Nino per andare a Disvetro, le casse erano state contate e sarebbero state distribuite ai diversi G.A.P. Erano le quattro di notte quando il camioncino e il carro tirato dal somaro arrivarono alla Ca' Bianca. Giuditta era ancora sveglia e corse ad aprire la porta, felice che le sue paure fossero prive di ragione. "Avete trovato nessun fascista? quante armi hanno lanciato?". "Purtroppo nessuna
arma, nemmeno questa volta, ma è andato tutto bene. Cercheremo di resistere al meglio con quel poco che abbiamo", le rispose Nino toccando le due pistole e lo sten che portava come sempre. Si alzarono i Cavaradossi, e aiutarono a nascondere le casse sotto la paglia, nel fienile. Poi andarono nel rifugio con Nino, Armando e Borselli, e si addormentarono.
Giuditta era felice che tutto fosse andato liscio, e pregustava la gioia di rivedere Nino la mattina dopo, sarebbero stati a parlare insieme davanti al fuoco. Mentre si stava addormentando sentì una voce da fuori: "Cavaradossi! Agenore!". Chi poteva essere? si affacciò la Tina che domandò: "Chi siete, che volete? è notte!". L'uomo gridò: "Qui nascondete dei fascisti, sono venuto a prenderli!". "Ma chi vi ha mandato?" disse Agenore, non lo sapete che qui ci sono i partigiani? altro che fascisti!", e dicendo così aveva fatto segno alla moglie di andare ad avvertire Nino e gli altri.
Anche Giuditta si era alzata ed era corsa in cucina dietro alla Tina, che si era diretta all'acquaio, sotto al quale partiva un tubo di ferro che arrivava nel rifugio, per parlare con Nino.
"Nino, svegliati, Armando, Borselli, svegliatevi!". Nino chiese: "Che c'è Tina?". "Nino, non mi piace, c'è uno armato fino ai denti che non conosciamo, ma ci ha chiamati per nome, dice che cerca i fascisti, ma come mai, chi glielo ha detto, non sa che qui c'è il comando?". "Tina," disse Nino, "cercate di trattenerlo che intanto salgo io". Il comandante si mise i pantaloni e imbracciò lo sten, preparandosi a salire mentre si svegliavano anche i suoi compagni. Agenore gridò: "Tina! Tina, Giuditta! fermatelo, è entrato in casa!". Le due donne lo sentirono entrare in cucina, gli si pararono davanti ma lui corse verso la stalla. "Ma siete impazzito, là c'è il rifugio del comando della Bassa modenese! Fermatevi, non vi abbiamo mai visto!". Spingendole da parte l'uomo andò avanti, e mentre Nino saliva spalancò la porta con due pistole spianate. Con lui apparvero Tina e Giuditta, gridando, e Nino toccò il grilletto. Ma si sentì colpire al petto, un'esplosione nel cuore, cadeva, cadeva, in un'imboscata.
Guardò verso Giuditta, che gridò il suo orrore, vedendolo accasciarsi, la guardò per un istante, lei corse su lui, gli
sollevò il collo, mentre il sangue intrideva rapido la camiciola, e intanto Armando gridava: "Assassino!", ma quello
lo colpì mentre saliva dal rifugio. Si sentì la voce del commissario politico che diceva il suo nome, e allora quello sconosciuto che aveva ammazzato Nino e Armando si fermò di colpo, disse: "Ma sono partigiani?" e cadde in ginocchio sulla paglia intrisa di orina di vacca, gridando come un pazzo: "Ho sbagliato! ho sbagliato!".
Giuditta teneva la testa di Nino, che non parlava più, muoveva le labbra come se avesse sete, "Vuoi bere Nino?" gli chiese Giuditta guardandolo, e Nino fece di no con la testa. Poi cercò di dire qualcosa ancora, allentò la presa sullo sten e la sua testa si abbandonò sul braccio di Giuditta. La Tina cercava di soccorrere Armando, che era ancora vivo, ma sanguinava abbondantemente, teneva gli occhi chiusi, ansimava. Agenore partì in bicicletta per andare a cercare un dottore, ma quando tornò anche Armando era morto.
Il partigiano sconosciuto era di Medolla, e disse che era meglio se era morto lui, quando seppe chi aveva ucciso. Forse cercava l'ex-maresciallo dei carabinieri, quello che non scendeva nemmeno a mangiare. Nella confusione della tragedia Giuditta restò seduta con Nino fra le braccia, accarezzandogli i capelli, sentiva che qualcosa di lei era morto insieme al comandante. Era così bello, sembrava addormentato, se non fosse stato quel sangue colato a terra, sul pavimento della stalla, mentre le vacche stolide continuavano a dimenare la coda e a muggire, ruminando come sempre. Non riuscivano a convincere Giuditta a lasciare Nino, non voleva staccarsi, dovettero portarla via con la forza, si faceva giorno quando la lasciarono da Giorè, che alla notizia della morte di Nino non disse una parola, e rimase muto per tre giorni. Il commissario Borselli decise di tenere il più possibile segreta la morte del comandante, non voleva che si demoralizzassero i partigiani della Bassa e i contadini che li sostenevano: nessuno era amato come Nino.

[...]



IL LIBRO E ALTRI RICORDI FAMILIARI


Rivedendo questa pagina tanti anni dopo la sua scrittura, vado col pensiero alla cappella dedicata ai giovani partigiani nel cimitero di Concordia sulla Secchia, nella Bassa Modenese, terra d'origine di mio padre Raul, fratello maggiore di Rino, lo zio che non ho mai conosciuto, per il quale, su proposta di Antonio Faeti, ho scritto questo romanzo. Lo zio Rino, il cui nome è stato dato a mio fratello, a una mia cugina di primo grado, e a un cugino e a una cugina di secondo grado, è sempre stato presente nella mia memoria, nello stesso 'reparto' di un altro zio, Pietro, fratello maggiore della mia mamma, morto e disperso in Grecia saltando in aria col treno che l'avrebbe riportato in Italia per un attentato partigiano.
Il ricordo delle due nonne, che cucivano e ricordavano e piangevano e poi si asciugavano le lacrime e poi potevano anche ridere poggiando il lavoro a maglia sul grembo, è sempre presente nella mia mente, insieme al rispetto costante dei miei genitori nei loro confronti.
Lo zio Rino e lo zio Pietro erano anche insieme ai santi e alle sante, come quelli del calendario, e non avevo dubbi su come mi avrebbero amata, su come li avrei amati. Questo li rendeva presenti con la loro assenza, come le fotografie dello zio Rino - se ne era fatte solo due nella vita - in camera della nonna Linda, e quella dello zio Pietro nel medaglione al collo della nonna Ada. Il nome che mi hanno dato le onorava e mi invitava a onorarle, ormai a onorare la loro memoria. Traducendo il romanzo di Tabish Khair 'Night of Happiness', che uscirà in italiano nei prossimi mesi, e riflettendo sulla presenza degli assenti - dei morti - come punto originario di catastrofe di homo sapiens, da quando nel paleolitico ha cominciato a elevare pietre gigantesche sulle sepolture, in questi giorni collettivamente dedicati a ricordare i nostri morti, desidero onorare la memoria di Rino ricordando che gli sono dedicate la scuola elementare di Concordia s. Secchia (immagine a sinistra) e una via di Modena. Una delle sue due fotografie col suo nome è anche sul Sacrario della Ghirlandina a Modena, e sul cippo che si trova a Mirandola.
Nell'immediato dopoguerra gli era stata intitolata la Casa del Popolo, intitolazione che fu cancellata pochi anni dopo, quando la Casa del Popolo si trasferì dalla ex Caserma dei carabinieri ai nuovi locali, poco dopo il ritorno dal campo di prigionia in Germania di mio padre, che aveva aderito alla scissione saragattiana di Palazzo Barberini del 1947.
Negli anni Settanta, al tempo del compromesso storico, rappresentanti del Partito Comunista concordiese vennero a chiedere ai miei nonni - mio padre, già consigliere comunale socialdemocratico - al loro arrivo si era alzato da tavola ed era andato a letto per il riposo pomeridiano - di intitolare per la seconda volta la Casa del Popolo allo zio Rino. Il mio nonno, che aveva conosciuto sia il Lazzaretto di Reggio Emilia che i primi miracolosi psicofarmaci, parlava, la nonna annuiva scuotendo la testa. C'ero anch'io a tavola, come spettatrice silente. Il nonno disse di no, e i due 'compagni' proposero allora l'intitolazione della scuola elementare. Il nonno disse  di sì, la nonna aggiunse in dialetto che andava bene che 'd'i' putin' ricordassero il suo Rino.
Mi chiedo se l'attuale sfrangiamento della politica, come se un filo tirato facesse disfare tutta una coperta, non venga anche dalle forzature e dalle menzogne che troneggiavano dal dopoguerra. Dalla storia del nostro paese, a quella di tante, quasi tutte, le famiglie, non c'è stato mai un vero accordo su chi fosse giusto e chi ingiusto, chi fosse stato giustamente onorato e ingiustamente trascurato. La mia compagna di liceo, Licia Anticati, di famiglia contadina come la mia, aveva uno zio morto giovanissimo durante la Resistenza, che non ho dimenticato scrivendo il romanzo. Ma non riposava nella cappella dello zio Rino, dov'era anche la cugina di mio padre, morta di malattia subito dopo la guerra,
che aveva partecipato come staffetta alla resistenza figlia del fratello della mia nonna, capo del CLN di Concordia. La famiglia cattolica della mia amica, si era opposta.
La mia famiglia pareva certa che lo zio Rino fosse stato ucciso da quel partigiano vagante non per errore, ma per ordine di altri partigiani che temevano quel che avrebbe potuto rivelare il mio zio dopo la guerra. Quando scrissi questo romanzo, il mio fratello Rino, forte della sua investitura avvenuta attraverso il nome, non mi risparmiò le sue critiche per non aver abbracciato questa convinzione. Gli spiegai che la mia indagine e il ricordo dei discorsi sentiti in casa - sempre brevi e a voce bassa, e solo dei nonni e del babbo - mi avevano convinto che era impossibile raggiungere una certezza a questo riguardo. Mio fratello mi aveva detto che se il babbo fosse stato ancora vivo mi avrebbe diseredato. Con la perfidia della sorella maggiore, dopo aver osservato che il babbo mi aveva minacciato di questo per farmi smettere di fumare, ma non aveva mai messo in atto questa minaccia, avevo concluso dicendo a mio fratello che poteva ben scrivere lui un altro libro. Mio fratello, come mia madre e diversamente da me e da mio padre, non ha mai pensato, forse nemmeno desiderato, di scrivere e pubblicare alcunché.
Il mio piccolo romanzo me lo aveva chiesto Antonio Faeti per i Delfini che dirigeva, ma poi lo aveva rifiutato dicendomi che era troppo bello per il profilo della collana. L'avevo dato volentieri al Comune di Concordia, al quale l'aveva proposto un partigiano che avevo intervistato per questo mio lavoro, al quale poi avevo mandato una copia del manoscritto. Nella presentazione alla quale partecipai nel palazzo settecentesco del Comune di Concordia di giovani ce n'erano pochi, ma i partigiani sopravvissuti sembrava fossero venuti tutti, a sorridermi grati per aver raccontato la loro storia, almeno un po'. Qualche anno dopo il libro era stato adottato come libro di lettura alla scuola media di Concordia, e pochi anni fa fui invitata a parlare del mio libro a San Possidonio per un 25 aprile. L'invito, come scoprii quella sera, veniva da una giovane assessore che aveva letto il libro in terza media.

L'unione dei miei genitori aveva lasciato separate le loro posizioni politiche e la loro origine, ben di più di quanto si potesse pensare. Come ci siamo civilmente divisi i beni che ci avevano lasciato, come la casa nella quale vivo e scrivo, ci siamo divisi la loro eredità 'politica', e anche la convinzione sulla ragione della morte dello zio Rino.

Che ancora sorride con lo zio Pietro, su un nuvola piena di luce, bello come lui - i più belli, i morti in guerra - e pensare a loro come quando ero bambina, da me sola o sentendo le nonne, mi aiuta a sperare che questa vita che si presenta così caotica e priva di direzione possa fluire domani, come è fluita finora. 

Infine: il terremoto che ha flagellato la Bassa Modenese e Concordia nel 2012 ha danneggiato il cimitero con la cappella dei partigiani e delle staffette, dove riposa, se non ricordo male, anche un soldato straniero.
Ancora una cosa. Mio padre ha pubblicato un libro che ha scritto in sei mesi quando era stato costretto al riposo dopo aver subito un intervento al cuore: Coltivare. Di cuore è morto nel 1986, un anno dopo l'intervento, pochi giorni dopo aver saputo da Giannozzo Pucci che la LEF glielo avrebbe pubblicato. Il libro è stato ristampato più volte ed è tuttora in vendita. Il babbo aveva fatto in tempo a rinunciare ai diritti d'autore, per facilitarne la diffusione: lo considerava utile, e aveva ragione. Nella scheda che lo presenta online ci sono alcune inutili inesattezze: la terra coltivata da mio padre era circa due ettari, non se ne era interessato granché, fino al momeineto in cui, in maniera improvvisa, dopo un fastidioso prurito conseguente all'irrorazione di non so che nel pescheto, aveva deciso di cominciare a coltivarlo senza pesticidi né concimi chimici. L'incontro con la biodinamica era venuto dopo.
Mi piacerebbe somigliare al babbo e allo Rino, mi piacerebbe credere che mi muovo per un movimento del cuore, l'ideologia viene dopo, e conta meno.

Peretola, 3 novembre 2018

Terzultima revisione 3 novembre 2018
Penultima revisione 8 ottobre 2022
Ultima revisione (correzione di qualche refuso e aggiunta dell'ultima riga) 25 aprile 2024