ADALINDA GASPARINI                PSICOANALISI E FAVOLE

Prefazione di Antonio Faeti LA LUNA NELLA CENERE
ANALISI DEL SOGNO DI CENERENTOLA, PELLE D'ASINO, CORDELIA
FrancoAngeli.
Milano 1999

La luna

                      nella cenere

Cinerem ne vilipendas

nam ipse est diadema cordis tui.
(Morienus)













INDICE

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Ringraziamenti

Ringrazio tutte le persone che per casi differenti hanno partecipato, volontariamente o involontariamente, a questo libro: per l'aiuto che mi hanno dato nella comprensione della fiaba, Silvana Caluori e Sebastiano Tilli, colleghi dell' 'Istituto per la ricerca in psicoanalisi Gradiva', di Firenze; per le rappresentazioni che mi hanno portato nel lavoro clinico, di cui solo loro riconosceranno le tracce, i miei pazienti; per la sensibilità e l'interesse, gli insegnanti delle scuole materne, elementari e medie, che hanno partecipato ai miei corsi di aggiornamento, mi hanno ospitato nelle loro classi, o hanno letto ai loro alunni le "mie" fiabe antiche, a Firenze, a Città di Castello (PG), a San Miniato e a Ponte a Egola (PI), nelle province di Forlì e Rimini-Cesena, a Longiano in particolare; per l'attenzione, coloro che hanno partecipato ai seminari, alle lezioni e alle conferenze nelle quali ho anticipato qualche tema di questo libro, all'Istituto Gradiva e altrove; per il desiderio e la gioia con cui ascoltano e narrano la fiaba antica, i bambini che ho incontrato nelle scuole.

INDICE

Cinderella vuota il mare


1. C'era una volta Cenerentola assassina







2. La madre, la morte, lo specchio







3. Il padre, l'incesto, la fuga







4. La cenere e il tempo






5. Dattero mio dorato







6.
La fuggitiva







7. Il principe sensibile








8. L'insostenibile vaghezza del senso



Prefazione di Antonio Faeti



1.1
C'era una volta 9
1.2
Una bambina troppo perfetta 12
1.3
Una bambina prigioniera nel buio
16
1.4
Una Cenerentola più colorata
21
1.5 Come nelle fantasme 
24

2.1
La relazione pericolosa 30
2.2
La figlia più bella della madre 33
2.3
Ciò che limita il vero 38
2.4
Una relazione troppo perfetta 41
2.5
Che cos'è questa fiaba 46

3.1
 Un giuramento fatale 50
3.2
L'enigma dell'incesto e il tempo senza tempo           52
3.3
L'incesto in Pelle d'Asino 59
3.4
Cordelia 61
3.5
Gli abiti meravigliosi 66

4.1
Lo specchio oscurato 70
4.2
Lo sporco animale
75
4.3
La cenere
80
4.4
Il tempo
84

5.1
Golio de quarcosa 87
5.2
La bambola e la fata 90
5.3
Il ramo e la rosa 92
5.4
Dattolo mio 'naurato 95
5.5
Il senso e i legami 98

6.1
La fuggitiva 107
6.2
Né l'ascia del padre... 109
6.3
Né il coltello della madre.... 112
6.4
Né il tino sotterraneo  119
6.5
O bianco viso... 122

7.1
Né per bellezza né per abbigliatura... 125
7.2
'Na 'nfanzia 131
7.3
Tutt' li nom' so' di Dio           135
7.4
Il bacio dell'orsa 139
7.5
Narciso e il cortese cavaliere 142

8.1
State di buon animo, messere 149
8.2
Una storia che non significa nulla 153
8.3
Storie false che sembrano vere 156
8.4

Far credito alla storia dove sembra impossibile

160
8.5
Una magia lecita come mangiare 163
8.6

L'ultima scarpa 166

Bibliografia
170
8
Cinderella vuota il mare.
Prefazione di Antonio Faeti

Questo libro, tutto sapientemente collocato nell'ambito del mito e in quello della fiaba, è tuttavia dotato di una vibrante consapevolezza orwelliana. E non c'è alcuna contraddizione, in questo accostamento che può apparire tanto poco giudizioso. Pur non insistendo molto su certi pretesti, che oggi ci appaiono invece assillanti e incontrollabili, la distopia orwelliana aveva benissimo individuato una connessione tra il potere occulto del Grande Fratello e spazi ben poco riconoscibili come esplicitamente politici: la sessualità, la cultura dell'eros, gli affetti, il corteggiamento, la coppia. Oggi, nessuno può negarlo, la cattura orwelliana dell'immaginario non si rende violenta e assoluta nel guidare i popoli verso oceaniche adunate, non crea gagliardetti multimediali, non inventa fanfare con il ritmo degli spot, ma si colloca interamente tra divani, letti, tinelli, bagni, sale ovali, stagiste, abiti macchiati, carezze carpite. Non è più pensabile uno scontro proustiano tra dreyfusardi e antidreyfusardi, però ci sono i partigiani di Monica e quelli di Bill (nella ironica tomba in cui riposa, la signora Verdurin gongola e sussurra: ve lo avevo detto, lo sapevo già...).

Che cosa è accaduto, davvero? Piano piano, nel corso di decenni, certi media, come la televisione, i grandi magazine popolari, il telefonino, internet, le linee bollenti, le videocassette, la pubblicità, le radunate di sette, le assunzioni in cielo dei guru, le cubiste, le discoteche hanno acquisito, in senso monopolistico, l'intera gestione dei sentimenti, dei rapporti interpersonali, di quelli di coppia, di quelli che legano i figli ai genitori. Non si ha più una fenomenologia di sentimenti fortemente dubitabili, come la gelosia, per esempio, se ne ha invece una subdola eternizzazione, e proprio mentre l'antropologia culturale suscita cautele di cui i guru e gli ayatollah multimediali non sanno certo tener conto. La conduttrice, dalla sua cattedra televisiva, urla che amore vuole dire gelosia, come in un'antica canzone apparentemente demenziale, ma forse autoironica, e orde di liceali (italiani, cioè vittime dei nostri licei) annuiscono. Basterebbe mostrare un servizietto su quella ragazza tibetana che ha sposato otto fratelli (contemporaneamente) per far capire come certe canzoni e certe conduttrici dovrebbero venire almeno diffidate. Del resto, leggendo le cronache di un recente delitto si poteva scoprire che perfino una laureata in architettura aveva tratto lumi (poi rivelatisi catastrofici) dalla trasmissione Stranamore.

C'è come una delega, generalizzata e collettiva, che assegna alla pochezza dei media citati, o meglio dei loro gestori, una specie di mandato coloniale, di protettorato onirico, di controllo imperialista, su temi da sempre al centro del vivere umano, oggi collocati tra le futilità spettacolari.

Si sono derise le cripte dei Cappuccini e quelle di Superga, si ironizza su Sissi, su la Bella Rosina, si parodizza Mayerling (lo fece per primo Benito Mussolini), si carnevalizzano gli amori di D'Annunzio, si mette in barzelletta Leopoldo del Belgio, ma poi, coerentemente, inevitabilmente, si crea la saga parabolica (non in senso biblico) e satellitare, della Principessa del Popolo (del popolo multimediale, ma non viene mai specificato), che fa piangere in diretta e fa vendere un po' di tutto, non certo solo i piselli. Una delega, si è detto, una delega planetaria, nata da un equivoco terribile, i cui esiti nefasti sono già presenti tra noi. Si è detto che con internet non sarebbe esistito il Vittorianesimo (inteso, naturalmente, come dimensione culturale complessiva, non come epifania dei pruriti sessuofobici). E sembra poco, per caso?

La delega ha assunto misteriose connotazioni. Vent'anni fa, un graffiante fumettista "di destra", Lauzier, raccontò la storia di un gruppo di bambini figli di genitori tutti appartenenti a una "Comune", di quelle ancora in uso allora. Nelle loro segrete riunioni i ragazzini si confidavano vicendevolmente di temere un mostro assassino, furioso, sanguinoso, implacabile, truce, che si chiamava "la Società". I bambini spiavano i loro genitori, li sentivano sempre dire, di tutto quanto accadeva di triste, funesto, grave "che era colpa della società" e ne avevano fatto un indefinibile Babau.

Oggi, senza che qualche Lauzier sembri occuparsene, la delega, che funziona senza controlli, e comunque nel sonno della ragione, ha creato infiniti mostri dello stesso tipo. L'equivoco a cui si alludeva, naturalmente, è quello che colloca ai margini l'eros, i sentimenti, i legami (ai margini culturali, perché sono sempre, invece, al centro di un'incolta, acritica, passiva, ossessiva attenzione) e rende volgare, provvisorio, banalizzante ogni tipo di approccio.

Ecco, allora, questo libro salvifico. Qui, la quotidianità dei sentimenti, quella "bassa", delle matrigne, dei padri incestuosi, delle divette che vogliono sorgere dalla cenere e farsi incoronare a Salsomaggiore, dei divetti che ora possono mostrare i glutei e il gel (nei capelli), a ricche Crudelie poco occupate, qui la cronaca misteriosa incline a far sorridere ma poi tinta di sangue, ritrova un ordinamento concettuale, riprende il timbro dell'ermeneutica, esce dal ghetto della delega per ottenere il rilievo conoscitivo da cui non si può prescindere.

Il metodo usato si rende palese attraverso una fittissima rete di rimandi, di citazioni, di collegamenti, di avventure interpretative. L'ansia del sottoscala, il dramma del cuscino, la tragedia della trapunta, qui ritrovano gli dei, quegli dei così litigiosi, furfanti, bugiardi, tanto umani da ergersi come insostituibili paradigmi. E con loro riappaiono gli alleati del fiabesco: streghe, matrigne, sorellastre, cassepanche, madie, regine, guardiacaccia. Chi sono gli attori di questo immenso teatro, qui sapientemente chiamati via via alla ribalta? Questo è un libro mellifluo, ossimorico, insinuante: costellato da archeologici ritrovamenti, martellato di intuizioni in cui si rincorrono la sapienza filologica e quella psicanalitica, il libro (che cita Bettelheim con affetto e rispetto) non è mai un libro "alla Bettelheim", perché ritrova piuttosto il colto garbo allusivo dei grandi secoli libertini, il Seicento e il Settecento.

Ossimorico perché trova gli dei ma li riporta nella piazza del mercato, da cui li cacciò monsignor vescovo (praticava l'usura?), per imporre una catechesi basata soprattutto sull'omissione, il libro dialoga frequentemente con gli dei-bambini delle scuole visitate dall'autrice. Sono loro che amano Pelle d'Asino e le efferate esecuzioni delle matrigne, sono loro che pongono immensi quesiti e pretendono sublimi risposte, sono loro che ridono della genitalità e mescolano i misteri della nascita con quelli degli escrementi.

Breviario per spiriti liberi e libertini, questo libro organizza la Resistenza contro l'oscuro signore di Mordor, contro il Grande Fratello, contro il Mondo Nuovo vibrante della scurrile melopea dei telefonini ("Ma quanto bene mi vuoi?"). È da leggere, è da usare, perché si rende antefatto pedagogico e strumento didattico. Però, anche, conforta. Quando guardiamo i nodi autostradali, le periferie agoniche, i centri urbani lordati dall'asfissia graffistica, a volte pensiamo di avere smarrito tutto, di doverci rinchiudere, come disperatamente fanno tanti vecchi, poveri negletti clandestini, nella metropoli concentrazionaria dei consumi. Il libro fa risplendere dorate radici che ci confortano perché ci danno pienezza di lontananza e validità del senso.

Dai Miti al Basile, da Shakespeare allo Straparola, dalla Grecia all'Irlanda, il libro legge il messaggio della fiaba e delle grandi narrazioni originarie, tiene accanto a sé un sorridente Puer Aeternus, da cui sollecita risposte che sono di oggi, che sono di ieri.

Nella pedagogia dell'inattuale, che è sempre comunque connessa con le fiabe e con il mito, si cercano le ceneri, non per sprofondare, ma per ritrovare i modi e i fini di una rinascita. Tutto quanto determina la nostra mortifera quotidiana opacità, può essere decifrato, illuminato, conosciuto.

C'è il grande espediente della comparazione. Il re amò sua figlia: non fugga il padre terrorizzato dall'inclemente bellezza di quella quattordicenne che prima era la sua bambina, e ora lo turba e lo disorienta. Colga il senso dei paradigmi, entri nei meandri qui esplorati, chieda pure, a un'eccelsa casistica, sia le cause di un tormento, sia il comportamento da tenere per evitare il disastro.

Di libri così colti e civili, un tempo si diceva, alla svelta, che erano "politici". Perché non dirlo, più meditatamente, anche oggi, mentre il verniano "padrone del mondo" annusa sconsolato le mutande su internet di una collaboratrice a termine? Nel colloquio con le radici si fa come la Cinderella disneyana (anche se nel libro il grande Walt è più volte messo in castigo) ovvero si canta, si danza, si dice che si può vuotare il mare e poi metterci la luna, anche nel buio spionistico, nel mondo diviso a metà di un dopoguerra repressivo e tetro.

Vuota il mare, la Cinderella di un focolare perpetuo, e noi ci metteremo la luna: le porte degli inferi massmediologici, i luridi gironi del banale, le massime con cui si incartavano i cioccolatini e ora incoronano i filosofi da video, non prevarranno.







Capitolo 1

C'ERA UNA VOLTA CENERENTOLA ASSASSINA

 

 

 

 

 

 

 

 

Ma cosa può fare, dopo tutto, un bambino, se non inghiottire tutto quanto, e sperare un giorno di cavarne un senso?

(Salman Rushdie)

 

 

 

1. C'era una volta

 

Essendo una psicoanalista appassionata di fiabe, mi trovo spesso a raccontarle nelle scuole, e poi chiedo ai bambini di esprimere ciò che desiderano con un disegno o scrivendo. Ogni volta che guardo i disegni o le frasi dei bambini mi commuovo, perché confermano l'importanza delle antiche fiabe, liberando un sogno, descrivendo per la prima volta un'angoscia o un terrore: in molti casi rivelano una grande comprensione dei loro contenuti profondi.

Possiamo considerare le fiabe come un tesoro inalterabile, per quanto molti adulti, anche insegnanti o pedagogisti, le trattino come un insieme di oggetti di poco conto, come se prendessero smeraldi per cocci di bottiglia, dipingendoli con lo smalto o rompendoli per farli entrare in una scatoletta.

Nei disegni e negli scritti dei bambini ho potuto osservare i molteplici legami che si formano fra la mente di chi ascolta e le figure della fiaba, come se il mondo dopo la narrazione fosse un poco cambiato: durante il racconto nasce qualcosa che non era contenuto nel bambino e nemmeno nella fiaba, essendosi generato da entrambi. Ritengo che nessuna struttura narrativa e simbolica favorisca questa generazione di nuove figure come la fiaba antica.

Una volta un bambino di sette anni aveva sentito una fiaba sudamericana nella quale il protagonista, un bambino di nome Pau, faceva un lungo viaggio. Si era anche trovato solo in un bosco, e aveva bevuto l'acqua del ruscello: in quel momento aveva sentito dei  passi che l'avevano turbato. Il bambino aveva disegnato Pau chino sul ruscello, col bosco fitto alle sue spalle. Tra lui e il bosco, un animale di media grandezza, col corpo simile a un cane o a un gatto, e la testa come una sfinge. Dato che la fiaba passava a raccontare nuove avventure, in nessuna delle quali c'era uno strano animale, e non spiegava cosa aveva spaventato Pau, non capivo il disegno, così girai il foglio e lessi:

 

             Io ho fatto questo disegno per sapere di chi erano quei passi

 

Giocando con le immagini e i raccordi narrativi della fiaba il bambino aveva fatto uscire dal suo proprio bosco, che era lo stesso bosco di Pau, un suo animale.

Racconto fiabe antiche, scritte prima che si pensasse che servivano a educare i bambini, quando gli adulti non consideravano la magia e i reami fantastici con superiorità condiscendente. Una di queste fiabe è Cenerentola, come si trova nella prima e più bella raccolta di fiabe del mondo, il Cunto de li cunti di Giambattista Basile (1634-1636). Vi si racconta di una principessina orfana di madre: il padre, che l'amava moltissimo, si era però risposato con una donna che le dava occhiatacce spaventose. La principessina se ne lamentava sempre con la maestra di cucito, e sospirava: "O dio, e non potisse essere tu la mammarella mia, che me fai tante vruoccole e cassesie?" (Cit., p. 124) [1].

Esperta nell'arte di ricamare, sfilare, e intrecciare trame e orditi, la maestra le espose un piano, seguendo il quale il suo desiderio si sarebbe realizzato, e la protagonista non esitò ad attuarlo. Chiese alla matrigna di prenderle un vecchio vestito drinto lo cascione granne de lo retretto (ivi, p. 126), nella cassapanca del ripostiglio, per rispamiare quello nuovo che indossava, e quando le fu chiesto di reggere il coperchio, obbedì. Mentre la matrigna era spenzolata nella cassa a cercare la principessina lasciò il coperchio, che battendo sul collo della donna glielo ruppe. Dopo poco tempo prese a insistere col padre perché si risposasse con la maestra di cucito, e finalmente lo convinse. Ma solo per pochi giorni si realizzò il suo desiderio di avere una madre che l'accontentava in tutto: presto la nuova matrigna portò in casa sei figlie sue, e insieme a loro le tolse tutto ciò che aveva,  ogni privilegio, anche la sua stanza, anche l'affetto del padre. La principessina, abituata a una bella camera e a un letto a baldacchino, dovette adattarsi a lavorare come una serva, in cucina, nel canto del fuoco, fra la cenere, tanto che perse anche il suo nome e fu chiamata da allora Gatta Cennerentola.

Racconteremo successivamente come continua la storia, e la analizzeremo in profondità, per il momento vogliamo osservare l'assassinio perpetrato da Cenerentola, che nelle versioni correnti, in particolare quella del film di Walt Disney (1950), è impensabile. I bambini, di età dai sei ai tredici anni, ai quali racconto questa versione, non hanno mai mostrato stupore né hanno fatto domande sul matricidio, c'è anzi un disegno a colori tenui, di un'alunna di seconda media, nel quale Cenerentola, somigliante alla bambina che l'ha fatto, ha appena lasciato il coperchio, che sta per rompere l'osso del collo alla matrigna spenzolata nella cassapanca.

Un bambino della stessa età, abitualmente poco diligente a scuola, ha fatto un disegno straordinario. C'è un grande camino che occupa quasi tutto il foglio, alla base del quale, che è anche la parte più bassa del disegno, è distesa Cenerentola, probabilmente addormentata, mentre nell'angolo destro del caminetto la veglia un gatto. Entrambe le figure sono contornate da una linea che le racchiude isolandole, e il loro sfondo è rosso, a contrasto con il nero del camino. Questo sfondo con Cenerentola distesa potrebbe ricordare una bara, e rappresenta perfettamente la degradazione e il lutto, la depressione di Cenerentola, che finirà solo quando comincerà a uscire con abiti magici e meravigliosi. Il particolare più commovente di questo disegno è però l'abito dell'eroina tra la cenere, stracciato, a toppe, come si racconta, povero e trascurato: ma il bambino ha dipinto le toppe di tutti i colori che aveva. La molteplicità dei colori rivela una grande ricchezza psichica, anche se per il momento l'identità del personaggio è a pezzi, come la veste di Arlecchino.

Nel cuore della condizione degradata, nel sonno, o nell'immobilità  nella bara, c'è una ricchezza, e preannuncia la crescita e la trasformazione che la fiaba rappresenta come in poesia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

2. Una bambina troppo perfetta

 

Tra le mille e una Cenerentola sparse in tutto il mondo, quella di Perrault è la più famosa, anche perché ha ispirato il film di Walt Disney. Poco resta di sporco o degradato in questa Cenerentola, sottoposta a una matrigna, la donna più altezzosa e arrogante del mondo, che ha due figlie identiche a lei, pronte a maltrattare la dolcissima sorellastra in ogni modo. Si rappresenta in questa fiaba un'eroina tutta buona, di una bontà che la rende vittima passiva. Quando le sorellastre si preparano per il ballo del figlio del re, si prendono gioco di lei chiedendole se le piacerebbe andarci, e chiamandola Cucendron, Culincenere, la escludono. Ben diversa dalla protagonista di Basile, questa Cenerentola subisce quasi masochisticamente i soprusi, e dedica il suo lavoro e il suo buon gusto a preparare le due smorfiose per la festa. Alla matrigna più arrogante fa da contrappunto la madre morta, che era stata la donna migliore del mondo.

La perfetta bontà di Cenerentola corrisponde all'immagine idealizzata con la quale l'ascoltatore si difende dalle sue proprie componenti aggressive, e la popolarità di questa versione corrisponde all'educazione come troppo spesso viene intesa da genitori e insegnanti: il bambino viene sollecitato a rimuovere lo sporco, le pulsioni aggressive, la gelosia, e solo se corrisponde all'immagine ideale dei suoi educatori ne merita l'affetto. In questo modo l'educazione dei bambini, a casa e a scuola, incoraggia i processi di rimozione degli aspetti perturbanti, che non corrispondono agli ideali consensuali, e rende impossibile un'articolazione della vita interiore con la sua pregnanza affettiva, nella quale sono intrecciate pulsioni distruttive e pulsioni riparatorie. Rimuovendo le prime si ottiene nella migliore delle ipotesi una personalità nevrotica costruita attorno a un ideale dell'io, perché le pulsioni distruttive possono trasformarsi solo trovando un linguaggio, un accesso alla coscienza, una modulazione affettiva nella vita di relazione. Se la condanna moralistica le chiude nel non sapere di sé, formando una parte inaccettabile, oscura, della personalità, anche gli aspetti costruttivi più profondi, creativi, restano inibiti. In una educazione idealizzante la persona può essere adattata, non creativa, può accettare le norme consensuali, non maturare un vero senso morale.

Una volta, raccontando fiabe antiche [2] in una prima media, ho visto una bambina di prima media, grande e grossa, che stava sempre accigliata in disparte. Finché un giorno, proponendo la drammatizzazione di una fiaba, cercavo chi venisse a fare la suocera strega che vuol uccidere i bambini dai capelli d'oro, e mentre nessuna bambina ne voleva sapere, quella sempre accigliata si alzò, e facendo spallucce disse: "La faccio io, tanto io sono cattiva!".

La drammatizzazione riuscì per la bravura della bambina cattiva: sembrava che avesse già calcato le scene, mentre recitava per la prima volta. In quella classe le drammatizzazioni proseguirono con successo, e la bambina istruiva le sue compagne. Da allora iniziò una trasformazione positiva nel suo rapporto con la classe e nel rendimento scolastico.

Poter esprimere la cattiveria, la malevolenza, l'odio, è come avere un'arena in cui far correre i tori, o un ring per il pugilato: col contenitore appropriato, ogni aspetto psicologico può trovare un canale espressivo e articolarsi in relazione con gli altri e con la propria cultura. Se si forma un contenitore adatto, un fattore d'isolamento può diventare un fattore di relazione: perché accada occorre ascoltare e accogliere ciò che si presenta in una situazione, non respingerlo senza dargli nome con un giudizio moralistico. Chi si occupa di educazione può chiedersi quante volte delle indicazioni, che vengono fornite come psicologicamente corrette, sono invece funzionali a questo moralismo e al bisogno di dimenticare che i nostri affetti sono ambivalenti.

In quasi tutti i libri di fiabe per bambini, come nel film di Walt Disney, Cenerentola è una bambina ideale, arrendevole e passiva: non osa nemmeno esprimere un desiderio. Lo fa per lei la fata madrina, impartendole anche le istruzioni sull'ora alla quale deve lasciare il ballo. Vedremo successivamente il significato delle volontarie fughe di Cenerentola, delle sue trasformazioni reversibili da elegante e splendente a sporca e oscura: ma in Perrault e nelle versioni che ne sono derivate la protagonista ha come sola attività il pianto. Il giorno del ballo:

 

...le due sorelle partirono alla volta del palazzo reale e Cenerentola le seguì con gli occhi più a lungo che poté; poi, quando non le vide più, scoppiò a piangere. La sua madrina, venutala a trovare, la vide in un mare di lacrime e le domandò cos'avesse:

- Io vorrei... vorrei...

Piangeva così forte che non poteva continuare. La madrina, che era una fata, le disse:

- Vorresti andare al ballo, non è vero?

- Ahimè, sì, - disse Cenerentola con un sospiro.

(I racconti di Mamma l'Oca, 1797, p. 19)

 

Come si racconta di un'attività distruttiva, del matricidio, nella versione di Basile si racconta di quando Cenerentola riceve in dono un seme di dattero e lo coltiva con amore mattina e sera, zappandolo con una zappettina d'oro, annaffiandolo con un secchiello d'oro, e asciugandolo con un tovagliolo di seta. Il dattero diventa una palma alta come una persona, e allora ne esce una fata che chiede: "Che cosa desideri?".

Scrive Bruno Bettelheim:

 

Eliminando l'albero e sostituendolo con una fata madrina che sbuca improvvisamente e inaspettatamente dal nulla, Perrault  priva la storia di parte del suo più profondo significato (Il mondo incantato, 1976, p. 250).

 

Se Perrault avesse attinto al Cunto de li cunti di Basile, eliminando come elemento perturbante e inaccettabile la colpa di Cenerentola, il matricidio, avrebbe così perduto anche il processo di riparazione della figura materna che culmina nella crescita della palma da dattero. La maggioranza dei bambini ai quali racconto La Gatta Cennerentola sceglie spontaneamente di rappresentare questo albero, perché coglie il simbolo centrale della storia, il punto di trasformazione fondamentale al quale la versione di Perrault rinuncia.

Una volta un bambino di seconda media ha disegnato la palma al centro, con una figura femminile che esce dall'albero come un'antica driade. Cenerentola ancora mal vestita la guarda e nel suo fumetto si legge: Vi ho annaffiato con il secchio... Così il bambino ha riscritto quello che ricordava della filastrocca di Basile, con la quale, in nome delle cure che gli ha dedicato, Cenerentola esprime il suo desiderio:

 

Dattolo mio 'naurato,

co la zappetella d'oro t'aggio zappato,

co lo secchietiello d'oro t'aggio adacquato,

co la tovaglia de seta t'aggio asciuttato,

spoglia a te e vieste a me!

(Basile, cit., p. 130) [3]

 

Il bambino ha disegnato una palma da dattero con otto rami e quattro robuste radici, ai piedi dell'albero si vedono gli strumenti per curarlo, mentre alle spalle di Cenerentola una carrozza è già pronta. Forse per una scarsa conoscenza dell'antico mezzo di trasporto il bambino l'ha raffigurata simile a una carrozzina per neonati, che rimanda alla potenza generativa della situazione magica. Anche i raggi delle ruote sono otto, formando un mandala, simbolo del processo di crescita[4]. La scena, di cui la storia non dice in quale momento accada, è qui rappresentata di notte: in cielo splendono una falce di luna crescente, come Cenerentola rappresentazione del femminile, e otto stelle. 

Il potenziale di crescita di questo bambino si è articolato con la fiaba antica, nella comprensione intuitiva dei suoi simboli, permettendo la rappresentazione di un bellissimo sogno di trasformazione e di ricchezza: perché un sogno si realizzi bisogna prima di tutto sognare, perché un bambino abbia la forza di seguire i suoi desideri migliori bisogna aiutarlo a raccontarli.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

3. Una bambina prigioniera nel buio

 

La morte della madre è una delle costanti essenziali nella storia di Cenerentola: si racconta che era morta, non se ne parla affatto, o si comincia proprio con la sua morte. È il caso di Aschenputtel, la Cenerentola dei Grimm, che pur essendo tutta buona come quella di Perrault, si muove, come vedremo, in una trama di maggiore ricchezza simbolica e narrativa.

Prima di morire la madre chiamò la sua unica figlia e le disse:

 

"Bimba mia, sii sempre docile e buona, così il buon Dio ti aiuterà e io ti guarderò dal Cielo e ti sarò vicina". Poi chiuse gli occhi e morì. La fanciulla andava ogni giorno sulla tomba della madre, piangeva ed era sempre docile e buona (Grimm, Fiabe per i fanciulli e per la famiglia, 1812-1815, vol. I, p. 94).

 

Con la morte della madre si rappresenta la perdita della buona madre, quella che è sempre pronta a donare, ad accontentare, ad accogliere. Così si introduce la necessità di crescere, di rinunciare a una condizione di piena soddisfazione che viene fantasticata come se fosse esistita nel passato, per poi venire a mancare nel presente. Ognuno fa esperienza, se non lo vive come condizione permanente, di questo rimpianto per una situazione o una persona collocata in un passato perduto, morto, insieme alla quale si è perduto irrimediabilmente il vero bene, la vera felicità. Che si tratti della propria infanzia idealizzata, di un amore finito, del Paradiso Terrestre o dell'Età dell'Oro, il gioco consiste nel preservare un bene perfetto dislocandolo nel passato. In questo modo si può continuare a credere alla sua esistenza, giustificandone la mancanza di fatto, per sopportare la delusione e la sofferenza presenti.

La Gatta Cennerentola di Basile uccide la prima matrigna nell'illusione di ripristinare una relazione perfetta con la madre, e così facendo cade in una condizione ancora peggiore. Aschenputtel invece piange ogni giorno sulla sua tomba, e quando il padre si risposa con una donna dura di cuore, le cui due figlie la maltrattano riducendola a un'umile serva, continua ad essere docile e buona.

Come ricorda Bruno Bettelheim, la perfetta bontà di qualcuno è realistica quanto l'apparizione di una fata madrina. Ma per quanto non realistica, la sensazione di una perfetta bontà è vera psicologicamente, come quella di un'assoluta malvagità, attribuita a sé o all'altro. In questi casi si subisce il dramma dell'ambivalenza, che è alla base del nostro psichismo, ma che è tollerabile solo quando la maturità affettiva consente di modulare la vita di relazione e l'ascolto della propria vita interiore. Due bambini che litigano si attribuiranno vicendevolmente la colpa di qualcosa, e se passeranno a picchiarsi ciascuno dei due cercherà di punire nell'altro la parte cattiva che espelle da sé. È lo stesso meccanismo che causa l'odio razziale: il male che non sopporto di riconoscere in me è dislocato, proiettato, sull'altro, che posso combattere, per ripristinare la situazione buona che a causa della malvagità dell'altro è stata perduta. Per quanto abbiamo esempi antichissimi di una saggezza che sollecita a prendere le distanze da questi stati d'animo totalizzanti e distruttivi, continuiamo a essere giocati dal bisogno di negare l'ambivalenza perturbante che ci costituisce, e a distruggere l'altro illudendoci di distruggere il male.

Nel processo di crescita il bambino vive grandi difficoltà nell'adeguarsi ai modelli che gli propongono i genitori e gli educatori in genere; a volte non capisce, non può capire, cosa gli viene chiesto, perché è troppo contraddittorio. Deve tollerare stati d'animo in cui si sente ingiustamente maltrattato, e altri stati d'animo in cui si sente così sporco e crudele che crede sua la colpa di una malattia grave, di un incidente o della morte di un membro della famiglia. La coppia di persecutore e perseguitato, vittima e aguzzino, prima che all'esterno, tra due persone reali, vive dentro di noi, come gioco drammatico e potenzialmente tragico tra fantasmi crudeli e fantasmi salvifici, tra figure genitoriali positive e negative. Solo la maturità, intesa qui come competenza affettiva all'ascolto di sé e degli altri, consente di riconoscere l'ambivalenza: di tollerarla, e di modularla, facendone esperienza vera.

La perdita della madre, l'assenza della madre buona e idealizzata, al posto della quale subentra, in un'alternanza schizoide dalla quale nessuna crescita è immune, una figura materna ostile, invidiosa, crudele, inscena i due lati opposti della figura materna. Cenerentola sarà ridotta a una condizione sporca e degradata, tanto brutta da non poter nemmeno uscire come le sue sorelle: precipiterà nella condizione che il bambino avverte come una minaccia che può annientarlo se non riuscirà a capire e a costruire quello che il mondo adulto si aspetta da lui.

Nelle sue diverse fasi e varianti, Cenerentola è abbandonata, perseguitata o respinta da tutti, vive  nella cenere, o in un pollaio, o coperta da una pelle d'asino che la rende repellente. L'invisibilità della sua bellezza, la perdita del suo stesso nome, allude a una percezione di sé comune negli stati di tipo depressivo: "nessuno si accorge di me, nessuno mi vuole bene, nessuno si occupa di me, nessuno mi vede".

Per uscire da questa condizione qualcosa deve accadere: ma può bastare che la protagonista della storia, il filo dell'identità con la quale si attraversa la densità perturbante della vita, ricordi un gesto che qualcuno ha fatto nei suoi confronti, anche una sola volta, può bastare il ricordo di uno sguardo diverso. Irrealistico e vero quanto l'assoluta bontà o l'assoluta cattiveria di qualcuno, può bastare un sogno al quale si dia credito, per uscire dalla cenere.

Le fiabe non sono realistiche, ma sono vere, come sa bene una bambina ripetente di prima media, che preoccupava gli insegnanti perché non partecipava ai giochi né ai discorsi dei compagni.

La vedevo a ogni incontro nel primo banco, immobile e pallida, poco  attraente: se provavo a rivolgerle la parola, la vedevo irrigidirsi ancora di più, con lo sguardo fisso e spaventato, come se chiedesse solo di non essere di nuovo sollecitata, come se affermasse con la sua fissità un'incapacità a rispondere, a essere nel gioco di tutti. Una volta avevo raccontato nella sua classe la storia di una principessa, che tre fratelli, ciascuno con una straordinaria abilità, avevano liberato dalla torre in cui era chiusa da chissà quanto tempo con un immenso tesoro. Tornati alla casa del padre, i fratelli avevano diviso in quattro parti il tesoro senza litigare, ma arrivati alla bella prigioniera ciascuno di loro e il padre avevano affermato che il loro diritto ad averla era maggiore di quello degli altri. L'autore della fiaba, Giovan Francesco Straparola, scriveva quattrocento anni fa che cominciarono a litigare, e neppure il ricorso al giudice servì a trovare l'accordo:

 

E furono fatte molte e lunghe dispute, chi di loro meritasse di averla; e fino al presente pende la causa sotto il giudice. A cui veramente aspettar si debba, lasciolo giudicare a voi (Le piacevoli notti, 1551-1553, vol. II, p. 60).

 

Gli alunni risposero con sorprendente entusiasmo alla richiesta di dirimere la questione, c'era chi preferiva uno dei fratelli, il più giovane, e chi il più vecchio, un bambino poi disse che la bella prigioniera doveva sposare il padre, così lui guadagnava una moglie e i figli una mamma. Una bambina a un certo punto osservò: "Secondo me dovevano chiederlo a lei, perché non la facevano scegliere?". Loro stessi osservarono che questa principessa non parlava mai, e quando mi chiesero perché rilanciai la domanda: "La fiaba non lo dice, ma se la bella prigioniera non parla ci dev'essere una ragione. Quale sarà?".  Il mio intervento stava finendo, e chiesi ai bambini di scrivermi le loro risposte. Anche la bambina che restava immobile senza parlare mi diede la sua ragione per tanto silenzio:

 

La pricepesa non parlo ma stando nel castello buio che non parla con nessuno.

 

La bambina diceva per la prima volta qualcosa sul proprio silenzio, era prigioniera nel buio, e non aveva nessuno con cui parlare, ma ora era pronta a farlo, perché ci stavamo interrogando sul misterioso silenzio della Bella prigioniera. La mia emozione fu pari a quella di un filologo che veda per la prima volta un documento in una lingua fino ad allora inaccessibile, dove non può venire in mente che si debbano correggere errori, perché ci sono strumenti espressivi da comprendere, e parole che nascondono e rivelano, nel gioco che forma e trasforma di continuo ogni lingua. L'anacoluto è fecondo come se lo usasse un poeta: "la pricepesa non parlo", sta per: "la principessa non parlò", ma grazie all'errore permette alla bambina di dire allo stesso tempo: "non parlo, io non parlo".

La bambina rivelava che il suo mutismo e l'isolamento dipendevano dal fatto che si sentiva al buio da tanto tempo, e in una frase cancellata si poteva leggere ancora:

 

Buio castello non pala con nessuno mon sapeva a chi dirlo la decisione...

 

Anche la bambina lasciata al buio, alla quale le sollecitazioni ad aprirsi arrivavano incomprensibili e minacciose, era una pricepesa, una principessa, come tutte le sue compagne, e ora diceva che avrebbe avuto qualcosa da dire, e sapeva anche scegliere, solo che a nessuno era mai interessato davvero chiederglielo, ascoltarla.

Leggendo queste composizioni dei bambini mi chiedo come sia possibile che da una parte letterati sensibili riconoscano vertigini di senso nella letteratura sperimentale e nelle espressioni primitive o popolari, ormai perdute, mentre a scuola si continua come sempre a chiedere ai nostri piccoli, che dovremmo aiutare a crescere, di rinunciare alle loro parole, di considerarle errori, per assumere parole e strutture sintattiche che possono apparire estranee, specialmente se vivono una marginalità culturale. Come psicoanalista ipotizzo che la scissione tra la ricerca linguistica e i modelli educativi applicati a scuola nell'insegnamento della lingua riproduca la rimozione dei bisogni affettivi dei bambini, e del bambino che ciascuno di noi porta dentro.

Per quanto possa essere utopistico, credo sia necessario esercitarsi a essere sensibili e colti anche nei confronti del linguaggio di questi bambini, che in certi casi sono solo spaventati. Non si tratterebbe di fare una diagnosi, non in quel contesto, né di descrivere clinicamente il caso: molte difficoltà si scioglierebbero se il contenitore in cui vivono tanto, la scuola, fosse prima ricettivo che giudicante, se solo si riuscisse a ricordare che nessun giudizio ha senso se non è stato preceduto da un ascolto [5].

Come nel caso della bambina che faceva le parti di cattiva, perché tanto lei era cattiva, alla bambina immobile e taciturna bastò questo ponte espressivo gettato con la fiaba antica tra la sua difficoltà e il resto della classe, per uscire dall'isolamento. Tre incontri dopo questo, a commento della drammatizzazione collettiva di una fiaba, un suo compagno di classe scrisse:

 

A me piace la fiaba mimata perché si può capire meglio la fiaba e perché sembra che prenda vita, mimandola ci possiamo divertire lavorando insieme. Certe volte mi piace mimare perché mi diverto e diverto i miei compagni, riempiendo l'aria di allegria

 

Nella sua lingua un po' diversa, la bambina uscita dal buio scriveva la stessa cosa:

 

A me per le reciature sono belle quando si racontano ognuno la storia sono belle quando si scrivano ognuno dell'un alunno e spiega la storia e più si diverte che uno c'ià una sua penionione

 

Le storie dei bambini hanno la stessa intensità poetica delle fiabe, e sono loro a farci vedere quale forza di crescita si sprigiona se si realizza una situazione di ascolto, e se in questa situazione, come su un'aia d'estate, o intorno a un focolare, ricreata con sensibilità e competenza nelle aule prefabbricate di una scuola pubblica, anziché rimpianta come perduta, si racconta una fiaba antica.

Ricordo a questo proposito una storia della tradizione chassidica:

 

Un tempo il rabbi di una certa comunità, quando il suo popolo aveva un bisogno o un desiderio, si recava in un luogo sacro del bosco, accendeva il fuoco ritualmente, recitava una preghiera, e il desiderio veniva esaudito. Il rabbi, il maestro, della generazione successiva, aveva dimenticato la preghiera, ma quando ce n'era bisogno andava in quel luogo nel bosco, accendeva il fuoco, e diceva: "Signore, abbiamo dimenticato la preghiera, ma siamo venuti in questo luogo sacro, abbiamo acceso il fuoco, e ti preghiamo di esaudire egualmente il nostro desiderio", e veniva esaudito. Nella generazione successiva dimenticarono anche come si accendeva il fuoco, ma il rabbi andava nel bosco, e diceva: "Signore, noi non conosciamo più la preghiera, né come accendere il fuoco, ma siamo venuti in questo luogo sacro, e ti chiediamo di esaudire egualmente il nostro desiderio". Quando l'ultimo maestro doveva provvedere ai desideri e ai bisogni del suo popolo, si era perduta anche la via per giungere al luogo sacro nel bosco. Allora il maestro si sedeva nella sua stanza, e pregava così: "Noi non sappiamo più la preghiera, non conosciamo il rito per accendere il fuoco, e abbiamo smarrito il sentiero che porta al luogo sacro nel bosco. Tutto ciò che sappiamo fare è ricordare questa storia e raccontarla, e questo deve bastare". E i desideri della comunità venivano esauditi.

 

 

 

4. Una Cenerentola più colorata

 

Di tutte le varianti italiane della famosa Cenerentola, la più colorata e mediterranea è questa fiaba dei datteri, raccontata dalla grande narratrice palermitana Agatuzza Messia. Non v'è traccia, qui, del patetico moralismo della sorella reietta come in Perrault e in Grimm, ma tutto diventa un puro gioco di fantasie meravigliose (Calvino, 1956, vol. II, p. 519).

 

Così Italo Calvino, nelle sue Fiabe italiane, commenta brevemente Grattula Beddattula, che fu raccolta da Giuseppe Pitré in Sicilia alla fine del secolo scorso, e sembra derivare per più aspetti dal Cunto de li cunti. Il simbolo della pianta di dattero ad esempio, che soddisfa il desiderio della protagonista, è comune a entrambe: ma in Grattula Beddattula la pianta arriva già cresciuta, in un vaso d'argento, mentre la Gatta Cennerentola riceve un seme da piantare e gli strumenti per coltivarlo.

Una versione simile a quella preferita da Calvino, per la parte di viaggio interiore che rappresenta, è La Cenerentola contenuta nella Novellaja fiorentina di Vittorio Imbriani (1871). In entrambi i casi  il motivo d'inizio è la partenza del padre con la richiesta di doni, che sono vesti e gioielli per le due sorelle, mentre la protagonista chiede l'Uccellin Verdeliò. Le sorelle con gli abiti e gli ornamenti ricevuti in dono si recano al ballo, e Cenerentola:

 

...quando le sono andate via, la va dall'uccellino: "Uccellin Verdeliò, fammi più bella ch'io non so' ". La vien vestita tutta di verdemare; ricamate tutte le qualità di pesci del mare e poi brillanti mescolati che non si pol credere... (Imbriani, cit., p. 153).

 

Anche la Cenerentola dei Grimm aveva chiesto al padre di portarle un ramo, e dopo aver ricevuto il rametto di nocciolo che gli aveva urtato il cappello sulla via del ritorno:

 

...lo ringraziò, andò sulla tomba della madre, piantò il rametto e pianse tanto che le lagrime vi caddero sopra e l'annaffiarono. Il ramo crebbe e divenne una bella pianta. Cenerentola ci andava tre volte al giorno, piangeva e pregava, e ogni volta si posava sulla pianta un uccellino bianco... (Grimm, cit., ivi, p. 95).

 

Nella versione preferita da Calvino per l'assenza di ogni patetico moralismo, il motivo d'inizio non è la morte della madre, della quale non si parla affatto, e non c'è alcuna matrigna, né perfide sorellastre, al posto delle quali Cenerentola ha due sorelle che cercano di convincerla a prepararsi per andare con loro al ballo del re. Quindi in questa variante non compare il drammatico tema del confronto e della separazione dalla madre, che invece apre la storia della Gatta Cennerentola e di Aschenputtel, continuando con le persecuzioni della matrigna e delle sorellastre. Manca la rappresentazione del conflitto per il quale Cenerentola è assassina o piange tanto sulla tomba della madre.

La Cenerentola preferita da Calvino per i suoi colori mediterranei, e per l'assenza di patetico moralismo, comincia la sua storia quando questo dramma ha già avuto luogo: è al di là della storia. Come è fuori dalla trama della Cenerentola rossiniana, Melodramma giocoso che comincia con i preparativi per il ballo, e rappresenta quindi solamente l'ultima sequenza della vicenda.

Certo una fiaba non deriva il suo valore dalla complessità della vicenda interiore che rappresenta, ma la comprensione psicoanalitica non può condividere la qualifica di patetico moralismo della sorella reietta per il dramma di Cenerentola. Nella variante che rappresenta prima di tutto la rottura del legame schizoide e totalizzante con la madre, la protagonista affronta una terrificante matassa intricata di aggressività, abbandono, narcisismo, depressione, e riesce nell'impresa difficilissima di crescere. Una bambina che stia vivendo questo conflitto con la figura materna, che può avere un'espressione tragica nell'anoressia, identificandosi con Cenerentola assassina e reietta saprà nel racconto che c'è una possibile soluzione, per quanto la sua distruttività la faccia sentire indegna, incompresa e perseguitata. Per lei il gioco brioso di Grattula Beddattula e dell'Uccellin Verdeliò è un orizzonte psichico ancora inaccessibile.

Quando l'educatore non tiene conto dell'ambivalenza e delle pulsioni distruttive che sono presenti nel bambino, non lo ascolta, e non può insegnargli a modulare la sua vita affettiva. Noi non ascoltiamo i bambini perché nessuno ci ha insegnato ad ascoltarci, e li vogliamo convincere a ignorare, rimuovere, i tratti più oscuri, che insieme a quelli luminosi ci costituiscono, perché non vediamo una strada per risolverli. Dimentichiamo ciò che è tanto facile guardare tutto intorno a noi: noi siamo come siamo, non come dovremmo essere. Sappiamo che nella collera si peggiora una relazione, ma questo non ci impedisce di perdere le staffe, le perdiamo anzi in maniera più pericolosa quanto più ci forziamo a non farlo. Sappiamo che nessuna guerra ha mai risolto il problema di un popolo, nemmeno quello del vincitore, eppure continuiamo a farle. Sembra più semplice negare l'esistenza delle difficoltà, anziché affrontarle, imprigionandoci in un ideale dell'Io che sostituisce all'esperienza un insieme di regole morte.

Dal sapere psicoanalitico, che opera secondo questa consapevolezza nel lavoro clinico, non si è imparato nulla in campo pedagogico, e il risultato è che i bambini sono incoraggiati e forzati a modellarsi sui nostri ideali, non educati a fidarsi della loro sensibilità e a imparare dall'esperienza. Cerchiamo di cancellare dalla coscienza gli impulsi distruttivi, come l'invidia e la voracità, rimuovendone la rappresentazione persino dalle fiabe, visto che non si trova un libro per bambini in cui Cenerentola sia assassina, e che pare a Italo Calvino un patetico moralismo il lungo pianto di Aschenputtel, mentre si tratta di un modo poetico, per quanto comprensibilmente datato, di portare a espressione il lutto e la sua successiva elaborazione. Non accettiamo la parte di noi che non corrisponde a un modello idealizzato e moralistico, di qualunque segno,  e poi ci stupiamo delle esplosioni di violenza di bambini e adolescenti. Dovremmo comprendere che si tratta di aspetti scissi della loro personalità, che non abbiamo certo aiutato a trasformarsi negando loro nome e accesso alla coscienza.

Considero moralistica l'istanza pedagogica che rimuove dalle fiabe le figure e le azioni perturbanti, con il pretesto di liberare il bambino da fantasmi paurosi o patetici del passato. Nella profondità della psiche le regole non coincidono con quelle della coscienza, somigliando piuttosto alla varietà policentrica e indefinibile dei sogni e delle fiabe. È perturbante accettare questa verità, ma farlo apre una possibilità di ascolto, di contatto con la verità propria e degli altri, che, se non ha certezze, porta però a sentirsi in cammino nella vita. E come nella fiaba, un seme di dattero coltivato con amore e costanza, una colombina bianca che insegna come rivolgersi alla fata Colomba dell'isola di Sardegna, nella cenere del focolare o su un ramo di nocciolo, contengono una magia. Sono simboli, nuclei di senso che nessun ragionamento può definire.

 

 

 

 

5. Come nelle fantasme

 

Quando da una scuola o da una biblioteca mi chiedono di tenere una conferenza, se propongo come titolo C'era una volta Cenerentola assassina, chiedono di solito, se possibile, un titolo meno violento, mentre i bambini, come abbiamo visto, non avendo ancora un'identità del tutto strutturata secondo norme consensuali e rigide idealizzazioni, comprendono la fiaba in maniera eccellente. Quando chiedono se non è pericoloso per il senso di realtà dei bambini nutrirli di fiabe e miti pieni di cose non realistiche, insegnanti e genitori esprimono spesso preoccupazione per il loro proprio equilibrio fondato sulla rimozione, non per l'educazione dei bambini. Allo stesso modo a volte mi chiedono se la psicoanalisi, che è uno strumento per conoscersi in profondità, può turbare l'equilibrio in maniera pericolosa. La conoscenza di sé è il percorso che consente di nominare gli oggetti psichici, non la magia pericolosa che li crea: le realtà minacciose sono interiori.

Tanto tempo fa, la prima volta che teneva un ciclo di incontri con i bambini, fui sollecitata dall'insegnante di classe, una seconda elementare, a dire che i miti greci non erano veri. Un genitore era venuto a lamentarsi perché la sua bambina aveva affermato che nell'antica Grecia si poteva nascere anche dalla testa o dalla coscia. Ero tenuta a dire qualcosa, ma non avevo nessuna intenzione di definire non veri fin dalla loro nascita Atena e Dioniso. 

Allora chiesi ai bambini se conoscevano il loro segno zodiacale, e tutti in classe lo sapevano. Dopo aver disegnato tanti punti sulla lavagna chiesi ancora: "Avete mai visto il cielo stellato?" e, siccome era nell'esperienza di tutti i bambini, continuai: "Avete visto le stelle come tanti puntini luminosi, così... ecco, molte migliaia di anni prima di inventare la scrittura, gli uomini guardando il cielo videro le costellazioni, che possiamo disegnare così... alcune linee collegano certe stelle, e formano una costellazione, come quelle dello zodiaco, o come l'Orsa maggiore e l'Orsa minore, con la Stella Polare nella coda, che permette di orientarsi nel buio... Ecco: la realtà di tutti i giorni, le cose che si vedono e si toccano, uguali per tutti, sono come i puntini luminosi, mentre le storie che raccontiamo, miti e favole, sono come le linee che collegando i puntini fra loro permettono di vedere le figure nel cielo".

Ma sono gli adulti ad aver bisogno di certe spiegazioni, non i bambini, basta leggere alcune cose che scrivono spontaneamente dopo aver ascoltato una fiaba, come questa bambina di seconda media:

 

Secondo me questa fiaba sarà anche fantastica, ma è bella, e mi piacerebbe molto che invece di essere fantastica fosse vera. Mi è piaciuta moltissimo. So superbenissimo che questa fiaba è fantastica, ma vorrei essere una protagonista.

 

La bambina che recitando i personaggi cattivi era uscita dal suo isolamento, dopo l'ultimo incontro mi scrisse una piccola lettera:

 

Quando noi arriviamo al giovedì siamo tutti contenti perché arriva lei e con le sue favole entriamo in un mondo di gioia e di fantasia, e quando bussano scoppia la mia fantasia e mi scoccia molto. Chiudiamo la porta e io rimonto nella mia nuvoletta multi colori per avviarmi nel mondo fantasioso. Purtroppo la favola finisce e il mio mondo e la nuvoletta diventano briciole che nel corso dei giorni si ricompongono per un'altra fiaba che parli di amicizia, e di fedeltà.

 

È difficile che un adulto, per quanto sensibile e attento, raggiunga in un solo ciclo di incontri sulla fiaba una comprensione così piena della sua funzione: un gioco di relazioni e di simboli che per un po' permettono alla mente di sciorinare sogni e paure, come panni in un giorno di sole; anche se viene interrotto bruscamente dalla custode che bussa per chiamare l'insegnante, sa riprendere quota, aereo. Il mio mondo e la nuvoletta  incantata poi diventano briciole, scrive la bambina, e pensiamo alle sue difficoltà da affrontare nella vita quotidiana, fatta troppo spesso di ritmi disarmonici, di fili spezzati, riflessioni interrotte. È ben chiara per lei la differenza tra il mondo della fiaba e del sogno e quello della realtà di tutti i giorni, ma la cosa più bella sono le briciole che restano quando la fiaba è finita, simili ai semi che secondo Bettelheim  si depositano nella mente del bambino. Briciole, frammenti di cibo, che senza sforzo nel corso dei giorni si ricompongono per un altra fiaba che parli di amicizia, e di fedeltà.

Il senso di verità non coincide con il realismo di un'esperienza, e ne è completamente separato se s'intende per realtà qualcosa che richiede di rimuovere il senso del sogno e del desiderio. Cosa c'è di realistico in un innamoramento? o in uno stato di depressione che vede chiuso, bloccato da ogni parte, l'orizzonte altrimenti vasto e aperto della vita? Acquisire il senso della realtà comune a tutti, apprendere e affinare un linguaggio che permetta di comunicare e crescere insieme, richiede una lunga frequentazione dei registri fantastici, onirici, simbolici, sia personali che collettivi.

Il nostro tempo è il solo nella storia della cultura in cui un bambino rischia di crescere senza alcun nutrimento simbolico. Un'educazione che crede di costruire il senso della realtà rimuovendo questi registri non fa che rafforzare le serrature delle stanze dove sono chiusi i nostri fantasmi, dimenticando che le realtà incorporee si beffano di qualunque serratura. Un realismo di questo tipo porta a una visione del mondo più anti-scientifica di quella dei miti o delle fiabe che vorrebbe dimenticare come primitiva e infantile. Lo comprende bene Italo Calvino quando spiega cosa lo ha spinto a scrivere le Fiabe italiane:

 

...È che io credo questo: le fiabe sono vere. Sono, prese tutte insieme, nella loro sempre ripetuta e sempre varia casistica di vicende umane, una spiegazione generale della vita, nata in tempi remoti e serbata nel lento ruminio delle coscienze contadine fino a noi; sono il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e a una donna, soprattutto nella parte di vita che appunto è il farsi di un destino: la giovinezza, dalla nascita che sovente porta in sé un auspicio o una condanna, al distacco dalla casa, alle prove per diventare adulto e poi maturo, per confermarsi come essere umano (cit., vol. I, pp. 15-16) [6].

 

In campo letterario è netta e insuperabile la definizione di Marcel Proust a proposito del realismo nel racconto:

 La letteratura che s'accontenta di "descrivere le cose", di darne appena un miserabile rilievo di linee e di superfici, è, pur chiamandosi realista, la più lontana dalla realtà, quella che più ci impoverisce e ci rattrista, perché interrompe bruscamente ogni comunicazione del nostro io presente con il passato, di cui le cose serbavano l'essenza, e con il futuro, dove ci incitano a goderne nuovamente (Alla ricerca del tempo perduto, trad. di G. Raboni, 1993, vol. IV, p. 565).

 

Quando temono che ascoltando una fiaba i bambini si aspettino di trovare l'orco alla fermata dell'autobus, o il drago dalle sette teste nel giardino zoologico, gli adulti esprimono il loro realismo antiscientifico, come se entrassero in rapporto con la realtà solo a patto di negare la molteplicità di registri che sono sempre presenti nella nostra mente, che vanno da quello più oscuro del sogno notturno a quello della fantasia a occhi aperti, senza la quale è difficile pensare al formarsi di un desiderio e di un progetto. Non riescono a vedere che nella fiaba stessa ci sono  formule di entrata e di uscita. C'era una volta, tanto tempo fa, nell'ultimo dei reami... stretta la foglia larga la via / dite la vostra che ho detto la mia... si avverte che si entra in un reame particolare, delimitando la fiaba, come addormentarsi e svegliarsi delimita il sogno notturno.

Tra i personaggi fiabeschi che dedicano cure amorose a un oggetto che dispiega in loro favore le sue virtù magiche, c'è Adamantina, una bambina orfana di madre come Cenerentola. Si racconta che s'innamorò di una poavola[7], un bambola vista al mercato, e per averla diede una libbra di filo, tutto ciò che possedeva, anziché comprare il pane. Per questo prese le botte dalla sorella maggiore, ma non se ne lamentò:

 

Venuta la sera, Adamantina, come le fanciullette fanno, tolse la poavola in braccio, ed andossene al fuoco; e preso dell'oglio della lucerna, le unse lo stomaco e le rene: indi, rivoltata in certi stracci ch'ella aveva, in letto la mise, ed indi a poco, andatosene a letto, appresso la poavola si coricò (Straparola, cit., vol. I, pp. 221-222).

    

Attraverso molte peripezie la poavola rese Adamantina ricca e poi sposa del re, proprio per le cure amorose che le aveva dedicato. Adamantina e Cenerentola, dopo aver perduto la madre, crescono fino a diventare regine grazie alle cure che dedicano a un seme o a una poavola: atto che può apparire insignificante a una lettura piatta e realistica, mentre simbolicamente rappresenta l'esito positivo di un processo di riparazione e di crescita. La bambola è per la bambina ciò che lei stessa è per la madre: le cure amorose che le dedica simbolizzano la soddisfazione nella relazione con la madre. Il seme è l'elemento che contiene, invisibile, la nuova pianta, che nella terra germoglia e cresce come il bambino nel seno della donna.

La magia segna una trasformazione psichica profonda, della quale nessuna descrizione realistica può dar conto, poi, quando la storia si è compiuta nelle pagine del libro e nel gioco della fantasia, non si parla più del dattero della fata Colomba, che ha dato il suo aiuto nel momento della massima difficoltà. La magia, il miracolo di cui parlano le fiabe, consente trasformazioni che sembravano impossibili, aiuta a riprendere un cammino che si era bloccato, per povertà, per invidia, per bruttezza, per sfortuna, poi non ce n'è più bisogno, come  raccontava Straparola nella fiaba della bambola:

 

La poavola, vedute le superbe nozze dell'una e dell'altra sorella, ed il tutto aver sortito salutifero fine, subito disparve. E che di lei n'avenisse,  mai non si seppe novella alcuna. Ma giudico io che si disfantasse, come nelle fantasme sempre avenir suole (cit., vol. I, p. 226).



[1]  O dio, e non avresti potuto essere tu la mammetta mia, tu che mi fai tante carezze e moine? (Ivi, p. 125)

 

[2]  Per rendere accessibili a un pubblico più ampio, e in particolare ai bambini, le antiche fiabe italiane, ne ho scelte venticinque dalle raccolte di Straparola e Basile alle quali ho sempre attinto per i miei racconti nelle scuole, trascrivendole in un linguaggio facilmente comprensibile. La mia raccolta (Le prime fiabe del mondo, 1996) include la prima versione a stampa di fiabe rimaste celebri in altre versioni, come il Gatto con gli stivali, Cenerentola, La bella addormentata, e comprende in equilibrio fiabe comiche e fiabe drammatiche, con protagonisti maschili e femminili. Sono state le mie esperienze nella scuola a indurmi a preparare questa trascrizione di racconti, scelti in modo da offrire un ampio ventaglio di rappresentazioni dei temi e dei problemi della crescita.

 

[3]  Dattero mio dorato, / con la zappetta d'oro t'ho zappato, / con il secchiello d'oro t'ho bagnato, / con la tovaglia di seta t'ho asciugato, / spoglia te e vesti me (Ivi, p. 131).

 

[4]  Per il simbolismo del mandala e la crescita come processo di individuazione, vedi: Carl Gustav Jung, Gli archetipi dell'inconscio collettivo (1934/1954).

 

[5]  Sul lavoro psicoanalitico con la fiaba nella scuola, vedi il mio saggio Re porco e i bambini narratori; in: AA.VV., La crescita misconosciuta, Edizioni ETS, Pisa 1997.

 

[6]  A proposito dell'attribuzione della fiaba alla cultura orale e contadina, occorre prendere le distanze da uno schematismo che impedisce di vedere come le fiabe si formino secondo movimenti complessi, non solo di bocca in bocca, ma anche di libro in libro, e, molto più spesso di quanto non si creda, dalla carta stampata alla tradizione orale, oltre che da questa alla letteratura culta.

 

[7]  Basile si ispirò a questa fiaba delle Piacevoli notti per La papara (Basile, pp. 888-895), che prende il posto della poavola di Straparola. Non so se Basile ignorasse che poavola significa bambola, e se possa aver preso il termine bergamasco per il nome di un uccello, come alzavola o poiana: di fatto, per quello che fa col sedere del re, una bambola di pezza è molto più plausibile di un'oca. Ma la papera è stata abbastanza fortunata da arrivare, attraverso l'Oca d'oro dei Grimm, fino alle versioni correnti (Grimm, cit., vol. II, pp. 19 sgg.). Valga come esempio della ricchezza espressiva delle fiabe, nelle quali anche il fraintendimento è fecondo.

 

2. La madre, la morte, lo specchio

LA MADRE, LA MORTE, LO SPECCHIO

 

Specchio, specchio delle mie brame,

chi è la più bella del reame?

 

 

1. La relazione pericolosa

 

Il matricidio della Gatta Cennerentola è una figura esplicita e perturbante della distruttività tra madre e figlia, anche se riguarda ogni relazione tra due esseri umani nella quale può inscenarsi il conflitto intrapsichico tra il fantasma materno e le possibilità creative e generative del soggetto, maschile o femminile.

Analizzeremo la fiaba di Cenerentola nelle sue molteplici varianti come un racconto di straordinaria efficacia del dramma cruciale del femminile: la crescita, la rottura delle identificazioni infantili con i genitori, il lutto causato dalla perdita del loro fantasma onnipotente, la riparazione e la riscoperta di una figura materna positiva, l'acquisizione di una identità femminile eterosessuale ricca e complessa, l'incontro esogamico con il maschile. Approdare a questa meta è la massima aspirazione della donna, ma completare il cammino che consente di realizzarla è un raro dono della vita, che non coincide certo con la scansione cronologica che lo vorrebbe considerare compiuto all'età in cui di solito la donna si sposa. La fiaba di Cenerentola è un grande sogno collettivo che esistendo in tutto il mondo attesta il desiderio, il bisogno, e la penosa mancanza, di questa crescita. Stiamo parlando di un femminile che non trae la sua identità e la forza di vivere né dalla riproduzione acritica della figura materna né dalla fissazione alla figura paterna.

Osserveremo nella fiaba varie rappresentazioni della violenza nella relazione madre-figlia, considerandole come sogni collettivi dai quali la censura non ha espulso l'elemento più perturbante[1]. xzxz

In ogni storia di Cenerentola la madre muore o è morta, e il fatto che la protagonista non sia assassina come quella di Basile significa solo che il soggetto non mostra consapevolezza della sua stessa distruttività, proprio come quando sognamo che una persona cara muore: possiamo anche soffrirne nel sogno, e disperarci, ma se il nostro regista notturno ha messo in scena la sua morte, vuol dire che la nostra aggressività nei confronti di quella persona si manifesta. Si dice comunemente che se si sogna che qualcuno è morto, gli si allunga la vita, e credo che questo detto abbia almeno due valenze: può equilibrare il senso perturbante che la distruttività emersa, anche se nel sogno, provoca, oppure può indicare che la distruttività stessa, pur essendo emersa solo nel sogno notturno, è meno pericolosa, perché è pervenuta ad espressione. Intendiamo con distruttività una componente aggressiva, della quale nella vita di tutti i giorni possiamo osservare le manifestazioni nel bambino piccolo, che al genitore che non l'ha accontentato dice: "sei brutto, va' via, non ti voglio più", o nell'adulto alterato dalla collera che scaglia maledizioni fatte di accidenti e morte per l'antagonista.

Quando la madre buona è morta, la protagonista cade in balia di una madre cattiva: percepisce così la figura materna quando la parte generosa, accogliente, è stata distrutta dall'invidia e dalla voracità. L'alternanza tra la percezione di una madre tutta buona e una madre tutta cattiva designa una posizione schizoide, tanto più forte quanto più il bambino è piccolo, ma ricorrente in condizioni di scarso equilibrio psichico. Melanie Klein definisce come posizione schizoide la fase in cui il lattante passa senza soluzione di continuità da un benessere legato alla sazietà, assoluto come il paradiso, con una madre dal seno pieno che dispensa latte a volontà, a un malessere disperato legato alla fame, con una madre dal seno vuoto, divorante come la fame stessa. Possiamo osservare delle oscillazioni schizoidi nell'innamoramento dell'adulto e nelle turbolenze dell'adolescenza,  condizioni in cui si riattivano con la massima intensità i fantasmi infantili tenuti fino a quel momento sotto controllo, quasi sotto chiave, dalla rimozione.

L'adolescente vede nei genitori, vissuti nell'infanzia come onnipotenti, degli esseri incapaci e privi di comprensione, che non fanno altro che ostacolare la sua crescita. L'innamorato percepisce la persona amata come la più bella e ricca del mondo, ma se l'amore fallisce la descriverà come la più crudele; oppure la posizione schizoide varrà come aggressione verso se stessi anziché verso l'altro: credendosi ricambiato l'innamorato si sente un re e un probabile trionfatore, per sentirsi poi abbandonato e malvisto dal mondo intero appena crede di essere tradito o abbandonato.

La madre, colei che dà vita, latte, carezze, attenzione, al neonato, quando la dipendenza dell'essere umano è massima, è la matrice e il modello di tutte le successive relazioni. Nel caso del maschio l'altro sesso, da amare nella fase edipica e nell'età adulta, resta quello della prima matrice, mentre la relazione col proprio sesso, col padre, riguarda l'identificazione: invece nel caso della femmina il primo oggetto d'amore, la madre, è il proprio sesso, al quale deve subentrare come oggetto d'amore la figura maschile, il padre, mentre la figura femminile deve costituire il modello per l'identificazione. L'identità maschile e l'identità femminile hanno percorsi diversi e non paralleli, né speculari, a meno che non si consideri la donna, come è accaduto anche in psicoanalisi fino a Melanie Klein, come specchio dell'uomo, e la sua psicologia come un gioco centrato sulla mancanza del pene e la rassegnazione a questa mancanza. Riteniamo che una permanenza oltre certi limiti nella sfera di questa relazione con la madre comporti per la donna l'impossibilità di pervenire all'incontro col diverso, con l'uomo, impedendole di raggiungere l'eterosessualità esogamica, che la fiaba rappresenta con le nozze regali.

Non parleremo di omosessualità femminile come della scelta adulta di oggetti erotici del proprio sesso, ma in un senso molto ampio, come della tendenza a vivere e crescere esclusivamente o prevalentemente in relazione con l'altra donna, prima di tutto con la madre, poi con i suoi sostituti, sia propizi, come le amiche del cuore, sia persecutori, come le rivali in amore o le suocere, che, per inciso, nelle fiabe svolgono le stesse funzioni in rapporto alle protagoniste. Il carattere di una psiche femminile può essere prevalentemente omosessuale anche in presenza della scelta di un oggetto d'amore maschile. La donna continua spesso a rapportarsi all'altra, simile a sé, più che all'altro da sé, al diverso, all'uomo, anche se si sposa e ha figli. L'identità sociale acquisita può essere solo un involucro, più o meno fragile, che avvolge le caratteristiche profonde della persona, nascondendole invece di consentirne l'espressione, comprimendole con meccanismi di rimozione e denegazione anziché favorendo i processi di trasformazione senza i quali non esiste crescita né gioco affettivo e creativo della persona sulla scena della vita.

La morte della madre, intesa come rottura violenta dell'identificazione simbiotica con la figura materna, rappresenta un passaggio normale nella crescita della donna. Se assumiamo il simbolo delle nozze regali come figura della piena identità eterosessuale ed esogamica, possiamo dire con la fiaba: ogni volta che nella situazione d'inizio la madre muore, la figlia, protagonista della fiaba, dopo una serie di tappe e movimenti, perviene all'identità regale. Quanto affermiamo contrasta con l'immagine della madre eufemizzata che la cultura propone, sempre disponibile, accogliente, pronta a mettersi da parte per i figli, sacra come la Madonna e priva di qualunque pulsione egocentrica e distruttiva. L'affermazione che nello sviluppo della donna l'uccisione, l'eliminazione violenta, della figura materna, costituisce un evento normale e necessario, suona come aberrante e crudele, e turba, perché tocca una corda che esiste in ciascuno di noi. L'idealizzazione della madre serve proprio a negare, per difenderci dall'angoscia che comportano, le componenti distruttive che nella relazione con la madre sono presenti: ma solo confrontandoci con ciò che esistendo ci preme, e se non ne siamo coscienti ci preme ancora di più, possiamo cercare di trasformarlo nella relazione viva con noi stessi e con coloro che incontriamo. Possiamo pensare alla morte della madre, che apre tutte le storie di Cenerentola, come alla caduta delle foglie di un albero ad autunno, senza la quale non ci sarebbero nuove foglie, e fiori e frutti nella nuova stagione, o alla luna che diminuisce il suo splendore fino a scomparire alla vista, per poi ricrescere e tornare a illuminare il cielo notturno.

 

 

2. La figlia più bella della madre

 

C'erano una volta un re e una regina che avevano una figlia, e la regina si ammalò gravemente. Quando capì che era alla fine chiamò il marito affranto e gli fece giurare che non si sarebbe risposato se non avesse trovato una donna bella come lei.

Ogni volta che una fiaba comincia con questa morte e con questo giuramento, accade che il re, dopo aver pianto più o meno a lungo la sposa, si metta a cercare senza successo una donna con quelle caratteristiche. Intanto la principessa cresce, ed essendo la sola donna al mondo come l'ha descritta la madre e come la cerca il padre, il re vuole sposarsela. 

Nella raccolta di Perrault questa fiaba si intitola Pelle d'Asino, ma è meno conosciuta delle altre: il motivo esplicito dell'incesto ne ha causato l'oblio, ed è improbabile che ne vedremo un cartone animato della Disney. Come il matricidio della Gatta Cennerentola, le nozze incestuose volute dal padre rappresentano qualcosa che esiste comunemente, ed è proprio la sua realtà perturbante a provocarne la rimozione. Noi ci indignamo e parliamo di criminalità e perversione quando si verificano violenze eclatanti nella famiglia, ma non vogliamo riconoscere la presenza di questi temi in ogni relazione tra figli e genitori. Freud, che teorizzò l'amore edipico come stadio normale della crescita, preferì indagarlo in un solo senso, dai figli verso i genitori, lasciando da parte quello dei genitori verso i figli, nonostante la cronaca ne attesti continuamente la presenza. Se la rappresentazione fiabesca di questi temi viene compresa anziché rimossa, noi ci accorgiamo che il sogno collettivo di Cenerentola o di Pelle d'Asino ci offre un grande tesoro, perché insieme alla tensione perturbante racconta la sua trasformazione. Non c'è possibilità di contenere la patologia psichica e di favorire la crescita se la rimozione che guida  l'educazione non lascia spazio alla comprensione della realtà affettiva. Riconoscere la realtà psichica schiude la visione di una complessità che turba, ma cercando di non vedere si gira a vuoto. Così accade allo psicologo quando si comporta come l'ubriaco che, avendo smarrito il suo orologio in un vicolo buio, lo cercava sotto un lampione: quando gli chiesero cosa mai sperasse di trovare, si giustificò dicendo che quello era l'unico posto illuminato.

Ben lontana dal luminoso cliché della madre che ama con tutto il suo grande cuore e gioisce della bellezza e della crescita della figlia, ma preziosa per comprendere la tensione di questa relazione, è una storia molisana, intitolata U padre e a figlia:

 

C'era 'na vota 'nu marito e 'na mogliera: chessa mogliera era 'nu poco fanatica; a mattina ieva sempe 'ncoppa a loggia, e quanno passava u sole addimannava:

 

Sole mio ritunno,

Si àveto e si tunno

E giri tutto lu munno;

Ce sta 'na femmena chiù bella e me?

         

e u sole diceva: none! none! none!

Tutti i juorni era sta storia, fintanto che asciva prena, se guastava de colore, e quanno iette 'ncoppa a loggia e dice:

Sole mio ritunno ecc. ecc. u sole risponneva: sine! sine! sine! essa iette a chiagne a bascio, e d'a collera le venne a freve. U juorno appriesso, iva ncoppa a loggia pe addimannà a u sole: chi è sta femmena chiù bella di me? e u sole: è sta figlia che tieni in cuorpo. Chesta femmena nu ghievo chiù 'ncoppa a loggia, se mettive a chiagne into u lietto, fintanto che partoreva, e ne moreva (Gioielli, Fiabe, leggende e racconti popolari del Sannio, 1993, p. 406).

 

Oggetto magico con la stessa funzione di questo sole molisano, ma molto più famoso, è lo specchio della regina Grimilde, che comincia a perseguitare Biancaneve quando la principessina la supera in bellezza. In questo caso la figura materna persecutoria blocca la crescita e la vita della protagonista, che per un tempo indeterminato dovrà giacere nella bara di cristallo come morta. Dello stesso sonno simile alla morte cade vittima per cento anni Rosaspina, e riteniamo che si tratti anche qui di un conflitto col femminile. Di invidia si parla a proposito della dodicesima fata, quella che non era stata invitata al battesimo, e che per questo aveva lanciato la sua maledizione: "A quindici anni la principessa si pungerà con un fuso e cadrà a terra morta".

Bruno Bettelheim interpreta il lungo sonno come rappresentazione della passività che le ragazze vivrebbero nel periodo della prima mestruazione, e negli anni della pubertà in genere, e descrive così il momento in cui la principessa si punge col fuso:

 

A questo punto la storia abbonda di simbolismo freudiano. Nell'avvicinarsi al luogo fatidico, la ragazza sale per una scala a chiocciola; nei sogni queste scale rappresentano in modo tipico delle esperienze sessuali. In cima a questa scala essa trova una porticina con una chiave infilata nella toppa della serratura. Girata la chiave, la porta "si apre di scatto", e la fanciulla entra in una stanza dove una vecchia è intenta a filare. Nei sogni una stanzetta chiusa a chiave rappresenta gli organi sessuali femminili; spesso l'atto di girare una chiave in una serratura simboleggia il rapporto sessuale. Quando vede la vecchia che fila, la ragazza le chiede: "Cos'è questa cosa che salta qua e là in modo così bizzarro?" Non ci vuole molta immaginazione per capire le possibili connotazioni sessuali della conocchia, ma non appena la ragazza la tocca si punge un dito, e cade addormentata (cit., p. 224).

 

Certo la Rosaspina dei Grimm  analizzata da Bettelheim è densa di simbolismo sessuale, ma nonostante la forma del fuso, della conocchia, o della resta di lino, presente nella versione secentesca [2], riteniamo che la fiaba non rappresenti una sorta di incontro prematuro con l'altro sesso, che avrebbe effetti tanto laceranti da far cadere la principessa in un sonno simile alla morte, magari per un secolo intero. Come Rosaspina anche Biancaneve appare morta, e sarà il bacio del principe a svegliarla, ma per lei nessuna forzatura interpretativa potrebbe mostrare che la stasi come di morte è provocata da un incontro con l'altro sesso. Se si considerano i sette nani, parenti di antiche divinità itifalliche, portatori di valori sessuali maschili, dobbiamo osservare che l'incontro con loro e la permanenza nella casetta nel bosco proteggono Biancaneve dalla minaccia di morte che la perseguita. I nani le consentono inoltre di sperimentare una identità femminile senza rivali: sono felici di tutto quello che per loro fa Biancaneve, pulendo e cucinando, in attività che designano la sfera del femminile. Nella loro funzione maschile i nani riescono a sventare i primi due attacchi della perfida matrigna: il materno persecutorio nascosto dalla maschera inoffensiva della vecchietta offre una stringa di seta e un pettine. Biancaneve, nonostante i nani l'abbiano ammonita a non aprire a nessuno in loro assenza, li accetta: sono oggetti inerenti l'identità femminile, e Biancaneve ha bisogno di ottenere dalla figura materna elementi di identità che le mancano e che non possono venirle dai nani. I sette ometti del bosco riescono a individuare i due oggetti, salvando Biancaneve dai veleni con i quali la madre persecutoria ha inquinato questi simboli dell'identità femminile. Ma sono impotenti rispetto al terzo dono avvelenato: la mela. Mentre il pettine e la stringa di seta riguardano l'identità visibile della donna, la mela, il frutto per eccellenza, chiama in campo il nutrimento materno che è primariamente la madre stessa. Di nuovo vediamo che Biancaneve è attratta da un cibo che non trova dai nani: dalla madre stessa. Solo il principe, e solo dopo un tempo nel sonno simile alla morte, potrà liberarla. È essenziale comprendere questo cibo avvelenato, che rappresenta l'irrinunciabile nutrimento che viene dalla madre ma che allo stesso tempo distrugge: costituisce il fulcro della patologia più grave nella quale si esprime il conflitto madre-figlia. Nell'anoressia il bisogno di difendersi dalla madre come cibo avvelenato si attua con un rifiuto di tutto il cibo, che allo stesso tempo è rifiuto del proprio corpo, della propria crescita, della propria carne. La distruzione della madre come rifiuto del cibo-madre coincide con la distruzione di sé.

Tornando al fuso, alla conocchia o alla resta di lino che fanno cadere in un secolo di sonno Rosaspina, possiamo osservare che la maledizione viene da una figura femminile invidiosa, la fata trascurata, e interdice una sfera simbolica che può designare l'intero femminile: filare e tessere. Non ci sembra che il sonno simile alla morte di Biancaneve e Rosaspina rappresenti la fase di latenza relativa alla pubertà, né che l'oggetto appuntito che lo provoca simbolizzi il fallo maschile. Fuso o resta di lino, appartiene alla sfera femminile, e preferiamo interpretarlo come simbolo del carattere fallico femminile, presente nel fantasma materno prima che esso sia delimitato e contenuto dalla figura maschile. In queste fiabe vediamo che il re padre opera questo contenimento, proibendo la filatura nel suo reame, e l'effetto della sua proibizione, come dell'esortazione dei nani a Biancaneve a non accettare nessun dono, riesce ad attenuare la distruttività materna. Alla morte viene sostituito un sonno simile alla morte, e la condanna di questa protagonista femminile non resta senza appello.

La distruttività della figura materna è percepita come onnipotente quando la figlia vive con la madre un rapporto simbiotico, non articolato dalla figura del padre. In questo caso la sua possibilità di sposarsi e generare figli è compromesso, a meno che non intervengano processi di trasformazione che, come nella fiaba, sciolgono la stretta totalizzante in cui il soggetto vive, nella sfera dell'ambivalenza materna.

Una giovane paziente, che è venuta in analisi per disturbi anoressico-bulimici, poco prima di cominciare a nutrirsi normalmente ha sognato una figura femminile, che assimilava a se stessa,  immersa nell'acqua, in una cassa di vetro, con molte corde che la fissavano al fondo. Quando la donna cominciava a crescere, come lievitando, le corde le tagliavano la carne.

Immersa nel liquido materno, contenuta in una prigione simile alla bara di cristallo di Biancaneve, la donna si rappresenta la sua crescita come morte. Può scegliere tra questa morte e il controllo del proprio peso attraverso il cibo, divorato e vomitato senza riferimento ad alcuno stimolo di fame o sazietà. Il controllo del cibo e del peso si è ritirato per lasciare il posto alla percezione comune del desiderio di mangiare e di smettere di mangiare solo quando la giovane donna ha sperimentato la possibilità di discriminare secondo il proprio desiderio cibo buono, da assimilare, e cibo cattivo, da rifiutare. Questo processo è avvenuto nel corso di un lungo lavoro d'analisi, a proposito del cibo simbolico, ovvero delle parole e delle rappresentazioni che trovano nella situazione analitica una sorta di cucina alchemica. Mi pare importante che si rifletta su questo: un comportamento che si presenta al nostro giudizio comune come distruttivo, fino alla morte, costituisce per il soggetto un disperato tentativo di evitare una morte certa,  il cui senso è inaccesibile al senso comune. Ogni volta che si sollecita un'anoressica a nutrirsi le chiediamo di annientare il suo essere, per preservare il quale l'anoressia è la sola strategia che ha elaborato.

Quando intervengo nelle scuole penso che se nell'educazione si desse spazio all'ambivalenza presente nella relazione madre-figlia si attuerebbe almeno una forma di prevenzione: le figlie forzate a non esprimere la loro aggressività diverranno madri tanto timorose della propria distruttività da non permettersi nemmeno quelle espressioni di rifiuto dei figli che erano usuali una o due generazioni fa, quando la madre nell'ira minacciava: "T'ho fatto e ti disfò!".

Forse non è inutile precisare che non esiste una madre reale che non dispensi almeno un po' di cibo buono, né una figlia che non ne abbia ricevuta almeno una piccola quantità: nessuna crescita, per quanto parziale, sarebbe altrimenti possibile. Parliamo di madre per designare una figura materna, un fantasma psichico, che non coincide con la persona concreta. La madre persecutoria e distruttiva è fantasmatica, ed è totalizzante se non sono accessibili le risorse che consentirebbero la crescita; questa realtà psichica non è da imputare alla madre anziché alla figlia, o viceversa: la malattia è malattia della loro relazione.

Di questa relazione dolorosa raccontano le fiabe, i sogni collettivi che noi tutti sognamo leggendo o ascoltando storie antiche dalla semplicità solo apparente, dove tutto sembra succedere secondo un arbitrio bizzarro, mentre è mosso da bisogni affettivi profondi, quasi sempre nascosti allo sguardo. Le stesse fiabe raccontano come questi drammi possono essere vissuti senza esserne distrutti, e come attraversare i conflitti peggiori possa permettere al soggetto, alla protagonista, di crescere e trasformarsi fino all'acquisizione di una sufficiente maturità.

 

 

 

3. Ciò che limita il vero

 

Quando lo psicoanalista interpreta un sogno, tiene conto degli altri sogni che quel paziente ha portato, nel contesto dell'intero caso clinico, mentre l'interpretazione psicoanalitica delle fiabe viene troppo spesso condotta su una sola o su poche varianti. Per quanto le interpretazioni possano essere giuste, esse possono suscitare nel lettore un senso di arbitrarietà così forte da portare al rifiuto dell'interpretazione. Per questo procedo tenendo conto di un ampio numero di versioni, anche se in questa esposizione ne cito solo alcune, che ho scelto perché sono le più diffuse, e quindi le più rappresentative, come un sogno notturno ricorrente. Quando, è il caso della versione molisana di Pelle d'Asino, scelgo un particolare inconsueto, è perché a partire da questo posso approfondire l'interpretazione del tipo più comune.

Ogni interpretazione di una fiaba o di un sogno può risultare incompleta e lacunosa, se rispetta la complessità polimorfa del suo oggetto d'indagine, ma se lo psicoanalista si avvale di molte versioni, comparandole, e tiene conto degli studi sulla fiaba che sono stati condotti in diversi ambiti disciplinari, può adoperarsi per ridurre quel senso di arbitrarietà che rischia di far dubitare del valore dell'interpretazione psicoanalitica stessa. Non esiste altro strumento che la psicoanalisi per individuare il senso psicologico delle fiabe antiche, e restituire visibilità a rappresentazioni collettive che altrimenti rischiano di essere dimenticate, come tesori dei quali per incompetenza si misconosce il valore.

Lo psicoanalista che indaga nelle fiabe deve aprire linee interpretative che, cogliendo il senso di motivi apparentemente arbitrari, consentano una maggiore comprensione di questi grandi sogni collettivi. Così può offrire un contributo agli studiosi di altre discipline, mentre in psicoanalisi lo studio delle immagini simboliche collettive costituisce da sempre un campo d'osservazione che chiarifica e arricchisce le teorie elaborate nel lavoro clinico.

Come nella scrittura di un caso clinico, esporre un'interpretazione della fiaba è altro dal procedimento d'indagine, che ha una complessità di elementi, di rimandi, una scansione temporale nelle scoperte e negli approfondimenti, impossibile da rendere. Un testo psicoanalitico sulla fiaba sarà un lavoro riuscito non tanto se sarà fornito di rigore e competenza tali da limitare le accuse di arbitrarietà e unilateralità, ma se aprirà percorsi di conoscenza che invitino altri a mettersi in cammino, arricchendo il percorso di conoscenza proposto, o aprendone di nuovi.

Secondo il matematico René Thom il vero non è limitato dal falso, ma dall'insignificante: "Ce qui limite le vrai, ce n'est pas le faux, c'est l'insignifiant" (Predire n'est pas epliquer, 1991, p. 132)[3].

In psicoanalisi la stessa cosa è espressa da Wilfred R. Bion: "Per una interpretazione, ancora peggiore che essere ingiusta o sbagliata è il fatto di non riuscire ad essere significante, anche se essere significante basta solo ad assicurarsi della sua esistenza" (Attenzione e interpretazione, 1973, p. 108)

La ricerca non è l'acquisizione della certezza, ha come figura il cammino in un'area di conoscenza, non il suo dominio, mira a una descrizione efficace, non a una definizione esaustiva. Per la fiaba, come per ogni rappresentazione che partecipa dell'inesauribile complessità della realtà psichica, l'incertezza e l'erranza partecipano del rigore. D'altra parte, per la meta di un percorso di conoscenza come di un viaggio, la sola condizione che esclude che la meta possa essere raggiunta, è la disperante impressione che non esistano strade. 

Il lettore attento potrebbe essersi chiesto come mai la trama di Pelle d'Asino, con la richiesta incestuosa del padre, abbia come motivo d'inizio sia una madre che muore chiedendo al re di sposarsi solo con una donna come lei, sia una madre che muore perché ha saputo che la figlia che porta in seno la supererà in bellezza.

Premettendo che la risposta a questa domanda potrà completarsi solo con l'analisi di tutto il sogno di Cenerentola, incluso l'incontro col principe, possiamo osservare che in entrambi i casi è presentata una figlia che eguaglia e supera in bellezza la propria madre. Ogni competizione fra madre e figlia, sia che la fiaba metta in campo il personaggio della madre, sia che ricorra a sostituti, come matrigne, rivali, suocere o streghe, è sufficiente a fornire un motore al racconto, che deve procedere fino a una soluzione del conflitto. Il cui esito perfino nelle fiabe può essere letale, come accade nella storia Lo viso di Basile (cit., pp. 500-517), dove compaiono gli stessi elementi di cui stiamo parlando - l'assenza della madre e una maledizione analoga a quella di Rosaspina - senza però che la trama consenta altro che la tragica morte dei protagonisti. Riprenderemo questa storia più avanti, per il momento diciamo solo che ci sono anche fiabe senza lieto fine, di una tristezza struggente.

 

 

4. Una relazione troppo perfetta

 

Proponiamo a questo punto alcune osservazioni su un grande mito, che descrive la relazione tra madre e figlia nel suo sfondo simbolico più ampio, dando conto in questa chiave della prosperità e dell'aridità della terra madre.

Nominate dagli antichi come le grandi dee, o semplicemente come le dee, Demetra e Kore per i Greci, Cerere e Proserpina per i latini, costituiscono un'unità, in cui i due aspetti del femminile vivono un benessere senza tempo, al quale corrisponde sulla terra una produzione spontanea e abbondante di messi e frutti.

La fanciulla, Proserpina, vive con la madre nell'isola di Sicilia dove eterna è la primavera, e mentre raccoglie fiori in compagnia con altre fanciulle il dio degli Inferi, Plutone, irrompe da profondità oscure e sulfuree per rapirla. Leggiamo Ovidio:

 

                                            ...Dea territa maesto

et matrem et comites, sed matrem saepius, ore

clamat, et, ut summa vestem laniarat ab ora,

conlecti flores tunicis cecidere remissis,

tantaque simplicitas puerilibus adfuit annis:

haec quoque virgineum movit iactura dolorem.

Raptor agit currus et nomine quemque vocando

exhortatur equos, quorum per colla iubasque

excutit obscura tinctas ferrugine habenas,

perque lacus altos et olentia sulphure fertur

stagna Palicorum rupta ferventia terra...

(L. V, vv. 396-406) [4]

 

Molte figure evoca questa brusca rottura, presenti nei sogni notturni in cui irrompe una figura maschile oscura, come nei riti legati alle nozze connessi alla deflorazione: la perdita dei gigli e degli altri fiori raccolti da Proserpina rappresenta la verginità violata. Nell'antica Roma quando gli sposi dopo la cerimonia entravano nella stanza nuziale venivano gettate per terra delle noci e il loro rumore, con le grida dei fanciulli che le raccoglievano, doveva coprire le grida della vergine. Nei giorni in cui ogni violenza era aggravata da un senso sacrilego, non poteva aver luogo la cerimonia nuziale, come se la prima notte fosse assimilata allo stupro.

Il mito delle grandi dee contiene il senso dell'incontro della fanciulla con lo sposo come una violenza, per la quale Proserpina viene strappata a Cerere: si rappresenta l'incontro della figlia con l'altro sesso come tragica rottura della loro beata unione.

Abbiamo osservato nelle fiabe rappresentazioni della relazione madre-figlia colme di distruttività, e abbiamo accennato alla patologia dell'anoressia come esito drammatico di questa violenza. Ma non possiamo pensare che una violenza tanto grave potrebbe permanere nel tempo, ed essere trasmessa di madre in figlia, come in un gioco di scatole cinesi che si alimenta da se stesso, se non fosse connessa al bisogno di mantenere qualcosa di vitale ed essenziale.

Di madre in figlia si trasmette il mistero e il potere di dare alla luce nuovi esseri viventi, e la coppia delle grandi dee trae la sua perfezione dal fatto che include colei che genera e colei che è generata, in un'identità talmente forte che la madre dispone sempre della figlia, e la figlia della madre.

Cerere reagisce alla perdita rendendo arida la terra intera: nessuna messe, nessun frutto viene generato, mentre va peregrinando in cerca di Proserpina, tanto che la stirpe umana rischia di scomparire. Quando la dea madre viene a sapere del rapimento chiede giustizia a Giove, padre di Proserpina, e il padre degli dei le risponde:

 

Commune est pignus onusque

nata mihi tecum; sed si modo nomina rebus

addere vera placet, non hoc iniuria factum,

verum amor est...

(Ivi, vv. 523-526) [5].

 

Accosto il sogno di un'altra mia paziente a questo confronto tra maschile e femminile riguardo alla perdita della verginità. La donna, nella realtà già sposata e con un figlio, sogna di essere in auto con un amico e col proprio nonno paterno, che fumano allegramente il sigaro. Quando si accorge che la sua gatta l'ha ferita nell'incavo di un ginocchio, sanguinante a seconda della posizione in cui tiene la gamba, la donna si preoccupa e chiede di essere portata subito all'ospedale. I due uomini però non le danno retta: il nonno si volta verso di lei e le sorride ammiccante.

Il sanguinamento dietro al ginocchio rimanda al ciclo mestruale: la sognatrice vuole essere portata all'ospedale perché vive questa manifestazione della sua femminilità come un grave rischio. Ciò che la donna considera come una ferita pericolosa, è riconosciuto dal maschile come una condizione che non desta preoccupazione.

Nel mito viene espressa in termini cosmici la stessa realtà psichica: quello che Cerere vive come una disgrazia tanto grande che nel suo lutto impedisce alla terra, cioè a se stessa, madre e matrice, di dare frutti, per Giove è vero amore. Tra gli innumerevoli contesti nei quali è attiva questa separazione tra i sessi, prendiamo il più comune: tra donne è frequente trovarsi in pieno accordo nel parlare degli uomini, mariti e figli, disprezzandoli o accusandoli, nella generazione passata più che altro di insensibilità e prepotenza, nella generazione attuale di debolezza e irresponsabilità. In questo atteggiamento è presente la tendenza della donna a permanere, anche se solo con una parte di sé, in una posizione omosessuale, come se il mondo femminile avesse caratteristiche indiscutibilmente migliori di quello maschile.

Perché la terra torni a dare frutti, a nutrire, perché si ripari quella lacerazione del femminile provocata dalla separazione fra madre e figlia, Giove acconsente a che Proserpina torni con Cerere, a patto che nella sua permanenza negli inferi non abbia gustato nessun cibo. Ma nel regno dello sposo la figlia ha colto e mangiato sette chicchi di melagrana: l'unione senza tempo con la madre non può quindi essere ripristinata. Proserpina tornerà con la madre per una parte dell'anno, mentre nell'altra parte vivrà con lo sposo come regina degli inferi. Quando la coppia delle dee si ricostituisce sulla terra la stagione è bella e ricca di messi, mentre alla loro separazione segue il tempo cattivo e la terra invernale non fa crescere nulla.

La melagrana, composta di tanti frutti, piccoli rubini che sono insieme altrettanti semi, è simbolo universale di fecondità: Proserpina ha gustato negli inferi il frutto che nella relazione simbiotica con la madre non poteva assaporare.

Non ci sono nozze senza la rottura del legame con la madre, e la rottura è comunque drammatica, perché pone fine a un rapporto felice grazie al quale la terra intera prosperava anche senza che l'uomo la coltivasse. Il mito racconta che al termine della vicenda delle dee gli uomini impararono dalla dea madre l'arte di coltivare la terra: questo rappresenta l'esito della rottura di una felicità primaria, un'età dell'oro priva di fatica e dolore, caratterizzata dalla stessa abbondanza del paradiso nel quale il neonato sazio è cullato dalla madre. Ma l'uomo che racconta si colloca sempre in un'età successiva a questa, il benessere assoluto appartiene a un passato o a un futuro sempre fantasticati.

La fusione tra madre e figlia crea un tempo senza tempo, senza stagioni che ne scandiscano il passare: senza la crescita della figlia, che diviene irreversibile col suo ratto, quando diventa sposa, la bellezza della coppia si alimenta dell'una e dell'altra. Il dramma comincia quando la figlia cresce, quando accade il distacco: come nelle fiabe la matrigna comincia a odiare la figliastra che crescendo la supera in bellezza. La crescita della figlia implica il declino della bellezza materna, che sfiorisce, perché se la figlia non crescesse, se non dovesse separarsi dalla madre, la madre non invecchierebbe mai. Riteniamo che la posta in gioco dei rapporti fusionali tra madre figlia sia proprio questa: se la figlia accetta di essere identica alla madre, la madre rivive nella figlia, e a livello psichico può evitare di rappresentarsi il suo invecchiamento e la sua stessa morte.

In questo senso sarebbe comprensibile un motivo contenuto in alcune versioni del mito di Cerere e Proserpina. Nella sua peregrinazione luttuosa, la dea madre

 

                                             ... saeva vertentia glebas

fregit aratra manu parilique irata colonos

ruricolasque boves leto dedit arvaque iussit

fallere depositum vitiataque semina fecit.

(Ivi, vv. 477-480) [6]

 

La disperazione e la distruttività della grande dea madre è assoluta, come il suo digiuno, fino all'incontro con la vecchia Baubò, che per farla ridere si alza le sottane mostrandole il grembo e il sesso, la matrice della vita nella sua versione appassita e ormai sterile. Il bambino presente a questa scena corre subito a toccare corre subito a toccare il grembo della vecchia, e muove al riso Demetra[7]. La dea madre sembra perdere la fissazione a una femminilità perfetta, di cui la diade con la figlia è l'espressione, che esclude il desiderio maschile.  Ridendo accetta la bevanda offerta: rompe il digiuno e il lutto, scioglie il rigore, e apre la scena a nuove vicende, che porteranno a una soluzione del dramma.

Qualcosa di simile accade nella storia cornice del Cunto de li cunti, dove il re padre di una principessa che non ride mai, in lutto quindi, quanto Cerere/Proserpina, fa costruire nella piazza sotto il palazzo reale una fontana di olio. Gli scivoloni di coloro che vanno ad attingere il prezioso liquido però non bastano a far ridere la principessa, fino a quando vede dalla finestra una vecchia, che riempie piano piano n'agliariello, il suo vasetto, con una spugna. Appena lo ha colmato, un paggio lancia un sasso e gliela rompe, provocando la sua collera e le sue coloritissime invettive, alle quali lui risponde per le rime:

 

"Non vuoi appilare ssa chiaveca, vava de parasacco, vommeca-vracciolle, affoca-peccerille, caca-pezzolle, cierne-vernacchie?". La vecchia, che se sentette la nova de la cassa soia, venne 'n tanta zirria che, perdenno la vusciola de la fremma e scapolanno da la stalla de la pacienza, auzato la tela de l'apparato fece vedere la scena voscareccia, dove potea dire Sirvio "Ite svegliano gli occhi col corno". Lo quale spettacolo visto da Zoza le venne tale riso c'appe ad ashevolire (Basile, cit., p. 12) [8].

 

A causa della maledizione della vecchia, la protagonista lascia il castello del padre per cercare il suo principe, che dorme di un sonno simile alla morte, e potrà risvegliarsi solo se una donna riempirà per amor suo una fiasca di lacrime. Questo riso della donna, che vale l'apertura alla vita, e l'incontro con l'altro sesso, scaturisce dalla visione del grembo vecchio, e del gioco infantile. Questo riso è riso di vita perché la vita è tale nella sua trasformazione, mentre la fissazione a una sua immagine ideale la imprigiona, e cercando di fermarla la perde.

Vertigine di giochi e di rimandi nelle fiabe, di fronte alla quale dobbiamo rinunciare a interpretare: se ci permettesimo una digressione sul sonno di questo principe, parallelo a quello di Rosaspina, e corrispondente alla mancanza di sorriso nella principessa della sua fiaba, giungeremmo a un'altra vertigine di mistero e di senso, a una nuova analogia, che ci spingerebbe verso un'altra digressione. Riprendiamo dunque il cammino restando fedeli al filo d'Arianna della nostra Cenerentola.

 

 

 

5. Che cos'è questa fiaba

 

Prima di passare al motivo del padre nel grande sogno di Cenerentola, Pelle d'Asino e Cordelia, credo di dover esporre i confini o i cardini che considero essenziali in tutte queste fiabe:

 

- nella situazione d'inizio la madre muore o è morta e il padre è amoroso verso la figlia;

- nell'intreccio la protagonista attraversa una degradazione e una trasfigurazione magica, con una ripetuta alternanza tra splendore e oscurità;

- alla fine l'agnizione da parte del principe, attraverso un simbolo dell'unione degli opposti, porta alle nozze regali. [9]

 

Ogni schema è arbitrario, e per quanto poco si possano esplicitare i criteri che hanno portato a definirlo, si deve riconoscere che alla sua origine c'è una scelta del ricercatore, fondata a sua volta sulle scelte operate dagli studiosi ai quali fa riferimento.

Questo lavoro, che parte da una concezione psicoanalitica della fiaba, la analizza come rappresentazione di aspirazioni, conflitti e trasformazioni profonde comuni a tutti gli esseri umani, non specifici di un'età piuttosto che di un'altra, né di un tempo o di un luogo piuttosto che di altri. E procede cercando un senso che restituisca a chi legge la possibilità di mettersi in gioco di fronte al racconto, lasciando che i suoi incantesimi, i suoi crimini, il suo finale felice, creino una risonanza con gli oggetti profondi corrispondenti.

Nelle sue applicazioni con i bambini, la mia ricerca opera in una direzione opposta alla rimozione, che si esercita sulle fiabe privandole delle rappresentazioni perturbanti, come il matricidio di Cenerentola, o il desiderio incestuoso del re di Pelle d'Asino. Si tratta della direzione classica della psicoanalisi, che negli oggetti rimossi per il loro portato perturbante riconosce la presenza di un senso perduto per la coscienza, che può arricchirla e guarirla.

Se riesce, il mio lavoro sulla fiaba di Cenerentola lascerà molti dubbi sul suo vero significato, ma conforterà l'intuizione che essa abbia un senso profondo, e che valga la pena cercarlo. Comprendere il senso delle fiabe costituisce un ponte per ascoltare e rispettare il bambino, che prima di tutti ne avverte l'incanto e la bellezza: sia il bambino inteso letteralmente, che genitori e insegnanti hanno il difficilissimo compito di educare, sia il bambino che vive, muore, o sopravvive in ogni adulto. Noi riserviamo alla nostra parte bambina, quella che può crescere e trasformarsi, senza il benessere della quale nessuna espressione creativa è possibile,  lo stesso trattamento dei bambini: la forziamo a corrispondere a idealizzazioni, a deformarsi in coazioni a ripetere, soffochiamo il suo sentimento della vita per confermare la bontà di un assetto della coscienza teso al controllo, al dominio della realtà. Il bambino cresce solo se può fare esperienza, ascoltandosi e ascoltando il mondo, perché non esiste matrice autentica del senso della vita se non nell'intimità della propria psiche. Troppo spesso noi mimiamo una crescita, e ci mostriamo adulti uniformandoci a criteri consensuali, mentre ciò che ci preme veramente, anche contro la nostra volontà, sono ancora giochi di bambini mai giocati completamente, mai superati. Avvicinarsi col linguaggio a questa matrice, che è signora dei sogni, dei sintomi, degli umori, della patologia, richiede molto lavoro e molto desiderio. Credo che le fiabe di magia raccontino di questa ricerca, e che l'incanto che si crea quando le ascoltiamo venga dalla speranza che suscitano, di poter percorrere il nostro cammino. 

Nella fiaba di Cenerentola leggeremo un racconto di come la donna possa crescere, abbandonare la madre e il padre, elaborarne la perdita, ed essere pronta a incontrare il principe, per ascendere al trono insieme a lui. Sposarsi e regnare ha il significato di un superamento trasformativo della solitudine, dell'angoscia di essere indegni, e dell'isolamento profondo che ne consegue.

Nelle fiabe le nozze regali vengono al termine del cammino lungo il quale i protagonisti hanno affrontato le figure genitoriali persecutorie, attraversando metamorfosi negative e umilianti, come la principessa nascosta dalla cenere, da una veste di legno, o dalla pelle di una vecchia morta a cent'anni. Vengono solo quando i simboli e il gioco degli eventi hanno permesso di ritrovare, con l'aiuto della Fata Colomba o del rametto di nocciolo che ha urtato il cappello del padre, relazioni costruttive con le stesse figure, possibili solo se è stato operato un distacco netto dall'identificazione primaria e narcisistica. Le fiabe alla fine rappresentano un incontro tra maschile e femminile di cui il matrimonio inteso comunemente non è molto più che l'ombra. Un'unione che prima di tutto vive nello spazio intimo del cuore, che si apre solo quando certi conflitti sono stati vissuti, non evitati.



[1]  Per il concetto di perturbante, si fa riferimento all'Unheimlich freudiano; vedi: Sigmund Freud, Il perturbante, 1919.

 

[2]  E' la fiaba Sole, Luna e Talia (Basile, cit., pp. 944-953).

 

[3]  René Thom ci racconta di una cena con Jacques Lacan, durante la quale a un certo punto parlarono del matema: "...Je ne sais pas très bien ce que c'était que le 'mathème'!... Et lui n'a pratiquement rien dit. A la fin du repas, j'ai utilisé une formule qui l'a fait réagir. Je lui ai dit: "Ce qui limite le vrai, ce n'est pas le faux, c'est l'insignifiant". Il a alor pris un'air songeur et il a dit: "Cela me retient, cela me retient." Voilà: j'avais "retenu" le Maître... (Ivi, p. 132) [Non so proprio bene cosa sia il matema!... E lui praticamente non ha detto nulla. Alla fine del pasto, ho usato una formula che lo ha fatto reagire. Gli ho detto: "Ciò che limita il vero non è il falso, è l'insignificante". Allora lui ha fatto un'espressione pensosa e ha detto: "Questo mi trattiene, questo mi trattiene". Ecco! avevo "trattenuto"  il Maestro...].

 

[4]  Proserpina chiama sgomenta / con voce mesta la madre e le amiche, e più spesso la madre, / e, poiché aveva squarciato dell'orlo dell'abito un lembo, / giù dalla tunica rotta le caddero i fiori raccolti. / In quell'età puerile che semplicità di fanciulla: / anche il cadere dei fiori toccò della vergine il cuore! / Il rapitore sul carro sospinge i cavalli e per nome / chiama ciascuno, scotendo sul collo crinito le briglie / tinte di ruggine nera e discorre per laghi profondi / e dei Palìci pei stagni odorosi di zolfo, bollenti / entro la terra squarciata... (Le metamorfosi, 1983, vol. 1, p. 215)

 

[5]  La figlia ci è pegno e ci è peso comune; / ma se si vuole chiamare la cosa col suo vero nome, / non è quel furto un'ingiuria, ma segno verace d'amore... (Ivi, p. 223).

 

[6]  ...Spietata fracassa gli aratri, che voltan le zolle, / e furibonda dà morte ai coloni ed ai bovi operosi, / guasta sementi e comanda che i campi ne frodino i semi. (Ivi, p. 221)

 

[7]   "Così dicendo levò il peplo e mostrò tutta l'impronta, / nel corpo, per nulla palese: ma era fanciullo Iacchos, / e si slanciò ridendo con la mano sotto il grembo di Baubò. / E di questo sorrise la dea, si rallegrò nel suo cuore, / e accettò la coppa rilucente, in cui era il ciceone". Frammento orfico citato da Clemente Alessandrino; in G. Colli, La sapienza greca, 1977; vol. I, pp. 243-245.

 

[8]  "Non vuoi chiudere questa chiavica, nonna del diavolo, vomitabraccini, affogabambini, cacapezze, sceglipeti?". La vecchia, nel sentire queste novità di casa sua, si arrabbiò tanto che, perdendo la bussola della calma e scappando fuori dalla stalla della pazienza, alzato il sipario dell'apparato fece vedere la scena boschereccia, dove Silvio avrebbe potuto dire "Ite svegliando gli occhi col corno". E quando Zoza vide questo spettacolo le venne tanto da ridere che stava per restarci secca." (Ivi, p. 13). Da notare l'accostamento esilarante tra il boschetto della vecchia, poco attraente, come quello di Baubò, e i boschi della poesia arcadica, attraverso la citazione dal Pastor fido  di G.B. Guarini.

 

[9]  Per Cenerentola disponiamo della più ampia raccolta che sia mai stata pubblicata sulle varianti di una fiaba. Si tratta di CINDERELLA. Three hundred and fourty-five Variants of Cinderella, Catskin, and Cap o' Rushes... (1892). Credo che vada riconosciuto alla giovane studiosa vittoriana non solo il merito di aver per prima, e credo per ultima, raccolto tante varianti di una sola fiaba, ma anche di aver organizzato per prima queste varianti in gruppi e di averle riassunte e tabulate secondo un criterio che può essere considerato anticipatore del metodo elaborato dalla scuola storico geografica, alla quale si devono vastissimi indici delle fiabe di tutto il mondo (vedi: Antti Amatus Aarne e Stith Thompson, Motif Index of Folk-Literature, 1955, e Types of the Folk-Tale..., 1961. La prima edizione del Motif index era apparsa nel 1910). E' vero che Marian Roalf Cox non esplicitò i suoi criteri di tabulazione, e che i motivi che figurano negli Abstracts sono più di quelli che elenca nella prefazione, ma non è difficile immaginare che si sia interrogata a lungo sul metodo, raggiungendo risultati utili per organizzare il vastissimo materiale, ma che non giudicò abbastanza rigorosi da meritare una descrizione. Il suo lavoro pionieristico fu considerato dall'inizio diligente ma non importante in senso teorico. Andrew Lang, che era diventato presidente della Folk-Lore Society, scrive nella prefazione: "On the first view of her learned and elaborated work I was horrified a the sight of these skeletons of the tale. [...] But science needs horrors of this kind, it seems, and I have wandered in Miss Cox's collection with admiration of her industry and method... (cit., p. vii) ("Guardando il suo lavoro dotto ed elaborato, sono inorridito dapprima, alla vista di questi scheletri della fiaba. ... Ma la scienza ha bisogno di orrori di questo genere, sembra, e io ho vagato nella raccolta della signorina Cox ammirato per il suo metodo e la sua diligenza, ...". Tr. it. nostra)

E ancora Stith Thompson, nel 1946, scriveva: "Gli studi comparati sulla favolistica eseguiti prima dell'elaborazione del metodo storico-geografico presentavano dei punti deboli in piu' di un verso. Le opere come la Cinderella della signorina Cox erano molto accurate per quanto riguardava la raccolta delle versioni e l'analisi dei caratteri, ma non tentavano in alcun modo di interpretare i dati così raccolti" (La fiaba nella tradizione popolare, 1967, p. 596).

E' la stessa Marian R. Cox a dirci che non fu lei a decidere di pubblicare a quel punto la ricerca: "The Council of the Folk-lore Society, at whose invitation I undertook this volume, deemed it advisable to make an arbitrary end of the labour of collecting which otherwise might be carried in indefinitely" (cit., Preface, p. xxxiv) (Il Consiglio della Folk-lore Society, che mi ha incaricato di preparare questo libro, ha giudicato opportuno dare una fine arbitraria al lavoro di raccolta, che altrimenti poteva andare avanti indefinitamente." Tr. it. nostra).  Avrei voluto dedicare più spazio alle riflessioni su Marian R. Cox, che mi appare come una Cenerentola vittoriana, della quale i professori paludati non hanno visto gli abiti meravigliosi, lasciandola accanto al suo focolare. E' vero che anche le gigantesche comparazioni e raccolte citate sopra appaiono oggi molto meno promettenti di quanto speravano i loro compilatori, ma questi lavori sistematici restano importantissimi, sia perché forniscono repertori indispensabili a chi voglia interpretare una fiaba, o un motivo fiabesco, sia perché il tentativo di abbracciare tutte le fiabe e di renderle indagabili ha un valore metodologico che certi fallimenti, più o meno parziali, non devono far dimenticare.

La stessa tripartizione del grande sogno collettivo indagato in questo libro, presente nel sottotitolo stesso, Cenerentola, Pelle d'Asino e Cordelia, corrisponde ai tre gruppi individuati da M.R. Cox, le cui capolista sono, rispettivamente: Cinderella, Catskin e Cap o' Rushes. Spero di tornare in altri lavori su questa ricercatrice straordinaria, che rivela tra le righe, nello stile dei suoi riassunti, delle sue traduzioni, nelle sue note, nei criteri adottati, una grandezza misconosciuta. Per dare un'idea di come comprendesse la fiaba, oltre un secolo fa, leggiamo le ultime parole della sua prefazione: "There will remain the regret which invariably accompanies work of this kind - the non-attainment of finality where materials are ever pouring in; and experience of this has reconciled me to aim at only approximate completeness." (Cit., p. lxxii). ("Resterà il rimpianto che invariabilmente accompagna lavori di questo genere - il mancato raggiungimento della conclusione mentre altri materiali stanno ancora arrivando; per questa esperienza mi sono accontentata di mirare a una completezza solo approssimativa". Tr. it. nostra]. (Adalinda Gasparini, La luna nella cenere, cit., Capitolo 2, nota 9)

 

3. Il padre, l'incesto, la fuga

IL PADRE, L'INCESTO, LA FUGA

 

 

 

He's father, son, and husband mild;

I mother, wife, and yet his child.

                                         (Shakespeare)

 

 

 

1. Un giuramento fatale

 

Una diade perfetta si rompe perché la storia abbia inizio, perché la parte più giovane, la figlia, possa gustare il frutto della fecondità che la simbiosi con la madre rende impossibile. La donna concreta può sposarsi e restare vergine, gelida come Turandot che mandava a morte i principi innamorati di lei perché non sapevano sciogliere i suoi indovinelli. [1]

La donna che non ha ucciso la propria madre, la donna per la quale non ha avuto luogo il distacco, non incontra l'uomo con tutta se stessa, anche se conosce il piacere del rapporto sessuale e anche se partorisce figli: nella sua parte più segreta torna sempre al fantasma materno, al quale deve dar conto della propria femminilità, e il suo compagno somiglia in questo gioco allo sposo infero che rapisce Proserpina. L'incontro è parziale, come per Proserpina, che passa una parte dell'anno con lo sposo e una parte con la madre. 

A livello intrapsichico la donna vive questo mancato distacco dal fantasma materno come una interdizione a esprimere le sue caratteristiche personali, perché la sottrarrebbero a un'identità coincidente con quella della madre. Questa identità ha a che fare con un'esperienza primaria della madre, e può essere descritta come narcisismo femminile. La madre chiede e impone alla figlia di rispecchiarla, e la figlia accettando questo rispecchiamento si struttura secondo un'identità modellata su quella di lei. Ogni forma di narcisismo funziona come una conferma di sé ottenuta nell'immobilità, come fuori dal tempo, fissando uno specchio, e tiene il posto dell'esperienza della propria identità la cui figura è il viaggio, il movimento che prevede l'incontro con figure diverse da quelle originarie, endogamiche. Non esiste una donna che sia tutta e sempre di fronte a quello specchio, ma una componente più o meno ampia di ogni donna vi si trova, almeno in una fase della vita, e molte madri non se ne staccano mai, educando a loro volta le figlie a rispecchiarsi in loro. L'anoressia rappresenta il limite estremo del legame strettissimo e insopportabile con la madre, e la portatrice della patologia rifiutando il cibo tenta di distruggere l'immagine che impone il rispecchiamento, anche se il successo di questa distruzione è contemporaneamente la distruzione di sé, fino alla morte.

Abbiamo ripreso il tema del capitolo precedente perché la rappresentazione dell'incesto che andiamo ad analizzare segue alla morte di una madre bellissima, come quella della fiaba molisana che ogni giorno interrogava il sole.

La storia della protagonista non si origina da una madre persecutoria che subentra alla morte o all'uccisione della madre buona, come nella Gatta Cennerentola, Aschenputtel e Cendrillon. Si apre il racconto con una bella morente che fa giurare al re affranto di non risposarsi più, a meno che non trovi una donna eguale a lei. La fiaba esprime questa eguaglianza dicendo che la nuova sposa deve essere bella quanto lei, o avere come lei fili d'oro tra i capelli, o il dito della misura giusta per il suo anello, come successe in Zuccaccia, una delle Sessanta novelline popolari montalesi di Gherardo Nerucci (1880).

Questa fiaba dice che il re non pensava a risposarsi, e aveva riposto l'anello in una scatolina che da tanti anni stava in un cassetto. Ma la principessina un bel giorno trovò l'anello, se lo infilò al dito, e tutta contenta corse dal padre a fargli vedere come le andava bene:  

 

Dice il re: "Oh! figliola mia, 'gli è l'anello della tu' poera mamma. E sai, che mi disse quando lei me lo diede? Mi disse, che dovevo pigliare per isposa quella donna d'i' mi' pari, che l'anello gli stessi bene in dito. Dunque, cara figliola, bisogna bene che tu sia la mi' sposa."

La ragazza a quel brutto discorso si sentiede tutta rimiscolare; ma il Re gli cominciò a fare delle carezze e a manifestargli delle parole, non più da padre, ma da amante; sicché la ragazza vergognosa e sbigottita la gli scappò a fatica di tra le mane, e diviata se n'andette dalla balia a raccontargli piagnendo quel che gli era successo. Dice la balia:  "Nun vi sgomentate, figliola mia; ma, nunistante, badate di nun mettervi 'n contrasto con vostro padre. Date retta a me, ch'i' vi consiglierò a bene. Voi gli avete a promettere di sposarlo, a patto che vi regali un vestito di seta color d'aria e tutto tempestato con le stelle del cielo. Un vestito a questo mo' non si trova nel mondo, e voi allora nun siete più nell'obbligo di mantenergli la promessa" (Nerucci, cit., p. 87).

 

Quando la madre morendo si è fatta fare una promessa come questa, ne segue sempre una situazione di incesto. Per il padre fedele alla sposa morta, la fedeltà è possibile solo sposando la figlia: ma la sposa morta, la prima moglie, è la madre stessa: viene infatti definita come unica e irrinunciabile, al punto che solo una donna uguale a lei può prenderne il posto. Possiamo dire che questo padre vuole sposare la figlia perché crede che sia la madre stessa, la identifica con lei, e afferma che in questo modo obbedisce al suo estremo e inelusibile desiderio. È la somiglianza con la madre che rende questa protagonista di fiaba irresistibile per il padre, e osservare questo ci spinge a riflettere su un aspetto strutturale dell'incesto: il tempo senza tempo che esso può creare, come la diade madre-figlia.

 

 

2. L'enigma dell'incesto e il tempo senza tempo

 

Al tempo storico, irreversibile, che i calendari e gli orologi dividono in segmenti ordinati come una linea percorribile in una sola direzione, corrisponde nella vita dell'uomo il passaggio dalla dipendenza infantile dai genitori alla maturità nella quale si generano e si crescono figli, e poi all'invecchiamento. I figli attestano il passaggio dalla condizione di generato a quella di generante, di genitore, mentre la loro crescita, quando raggiungono l'età adatta per generare a loro volta, marca inevitabilmente l'inizio di una decadenza fisica, della fase che ha come sua conclusione la morte. Le generazioni si succedono nel tempo: il tempo porta al succedersi delle generazioni.

Ma se la madre si rispecchia nella figlia, e se questo rispecchiamento di madre in figlia si ripete, la vita dell'una è la vita dell'altra, e la morte non esiste. E se il padre non accetta che la figlia tagli definitivamente il suo legame con lui per unirsi a un suo coetaneo, può arrestare il corso del tempo: può illudersi di creare un tempo ciclico, in cui la madre e la figlia e la sposa sono confuse in una sola figura. 

Anche le fiabe in cui la principessa rifiuta tutti i pretendenti presentano un arresto del tempo: il regno rischia di finire per la mancanza di un erede. In questo caso il tempo viene fermato dalla parte giovane, che evita la crescita rifiutando le nozze, mentre il padre è rappresentato come addolorato per questo rifiuto. È la vicenda della gelida Turandot, che pone enigmi ai suoi pretendenti: se non riusciranno a risolverli sarà loro tagliata la testa. Il regno senza erede, e la pena di morte comminata a chi tenta la prova senza superarla, figurano in altre rappresentazioni dell'incesto. Prima fra tutti, per la sua importanza nel senso greco della tragedia e per la sua centralità nella psicoanalisi, la vicenda di Edipo. Del suo mito e della sua tragedia, che esprime il senso della conoscenza e della vita umana, toccheremo soltanto alcuni punti per porli in relazione con la fiaba.

La città di Tebe, il reame, è senza re, e un essere chimerico, la Sfinge, pone un enigma a tutti quelli che vi si dirigono. Chi non sa rispondere viene gettato nell'abisso, chi risponde diverrà il re della città.

Pensando alla complessità del mito e della tragedia, viene da chiedersi come sia possibile che il punto di catastrofe, di trasformazione radicale, sia marcato da un indovinello che anche un bambino può risolvere: "Qual è l'animale che al mattino cammina con quattro gambe, a mezzogiorno con due e alla sera con tre?".

Eppure rispondendo a questo piccolo gioco Edipo libera la città dalla maledizione della Sfinge, ed è così che cade nel destino che credeva di fuggire, il parricidio e l'incesto. La risposta è semplice, facile per Edipo, ma il mistero è contenuto in questa stessa semplicità: per rispondere bisogna abbracciare tutta la vita dell'uomo come arco della sua luce, come un solo giorno. Lo sguardo vede lo stesso uomo piccolo nella dipendenza, che si erge allo zenit nel culmine della sua forza, e torna a chinarsi verso la terra, verso la sua tomba. Edipo dopo aver risposto all'enigma della Sfinge diventa proprio quell'uomo, perché vive contemporaneamente la condizione di generante e di generato, di marito e figlio della propria madre, di padre e fratello dei suoi figli.

In un romanzo latino del III secolo, letto e amato in Europa fino al secolo XVIII, troviamo qualcosa che ci può aiutare a capire il problema dell'enigma tra fiaba e tragedia: Hystoria Apollonii Regis Tyri, La storia di Apollonio re di Tiro.

C'era una volta nel regno di Antiochia il re Antioco, vedovo, la cui figlia era di una bellezza senza pari, e il padre, mentre si chiedeva a chi concederla in sposa, se ne innamorò al punto che le usò violenza, e cominciò a vivere con lei un legame incestuoso. Per allontanare gli innumerevoli pretendenti fece questo bando: l'avrebbe avuta in sposa solo chi fosse riuscito a risolvere un indovinello, ma a chi avesse tentato senza successo sarebbe stata tagliata la testa, proprio come ai pretendenti di Turandot.

Ancora più dell'indovinello della Sfinge, questo enigma rivela, mentre nasconde, la soluzione. La leggiamo dal Pericle principe di Tiro, che Shakespeare trasse da questo romanzo:

 

I am no viper, yet I feed

On mother's flesh which did me breed.

I sought an husband, in which labour

I found that kindness in a father.

He's father, son, and husband mild;

I mother, wife, and yet his child.

(A. I, Sc. 1) [2]

 

L'enigma è una precisa rappresentazione della relazione incestuosa: "Mi nutro della carne della madre che mi ha allevato... egli è padre, figlio e dolce marito; io sono madre, moglie e pure la sua bambina".

Per indicare la sua relazione forte con i figli nel linguaggio comune il genitore, e la madre in particolare, dice "carne della mia carne": nell'enigma per descrivere il rapporto incestuoso è usato un verbo relativo alla sfera orale: "Mi nutro della carne di mia madre". La figlia si nutre del padre, di cui la madre si nutriva, e questa regressione all'oralità richiama l'antica azione mitica con la quale il Tempo stesso cerca di arrestare il succedersi delle generazioni e la perdita di potere che ne consegue: il dio greco Crono, il cui nome significa tempo, Saturno per i latini, per non essere spodestato da uno dei suoi figli li divorava appena nati. Il mito e le opere letterarie sono rette da una geometria molto vicina a quella della teoria psicoanalitica, ed è facile interpretare queste formulazioni enigmatiche, sia che si faccia riferimento alle fasi e alle zone erogene in Freud, sia che si pensi ai fantasmi originari kleiniani. Il bambino piccolo esprime le sue ipotesi su come si fanno i bambini unendo senza problemi di coerenza le zone orali, anali e genitali; inoltre, anche lasciando da parte le perversioni, è facile osservare nella sessualità molte contiguità e scambi tra sfere erogene.

Questo impasto è nominabile come un caos originario dal quale si enucleano rappresentazioni differenziate, che permettono di separare, delimitare ed esperire le diverse sfere erotiche, vitali: ma non scompare mai completamente, e preme in maniera perturbante e confusiva nell'adulto, ogni volta che affiorano nuclei psicotici, destabilizzanti per la vita di relazione e l'equilibrio personale.

Possedere sessualmente, mangiare, nutrirsi, arrestare lo scorrere del tempo, mettere in scacco la morte impedendo la crescita dei figli: questo gioco è rappresentato dall'enigma che vela e svela la relazione tra il re Antioco e sua figlia. La difficoltà nel risolverlo, visto che la soluzione è chiarissima, indica la difficoltà a rappresentarsi l'evidenza del tema dell'incesto: l'enigma esprime a un tempo questo contenuto cruciale e la sua rimozione.

Rivisitare l'incesto in questa chiave, osservando come annulli il tempo storico annullando la separazione fra generazioni, impone di richiamare la centralità che per Freud ha il tabù dell'incesto: il divieto e la separazione fra generazioni che ne consegue rendono possibile la civiltà umana [3].

Abbiamo osservato che il processo di rimozione, che attesta l'universalità delle pulsioni incestuose, è rappresentato in primo luogo da questo paradosso: che molti pretendenti non riescono a rispondere all'enigma, nonostante l'enigma descriva a chiare lettere le nozze tra padre e figlia. Meglio ancora: è appunto per la sua intollerabile evidenza che la soluzione non può essere pensata.

Ma possiamo osservare un altro interessante livello di rimozione, andando a leggere l'enigma nel romanzo latino del III secolo e nella versione inglese dell'XI secolo: le nozze incestuose sono rivelate e svelate con altrettanta chiarezza, ma c'è qualcosa d'altro.

 

Scelere vereor,                                                  I am borne along the crime

Materna carne vescor.                                   I devour my mother's flesh

Quaero patrem meum, meae                        I seek my brother, the husband

Matris virum, uxoris meae                            Of my mother, the son of my

Filiam, nec invenio. [4]                                      Wife. I do not find him. [5]

 

Nel romanzo antico chi pone l'enigma è il re padre, in Shakespeare è la figlia, come nella fiaba è Turandot. Per lo scrittore e per il pubblico adulto, come per Freud, è probabile che sia più perturbante assegnare al padre il ruolo più attivo nell'instaurarsi della relazione incestuosa. Riteniamo che questo abbia provocato il minor successo della bellissima versione di Pelle d'Asino di Perrault rispetto ad altre sue fiabe: nessuno si aspetta che la Walt Disney ne fornisca una versione, a meno che non abbandoni la sua rappresentazione eufemizzata dell'infanzia, che riscuote tanto successo. Ma anche Shakespeare ha preferito fornire una versione dell'enigma che elimina l'ambiguità onirica o delirante espressi alla fine dell'enigma dalle versioni più antiche: Cerco il padre mio, di mia / madre lo sposo / della mia sposa / la figlia, e non trovo... Cerco mio fratello, il figlio di mia / moglie. Io non lo trovo....

Prima di interpretare questi versi antichi desideriamo fornire un esempio di rimozione per razionalizzazione. Ben Edwin Perry, nella sua opera sul romanzo antico (cit., pp. 296 sgg.), trova illogico che il re Antioco ponga ai pretendenti che desidera allontanare un indovinello che rivela la relazione incestuosa mentre la vuole mantenere segreta. Desiderando spiegare questa incongruità, lo studioso ipotizza che l'ignoto autore latino abbia inserito un indovinello qualsiasi, che per caso aveva sottomano in quel momento, dimenticando la consequenzialità del suo racconto. Lo psicoanalista analizza per riconoscere un senso profondo, difficile da accogliere, proprio dove appare una lacuna, procedendo in direzione opposta alla rimozione. Questo consente di procedere nella comprensione dell'opera letteraria, evitando che talora ciò che sta sotto gli occhi, il motivo essenziale dello stesso romanzo, l'enigma contraddittorio e perturbante dell'incesto, possa essere liquidato come una casuale svista dell'anonimo autore antico. È strano che si sia trascurato il senso della presenza di questa stessa formulazione dell'enigma nella versione dell'undicesimo secolo. Un esercizio meno rigido della rimozione ha evidentemente consentito all'antico traduttore inglese una comprensione del testo superiore a quella del nostro contemporaneo [6].

Si può osservare il romanzo, o il sogno personale, come un insieme espressivo, un corpo unico, governato da una logica analoga a quella che governa il corpo individuale, che sviluppa anche le malattie autoimmunitarie, senza alcun riguardo per la nostra difficoltà logica a comprendere come una funzione che tutela la vita e la salute si trasformi in un agente di morte. Se si operasse secondo quella logica razionalizzante - che rimuove il senso perturbante attraverso razionalizzazioni - potremmo anche ipotizzare un'interpolazione, trovando incongruente che la Sfinge si sia gettata nell'orrido quando Edipo risolve il suo enigma. Perché questa insidiosa e mortifera chimera avrebbe dovuto suicidarsi solo perché il suo indovinello era risolto? Non poteva cambiare sentiero e continuare a porlo sulla via di Sparta, oppure trasformarsi in una delle innumerevoli divinità sparse nella Grecia antica?

Ma nessuno trova incongruente il tragico e volontario volo della Sfinge, quando si immola col suo ordine enigmatico di fronte all'eroe del pensiero, che ha osato risolvere semplicemente ciò che non è semplice. Di questa complessità caotica, in cui è diffuso il germe del desiderio, della passione, dell'Eros, le antiche formulazioni danno una straordinaria rappresentazione. Nel testo latino, le parole scelere vereor, materna carne vescor (temo per un delitto, mi nutro della carne materna), potrebbero essere pronunciate sia dal padre che dalla figlia, perché carne materna può essere inteso sia come figlia per il padre, sia per la figlia, come padre, sposo/carne della madre. Nel testo inglese, successivo di sette secoli circa, l'ambiguità resta nella prima frase, I am borne along the crime (sono portato/a da un delitto), mentre è scomparsa dalla seconda: I devour my mother's flesh (divoro la carne di mia madre), può essere detto solo dalla figlia.

L'inizio dell'ultimo periodo deve essere pronunciato in entrambi i casi dalla figlia: al latino quaero patrem meum, meae matris virum (cerco mio padre, lo sposo di mia madre), corrisponde una versione letterale nell'inglese antico, salvo che al posto del padre compare il fratello, sposo della madre: I seek my brother, the husband of my mother. Ed è a questo punto che l'incongruenza raggiunge il culmine: in latino la ricerca della figlia diventa senza soluzione di continuità la ricerca operata dal padre: uxoris meae filiam. In inglese quale dei due cerca il figlio maschio della propria moglie, the son of my wife? Nel romanzo la principessa è figlia unica, quindi il padre non potrebbe cercarlo; e la figlia può cercare il figlio di sua moglie?

Nec invenio (e non trovo), I do not find him (non lo trovo).

Impossibile rientrare nel passato: per quanto entrambe le polarità della relazione incestuosa agiscano alla lettera la loro passione, non trovano l'impossibile oggetto d'amore, che è insieme sposa e sposo, figlio e figlia, amante, e madre, padre, fratello, sorella. La sorte della coppia incestuosa è una splendida rappresentazione della distruttività che entra in scena infrangendo il tabù dell'incesto: il re di Antiochia e sua figlia dopo un certo tempo vengono trovati carbonizzati nel loro letto, puniti dagli dei con la loro stessa passione, divorante come il fuoco. [7]

Così oscuro è anche un testo letterario, quando rappresenta ciò che appartiene alla sfera perturbante dell'inconscio non colonizzato, razionalizzato, eufemizzato, dalla coscienza, com'è oscuro un sogno notturno, e ogni fiaba quando il suo senso ci sfugge. Ma il loro ordine segreto, una volta che l'interpretazione abbia consentito di coglierne il senso, è mirabile, e solo in quel momento, con la coscienza derivante dalla ricerca effettuata, possiamo affermare che la miglior interpretazione di una fiaba, di un sogno, di un testo letterario, è quella fiaba, quel sogno, quel romanzo antico [8].

 

 

 

 

 

3.  L'incesto in Pelle d'Asino

 

Abbiamo già parlato di narcisismo a proposito della relazione troppo perfetta tra madre e figlia. Narciso, fissando la propria figura, resta immobilizzato in un tempo e uno spazio: la relazione incestuosa, per quanto imprigionante, implica due figure, di sesso diverso. Per Narciso la sola uscita dalla prigione dello specchio è nel dolore insopportabile al quale consegue la morte, mentre dalla relazione incestuosa la protagonista della fiaba, il soggetto che deve e vuole crescere, può fuggire.

Mentre Edipo e il re Antioco vivono la tragedia di questa vicenda umana essenziale, la fiaba rappresenta un percorso del quale il motivo dell'incesto è una parte, ed è seguito da una fuga bellissima della protagonista, che dopo un tempo di occultamento nella bruttezza e nello sporco splenderà come un astro e diventerà regina.

Le fiabe confrontate tra loro ci raccontano che il rifiuto della vita e del suo tempo storico ha gli stessi effetti, sia che questo rifiuto sia agito dal genitore che dalla figlia. La difficoltà che impedisce di crescere è difficoltà nella relazione tra  genitore e generato, e in ogni caso la possibilità di scioglierla sta nel bisogno e nel desiderio di uscire dalla relazione della parte giovane.

Come nel sogno i personaggi e gli scenari appartengono tutti al sognatore, del quale mettono in scena articolazioni e funzioni psichiche, così nella fiaba antagonisti e protagonisti possono essere intesi come figure intrapsichiche. Le violenze che subiamo da figure esterne, concrete, si fissano in coazioni che arrestano la nostra crescita nella misura in cui queste figure hanno un corrispettivo fantasmatico dentro di noi. Il potere di una personalità sadica non esiste se l'altra persona non ha in sé componenti masochistiche, rispetto alle quali personifica un fantasma già esistente. Il delirio di persecuzione porta le personalità paranoidi a selezionare nella realtà esterna tutto ciò che conferma la loro costruzione, fino a individuare con assoluta certezza elementi oggettivi che per un osservatore esterno sarebbero neutri e insignificanti. Oppure si pensi alla sconfortante tendenza delle persone che escono da una relazione di coppia fallimentare a ritrovare un tipo di partner con le stesse caratteristiche del precedente. Dal punto di vista della realtà psichica, di cui parlano le fiabe, interno ed esterno sono condizioni intercambiabili di oggetti significativi affettivamente. Parliamo di oggetti psichici il cui campo non è solo quello della coscienza, che ha la funzione di discriminare tra soggetto e oggetto, interno ed esterno. Quando questa separazione è possibile possiamo dire che la persona ha acquisito il sentimento della vera realtà[9], e distingue tra sé e altro da sé abbastanza da cogliere le possibilità trasformative dell'esperienza. Se la figlia anoressica potesse distinguere in senso profondo fra la propria identità e il fantasma materno, non sarebbe determinata da un rifiuto della madre e del cibo che cresce come rifiuto del corpo e della vita.

L'enigma posto dalla Sfinge, e quello analogo del re di Antiochia, sono tanto difficili da risolvere perché per farlo occorre accogliere l'incomprensibile che è in noi. Non è possibile dare la risposta se la rimozione ha eliminato dalla coscienza ogni traccia di quel passato in cui eravamo intrecciati in una relazione simbiotica con i genitori, non è possibile rispondere se le barriere tra il generante e il generato sono così rigide che non è possibile vedere che nell'arco del suo giorno l'uomo è tre esseri diversi, e non è mai solo l'uno senza l'altro. Non è possibile se ciò che determina lo psichismo non può accettare la morte come ultimo termine della vicenda umana.

Il padre che vuole sposare la propria figlia vuole essere sia generante che generato, tentando di fermare il tempo storico e di vivere un tempo in cui si illude di mettere in scacco l'invecchiamento e la morte confondendo i due termini della relazione.

Mentre nel romanzo antico e nella tragedia di Edipo la relazione incestuosa è consumata letteralmente, la fiaba di Pelle d'Asino racconta che, un attimo prima della infrazione del tabù, la figlia si dà alla fuga. Si rappresenta quindi il motivo dell'incesto come una vicenda in parte deletteralizzata, quindi psichizzata. Dal momento in cui fugge, la principessa avrà ancora molto lavoro da compiere prima di giungere alle nozze, ma il suo destino sta a quello della principessa di Antiochia come un sonno lungo cent'anni sta alla morte.

 

 

 

4. Cordelia

 

Abbiamo parlato di un tempo senza tempo, che prende vita dalla relazione incestuosa col suo rifiuto dell'avvicendarsi delle generazioni. Vogliamo osservare ora la stessa condizione in una forma deletteralizzata, nel senso che non si parla di un rapporto incestuoso con la figlia, eppure dalla figlia più giovane il padre esige un amore diverso da quello che può dargli.

Così cominciano tante fiabe, come Occhi marci di Nerucci:

 

A' tempi antichi ci fu un Re che aveva tre figliole. Un giorno le chiamò tutt'insieme e disse alla maggiore: "Quanto mi vo' tu bene?". "Quant'al pane", quella gli arrispose. "Allora i' son contento", dice 'l padre. Poi s'arrivolse alla mezzana: "E te quanto mi vo' tu bene?". "Babbo mio, quant'al vino". Fa il padre: "Anco di te i' son contento, perché il vino mi garba e il paragone è giusto. E te, piccina, dimmelo anco te, quanto mi vo' tu bene?". Dice la piccina: "Quant'al sale". "Oh birbona," sbergola il Re: "dunque, tu mi vo' veder distrutto?". E s'incattivì, ché alla figliola, per bone ragioni che lei gli portassi del su' pensieri, non ci fu verso di farlo persuaso e d'abbonirlo. Dice lui: "Sì, tu mi vo' distrutto, perché 'l sale si strugge anco da sé indove si mette. Dunque una figliolaccia come te con meco nun ci pole più stare. Va' via di casa e ti maladico, e vai laddove più ti garba. Ma fuggi via subbito dalla mi' presenzia e ch'i' nun ti rivegga più mai" (cit., p. 106).

 

Come la protagonista di Zuccaccia questa principessa disperata va a chiedere consiglio alla sua balia, visto che la madre, come ci aspettavamo, è assente, neanche nominata. E per allontanarsi dal padre fugge in un reame lontano, coperta da un travestimento repellente che la occulta e dal quale uscirà in tutto il suo splendore per sposare il suo principe: lo svolgimento della vicenda è lo stesso che analizzeremo nei prossimi capitoli, quasi identico a quello di Pelle d'Asino. Invece di chiederle di sposarlo, il re chiede alla figlia più piccola di risponderle come lui desidera, e non sopporta che gli voglia bene come al sale perché, dice, il sale si distrugge anche da sé. Le altre due sorelle paragonano il padre ai cibi fondamentali, gli stessi che figurano nel sacrificio della messa, dicono quindi al padre che lui è il cibo della loro vita, mentre la più piccola gli richiama la sua morte: il sale si distrugge anche da sé. Ci piace considerare l'orrore provocato nel padre da questa risposta come una conferma di quanto abbiamo detto dell'incesto: essere al centro dell'amore della figlia, essere il suo sposo, permette al padre di respingere il fantasma della propria morte.

Dopo aver incontrato il suo principe, colui che la riconoscerà sia nell'oscurità del suo travestimento che nel suo splendore, la figlia più piccina si sposa, e al banchetto di nozze partecipa anche suo padre, che invece non la riconosce più. La sposa, come si racconta, dispose che gli venisse servito tutto senza sale, e il re non riuscì a mangiare, e se ne rammaricò dicendo che le pietanze erano insopportabilmente sciocche.

 

"Dunque lei al sale gli vole bene?", addimandò la sposa. Dice lui: "Sicuro, ché insenza sale i' nun so fare io". "Oh! allora, signor padre", scramò la sposa, "perché mi mandò via di casa, quand'i' paragonai il bene ch'i' gli volevo al bene ch'i' voglio al sale?". A queste parole 'mprovvise il padre s'accorgette che era la su' figliola e disse forte: "T'ha ragione! I' feci male dimolto, e ti chieggo perdono, e ti benedisco con tutto il core" (Ivi, pp. 109-110).

 

Attraverso l'amore del padre la figlia si stacca dalla madre e impara ad amare l'altro sesso, ma la sua crescita si chiude nella relazione incestuosa se il padre si configura per lei come nutrimento.

Occhi marci, sorella di Cordelia, sa che la relazione col padre deve essere deletteralizzata, simbolizzata, per consentire la crescita verso l'eterosessualità esogamica, le nozze regali. Il finale di questa fiaba riporta ai suoi confini l'amore per il padre: essenziale, esso non costituisce però il cibo di cui può nutrirsi la figlia, che dovrà trovarlo e prepararlo nel nuovo reame, staccandosi dalla propria casa, sciogliendo i legami con la propria famiglia.

In questo motivo fiabesco il simbolo del sale richiama la funzione paterna come principio di separazione, discernimento: avere del sale in zucca significa essere saggi, agire sensatamente; un cibo può essere sciocco come una persona; il verbo latino sapio significa sia aver gusto che esser savio, e da esso derivano sapere e sapore.

Delle due sorelle di Occhi Marci la fiaba non parla, perché rappresentano la parte che smette di crescere. Questa non è materia di fiaba, perché non apre un percorso, un movimento dal noto all'ignoto, dal legame con i genitori alla costruzione di una nuova realtà affettiva, che viene conquistata dalla protagonista e dal suo principe, perché non si trova nella casa dell'origine.

Come tragedia, non fiaba, verso la morte, non verso il lieto fine, si svolge lo stesso tema in Re Lear. Nel primo atto Shakespeare ci presenta un re che abdica e vuole che le figlie ereditino in anticipo il suo regno: apparentemente accetta e favorisce il passaggio di potere alla nuova generazione. Come il re della fiaba del sale chiede alle tre figlie quanto lo amano, perché il loro amore è la ricompensa che esige per il regno di cui si priva.  La prima figlia dice:

 

Sir, I love you more than word can wield the matter;

Dearer than eyesight, space, and liberty;

Beyond what can be valued, rich or rare;

No less than life, with grace, health, beauty, honour;

As much as child e'er lov'd, or father found;

A love that makes breath poor and speech unable;

Beyond all manner of so much I love you.

(A. I, Sc. 1) [10]

 

Osserviamo che nella risposta l'amore verso il generato e l'amore verso il generante sono nominati in quella identità senza limiti di cui abbiamo parlato come carattere fondamentale dell'incesto: quanto può essere amato il figlio, quanto può essere amato il padre. Quand'è il suo turno, la figlia mediana dichiara un amore ancora più grande, perché la sua felicità è solo nell'amore paterno, e re Lear, soddisfatto, assegna a ciascuna di loro un terzo del suo regno.

La più piccola, la prediletta Cordelia, non ha nulla da dire, poi, dietro le insistenze del padre, gli risponde:

                                

..................................... Good my lord,

You have begot me, bred me, lov'd me; I

Return those duties back as are right fit,

Obey you, love you, and most honour you.

Why have my sisters husbands, if they say

They love you all? Haply, when I shall wed,

That lord whose hand must take my plight shall carry

Half my love with him, half my care and duty.

Sure I shall never marry like my sisters,

To love my father all. (Ivi)[11].

 

Re Lear, deluso da questa risposta, si infuria e ripudia la figlia più piccola, dividendo fra le due prime figlie l'ultima parte di regno. Rimasta senza dote, Cordelia viene rifiutata dal suo pretendente duca di Borgogna, mentre il re di Francia chiede la ragione del ripudio. Comprendendo la vicenda, parla e agisce con una sensibilità corrispondente a quella di Cordelia, e la sua poesia ci fa incontrare per la prima volta il principe sensibile, che ritroveremo nel capitolo 7: 

 

Fairest Cordelia, that art most rich, being poor;

Most choice, forsaken; and most lov'd, despis'd!

Thee and thy virtues here I size upon,

Be it lawful I take up what's cast away.

Gods, gods! 'tis strange that from their cold'st neglect

My love should kindle to inflam'd respect.

Thy dow'rless daughter, King, thrown to my chance,

Is queen of us, of ours, and our fair France.

Not all the dukes of wat'rish Burgundy

Can buy this unpriz'd precious maid of me.

Bid farewell, Cordelia, though unkind;

Thou loses here, a better where to find.

(Ivi)[12].

 

Mentre abdicando sembra riconoscere la propria vicinanza alla morte, Lear esige di essere rispecchiato come assoluto oggetto d'amore. Esigere dalla propria figlia che dichiari un amore più grande di ogni cosa bella e profonda della vita, unendo l'amore per il figlio e l'amore per il padre è una richiesta incestuosa, anche se l'incesto non è letteralmente presente. Ed è la richiesta posta alla figlia da ogni padre che chiede di essere idealizzato: la fissazione a questa figura paterna le impedisce di amare veramente un altro uomo. La donna che resta psicologicamente legata all'immagine paterna, imprigionata nella relazione edipica in una forma virtuale di incesto, amerà il proprio partner a patto che corrisponda a questa immagine idealizzata, e cercherà di distruggerlo, sentendosi tradita e delusa, quando sarà costretta a prendere atto che non potrà mai essere all'altezza delle sue aspettative. La donna sarà incapace di perdonargli non tanto le sue mancanze, quanto il suo essere irrimediabilmente altro dal padre. Amare un altro uomo non implica solo che la donna abbia rotto lo specchio che mantiene l'identità originaria con la madre, ma anche la sua rinuncia alla bellezza di cui gode nell'amore edipico.

 

 

 

 

 

5. Gli abiti meravigliosi

 

Nella fiaba di Zuccaccia, che abbiamo già introdotto, la principessa pone come condizione per accettare le nozze che il padre le procuri un vestito di seta color d'aria e tutto tempestato con le stelle del cielo. La balia l'ha consigliata di chiederlo pensando che il dono fosse impossibile, ma il re innamorato incarica un servitore di cercarlo in tutto il mondo, a qualunque costo. In tutte le fiabe in cui viene formulata questa richiesta, il re la soddisfa: poi segue la richiesta di un altro abito, e di un terzo, sempre più belli e difficili da procurare.

Così il padre di Zuccaccia le dona il vestito color dell'aria con le stelle del cielo, e poi un abito di seta color dell'acqua, con tanti pesci d'oro che ci nuotano dentro, e infine un terzo, tutto tessuto di campanelline e catenelle d'oro.

Nella sua versione della fiaba Perrault racconta che il re ordina ai suoi servitori di fare gli abiti richiesti dall'Infanta: se non riusciranno li impiccherà tutti. Così le dona un abito del color dell'aria, bello come il cielo azzurro quando è circondato da nuvole d'oro, uno che splende come la luna, e il terzo del colore del sole:

 

...Il Re innamorato diede via senza rimpianti tutti i diamanti e tutti i rubini della sua corona, con l'ordine di non risparmiare alcuna cosa affinché l'abito fosse più splendente del sole. Infatti, non appena fu portato alla Corte, tutti quelli che lo videro furono costretti a chiudere gli occhi, tanto ne rimasero abbagliati. È da quel tempo che sono venuti in voga gli occhiali verdi e le lenti affumicate. Cosa divenne l'Infanta a tale vista? Non si era mai veduta cosa più bella né più artisticamente lavorata. Ella rimase senza fiato e, col pretesto d'aver male agli occhi, si ritirò in camera sua... (Perrault, cit., p. 5).

 

Perché l'Infanta e Zuccaccia chiedono al padre innamorato abiti meravigliosi se vogliono evitare le nozze con lui? Dato che sono abiti con i quali la loro bellezza, già straordinaria, si esalta, vestendosi dell'azzurro del cielo e dello splendore degli astri, l'amore incestuoso non può che crescere.

La figlia sfida il padre ad arricchire la sua identità, visto che gli abiti la simbolizzano, fino a fare di lei più che una principessa bellissima: gli pone come condizione per sposarlo di dimostrare che col suo amore può renderla bella come il cielo, il mare, la luna, le stelle, il sole... E il padre con la sua regale potenza accetta la sfida e soddisfa la richiesta. Ma questo non basta, e la richiesta successiva a quella dei tre abiti è completamente diversa: l'Infanta, su consiglio della sua madrina, la fata dei Lillà, chiede al padre la pelle dell'asino fatato, che nelle stalle regali riempie ogni notte la lettiera di monete d'oro. Quando il re senza esitare sacrifica il suo animale per amore della figlia, la principessa si copre con la pelle dell'asino e fugge dalla reggia.

Con gli abiti meravigliosi che la seguono in una cassetta sotto terra, pronti a tornare in superficie con un tocco della bacchetta magica, la bella fuggitiva è avvolta nella pelle dell'asino, che le aderisce come una nuova identità, rendendola così brutta e sudicia che nessuno vuol aver a che fare con lei. Trasformata in Pelle d'Asino la protagonista troverà finalmente un rifugio come sguattera e guardiana di pecore e  tacchini. Come Cenerentola avrà un posto in cucina, e tutti la disprezzeranno, disgustati dal suo aspetto asinino.

Non è con la sua bellezza che l'Infanta può fuggire, né tanto meno indossando le vesti che la fanno risplendere come il firmamento, ricevute dal padre innamorato, ma avvolta dalla pelle dell'asino: in altre fiabe la principessa sfugge alle nozze incestuose trasformandosi in un'orsa, o coperta da una veste di legno. Ma il travestimento più repellente, che rimanda alla vecchia Baubò del mito delle grandi dee e alla vecchia della fiaba cornice di Basile, è quello della principessa Occhi marci, che aveva risposto al padre di volergli bene come al sale. La balia non sa come fare per salvarle l'onore, dato che la sua bellezza richiama l'attenzione di tutti i giovani che incontrano fuggendo:

 

Una sera però, arrivate a una città le du' donne, s'imbatterno in un mortorio e gli dissano che era il funerale d'una vecchia morta a cento anni. Pensa subbito la balia: - "Se mi vendano la pelle di questa vecchia no' siemo salve." - Vanno dunque nella chiesa, e doppo finite le funzioni la balia cerca del becchino e gli domanda, se lui vole vendere la pelle della vecchia. Il becchino in sulle prime 'gli arrispose di no; ma poi, siccome la balia gli profferse cento scudi, lui s'accordò, e con un coltello scorticata per bene tutta la vecchia, la su' pelle la diede alla balia. La balia quand'ebbe avuto in mano la pelle della vecchia col viso, i capelli bianchi, le mane con l'ugne e tutto, la fece conciare e cucitala su del cambrì, mascherò con quella la ragazza, sicché la nun si riconosceva più (Nerucci, cit., p. 107).

 

La principessa diventa una cosa sola con la pelle che la nasconde, e quando il principe le chiede la sua età, risponde di avere centoquindici anni. Lo stesso principe può scoprire che Occhi marci è la bellissima sconosciuta che ha ballato con lui, indossando abiti color del mare e color del cielo, solo quando comprende che bruttezza e bellezza compongono la sua identità, come elementi egualmente importanti del suo complesso cammino di crescita. L'idealizzazione della donna, complementare all'idealizzazione dell'uomo, impedisce l'uscita dal dominio genitoriale, reame o casa originaria, e l'incontro profondo con l'altro sesso.

Tornando a re Lear, abbiamo visto l'espressione di questa idealizzazione in ciò che all'inizio pretende dalle figlie, e più avanti troviamo l'opposto complementare di questa idealizzazione, il disprezzo. Le due figlie maggiori dopo essersi sposate maltrattano il padre ormai privo di potere, così come disprezzano i loro mariti: ciò che muove le loro azioni sono la voracità e l'invidia, che prosperano all'ombra di ogni idealizzazione.

La perdita dell'immagine ideale del femminile, per difendere la quale aveva sacrificato Cordelia, la figlia più piccola e più amata, provoca in re Lear il crollo dell'immagine idealizzata di sé, la perdita irreparabile del suo senso di identità, la sua pazzia. All'immagine ideale della donna amata, che è madre, sposa e figlia allo stesso tempo, subentra il suo opposto complementare. A questo opposto, che costituisce la condizione in cui la donna si sente brutta, colpevole, sporca e inaccettabile, sarà dedicato il prossimo capitolo. Ma prima leggiamo nelle parole di Lear ormai perso nella follia l'espressione perfetta di tutto ciò che l'uomo rifiuta di vedere nella donna, lo stesso che la donna rimuove narcisisticamente da se stessa: vi leggiamo ciò che forma l'oscurità del femminile, inaccettabile perché sconosciuta, negata, rimossa, eppure irrinunciabile se la principessa vuole essere regina, come sanno Cenerentola e Pelle d'Asino.

 

Behold yond simp'ring dame

Whose face between her forks presaes snow,

That minces virtue and does shake the head

To hear of pleasure's name -

The fitchew nor the soiled horse goes to't

With a more riotous appetite.

Down from the waist they are centaurs,

Though women all above;

But to the girdle do the gods inherit,

Beneath is all the fiends';

There's hell, there's darkness, there is the sulphurous pit -

Burning, scalding, stench, consumption.

Fie, fie, fie! pah, pah! Give me an ounce of civet,

Good apothecary, to sweeten my imagination.

(A. IV, Sc. 6)[13]




[1]  Vedi la Storia del principe Kalaf e della principessa della Cina, in Pétis de la Croix, I mille e un giorno (1712), vol. I, pp. 150-250. Pétis de la Croix fu il primo a pubblicare Turandot, ambientandola in una Cina priva di riferimenti storici e geografici, seguendo la moda dell'orientalismo in voga all'inizio del Settecento. Tra il 1704 e il 1717 erano uscite Le mille et une nuits di Antoine Galland, che divennero il best-seller del Secolo dei Lumi. Anche il paese di Aladino, nato alla carta stampata per opera di Antoine Galland, era questa Cina, che va intesa semplicemente come un lontano reame di fiaba. Ma nei secoli il nome di maniera lavora con la stessa procedura metastorica del registro fiabesco, creando l'ambientazione cinese della Turandot pucciniana, e promuovendo, per le contemporanee rappresentazioni di questo melodramma, scambi concreti con la Cina per la sceneggiatura e la regia. E' un bell'esempio di come l'arte, con la sua illusione, senza pretese di veridicità, finisca col creare la realtà.

 

[2]  Non sono una vipera, eppure mi nutro / della carne della madre che mi ha generato. / Cercai uno sposo, e in questo lavoro / Trovai quel favore in un padre. / Egli è padre, figlio, e dolce sposo; / Io sono madre, figlia, e pure sua bambina.

 

[3]  Vedi Sigmund Freud, Totem e tabù (1912-13).

 

[4]  Temo per un delitto, / mi nutro della carne materna. / Cerco il padre mio, di mia / madre lo sposo / della mia sposa / la figlia, e non trovo. (cit. da Peter Goolden, The Old English Apollonius of Tyre,1958; p. 7)

 

[5]  Sono portata da un crimine, / divoro la carne di mia madre. / Cerco mio fratello, il marito / di mia madre, il figlio di mia / moglie. Io non lo trovo.(cit. da Ben Edwin Perry, The Ancient Romances. A Literary Historical Account, 1967, p. 296)

 

         

 

[6]  Questa formulazione enigmatica potrebbe avere la sua matrice nelle Supplici di Eschilo: "Simile a quegli uccelli che mangiano carne di uccelli [...] s'è due volte nutrito della sua propria carne, dapprima versando il sangue paterno, poi unendosi col sangue materno". (cit. da J.P. Vernant, Ambiguità e rovesciamento sulla struttura enigmatica dell'"Edipo re"; sta in: Detienne, Il mito, 1989; p. 84).

 

[7]  Il motivo degli amanti incestuosi che vengono carbonizzati è presente nelle Mille e una notte (1948, Storia del primo mendicante nella Storia del facchino e delle ragazze, vol I, pp. 64 sgg.), dove subiscono questa pena un fratello e una sorella. Ricorre anche nella Leggenda Aurea, dove ad essere carbonizzata è una madre che, non essendo riuscita a sedurre il figlio, lo porta in tribunale accusandolo, come Fedra, di peccati di lussuria. (Jacopo da Varagine, 1990; vol. I, p. 14)

 

[8]  A proposito dell'enigma vedi anche il mio saggio Il motivo dell'enigma. Trasformazioni e costanti del discorso interiore, 1994.

 

[9]  Wirklichkeitsgefül, usato da Freud, significa letteralmente sensazione, senso, sentimento della vera realtà, e ci pare più poetico ed efficace della locuzione più comunemente usata, principio di realtà. Questo principio viene troppo spesso inteso, o frainteso, in termini riduzionistici, come contrapposto al dominio del desiderio e della fantasia desiderante. Riteniamo che il sentimento della vera realtà scaturisca da una trasformazione che tiene conto degli elementi onirici, fantasmatici, simbolici, quanto dei rapporti concreti che si articolano secondo una norma consensuale. Se non c'è sentimento, non c'è alcuna conoscenza profonda, nemmeno nell'esperienza concreta.

 

[10]  Signore, io vi amo più di quanto possano riuscire ad esprimere le parole: v'ho più caro della vista, dello spazio, della libertà; vi amo al di sopra di tutto ciò che può essere stimato ricco e raro; non meno della vita, quando è unita alla grazia, alla salute, alla bellezza, all'onore; vi amo quanto figliolo amò mai padre, o padre si vide amato; di un amore, il quale rende povero il fiato e impotente la parola; io vi amo al di là di tutti questi modi così alti di amare. (Tutte le opere, a cura di Mario Praz, 1989, p. 904)

 

[11]  Mio buon signore, voi mi avete generato, allevato, voluto bene: io vi corrispondo, da parte mia, con quei doveri che sono giustamente convenienti; cioè vi obbedisco, vi amo, e vi onoro del mio meglio. Perché hanno marito le mie sorelle, se dicono che tutto il loro amore è per voi? Probabilmente, quando un giorno mi sposerò, l'uomo che riceverà dalla mia mano il pegno della mia fede, porterà con sé metà dell'amor mio, metà delle mie cure e dei miei doveri: certo, io non mi mariterò mai come le mie sorelle, per dedicare tutto intero l'amor mio a mio padre. (Ivi)

 

[12]  Bellissima Cordelia, che sei ancora più ricca perché sei povera, più eletta perché abbandonata, più amata perché disprezzata, io mi impossesso, qui, di te e delle tue virtù: io, mi sia lecito, raccolgo ciò che vien gettato via. Dèi, dèi! è strano che alla gelida noncuranza di costoro, l'amor mio dovesse accendersi, fino a divampare in venerazione. Re, la tua figliola senza dote, gettata nelle mie braccia dalla ventura, è regina nostra, dei nostri sudditi, della nostra bella Francia: tutti i duchi di Borgogna non potranno ricomperare da me questa preziosa fanciulla disprezzata. Cordelia, di' addio a costoro, per quanto snaturati: tu perdi questo luogo, per trovarne uno migliore. (Ivi, p. 906)

 

[13]  Guardate quella signora là, che sorride scioccamente, che ha  una faccia, la quale vi farebbe credere, che fra le sue gambe ci stesse di casa la neve, che fa la santarellina, scuote il capo scandalizzata a sentir pronunciare il nome del piacere; ebbene, la puzzola e il cavallo pasciuto d'erba fresca non ci si buttano con appetito più sfrenato. Dalla vita in giù esse sono dei centauri, sebbene nella parte superiore esse siano donne; solo fino alla cintola appartengono agli dei, la parte di sotto è tutta del demonio, lì c'è l' inferno, lì c'è l'abisso sulfureo, che brucia, che scotta, c'è il fetore, la consunzione! via, via, via! puah! puah! datemi un'oncia di zibetto per profumare la mia immaginazione! (Ivi, p. 936).

 

4. La cenere e il tempo

IL PADRE, L'INCESTO, LA FUGA

 

 

 

He's father, son, and husband mild;

I mother, wife, and yet his child.

                                         (Shakespeare)

 

 

 

1. Un giuramento fatale

 

Una diade perfetta si rompe perché la storia abbia inizio, perché la parte più giovane, la figlia, possa gustare il frutto della fecondità che la simbiosi con la madre rende impossibile. La donna concreta può sposarsi e restare vergine, gelida come Turandot che mandava a morte i principi innamorati di lei perché non sapevano sciogliere i suoi indovinelli. [1]

La donna che non ha ucciso la propria madre, la donna per la quale non ha avuto luogo il distacco, non incontra l'uomo con tutta se stessa, anche se conosce il piacere del rapporto sessuale e anche se partorisce figli: nella sua parte più segreta torna sempre al fantasma materno, al quale deve dar conto della propria femminilità, e il suo compagno somiglia in questo gioco allo sposo infero che rapisce Proserpina. L'incontro è parziale, come per Proserpina, che passa una parte dell'anno con lo sposo e una parte con la madre. 

A livello intrapsichico la donna vive questo mancato distacco dal fantasma materno come una interdizione a esprimere le sue caratteristiche personali, perché la sottrarrebbero a un'identità coincidente con quella della madre. Questa identità ha a che fare con un'esperienza primaria della madre, e può essere descritta come narcisismo femminile. La madre chiede e impone alla figlia di rispecchiarla, e la figlia accettando questo rispecchiamento si struttura secondo un'identità modellata su quella di lei. Ogni forma di narcisismo funziona come una conferma di sé ottenuta nell'immobilità, come fuori dal tempo, fissando uno specchio, e tiene il posto dell'esperienza della propria identità la cui figura è il viaggio, il movimento che prevede l'incontro con figure diverse da quelle originarie, endogamiche. Non esiste una donna che sia tutta e sempre di fronte a quello specchio, ma una componente più o meno ampia di ogni donna vi si trova, almeno in una fase della vita, e molte madri non se ne staccano mai, educando a loro volta le figlie a rispecchiarsi in loro. L'anoressia rappresenta il limite estremo del legame strettissimo e insopportabile con la madre, e la portatrice della patologia rifiutando il cibo tenta di distruggere l'immagine che impone il rispecchiamento, anche se il successo di questa distruzione è contemporaneamente la distruzione di sé, fino alla morte.

Abbiamo ripreso il tema del capitolo precedente perché la rappresentazione dell'incesto che andiamo ad analizzare segue alla morte di una madre bellissima, come quella della fiaba molisana che ogni giorno interrogava il sole.

La storia della protagonista non si origina da una madre persecutoria che subentra alla morte o all'uccisione della madre buona, come nella Gatta Cennerentola, Aschenputtel e Cendrillon. Si apre il racconto con una bella morente che fa giurare al re affranto di non risposarsi più, a meno che non trovi una donna eguale a lei. La fiaba esprime questa eguaglianza dicendo che la nuova sposa deve essere bella quanto lei, o avere come lei fili d'oro tra i capelli, o il dito della misura giusta per il suo anello, come successe in Zuccaccia, una delle Sessanta novelline popolari montalesi di Gherardo Nerucci (1880).

Questa fiaba dice che il re non pensava a risposarsi, e aveva riposto l'anello in una scatolina che da tanti anni stava in un cassetto. Ma la principessina un bel giorno trovò l'anello, se lo infilò al dito, e tutta contenta corse dal padre a fargli vedere come le andava bene:  

 

Dice il re: "Oh! figliola mia, 'gli è l'anello della tu' poera mamma. E sai, che mi disse quando lei me lo diede? Mi disse, che dovevo pigliare per isposa quella donna d'i' mi' pari, che l'anello gli stessi bene in dito. Dunque, cara figliola, bisogna bene che tu sia la mi' sposa."

La ragazza a quel brutto discorso si sentiede tutta rimiscolare; ma il Re gli cominciò a fare delle carezze e a manifestargli delle parole, non più da padre, ma da amante; sicché la ragazza vergognosa e sbigottita la gli scappò a fatica di tra le mane, e diviata se n'andette dalla balia a raccontargli piagnendo quel che gli era successo. Dice la balia:  "Nun vi sgomentate, figliola mia; ma, nunistante, badate di nun mettervi 'n contrasto con vostro padre. Date retta a me, ch'i' vi consiglierò a bene. Voi gli avete a promettere di sposarlo, a patto che vi regali un vestito di seta color d'aria e tutto tempestato con le stelle del cielo. Un vestito a questo mo' non si trova nel mondo, e voi allora nun siete più nell'obbligo di mantenergli la promessa" (Nerucci, cit., p. 87).

 

Quando la madre morendo si è fatta fare una promessa come questa, ne segue sempre una situazione di incesto. Per il padre fedele alla sposa morta, la fedeltà è possibile solo sposando la figlia: ma la sposa morta, la prima moglie, è la madre stessa: viene infatti definita come unica e irrinunciabile, al punto che solo una donna uguale a lei può prenderne il posto. Possiamo dire che questo padre vuole sposare la figlia perché crede che sia la madre stessa, la identifica con lei, e afferma che in questo modo obbedisce al suo estremo e inelusibile desiderio. È la somiglianza con la madre che rende questa protagonista di fiaba irresistibile per il padre, e osservare questo ci spinge a riflettere su un aspetto strutturale dell'incesto: il tempo senza tempo che esso può creare, come la diade madre-figlia.

 

 

2. L'enigma dell'incesto e il tempo senza tempo

 

Al tempo storico, irreversibile, che i calendari e gli orologi dividono in segmenti ordinati come una linea percorribile in una sola direzione, corrisponde nella vita dell'uomo il passaggio dalla dipendenza infantile dai genitori alla maturità nella quale si generano e si crescono figli, e poi all'invecchiamento. I figli attestano il passaggio dalla condizione di generato a quella di generante, di genitore, mentre la loro crescita, quando raggiungono l'età adatta per generare a loro volta, marca inevitabilmente l'inizio di una decadenza fisica, della fase che ha come sua conclusione la morte. Le generazioni si succedono nel tempo: il tempo porta al succedersi delle generazioni.

Ma se la madre si rispecchia nella figlia, e se questo rispecchiamento di madre in figlia si ripete, la vita dell'una è la vita dell'altra, e la morte non esiste. E se il padre non accetta che la figlia tagli definitivamente il suo legame con lui per unirsi a un suo coetaneo, può arrestare il corso del tempo: può illudersi di creare un tempo ciclico, in cui la madre e la figlia e la sposa sono confuse in una sola figura. 

Anche le fiabe in cui la principessa rifiuta tutti i pretendenti presentano un arresto del tempo: il regno rischia di finire per la mancanza di un erede. In questo caso il tempo viene fermato dalla parte giovane, che evita la crescita rifiutando le nozze, mentre il padre è rappresentato come addolorato per questo rifiuto. È la vicenda della gelida Turandot, che pone enigmi ai suoi pretendenti: se non riusciranno a risolverli sarà loro tagliata la testa. Il regno senza erede, e la pena di morte comminata a chi tenta la prova senza superarla, figurano in altre rappresentazioni dell'incesto. Prima fra tutti, per la sua importanza nel senso greco della tragedia e per la sua centralità nella psicoanalisi, la vicenda di Edipo. Del suo mito e della sua tragedia, che esprime il senso della conoscenza e della vita umana, toccheremo soltanto alcuni punti per porli in relazione con la fiaba.

La città di Tebe, il reame, è senza re, e un essere chimerico, la Sfinge, pone un enigma a tutti quelli che vi si dirigono. Chi non sa rispondere viene gettato nell'abisso, chi risponde diverrà il re della città.

Pensando alla complessità del mito e della tragedia, viene da chiedersi come sia possibile che il punto di catastrofe, di trasformazione radicale, sia marcato da un indovinello che anche un bambino può risolvere: "Qual è l'animale che al mattino cammina con quattro gambe, a mezzogiorno con due e alla sera con tre?".

Eppure rispondendo a questo piccolo gioco Edipo libera la città dalla maledizione della Sfinge, ed è così che cade nel destino che credeva di fuggire, il parricidio e l'incesto. La risposta è semplice, facile per Edipo, ma il mistero è contenuto in questa stessa semplicità: per rispondere bisogna abbracciare tutta la vita dell'uomo come arco della sua luce, come un solo giorno. Lo sguardo vede lo stesso uomo piccolo nella dipendenza, che si erge allo zenit nel culmine della sua forza, e torna a chinarsi verso la terra, verso la sua tomba. Edipo dopo aver risposto all'enigma della Sfinge diventa proprio quell'uomo, perché vive contemporaneamente la condizione di generante e di generato, di marito e figlio della propria madre, di padre e fratello dei suoi figli.

In un romanzo latino del III secolo, letto e amato in Europa fino al secolo XVIII, troviamo qualcosa che ci può aiutare a capire il problema dell'enigma tra fiaba e tragedia: Hystoria Apollonii Regis Tyri, La storia di Apollonio re di Tiro.

C'era una volta nel regno di Antiochia il re Antioco, vedovo, la cui figlia era di una bellezza senza pari, e il padre, mentre si chiedeva a chi concederla in sposa, se ne innamorò al punto che le usò violenza, e cominciò a vivere con lei un legame incestuoso. Per allontanare gli innumerevoli pretendenti fece questo bando: l'avrebbe avuta in sposa solo chi fosse riuscito a risolvere un indovinello, ma a chi avesse tentato senza successo sarebbe stata tagliata la testa, proprio come ai pretendenti di Turandot.

Ancora più dell'indovinello della Sfinge, questo enigma rivela, mentre nasconde, la soluzione. La leggiamo dal Pericle principe di Tiro, che Shakespeare trasse da questo romanzo:

 

I am no viper, yet I feed

On mother's flesh which did me breed.

I sought an husband, in which labour

I found that kindness in a father.

He's father, son, and husband mild;

I mother, wife, and yet his child.

(A. I, Sc. 1) [2]

 

L'enigma è una precisa rappresentazione della relazione incestuosa: "Mi nutro della carne della madre che mi ha allevato... egli è padre, figlio e dolce marito; io sono madre, moglie e pure la sua bambina".

Per indicare la sua relazione forte con i figli nel linguaggio comune il genitore, e la madre in particolare, dice "carne della mia carne": nell'enigma per descrivere il rapporto incestuoso è usato un verbo relativo alla sfera orale: "Mi nutro della carne di mia madre". La figlia si nutre del padre, di cui la madre si nutriva, e questa regressione all'oralità richiama l'antica azione mitica con la quale il Tempo stesso cerca di arrestare il succedersi delle generazioni e la perdita di potere che ne consegue: il dio greco Crono, il cui nome significa tempo, Saturno per i latini, per non essere spodestato da uno dei suoi figli li divorava appena nati. Il mito e le opere letterarie sono rette da una geometria molto vicina a quella della teoria psicoanalitica, ed è facile interpretare queste formulazioni enigmatiche, sia che si faccia riferimento alle fasi e alle zone erogene in Freud, sia che si pensi ai fantasmi originari kleiniani. Il bambino piccolo esprime le sue ipotesi su come si fanno i bambini unendo senza problemi di coerenza le zone orali, anali e genitali; inoltre, anche lasciando da parte le perversioni, è facile osservare nella sessualità molte contiguità e scambi tra sfere erogene.

Questo impasto è nominabile come un caos originario dal quale si enucleano rappresentazioni differenziate, che permettono di separare, delimitare ed esperire le diverse sfere erotiche, vitali: ma non scompare mai completamente, e preme in maniera perturbante e confusiva nell'adulto, ogni volta che affiorano nuclei psicotici, destabilizzanti per la vita di relazione e l'equilibrio personale.

Possedere sessualmente, mangiare, nutrirsi, arrestare lo scorrere del tempo, mettere in scacco la morte impedendo la crescita dei figli: questo gioco è rappresentato dall'enigma che vela e svela la relazione tra il re Antioco e sua figlia. La difficoltà nel risolverlo, visto che la soluzione è chiarissima, indica la difficoltà a rappresentarsi l'evidenza del tema dell'incesto: l'enigma esprime a un tempo questo contenuto cruciale e la sua rimozione.

Rivisitare l'incesto in questa chiave, osservando come annulli il tempo storico annullando la separazione fra generazioni, impone di richiamare la centralità che per Freud ha il tabù dell'incesto: il divieto e la separazione fra generazioni che ne consegue rendono possibile la civiltà umana [3].

Abbiamo osservato che il processo di rimozione, che attesta l'universalità delle pulsioni incestuose, è rappresentato in primo luogo da questo paradosso: che molti pretendenti non riescono a rispondere all'enigma, nonostante l'enigma descriva a chiare lettere le nozze tra padre e figlia. Meglio ancora: è appunto per la sua intollerabile evidenza che la soluzione non può essere pensata.

Ma possiamo osservare un altro interessante livello di rimozione, andando a leggere l'enigma nel romanzo latino del III secolo e nella versione inglese dell'XI secolo: le nozze incestuose sono rivelate e svelate con altrettanta chiarezza, ma c'è qualcosa d'altro.

 

Scelere vereor,                                                  I am borne along the crime

Materna carne vescor.                                   I devour my mother's flesh

Quaero patrem meum, meae                        I seek my brother, the husband

Matris virum, uxoris meae                            Of my mother, the son of my

Filiam, nec invenio. [4]                                      Wife. I do not find him. [5]

 

Nel romanzo antico chi pone l'enigma è il re padre, in Shakespeare è la figlia, come nella fiaba è Turandot. Per lo scrittore e per il pubblico adulto, come per Freud, è probabile che sia più perturbante assegnare al padre il ruolo più attivo nell'instaurarsi della relazione incestuosa. Riteniamo che questo abbia provocato il minor successo della bellissima versione di Pelle d'Asino di Perrault rispetto ad altre sue fiabe: nessuno si aspetta che la Walt Disney ne fornisca una versione, a meno che non abbandoni la sua rappresentazione eufemizzata dell'infanzia, che riscuote tanto successo. Ma anche Shakespeare ha preferito fornire una versione dell'enigma che elimina l'ambiguità onirica o delirante espressi alla fine dell'enigma dalle versioni più antiche: Cerco il padre mio, di mia / madre lo sposo / della mia sposa / la figlia, e non trovo... Cerco mio fratello, il figlio di mia / moglie. Io non lo trovo....

Prima di interpretare questi versi antichi desideriamo fornire un esempio di rimozione per razionalizzazione. Ben Edwin Perry, nella sua opera sul romanzo antico (cit., pp. 296 sgg.), trova illogico che il re Antioco ponga ai pretendenti che desidera allontanare un indovinello che rivela la relazione incestuosa mentre la vuole mantenere segreta. Desiderando spiegare questa incongruità, lo studioso ipotizza che l'ignoto autore latino abbia inserito un indovinello qualsiasi, che per caso aveva sottomano in quel momento, dimenticando la consequenzialità del suo racconto. Lo psicoanalista analizza per riconoscere un senso profondo, difficile da accogliere, proprio dove appare una lacuna, procedendo in direzione opposta alla rimozione. Questo consente di procedere nella comprensione dell'opera letteraria, evitando che talora ciò che sta sotto gli occhi, il motivo essenziale dello stesso romanzo, l'enigma contraddittorio e perturbante dell'incesto, possa essere liquidato come una casuale svista dell'anonimo autore antico. È strano che si sia trascurato il senso della presenza di questa stessa formulazione dell'enigma nella versione dell'undicesimo secolo. Un esercizio meno rigido della rimozione ha evidentemente consentito all'antico traduttore inglese una comprensione del testo superiore a quella del nostro contemporaneo [6].

Si può osservare il romanzo, o il sogno personale, come un insieme espressivo, un corpo unico, governato da una logica analoga a quella che governa il corpo individuale, che sviluppa anche le malattie autoimmunitarie, senza alcun riguardo per la nostra difficoltà logica a comprendere come una funzione che tutela la vita e la salute si trasformi in un agente di morte. Se si operasse secondo quella logica razionalizzante - che rimuove il senso perturbante attraverso razionalizzazioni - potremmo anche ipotizzare un'interpolazione, trovando incongruente che la Sfinge si sia gettata nell'orrido quando Edipo risolve il suo enigma. Perché questa insidiosa e mortifera chimera avrebbe dovuto suicidarsi solo perché il suo indovinello era risolto? Non poteva cambiare sentiero e continuare a porlo sulla via di Sparta, oppure trasformarsi in una delle innumerevoli divinità sparse nella Grecia antica?

Ma nessuno trova incongruente il tragico e volontario volo della Sfinge, quando si immola col suo ordine enigmatico di fronte all'eroe del pensiero, che ha osato risolvere semplicemente ciò che non è semplice. Di questa complessità caotica, in cui è diffuso il germe del desiderio, della passione, dell'Eros, le antiche formulazioni danno una straordinaria rappresentazione. Nel testo latino, le parole scelere vereor, materna carne vescor (temo per un delitto, mi nutro della carne materna), potrebbero essere pronunciate sia dal padre che dalla figlia, perché carne materna può essere inteso sia come figlia per il padre, sia per la figlia, come padre, sposo/carne della madre. Nel testo inglese, successivo di sette secoli circa, l'ambiguità resta nella prima frase, I am borne along the crime (sono portato/a da un delitto), mentre è scomparsa dalla seconda: I devour my mother's flesh (divoro la carne di mia madre), può essere detto solo dalla figlia.

L'inizio dell'ultimo periodo deve essere pronunciato in entrambi i casi dalla figlia: al latino quaero patrem meum, meae matris virum (cerco mio padre, lo sposo di mia madre), corrisponde una versione letterale nell'inglese antico, salvo che al posto del padre compare il fratello, sposo della madre: I seek my brother, the husband of my mother. Ed è a questo punto che l'incongruenza raggiunge il culmine: in latino la ricerca della figlia diventa senza soluzione di continuità la ricerca operata dal padre: uxoris meae filiam. In inglese quale dei due cerca il figlio maschio della propria moglie, the son of my wife? Nel romanzo la principessa è figlia unica, quindi il padre non potrebbe cercarlo; e la figlia può cercare il figlio di sua moglie?

Nec invenio (e non trovo), I do not find him (non lo trovo).

Impossibile rientrare nel passato: per quanto entrambe le polarità della relazione incestuosa agiscano alla lettera la loro passione, non trovano l'impossibile oggetto d'amore, che è insieme sposa e sposo, figlio e figlia, amante, e madre, padre, fratello, sorella. La sorte della coppia incestuosa è una splendida rappresentazione della distruttività che entra in scena infrangendo il tabù dell'incesto: il re di Antiochia e sua figlia dopo un certo tempo vengono trovati carbonizzati nel loro letto, puniti dagli dei con la loro stessa passione, divorante come il fuoco. [7]

Così oscuro è anche un testo letterario, quando rappresenta ciò che appartiene alla sfera perturbante dell'inconscio non colonizzato, razionalizzato, eufemizzato, dalla coscienza, com'è oscuro un sogno notturno, e ogni fiaba quando il suo senso ci sfugge. Ma il loro ordine segreto, una volta che l'interpretazione abbia consentito di coglierne il senso, è mirabile, e solo in quel momento, con la coscienza derivante dalla ricerca effettuata, possiamo affermare che la miglior interpretazione di una fiaba, di un sogno, di un testo letterario, è quella fiaba, quel sogno, quel romanzo antico [8].

 

 

 

 

 

3.  L'incesto in Pelle d'Asino

 

Abbiamo già parlato di narcisismo a proposito della relazione troppo perfetta tra madre e figlia. Narciso, fissando la propria figura, resta immobilizzato in un tempo e uno spazio: la relazione incestuosa, per quanto imprigionante, implica due figure, di sesso diverso. Per Narciso la sola uscita dalla prigione dello specchio è nel dolore insopportabile al quale consegue la morte, mentre dalla relazione incestuosa la protagonista della fiaba, il soggetto che deve e vuole crescere, può fuggire.

Mentre Edipo e il re Antioco vivono la tragedia di questa vicenda umana essenziale, la fiaba rappresenta un percorso del quale il motivo dell'incesto è una parte, ed è seguito da una fuga bellissima della protagonista, che dopo un tempo di occultamento nella bruttezza e nello sporco splenderà come un astro e diventerà regina.

Le fiabe confrontate tra loro ci raccontano che il rifiuto della vita e del suo tempo storico ha gli stessi effetti, sia che questo rifiuto sia agito dal genitore che dalla figlia. La difficoltà che impedisce di crescere è difficoltà nella relazione tra  genitore e generato, e in ogni caso la possibilità di scioglierla sta nel bisogno e nel desiderio di uscire dalla relazione della parte giovane.

Come nel sogno i personaggi e gli scenari appartengono tutti al sognatore, del quale mettono in scena articolazioni e funzioni psichiche, così nella fiaba antagonisti e protagonisti possono essere intesi come figure intrapsichiche. Le violenze che subiamo da figure esterne, concrete, si fissano in coazioni che arrestano la nostra crescita nella misura in cui queste figure hanno un corrispettivo fantasmatico dentro di noi. Il potere di una personalità sadica non esiste se l'altra persona non ha in sé componenti masochistiche, rispetto alle quali personifica un fantasma già esistente. Il delirio di persecuzione porta le personalità paranoidi a selezionare nella realtà esterna tutto ciò che conferma la loro costruzione, fino a individuare con assoluta certezza elementi oggettivi che per un osservatore esterno sarebbero neutri e insignificanti. Oppure si pensi alla sconfortante tendenza delle persone che escono da una relazione di coppia fallimentare a ritrovare un tipo di partner con le stesse caratteristiche del precedente. Dal punto di vista della realtà psichica, di cui parlano le fiabe, interno ed esterno sono condizioni intercambiabili di oggetti significativi affettivamente. Parliamo di oggetti psichici il cui campo non è solo quello della coscienza, che ha la funzione di discriminare tra soggetto e oggetto, interno ed esterno. Quando questa separazione è possibile possiamo dire che la persona ha acquisito il sentimento della vera realtà[9], e distingue tra sé e altro da sé abbastanza da cogliere le possibilità trasformative dell'esperienza. Se la figlia anoressica potesse distinguere in senso profondo fra la propria identità e il fantasma materno, non sarebbe determinata da un rifiuto della madre e del cibo che cresce come rifiuto del corpo e della vita.

L'enigma posto dalla Sfinge, e quello analogo del re di Antiochia, sono tanto difficili da risolvere perché per farlo occorre accogliere l'incomprensibile che è in noi. Non è possibile dare la risposta se la rimozione ha eliminato dalla coscienza ogni traccia di quel passato in cui eravamo intrecciati in una relazione simbiotica con i genitori, non è possibile rispondere se le barriere tra il generante e il generato sono così rigide che non è possibile vedere che nell'arco del suo giorno l'uomo è tre esseri diversi, e non è mai solo l'uno senza l'altro. Non è possibile se ciò che determina lo psichismo non può accettare la morte come ultimo termine della vicenda umana.

Il padre che vuole sposare la propria figlia vuole essere sia generante che generato, tentando di fermare il tempo storico e di vivere un tempo in cui si illude di mettere in scacco l'invecchiamento e la morte confondendo i due termini della relazione.

Mentre nel romanzo antico e nella tragedia di Edipo la relazione incestuosa è consumata letteralmente, la fiaba di Pelle d'Asino racconta che, un attimo prima della infrazione del tabù, la figlia si dà alla fuga. Si rappresenta quindi il motivo dell'incesto come una vicenda in parte deletteralizzata, quindi psichizzata. Dal momento in cui fugge, la principessa avrà ancora molto lavoro da compiere prima di giungere alle nozze, ma il suo destino sta a quello della principessa di Antiochia come un sonno lungo cent'anni sta alla morte.

 

 

 

4. Cordelia

 

Abbiamo parlato di un tempo senza tempo, che prende vita dalla relazione incestuosa col suo rifiuto dell'avvicendarsi delle generazioni. Vogliamo osservare ora la stessa condizione in una forma deletteralizzata, nel senso che non si parla di un rapporto incestuoso con la figlia, eppure dalla figlia più giovane il padre esige un amore diverso da quello che può dargli.

Così cominciano tante fiabe, come Occhi marci di Nerucci:

 

A' tempi antichi ci fu un Re che aveva tre figliole. Un giorno le chiamò tutt'insieme e disse alla maggiore: "Quanto mi vo' tu bene?". "Quant'al pane", quella gli arrispose. "Allora i' son contento", dice 'l padre. Poi s'arrivolse alla mezzana: "E te quanto mi vo' tu bene?". "Babbo mio, quant'al vino". Fa il padre: "Anco di te i' son contento, perché il vino mi garba e il paragone è giusto. E te, piccina, dimmelo anco te, quanto mi vo' tu bene?". Dice la piccina: "Quant'al sale". "Oh birbona," sbergola il Re: "dunque, tu mi vo' veder distrutto?". E s'incattivì, ché alla figliola, per bone ragioni che lei gli portassi del su' pensieri, non ci fu verso di farlo persuaso e d'abbonirlo. Dice lui: "Sì, tu mi vo' distrutto, perché 'l sale si strugge anco da sé indove si mette. Dunque una figliolaccia come te con meco nun ci pole più stare. Va' via di casa e ti maladico, e vai laddove più ti garba. Ma fuggi via subbito dalla mi' presenzia e ch'i' nun ti rivegga più mai" (cit., p. 106).

 

Come la protagonista di Zuccaccia questa principessa disperata va a chiedere consiglio alla sua balia, visto che la madre, come ci aspettavamo, è assente, neanche nominata. E per allontanarsi dal padre fugge in un reame lontano, coperta da un travestimento repellente che la occulta e dal quale uscirà in tutto il suo splendore per sposare il suo principe: lo svolgimento della vicenda è lo stesso che analizzeremo nei prossimi capitoli, quasi identico a quello di Pelle d'Asino. Invece di chiederle di sposarlo, il re chiede alla figlia più piccola di risponderle come lui desidera, e non sopporta che gli voglia bene come al sale perché, dice, il sale si distrugge anche da sé. Le altre due sorelle paragonano il padre ai cibi fondamentali, gli stessi che figurano nel sacrificio della messa, dicono quindi al padre che lui è il cibo della loro vita, mentre la più piccola gli richiama la sua morte: il sale si distrugge anche da sé. Ci piace considerare l'orrore provocato nel padre da questa risposta come una conferma di quanto abbiamo detto dell'incesto: essere al centro dell'amore della figlia, essere il suo sposo, permette al padre di respingere il fantasma della propria morte.

Dopo aver incontrato il suo principe, colui che la riconoscerà sia nell'oscurità del suo travestimento che nel suo splendore, la figlia più piccina si sposa, e al banchetto di nozze partecipa anche suo padre, che invece non la riconosce più. La sposa, come si racconta, dispose che gli venisse servito tutto senza sale, e il re non riuscì a mangiare, e se ne rammaricò dicendo che le pietanze erano insopportabilmente sciocche.

 

"Dunque lei al sale gli vole bene?", addimandò la sposa. Dice lui: "Sicuro, ché insenza sale i' nun so fare io". "Oh! allora, signor padre", scramò la sposa, "perché mi mandò via di casa, quand'i' paragonai il bene ch'i' gli volevo al bene ch'i' voglio al sale?". A queste parole 'mprovvise il padre s'accorgette che era la su' figliola e disse forte: "T'ha ragione! I' feci male dimolto, e ti chieggo perdono, e ti benedisco con tutto il core" (Ivi, pp. 109-110).

 

Attraverso l'amore del padre la figlia si stacca dalla madre e impara ad amare l'altro sesso, ma la sua crescita si chiude nella relazione incestuosa se il padre si configura per lei come nutrimento.

Occhi marci, sorella di Cordelia, sa che la relazione col padre deve essere deletteralizzata, simbolizzata, per consentire la crescita verso l'eterosessualità esogamica, le nozze regali. Il finale di questa fiaba riporta ai suoi confini l'amore per il padre: essenziale, esso non costituisce però il cibo di cui può nutrirsi la figlia, che dovrà trovarlo e prepararlo nel nuovo reame, staccandosi dalla propria casa, sciogliendo i legami con la propria famiglia.

In questo motivo fiabesco il simbolo del sale richiama la funzione paterna come principio di separazione, discernimento: avere del sale in zucca significa essere saggi, agire sensatamente; un cibo può essere sciocco come una persona; il verbo latino sapio significa sia aver gusto che esser savio, e da esso derivano sapere e sapore.

Delle due sorelle di Occhi Marci la fiaba non parla, perché rappresentano la parte che smette di crescere. Questa non è materia di fiaba, perché non apre un percorso, un movimento dal noto all'ignoto, dal legame con i genitori alla costruzione di una nuova realtà affettiva, che viene conquistata dalla protagonista e dal suo principe, perché non si trova nella casa dell'origine.

Come tragedia, non fiaba, verso la morte, non verso il lieto fine, si svolge lo stesso tema in Re Lear. Nel primo atto Shakespeare ci presenta un re che abdica e vuole che le figlie ereditino in anticipo il suo regno: apparentemente accetta e favorisce il passaggio di potere alla nuova generazione. Come il re della fiaba del sale chiede alle tre figlie quanto lo amano, perché il loro amore è la ricompensa che esige per il regno di cui si priva.  La prima figlia dice:

 

Sir, I love you more than word can wield the matter;

Dearer than eyesight, space, and liberty;

Beyond what can be valued, rich or rare;

No less than life, with grace, health, beauty, honour;

As much as child e'er lov'd, or father found;

A love that makes breath poor and speech unable;

Beyond all manner of so much I love you.

(A. I, Sc. 1) [10]

 

Osserviamo che nella risposta l'amore verso il generato e l'amore verso il generante sono nominati in quella identità senza limiti di cui abbiamo parlato come carattere fondamentale dell'incesto: quanto può essere amato il figlio, quanto può essere amato il padre. Quand'è il suo turno, la figlia mediana dichiara un amore ancora più grande, perché la sua felicità è solo nell'amore paterno, e re Lear, soddisfatto, assegna a ciascuna di loro un terzo del suo regno.

La più piccola, la prediletta Cordelia, non ha nulla da dire, poi, dietro le insistenze del padre, gli risponde:

                                

..................................... Good my lord,

You have begot me, bred me, lov'd me; I

Return those duties back as are right fit,

Obey you, love you, and most honour you.

Why have my sisters husbands, if they say

They love you all? Haply, when I shall wed,

That lord whose hand must take my plight shall carry

Half my love with him, half my care and duty.

Sure I shall never marry like my sisters,

To love my father all. (Ivi)[11].

 

Re Lear, deluso da questa risposta, si infuria e ripudia la figlia più piccola, dividendo fra le due prime figlie l'ultima parte di regno. Rimasta senza dote, Cordelia viene rifiutata dal suo pretendente duca di Borgogna, mentre il re di Francia chiede la ragione del ripudio. Comprendendo la vicenda, parla e agisce con una sensibilità corrispondente a quella di Cordelia, e la sua poesia ci fa incontrare per la prima volta il principe sensibile, che ritroveremo nel capitolo 7: 

 

Fairest Cordelia, that art most rich, being poor;

Most choice, forsaken; and most lov'd, despis'd!

Thee and thy virtues here I size upon,

Be it lawful I take up what's cast away.

Gods, gods! 'tis strange that from their cold'st neglect

My love should kindle to inflam'd respect.

Thy dow'rless daughter, King, thrown to my chance,

Is queen of us, of ours, and our fair France.

Not all the dukes of wat'rish Burgundy

Can buy this unpriz'd precious maid of me.

Bid farewell, Cordelia, though unkind;

Thou loses here, a better where to find.

(Ivi)[12].

 

Mentre abdicando sembra riconoscere la propria vicinanza alla morte, Lear esige di essere rispecchiato come assoluto oggetto d'amore. Esigere dalla propria figlia che dichiari un amore più grande di ogni cosa bella e profonda della vita, unendo l'amore per il figlio e l'amore per il padre è una richiesta incestuosa, anche se l'incesto non è letteralmente presente. Ed è la richiesta posta alla figlia da ogni padre che chiede di essere idealizzato: la fissazione a questa figura paterna le impedisce di amare veramente un altro uomo. La donna che resta psicologicamente legata all'immagine paterna, imprigionata nella relazione edipica in una forma virtuale di incesto, amerà il proprio partner a patto che corrisponda a questa immagine idealizzata, e cercherà di distruggerlo, sentendosi tradita e delusa, quando sarà costretta a prendere atto che non potrà mai essere all'altezza delle sue aspettative. La donna sarà incapace di perdonargli non tanto le sue mancanze, quanto il suo essere irrimediabilmente altro dal padre. Amare un altro uomo non implica solo che la donna abbia rotto lo specchio che mantiene l'identità originaria con la madre, ma anche la sua rinuncia alla bellezza di cui gode nell'amore edipico.

 

 

 

 

 

5. Gli abiti meravigliosi

 

Nella fiaba di Zuccaccia, che abbiamo già introdotto, la principessa pone come condizione per accettare le nozze che il padre le procuri un vestito di seta color d'aria e tutto tempestato con le stelle del cielo. La balia l'ha consigliata di chiederlo pensando che il dono fosse impossibile, ma il re innamorato incarica un servitore di cercarlo in tutto il mondo, a qualunque costo. In tutte le fiabe in cui viene formulata questa richiesta, il re la soddisfa: poi segue la richiesta di un altro abito, e di un terzo, sempre più belli e difficili da procurare.

Così il padre di Zuccaccia le dona il vestito color dell'aria con le stelle del cielo, e poi un abito di seta color dell'acqua, con tanti pesci d'oro che ci nuotano dentro, e infine un terzo, tutto tessuto di campanelline e catenelle d'oro.

Nella sua versione della fiaba Perrault racconta che il re ordina ai suoi servitori di fare gli abiti richiesti dall'Infanta: se non riusciranno li impiccherà tutti. Così le dona un abito del color dell'aria, bello come il cielo azzurro quando è circondato da nuvole d'oro, uno che splende come la luna, e il terzo del colore del sole:

 

...Il Re innamorato diede via senza rimpianti tutti i diamanti e tutti i rubini della sua corona, con l'ordine di non risparmiare alcuna cosa affinché l'abito fosse più splendente del sole. Infatti, non appena fu portato alla Corte, tutti quelli che lo videro furono costretti a chiudere gli occhi, tanto ne rimasero abbagliati. È da quel tempo che sono venuti in voga gli occhiali verdi e le lenti affumicate. Cosa divenne l'Infanta a tale vista? Non si era mai veduta cosa più bella né più artisticamente lavorata. Ella rimase senza fiato e, col pretesto d'aver male agli occhi, si ritirò in camera sua... (Perrault, cit., p. 5).

 

Perché l'Infanta e Zuccaccia chiedono al padre innamorato abiti meravigliosi se vogliono evitare le nozze con lui? Dato che sono abiti con i quali la loro bellezza, già straordinaria, si esalta, vestendosi dell'azzurro del cielo e dello splendore degli astri, l'amore incestuoso non può che crescere.

La figlia sfida il padre ad arricchire la sua identità, visto che gli abiti la simbolizzano, fino a fare di lei più che una principessa bellissima: gli pone come condizione per sposarlo di dimostrare che col suo amore può renderla bella come il cielo, il mare, la luna, le stelle, il sole... E il padre con la sua regale potenza accetta la sfida e soddisfa la richiesta. Ma questo non basta, e la richiesta successiva a quella dei tre abiti è completamente diversa: l'Infanta, su consiglio della sua madrina, la fata dei Lillà, chiede al padre la pelle dell'asino fatato, che nelle stalle regali riempie ogni notte la lettiera di monete d'oro. Quando il re senza esitare sacrifica il suo animale per amore della figlia, la principessa si copre con la pelle dell'asino e fugge dalla reggia.

Con gli abiti meravigliosi che la seguono in una cassetta sotto terra, pronti a tornare in superficie con un tocco della bacchetta magica, la bella fuggitiva è avvolta nella pelle dell'asino, che le aderisce come una nuova identità, rendendola così brutta e sudicia che nessuno vuol aver a che fare con lei. Trasformata in Pelle d'Asino la protagonista troverà finalmente un rifugio come sguattera e guardiana di pecore e  tacchini. Come Cenerentola avrà un posto in cucina, e tutti la disprezzeranno, disgustati dal suo aspetto asinino.

Non è con la sua bellezza che l'Infanta può fuggire, né tanto meno indossando le vesti che la fanno risplendere come il firmamento, ricevute dal padre innamorato, ma avvolta dalla pelle dell'asino: in altre fiabe la principessa sfugge alle nozze incestuose trasformandosi in un'orsa, o coperta da una veste di legno. Ma il travestimento più repellente, che rimanda alla vecchia Baubò del mito delle grandi dee e alla vecchia della fiaba cornice di Basile, è quello della principessa Occhi marci, che aveva risposto al padre di volergli bene come al sale. La balia non sa come fare per salvarle l'onore, dato che la sua bellezza richiama l'attenzione di tutti i giovani che incontrano fuggendo:

 

Una sera però, arrivate a una città le du' donne, s'imbatterno in un mortorio e gli dissano che era il funerale d'una vecchia morta a cento anni. Pensa subbito la balia: - "Se mi vendano la pelle di questa vecchia no' siemo salve." - Vanno dunque nella chiesa, e doppo finite le funzioni la balia cerca del becchino e gli domanda, se lui vole vendere la pelle della vecchia. Il becchino in sulle prime 'gli arrispose di no; ma poi, siccome la balia gli profferse cento scudi, lui s'accordò, e con un coltello scorticata per bene tutta la vecchia, la su' pelle la diede alla balia. La balia quand'ebbe avuto in mano la pelle della vecchia col viso, i capelli bianchi, le mane con l'ugne e tutto, la fece conciare e cucitala su del cambrì, mascherò con quella la ragazza, sicché la nun si riconosceva più (Nerucci, cit., p. 107).

 

La principessa diventa una cosa sola con la pelle che la nasconde, e quando il principe le chiede la sua età, risponde di avere centoquindici anni. Lo stesso principe può scoprire che Occhi marci è la bellissima sconosciuta che ha ballato con lui, indossando abiti color del mare e color del cielo, solo quando comprende che bruttezza e bellezza compongono la sua identità, come elementi egualmente importanti del suo complesso cammino di crescita. L'idealizzazione della donna, complementare all'idealizzazione dell'uomo, impedisce l'uscita dal dominio genitoriale, reame o casa originaria, e l'incontro profondo con l'altro sesso.

Tornando a re Lear, abbiamo visto l'espressione di questa idealizzazione in ciò che all'inizio pretende dalle figlie, e più avanti troviamo l'opposto complementare di questa idealizzazione, il disprezzo. Le due figlie maggiori dopo essersi sposate maltrattano il padre ormai privo di potere, così come disprezzano i loro mariti: ciò che muove le loro azioni sono la voracità e l'invidia, che prosperano all'ombra di ogni idealizzazione.

La perdita dell'immagine ideale del femminile, per difendere la quale aveva sacrificato Cordelia, la figlia più piccola e più amata, provoca in re Lear il crollo dell'immagine idealizzata di sé, la perdita irreparabile del suo senso di identità, la sua pazzia. All'immagine ideale della donna amata, che è madre, sposa e figlia allo stesso tempo, subentra il suo opposto complementare. A questo opposto, che costituisce la condizione in cui la donna si sente brutta, colpevole, sporca e inaccettabile, sarà dedicato il prossimo capitolo. Ma prima leggiamo nelle parole di Lear ormai perso nella follia l'espressione perfetta di tutto ciò che l'uomo rifiuta di vedere nella donna, lo stesso che la donna rimuove narcisisticamente da se stessa: vi leggiamo ciò che forma l'oscurità del femminile, inaccettabile perché sconosciuta, negata, rimossa, eppure irrinunciabile se la principessa vuole essere regina, come sanno Cenerentola e Pelle d'Asino.

 

Behold yond simp'ring dame

Whose face between her forks presaes snow,

That minces virtue and does shake the head

To hear of pleasure's name -

The fitchew nor the soiled horse goes to't

With a more riotous appetite.

Down from the waist they are centaurs,

Though women all above;

But to the girdle do the gods inherit,

Beneath is all the fiends';

There's hell, there's darkness, there is the sulphurous pit -

Burning, scalding, stench, consumption.

Fie, fie, fie! pah, pah! Give me an ounce of civet,

Good apothecary, to sweeten my imagination.

(A. IV, Sc. 6)[13]


LA CENERE E IL TEMPO

 

 

 

 

 

 

Ad una sua semplice occhiata, uno specchio si ricopre di chiazze e si guasta; allo stesso modo, se essa guarda una ferita o una piaga, la fa suppurare e impedisce la sua guarigione. Anche il suo fiato, come il suo sguardo, può guastare, corrompere e rendere inservibili molte cose, e così pure il suo tocco. Vedrete, infatti, che se essa maneggia del vino durante il periodo mestruale, questo vino si trasformerà immediatamente, assumendo un dubbio sapore.

Persino l'aceto, da lei maneggiato, svapora e non vale più un soldo; dicasi così anche del vino in fermentazione, che perde ogni forza, e dello zibetto, dell'ambra, del muschio ed altri profumi del genere, che perdono tutti l'aroma se sono portati da o vengono in contatto con donne in tali condizioni. Infine, anche l'oro ed i coralli, insieme a molte pietre preziose, sbiadiscono e si macchiano come gli specchi di cui già abbiamo parlato.

(Paracelso)

 

 

 

 

1. Lo specchio oscurato

 

Vassilissa la bella, la Cenerentola della raccolta russa di A. N. Afanasjev (Antiche fiabe russe, 1980), dopo la morte della madre, si trovò con una matrigna e due sorellastre che, invidiando la sua bellezza, le ordinavano di fare i lavori più duri...

 

...affinché dimagrisse dalla fatica e diventasse nera nera sotto il sole e il vento... (cit., p. 18).

 

La Cenerentola secentesca, che era al centro dell'affetto del padre e credeva di aver ottenuto, rompendo il collo alla prima, una matrigna di cui sarebbe stata la pupilla, fu oscurata dalle sorellastre. Anche il padre, che l'amava più dei suoi stessi occhi, si dimenticò di lei:

 

...scapeta oie manca craie, venne a termene che se redusse da la cammara a la cocina e da lo vardacchino a lo focolare, da li sfuorge de seta e d'oro a le mappine, da le scettre a li spite, né sulo cagnaie stato, ma nomme perzì, che da Zezolla fu chiamata Gatta Cennerentola (Basile, cit., p. 128) [14].

 

Occultamento della bellezza nel colore scuro o nella cenere, fino alla perdita del nome stesso: Cenerentola, Pelle d'Asino, Occhi Marci, l'Orsa, come tutte le loro sorelle di fiaba, sono ribattezzate proprio da questa condizione di oscurità. Alla rottura della relazione con la madre, rappresentata dalla sua morte, o del legame incestuoso col padre, segue questa condizione di oscurità. La separazione dal luogo delle origini è violenta, e in senso intrapsichico si configura come una rottura brusca, un crimine: nella storia di Cenerentola si rappresenta la rottura dello specchio narcisistico che conferiva bellezza alla figlia purché rinunciasse alla sua crescita autonoma per modellarsi sulla madre, riproducendola e rendendola eterna in se stessa. Questa separazione è rappresentata nel tipo classico di Cenerentola come morte della madre buona e dominio della madre persecutoria. Nel tipo Pelle d'Asino l'identità con la madre bella e buona non attiva una matrigna persecutoria, ma un padre che, volendo sposare la figlia in quanto riproduzione della madre, fermerebbe la sua crescita nella relazione incestuosa.

Non è possibile un allontanamento indolore di questo specchio, come non è possibile un superamento della posizione narcisistica senza la morte di Narciso. Intendendo questa figura mitica come una posizione psicologica possiamo cercare di capire in che modo il suo mito appartiene a tutti, in gradi e tempi diversi. Consideriamo la posizione narcisistica in senso lato, come una condizione dell'essere nella quale l'angoscia per la propria imperfezione e la propria finitezza sono scotomizzate, denegate, attraverso una corrente affettiva concentrata sulla propria immagine, sulla figura ancora contenuta nella madre, matrice e specchio di sé. Solo fissarla, e fissarsi allo stesso tempo, tiene insieme la percezione di sé che non è un'identità matura. Avere un'identità non narcisistica, sapere di essere altro dalla maschera che si indossa, dalla figura che lo specchio riflette, richiede la catastrofe della rottura dello specchio.

Come modello di questa confusione originaria tra sé e altro da sé possiamo prendere la posizione schizo-paranoide teorizzata da M. Klein[15]. Il lattante secondo questa teoria passa da uno stato di benessere assoluto, quando è sazio e accudito, a uno stato di malessere altrettanto totalizzante, quando ha fame e non viene preso, compreso, e nutrito dalla madre. L'angoscia presente nel pianto di un neonato è tanto intensa quanto la sua beatitudine se è sazio di latte e di cure. Il passaggio da uno stato allo stato opposto è discontinuo, non esistendo ancora nel bambino un ponte di immagini e parole che gli permettano di transitare anziché di precipitare tra il paradiso della sazietà e l'angoscia abbandonica della fame. Il neonato nell'angoscia somiglia a un primitivo di fronte a un'eclissi di sole: il mondo intero e lui stesso stanno precipitando nell'oscurità, moriranno. Manca la percezione della vita come spazio diversificato, nel quale si alternano stati gratificanti e frustranti. Essere gettati con violenza da un paradiso a un inferno è un modo di sentirsi che ha la sua matrice nella condizione di dipendenza dalla madre, quando non si è costituito un Io che garantisca continuità nel proprio percepirsi come esistenti. Anche se in maniera meno assoluta di quanto sembra accadere al neonato, questa modalità si ripresenta, caricandosi di antiche angosce mai risolte, in molti momenti critici dell'esistenza. L'innamoramento totalizzante, quello in cui il nostro oggetto d'amore ha il potere di renderci assolutamente felici, ricambiandoci, o definitivamente infelici, rifiutandoci, rimette in scena una relazione analoga a quella col genitore onnipotente della prima infanzia. Ciò che il soggetto chiama innamoramento, dall'esterno  è facilmente osservabile come fissazione, ma anche il soggetto lo definirà come fissazione una volta che il suo stato emotivo sarà cambiato, quando non sarà più innamorato. Vorremmo puntare l'attenzione su questo paradosso: una persona adulta precipita, o vola, verso questo stato totalizzante, si sente pronta a rivoluzionare tutta la sua vita, purché l'oggetto d'amore accolga il suo desiderio violento, confermando quello che il soggetto desidera, mentre avverte il rifiuto come la peggiore disgrazia che possa capitare. Solo uno specchio può confermare o sconfermare chi vogliamo essere: se di fronte a noi invece dello specchio c'è un'altra persona, complessa quanto noi, e quanto noi contraddittoria nelle sue luci e nelle sue ombre, saremo consapevoli che possiamo giocare in una relazione secondo i desideri nostri e dell'altro, ma non ci aspetteremo una definitiva approvazione o una sconferma altrettanto perentoria del nostro essere. Finché esiste la possibilità che un fonte possa rispecchiarci e farci innamorare di noi stessi attraverso l'immagine riflessa, siamo vincolati a una struttura di identificazione primaria con la matrice, la madre originaria, e ne dobbiamo fare esperienza, fino alle estreme conseguenze. Prima del compimento di questa esperienza il nostro modo d'amare è avvolto in un gioco di impotenza e onnipotenza: ma questo gioco può inscenarsi in ogni settore della nostra vita, e impedire la crescita di una capacità generativa, creativa. Il desiderio dell'altro eguale a me è una presenza e un'assenza: per questo non c'è distanza, e mancando il distacco non c'è avvicinamento, ma annullamento per coincidere, nella morte.

Impotente a ricevere e dare amore era Narciso, di cui il mito racconta che molte e molti si innamoravano di lui: ma il fanciullo bellissimo li disprezzava tutti al punto di non lasciarsi neanche toccare. Fino al giorno in cui vide la sua figura riflessa in uno specchio d'acqua, che secondo una versione del mito era la sua stessa madre trasformata in fonte: ne fu preso d'amore tanto che non poté più staccarsene. Nelle Metamorfosi di Ovidio, Narciso è tragicamente consapevole di ciò che lo ha catturato:

 

Iste ego sum! sensi; nec me mea fallit imago:

uror amore mei, flammas moveoque feroque!

quid faciam? roger, anne rogem? quid deinde rogabo?

quod cupio, mecum est: inopem me copia fecit.

O utinam a nostro secedere corpore possem!

votum in amante novum: vellem, quod amamus abesset!

(L. III, vv. 484-489) [16]

 

Anche nell'adulto che vive un innamoramento violento coesistono la consapevolezza del carattere paradossale del suo stato e l'impossibilità di smettere di fissare l'oggetto d'amore senza il quale il proprio essere e la vita stessa si oscurano, come l'immagine nello specchio.

Questa riflessione su Narciso, breve e parziale, è necessaria per l'analisi del grande sogno di Cenerentola perché riteniamo che la fiaba, considerata nelle sue varianti, racconti di un superamento del narcisismo rappresentato come identificazione tra madre e figlia. Il tema dell'incesto segue al tema dell'identificazione, articolato in modi diversi nel tipo Pelle d'Asino e nel tipo classico di Cenerentola, e alla rottura dell'identificazione primaria con la madre succedono l'oscurità, lo sporco, la forma animale, la cenere, che formano il tema di questo capitolo. Alla fine del nostro lavoro d'analisi, alla fine della fiaba, vedremo come la morte di Narciso consenta al soggetto di muoversi verso l'eterosessualità esogamica rappresentata dalle nozze regali.

Abbiamo parlato di morte come rottura della relazione fusionale con la madre, e osserviamo ora come solo la sofferenza e la morte consentano a Narciso di staccarsi dal suo specchio. Consapevole di essere condannato a non unirsi mai al suo oggetto d'amore, perché la sua immagine non è separata da lui, Narciso augura agli amanti di essere separati, perché senza separazione non c'è incontro possibile, non c'è abbraccio. Pur comprendendo la propria tragedia, Narciso è condannato ad amare senza poter abbracciare nessuno:

 

Dixit et ad faciem rediit male sanus eandem

et lacrimis turbavit aquas, obscuraque moto

reddita forma lacu est. Quam cum vidisset abire,

"Quo refugis? remane nec me, crudelis, amantem

desere!" clamavit "liceas, quod tangere non est,

adspicere et misero praebere alimenta furori!"

Dumque dolet, summa vestem deduxit ab ora

nudaque marmoreis percussit pectora palmis.

Pectora traxerunt tenuem percussa ruborem,

non aliter quam poma solent, quae candida parte,

parte rubent, aut ut variis solet uva racemis

ducere purpureum nondum matura colorem.

Quae simul aspexit liquefacta rursus in unda,

non tulit ilterius, sed, ut intabescere flavae

igne levi cerae matutinaeque pruinae

sole terpente solent, sic adtenuatus amore

liquitur et tecto paulatim carpitur igni,

et neque iam color est mixto candore rubori

nec vigur et vires et quae modo visa placebant

nec corpus remanet, quondam quod amaverat Echo.

(L. III, vv. 474-493) [17]

 

Le lacrime e il sangue, il dolore e la ferita: così Narciso oscura la sua immagine, e per questo muore. Il mito racconta che venne trasformato nel fiore primaverile che porta il suo nome e cresce vicino alle acque: intendiamo la morte di Narciso come il cambiamento catastrofico che nella sofferenza ci spinge fuori dalla fissità del rispecchiamento. Morte come perdita dell'oggetto d'amore assoluto, sola garanzia che dava realtà all'essere: a questa succede l'oscurità dell'espiazione e del lutto.

 

 

 

 

2. Lo sporco animale

 

La fiaba, come il mito, come il sogno, ha un tempo che può coincidere con quello del racconto storico, ma ha anche un tempo circolare, metastorico, articolato secondo richiami simbolici anziché ordinato in una sequenza cronologica regolare. I simboli e le vicende che formano la fiaba risuonano gli uni con gli altri, la scarpetta di vetro con la cenere del focolare, il dattero dorato con l'ostilità della matrigna, gli abiti di mare e di cielo con il pollaio o il porcile. Questo ci costringe in certi casi ad andare avanti nell'interpretazione, lasciando da parte delle promettenti analogie, che ogni simbolo richiama, perché se le seguissimo troveremmo altre analogie, innumerevoli come i percorsi di un labirinto, perdendo di vista la nostra Cenerentola. In altri casi percorrendo un sentiero di senso, che sembra promettere un'uscita, un'interpretazione soddisfacente, dobbiamo invece fermarci, ripiegare sulla strada già percorsa, perché la valenza simbolica di una figura ci impone di ritrovare i suoi nessi con altre figure che avevamo sfiorato. Ogni ricerca sulla fiaba si muove tra il rischio di un'interpretazione che sacrifichi alla chiarezza la complessità labirintica della sua materia, perdendone il senso,  e quello di uno smarrimento nel labirinto, figura antica della psiche, che impedisce di uscire, e quindi di raccontare qualcosa che evochi questo senso.

Abbiamo concluso il capitolo precedente con le parole di Re Lear, quando alla sua idealizzazione del femminile, per la quale aveva disconosciuto e cacciato Cordelia, che non voleva modellarsi sulle sue aspettative, subentra il disprezzo per la donna. Il desiderio erotico nella donna, rimosso dalla sua rappresentazione idealizzata, ritorna come istinto animale e come eccesso per Re Lear:  "...La puzzola e il cavallo pasciuto d'erba fresca non ci si buttano con appetito più sfrenato...".

Nella cultura patriarcale il desiderio della donna viene considerato come assente - addormentato, congelato - fino a che l'uomo non lo risveglia: la sessualità della donna è accettabile come  speculum, specchio della sessualità maschile [18]. La stessa teoria dell'invidia del pene, cardine della riflessione freudiana sullo sviluppo della psiche femminile, indica una concezione della donna come portatrice di un'assenza - del pene come unico organo di desiderio - che ne evoca ed esalta la presenza nel maschio. Riflettiamo sulla distanza abissale di questa concezione da una relazione vera tra uomo e donna, come esseri umani portatori di una diversità complementare, ma parimenti significativa, pregnante. 

L'eros femminile rimosso torna, come ogni oggetto rimosso, con caratteristiche perturbanti, come sessualità sfrenata della donna che non si sottomette ai modelli consensuali. La madre non meno del padre può educare la figlia a rimuovere ogni coscienza del suo desiderio, a occultare la sessualità con schemi di seduzione e di pudore che hanno successo solo se viene introiettata dalla figlia una rappresentazione del proprio sesso come di un'assenza: di una castrazione che ha avuto successo. Nella secca alternativa tra donna sacra o donna dissacrata, la scelta viene fatta dalla figlia modellandosi o non modellandosi sulla madre, e l'amore paterno le viene dalla corrispondenza che raggiunge con questo modello.

Ma la fiaba di Cenerentola richiama verità profonde che poco hanno da spartire con le norme consensuali che idealizzano una sorta di riproduzione per clonazione tra madre e figlia, dalla quale l'apertura al mondo maschile è esclusa, o vissuta parzialmente, come nel mito delle grandi dee. Le norme della cultura patriarcale educano il maschio e la femmina a differenziarsi, ma non a incontrarsi, e la loro distinzione è sostenuta più da una posizione prevalentemente omosessuale che dal loro confronto. Il mondo maschile e quello femminile restano profondamente lontani, contrapposti, mentre solo incontrandosi e facendo esperienza reale l'uno dell'altra possono riconoscersi e conoscersi nella loro polarità complementare. Le nozze regali, il lieto fine di Cenerentola o Pelle d'Asino, rappresentano questo incontro profondo.

Quando la difficile via del distacco dalle identificazioni primarie, la rottura dello specchio di Narciso, è intrapresa, se il soggetto continua a camminare e a dipanare il suo gomitolo, tra cenere di lutto e magie che illuminano la sua oscurità, se è pronto a vivere come una prova tutto ciò che incontra, conquisterà il tesoro. Solo percorrendo il suo cammino, affrontando ogni prova che ne fa parte, anche se non l'ha scelta, semplicemente  perché riconosce che è il suo cammino, potrà sapere che la solitudine e l'isolamento somigliano a un incantesimo negativo, e che questo incantesimo finisce quando il cuore può aprirsi all'incontro con l'altro, diverso dal padre, diverso dalla madre, colui che, come aveva compreso Narciso, è staccato da noi: che l'amante sia staccato dall'amato.

L'animalità di Pelle d'Asino e delle sue sorelle di fiaba è quella che consente loro di fuggire dalla reggia paterna, coprendo la loro bellezza idealizzata con una forma connessa all'istinto: così esse diventano irriconoscibili anche per il padre, come Cordelia quando non corrisponde all'immagine ideale di Re Lear.

Nella fiaba del tipo Pelle d'Asino di Basile la principessa Preziosa, alla quale il padre ha detto che quella sera stessa l'avrebbe sposata, chiede consiglio a una vecchia che la soleva servire d'argentata, le vendeva cioè il belletto che conferiva al suo volto una bianco luminoso. Questa vecchia, che in altre storie è la balia, o una fata, è una figura materna che risponde a una richiesta d'aiuto della protagonista, e la soccorre nella difficoltà: entra in scena con lei una funzione positiva del materno, che può rappresentarsi al soggetto solo dopo la morte della madre, quando l'identificazione primaria si è spezzata. La vecchia che vende argentata, il belletto che richiama una luminosità lunare, le dice:

 

Stà de buon armo, figlia mia, non te desperare, ca a ogne male 'nc'è remmedio, fore ch'a la Morte. Ora siente: comme patreto stasera avenno dell'aseno vo' servire pe stallone e tu miettete sto spruoccolo 'n mocca, perché subeto deventerrai n'orza... (Basile, cit., p. 362)[19].

 

Preziosa ringrazia la vecchia, e quando il re padre la chiama...

 

...a portare lo quatierno pe saudare li cunte amurose, essa, puostose lo spruoccolo 'n mocca, pigliaie la figura de n'urzo terribele e le ieze 'n contra. Lo quale, atterruto de sta maraveglia s'arravogliaie drinto a li matarazze, da dove manco pe la matina cacciaie la catarozzola (Ivi)[20].

 

Il re padre è atterrito dalla figlia che gli va incontro come orsa: animale che rappresenta il materno con la sua capacità di nutrire, come la lupa, ma anche la sua ferocia istintuale.

Cerchiamo ora di esplorare il motivo dell'asino, di cui indossa la pelle la principessa di Perrault, che abbiamo scelto come capolista della variante scopertamente incestuosa di Cenerentola.

Asino è l'appellativo già assegnato da Basile al padre di Preziosa, e l'animale era sacro al dio Priapo, signore dell'erezione. Animale umile, disprezzato, e simbolo della potenza fallica, l'asino lega in sé una doppia significazione, pienamente espressa nel romanzo di Apuleio, Le metamorfosi, al quale Collodi potrebbe essersi ispirato per la trasformazione di Pinocchio in asino. Quando Pinocchio torna burattino è pronto per la riabilitazione che lo farà diventare un vero bambino, così come Lucio, dopo aver vissuto da asino, è pronto ad essere iniziato ai misteri della grande dea, Iside [21]. È probabile che Perrault fosse maliziosamente consapevole del significato dell'asino, nella pelle del quale la sua principessa scompare fino ad assumerne il nome.

La protagonista si era messa volontariamente l'anello della madre, e questo indica il suo desiderio di prenderne il posto: coprirsi con la pelle dell'asino significa aver riconosciuto il desiderio del padre e fuggirne. In questo tipo di fiaba la protagonista diventa da bellissima bruttissima, repellente e irriconoscibile. La sua fuga dal reame paterno la porta a bussare alla porta di una reggia straniera, dove viene accolta per compassione, e schernita per il suo aspetto disgustoso.

Maria 'd legna, protagonista di una Pelle d'Asino molisana, sta sempre nel pollaio della reggia, e lo sporco fa parte della sua persona al punto che quando le viene chiesto di preparare tacc' e taccune perché il principe malato vuole mangiarli cucinati da lei, alla preghiera della regina di ripulirsi per l'occasione, risponde:

 

Eh, signor Maestà,  com' vienn' z' l' magna. E che pozz' fa? Rent' a lu pollaie c' sta la cuzz'chella la pirucchiella... chell' com' vienn' z' l' magna (Gioielli, cit., p. 461).

 

Irriconoscibile come orsa o nella pelle dell'asino del padre, in una veste di legno, o nella pelle di una vecchia morta a cent'anni, occultando la sua bellezza nella sporcizia di un pollaio o di un porcile, la principessa vive un'iniziazione di cui solo alla fine della storia comprenderemo il senso completo. Per il momento osserviamo che l'aspetto sporco e repellente le consentono di sottrarsi alle nozze col padre: il desiderio paterno, fissato alla donna idealizzata, madre, sposa e figlia, non ha modo di riconoscerla.

Nell'educazione patriarcale la sessualità spontanea della figlia è rimossa per la pressione della madre che riproduce in lei la stessa rimozione che ha agito in se stessa, come qualcosa di sporco, che la renderebbe inaccettabile, inadeguata all'ideale maschile. Modello ideale che chiude la donna in un gioco narcisistico e costringe l'uomo a rapportarsi con una figura femminile priva di ombre - la donna angelo - o solo in ombra - la donna diabolica, sfrenata. Quando l'istinto, l'ombra rimossa dalla donna, emerge, è talmente scisso dalla parte luminosa da impedire un riconoscimento, e fa precipitare in disprezzo senza appello ciò che prima era un'ammirazione sconfinata. Ricordiamo le parole di Re Lear:

 

....Solo fino alla cintola appartengono agli dei, la parte di sotto è tutta del demonio, lì c'è l'inferno, lì c'è l'abisso sulfureo, che brucia, che scotta, c'è il fetore, la consunzione! via, via, via! puah! puah! datemi un'oncia di zibetto per profumare la mia immaginazione!

 

 

 

 

3. La cenere

 

Pelle d'Asino vive nella sporcizia ed ha un aspetto repellente, ma dispone sempre dei suoi abiti meravigliosi, che viaggiano sottoterra seguendola nella sua fuga. Anche la principessa trasformata in orsa, ogni volta che lo vuole, può riprendere la sua forma umana, semplicemente togliendosi lo spruoccolo, lo steccolino, dalla bocca.

Sporche e repellenti, Pelle d'Asino e le sue sorelle di fiaba hanno dal padre innamorato lo splendore della bellezza femminile e la colpa di aver preso il posto della madre morta: questo tipo di fiaba pone l'accento sulla relazione edipica come matrice del racconto. Anche se è il padre a volere le nozze incestuose, è nella storia della figlia che si rappresenta l'oscurità dell'espiazione: la colpa nella fiaba, come nella psiche, ha poco a che vedere con la scelta cosciente. Essere in una relazione incestuosa significa precipitare comunque nell'ambivalenza che essa implica, in una bellezza vestita di abiti di cielo, di mare, di stelle, che ha come polarità inevitabile la pelle dell'asino. La fiaba è la storia di un soggetto, come il sogno notturno è un frammento significativo della vicenda del suo sognatore: qualunque sia la corrispondenza tra le figure del sogno e le persone della sua realtà diurna, per quanti personaggi entrino attivamente in scena, soccorrevoli o persecutori, conta il gioco al quale nella rappresentazione onirica essi chiamano il sognatore, e come il sognatore risponde al loro richiamo.[22]

Nella fiaba, come nel mito, il soggetto si fa carico di ogni condizione nella quale si trova implicato, che l'abbia scelta o meno, come l'eletto di cui scrive Heinrich Zimmer:

 

Perché nella sfera del sovrumano l'eletto non viene scusato per la sua ignoranza o per le sue buone intenzioni. È giudicato secondo la sua adeguatezza e secondo le sue azioni. E poiché i poteri di quella sfera pervadono percettibilmente ogni cosa della sfera visibile, ogni cosa che l'eletto incontra è, in fin dei conti, una prova. Una dopo l'altra le sue decisioni costituiscono una prova e, ogni volta che fallisce, egli muore o subisce l'equivalente di una morte (Il re e il cadavere. 1993; pp. 134-135).

 

Ma siamo certi che questo valga solo nella sfera del sovrumano? Ogni evento che si dà sul nostro cammino, anche se non lo abbiamo scelto, costituisce di fatto una prova, e la nostra libertà di muoverci seguendo i nostri desideri consiste nella relazione che riusciamo a instaurare con ciò che troviamo lungo il cammino, non nella scelta degli eventi. E non è questa la nostra condizione fondamentale, dato che nessun essere umano può scegliere quando nascere e quando morire, da chi nascere e chi generare?

La comprensione profonda di questa nostra realtà, la più evidente, che lega tutti gli esseri umani, è un compito impossibile per il nostro pensiero, fino a che viviamo in una oscillazione schizoide fra impotenza - nulla dipende da me - e onnipotenza - tutto dipende da me. Alla posizione narcisistica questa comprensione succede drammaticamente, come una morte e un lutto, di cui l'oscurità di Cenerentola è rappresentazione. L'identità narcisistica muore, per consentire che si formi l'identità adulta, esogamica ed eterosessuale.

Mentre Pelle d'Asino occulta la sua bellezza, di cui resta sempre e comunque padrona, Cenerentola vive confinata nel focolare, quasi coperta dalla sostanza che resta dalla combustione del fuoco.

Bruno Bettelheim osserva che il nome inglese dell'eroina, Cinderella, deriva dalla parola cinders, che indica i residui anche sporchi del fuoco, mentre ashes, come il tedesco aschen, corrispondente all'italiano cenere e al francese cendre, indica la cenere vera e propria, che è il prodotto pulito di una combustione completa (cit., pp. 243-244, nota). Se osserviamo la parentela tra Cenerentola e Pelle d'Asino, c'è una connessione tra il tempo della cenere e il tempo della sporcizia che rende comunque significativo il termine inglese. Così è sempre la fiaba: essa vive come terreno, humus della lingua dalla quale trae forma, e i suoi elementi, generatori prima che portatori di senso, si legano secondo molteplici valenze, sempre feconde, con la lingua stessa. 

È vero però che in Cenerentola alla morte della madre non segue come in Pelle d'Asino il trionfo edipico della protagonista, ma la perdita di ogni attenzione da parte del padre che si risposa e dimentica la figlia per volgere le sue attenzioni alle figliastre. Questa condizione non designa un occultamento ma una perdita della bellezza femminile: per un certo tempo, la fiaba non dice quanto, Cenerentola vive nell'oscurità, come una serva della madre e delle sorelle, senza alcun mezzo per tornare a brillare come principessa.

La condizione di Cenerentola è una rappresentazione del lutto che consegue all'uccisione della madre buona, alla perdita dello specchio della sua bellezza, al posto del quale subentra il fantasma negativo complementare, rappresentato dalla matrigna e dalle sorellastre. Quanto questo tema sia presente nella vita di ogni giorno non è dimostrato solo dal successo della storia di Cenerentola: basta pensare ai vissuti di esclusione della donna, che si sente trattata ingiustamente dalla madre, e più ancora da figure che i modelli consensuali le consentono di considerare nemiche. L'ostilità di cui queste sono cariche è nutrita dal fantasma materno persecutorio: la suocera per la nuora, e la nuora per la suocera in primo luogo. Nelle fiabe antiche la stessa funzione persecutoria può essere agita dalla madre, dalla matrigna, dalla suocera e anche dalla prima moglie del principe che ama la protagonista: rappresentano il potere della rivale.[23]

Nelle fiabe dalle quali la tendenza alla rimozione ha eliminato i tratti perturbanti questa funzione è invece giocata solo da una matrigna o da una suocera strega. Questo corrisponde ai modelli consensuali, che consentono ad esempio a una donna di lamentarsi ferocemente della crudeltà della suocera senza sentirsi in colpa, mentre non tollerano l'ambivalenza che affiora se fa lo stesso con la propria madre.

Ma non crediamo che sentirsi vittima di un'altra donna, o di tutte le donne, corrisponda allo stato di Cenerentola: perché si attraversi la fase psichica rappresentata dalla cenere occorre che la bellezza sia davvero perduta, non che si accusi l'altra - madre o sostituto materno - di volerla offuscare. Nella fase dell'accusa la dinamica femminile si alimenta come un fuoco di competizione e invidia: il tempo della cenere prevede che tutto questo materiale si sia consumato, lasciando il posto a quella polvere non sporca, che è il residuo finale del processo.

In alchimia la cenere segna una fase della trasformazione, essenziale come il fuoco nel processo che tende all'oro alchemico. Nel Settecento, quando l'Europa intera si appassionava alle raccolte di fiabe, scriveva Dom Antonio Pernety:

 

Les Philosophes Hermétiques disent qu'il ne faut pas mépriser la cendre, & Morien dit qu'elle est le diadême du Roi. Il faut entendre ces termes de la matiere après qu'elle a été en putréfaction; parce qu'alors elle semble de la cendre & que de cette cendre doit sortir le soufre philosophique, qui est le diadême  du Roi (Dictionnaire Mytho-Hermétique, 1758,  p. 70) [24].


Il rito cattolico del Mercoledì delle Ceneri ha lo stesso significato simbolico, segnando il passaggio dal tempo della passionalità istintiva e sfrenata del Carnevale, alla penitenza della Quaresima, tempo tra inverno e primavera, che precede la gioia della Resurrezione.

 

 

 

 

 

4. Il tempo

 

Quanto restò Cenerentola nella cenere del focolare, e quanto tempo trascorse Pelle d'Asino prima di manifestarsi nei suoi abiti di mare e di stelle al principe? Il tempo della mortificazione non è un tempo storico, ma un tempo rituale, ricorrente, che crea una sospensione tra due posizioni diverse: nella nostra fiaba separa e lega l'identità modellata in senso endogamico, sui modelli familiari, e l'identità esogamica, nuova, la più bella, che ascende al trono con le nozze regali.

Per questo è tanto difficile attraversarlo, perché è un tempo in cui l'attività visibile all'esterno manca: il nostro ideale collettivo ci porta a togliere valore a tutto ciò che, mancando di visibilità oggettiva, non è quantificabile. La Cenerentola di Perrault appare quasi masochista, e questo dipende dal fatto che il ritiro in se stessi, la mancanza di investimento rivolto all'esterno, è giudicato una condizione di inferiorità, di colpevole disagio. Un tempo che è anche tempo di lutto, evitato ed esorcizzato dai nostri modelli collettivi, in cui la cenere è disprezzata, come i rifiuti, gli scarti, in cui il pensiero della morte è scotomizzato come qualcosa di inadeguato, sporco.

La depressione può essere considerata la patologia psichica più diffusa e discussa  nel nostro tempo, e irrompe come l'opposto rimosso del nostro ideale collettivo: essere sempre realizzati, capaci di avere successo, seppellire rapidamente le persone che perdiamo, come le delusioni e le disillusioni che ci spingerebbero, se accolte, in un tempo doloroso di riflessione. Riflettere etimologicamente significa flettere nuovamente, piegare all'indietro, come a designare un movimento del pensiero che piegandosi cerca nel passato, nelle sue ombre. Nella depressione noi sperimentiamo il senso di inutilità dell'azione che spinge in avanti, verso una meta consensuale o idealizzata: improvvisamente niente ha più senso, la vita appare un'illusione, un gioco vano al quale non riusciamo a sottrarci. La malinconia della depressione è come un'acqua che sommerge tutte le figure che prima muovevano la nostra esistenza: quando siamo depressi percepiamo gli altri, e il nostro stesso io, come privi di base.

Il sentimento del tempo nella depressione è senza limiti: mai siamo stati felici, ci eravamo solo illusi, e mai riusciremo a dare o a ricevere nulla per cui valga la pena di vivere. Un tempo senza tempo che sta fra due ritmi diversi della vita: questo rappresenta la fiaba quando il soggetto subisce senza reagire, senza agire in risposta, il dominio di un altro personaggio, come la matrigna crudele. Nella fiaba questi tempi, che esistono nella percezione soggettiva, rappresentano passaggi vitali tra condizioni diverse dell'essere.

Questo tempo è rappresentato nelle fiabe. Mentre il tempo nel mito è sempre rituale, nella fiaba è sia rituale che quotidiano, e corrisponde a un tempo che psicologicamente è percepito come privo di senso, un tempo di privazione, di lutto. Il suo senso non si svela se a un'azione ne succede immediatamente un'altra, se il soggetto non accetta come una prova la condizione di non controllarlo. È un tempo che ha valore proprio per il suo pregnante stare tra tempi di azione. Questo tempo rappresentato nella fiaba non può presentarsi nella tragedia, dove il soggetto corre inarrestabilmente verso la sua catastrofe definitiva. Non è neppure nel romanzo, il cui tempo è sempre del soggetto, anche quando ne racconta la distruzione. 

L'eclisse del soggetto è il tempo della depressione, nel quale l'altro ostile domina togliendo luce, desiderio, amore, libertà... Tutto ciò che accende la vita scompare, finché resta solo cenere. Saper accettare e vivere questo tempo è un po' come continuare a vivere nella nebbia o nell'oscurità senza dibattersi, anche se ogni cosa sembra scomparsa.

Oscurità, cenere, successiva a un incendio, in un processo di trasformazione: un'oscurità che compare in ogni rappresentazione poetica che vuole esprimere la ricerca della luce, l'incontro con l'altro. Un'oscurità che risulta dal calore del sole, analogo del fuoco, è rivendicata dalla sposa nel Cantico dei Cantici come una condizione da non disprezzare:

 

Nigra sum sed formosa, filiae Jerusalem,

sicut tabernacula Cedar, sicut pelles Salomonis.

Nolite me considerare quod fusca sim,

quia decoloravit me sol. [25]



[1]  Vedi la Storia del principe Kalaf e della principessa della Cina, in Pétis de la Croix, I mille e un giorno (1712), vol. I, pp. 150-250. Pétis de la Croix fu il primo a pubblicare Turandot, ambientandola in una Cina priva di riferimenti storici e geografici, seguendo la moda dell'orientalismo in voga all'inizio del Settecento. Tra il 1704 e il 1717 erano uscite Le mille et une nuits di Antoine Galland, che divennero il best-seller del Secolo dei Lumi. Anche il paese di Aladino, nato alla carta stampata per opera di Antoine Galland, era questa Cina, che va intesa semplicemente come un lontano reame di fiaba. Ma nei secoli il nome di maniera lavora con la stessa procedura metastorica del registro fiabesco, creando l'ambientazione cinese della Turandot pucciniana, e promuovendo, per le contemporanee rappresentazioni di questo melodramma, scambi concreti con la Cina per la sceneggiatura e la regia. E' un bell'esempio di come l'arte, con la sua illusione, senza pretese di veridicità, finisca col creare la realtà.

 

[2]  Non sono una vipera, eppure mi nutro / della carne della madre che mi ha generato. / Cercai uno sposo, e in questo lavoro / Trovai quel favore in un padre. / Egli è padre, figlio, e dolce sposo; / Io sono madre, figlia, e pure sua bambina.

 

[3]  Vedi Sigmund Freud, Totem e tabù (1912-13).

 

[4]  Temo per un delitto, / mi nutro della carne materna. / Cerco il padre mio, di mia / madre lo sposo / della mia sposa / la figlia, e non trovo. (cit. da Peter Goolden, The Old English Apollonius of Tyre,1958; p. 7)

 

[5]  Sono portata da un crimine, / divoro la carne di mia madre. / Cerco mio fratello, il marito / di mia madre, il figlio di mia / moglie. Io non lo trovo.(cit. da Ben Edwin Perry, The Ancient Romances. A Literary Historical Account, 1967, p. 296)

 

         

 

[6]  Questa formulazione enigmatica potrebbe avere la sua matrice nelle Supplici di Eschilo: "Simile a quegli uccelli che mangiano carne di uccelli [...] s'è due volte nutrito della sua propria carne, dapprima versando il sangue paterno, poi unendosi col sangue materno". (cit. da J.P. Vernant, Ambiguità e rovesciamento sulla struttura enigmatica dell'"Edipo re"; sta in: Detienne, Il mito, 1989; p. 84).

 

[7]  Il motivo degli amanti incestuosi che vengono carbonizzati è presente nelle Mille e una notte (1948, Storia del primo mendicante nella Storia del facchino e delle ragazze, vol I, pp. 64 sgg.), dove subiscono questa pena un fratello e una sorella. Ricorre anche nella Leggenda Aurea, dove ad essere carbonizzata è una madre che, non essendo riuscita a sedurre il figlio, lo porta in tribunale accusandolo, come Fedra, di peccati di lussuria. (Jacopo da Varagine, 1990; vol. I, p. 14)

 

[8]  A proposito dell'enigma vedi anche il mio saggio Il motivo dell'enigma. Trasformazioni e costanti del discorso interiore, 1994.

 

[9]  Wirklichkeitsgefül, usato da Freud, significa letteralmente sensazione, senso, sentimento della vera realtà, e ci pare più poetico ed efficace della locuzione più comunemente usata, principio di realtà. Questo principio viene troppo spesso inteso, o frainteso, in termini riduzionistici, come contrapposto al dominio del desiderio e della fantasia desiderante. Riteniamo che il sentimento della vera realtà scaturisca da una trasformazione che tiene conto degli elementi onirici, fantasmatici, simbolici, quanto dei rapporti concreti che si articolano secondo una norma consensuale. Se non c'è sentimento, non c'è alcuna conoscenza profonda, nemmeno nell'esperienza concreta.

 

[10]  Signore, io vi amo più di quanto possano riuscire ad esprimere le parole: v'ho più caro della vista, dello spazio, della libertà; vi amo al di sopra di tutto ciò che può essere stimato ricco e raro; non meno della vita, quando è unita alla grazia, alla salute, alla bellezza, all'onore; vi amo quanto figliolo amò mai padre, o padre si vide amato; di un amore, il quale rende povero il fiato e impotente la parola; io vi amo al di là di tutti questi modi così alti di amare. (Tutte le opere, a cura di Mario Praz, 1989, p. 904)

 

[11]  Mio buon signore, voi mi avete generato, allevato, voluto bene: io vi corrispondo, da parte mia, con quei doveri che sono giustamente convenienti; cioè vi obbedisco, vi amo, e vi onoro del mio meglio. Perché hanno marito le mie sorelle, se dicono che tutto il loro amore è per voi? Probabilmente, quando un giorno mi sposerò, l'uomo che riceverà dalla mia mano il pegno della mia fede, porterà con sé metà dell'amor mio, metà delle mie cure e dei miei doveri: certo, io non mi mariterò mai come le mie sorelle, per dedicare tutto intero l'amor mio a mio padre. (Ivi)

 

[12]  Bellissima Cordelia, che sei ancora più ricca perché sei povera, più eletta perché abbandonata, più amata perché disprezzata, io mi impossesso, qui, di te e delle tue virtù: io, mi sia lecito, raccolgo ciò che vien gettato via. Dèi, dèi! è strano che alla gelida noncuranza di costoro, l'amor mio dovesse accendersi, fino a divampare in venerazione. Re, la tua figliola senza dote, gettata nelle mie braccia dalla ventura, è regina nostra, dei nostri sudditi, della nostra bella Francia: tutti i duchi di Borgogna non potranno ricomperare da me questa preziosa fanciulla disprezzata. Cordelia, di' addio a costoro, per quanto snaturati: tu perdi questo luogo, per trovarne uno migliore. (Ivi, p. 906)

 

[13]  Guardate quella signora là, che sorride scioccamente, che ha  una faccia, la quale vi farebbe credere, che fra le sue gambe ci stesse di casa la neve, che fa la santarellina, scuote il capo scandalizzata a sentir pronunciare il nome del piacere; ebbene, la puzzola e il cavallo pasciuto d'erba fresca non ci si buttano con appetito più sfrenato. Dalla vita in giù esse sono dei centauri, sebbene nella parte superiore esse siano donne; solo fino alla cintola appartengono agli dei, la parte di sotto è tutta del demonio, lì c'è l' inferno, lì c'è l'abisso sulfureo, che brucia, che scotta, c'è il fetore, la consunzione! via, via, via! puah! puah! datemi un'oncia di zibetto per profumare la mia immaginazione! (Ivi, p. 936).

 

[14]  ...Perdici oggi manca domani, finì che si ridusse dalla camera alla cucina e dal baldacchino al focolare, dai lussi di seta e d'oro agli stracci, dagli scettri agli spiedi e non soltanto cambiò stato ma persino nome e da Zezolla fu chiamata Gatta Cenerentola (Ivi, p. 129).

 

[15]  Vedi: Melanie Klein, Invidia e gratitudine, 1969; vedi anche: Franco Fornari, La vita affettiva originaria del bambino, 1963.

 

[16]  Io sono te, me n'accorgo: l'immagine mia non m'inganna. / Io di me brucio d'amore ed accendo la fiamma che m'arde. / E che farò? Debbo chiedere o esser richiesto? E che cosa / poi chiederò? Quel che voglio è con me: la soverchia ricchezza / m'impoverisce. Potessi staccarmi dal corpo! Or un voto / nuovo farò per gli amanti: vorrei che mi stesse lontano / quel che vagheggio (Le Metamorfosi, cit., vol. I, p. 127).

 

[17]  Disse, e tornò forsennato alla solita faccia riflessa / e, intorbidando col pianto dirotto lo specchio dell'acqua, / pel movimento dell'onde divenne l'immagine scura. / Come s'accorse che il volto evaniva, gridò: "Dove fuggi? / resta, crudele; non abbandonare chi t'ama. Deh lascia, / lascia che guardi l'aspetto, poiché non ti posso toccare! / Porgimi tu l'alimento per questa infelice follia!" / Mentre così si doleva, si aperse la tunica in alto / e si batté nudo il petto con ambo le candide palme. / Alla percossa il suo seno si tinse di rosso leggero, / come le mele che bianche da un lato, dall'altro son rosse / e come l'uva non anche matura nel grappolo vaio. / Come ciò vide nell'acqua, che limpida s'era rifatta, / più non sofferse lo strazio; ma come si scioglie la bionda / cera alla debole fiamma del fuoco o la brina al mattino / quando la scaldano i raggi del sole, così dall'amore / vinto si strugge Narciso consunto da lenta passione. / Con l'incarnato del volto perdette le forze e il vigore, / e de' bei pregi, di che si compiacque, l'immagine sparve / né gli restò pur il corpo che fu dilettissimo ad Eco (Ivi, pp. 127-129).

 

[18]  Vedi, in particolare per il suo valore storico, Luce Irigaray, Speculum. L'altra donna (1974).

 

[19]  Stai di buonumore, figlia mia, non disperarti, perché per ogni male c'è rimedio, fuorché per la Morte. Ora ascoltami: quando tuo padre, che è un asino, stasera vorrà fare da stallone tu infilati questo bastoncino in bocca, immediatamente diventerai un'orsa e fuggirai via... (Ivi, p. 363).

 

[20]  ...per farsi portare il quaderno su cui saldare i conti dell'amore, lei, messo il bastocino in bocca, si trasformò in un orso terribile e gli andò incontro. Lui, terrorizzato da questo prodigio, si arrotolò dentro i materassi da dove non tirò fuori la testa neanche la mattina (Ivi).

 

[21]  Tra i numerosi punti di contatto tra l'asino-Pinocchio e l'asino-Lucio, il nome dell'amico del burattino che lo convince a recarsi nel Paese dei Balocchi e viene trasformato come lui in asino: Lucignolo. Il ciuchino-Pinocchio è costretto a esibirsi in un cerchio saltando nel cerchio, mentre il protagonista di  fugge da un anfiteatro dove sarebbe costretto a esibire con una donna corrotta e delinquente tutta la sua potenza asinina, dopo l'incontro erotico e grottesco con una nobile matrona. Vedi: Apuleio, Le Metamorfosi; in: Il romanzo antico greco e latino, 1981; pp. 1274-1275.

 

[22]  Bertrand d'Astorg, analizzando la vita e le opere di Mary Wollstonecraft Shelley, celebre per la sua creatura, "Frankestein", evidenzia il senso di colpa nato nella figlia dalla dichiarazione d'amore del padre, anche se l'incesto non è stato consumato, e cita queste parole della scrittrice.: Io sola sulla terra ero depositaria del terribile segreto. Potevo dirlo ai venti e alle lande deserte, ma tra i miei simili, non avrei mai dovuto, né con sguardi né con parole, dar credito alla più piccola congettura sulla terribile realtà.[ ...] Nella mia anima c'era quello che nessun silenzio può rendere sufficientemente oscuro. ... Dovevo ritrarmi dallo sguardo degli uomini per timore che potessero leggere nei miei occhi vitrei la colpa di mio padre. (Bertrand D'Astorg, Letteratura e incesto in Occidente, 1990; p. 79).

 

[23]  Fra i numerosi esempi possibili, ne indichiamo due in cui le persecuzioni più crudeli, fino al tentato omicidio, non sono come di solito perpetrate da matrigne né da suocere streghe: la prima moglie del re della fiaba di Basile Sole, Luna e Talia (cit., pp. 944 sgg) vuole bruciare la protagonista, mentre nella fiaba La bella Ostessina di Gherardo Nerucci (cit., pp. 45 sgg.)  è la madre stessa a tentare di uccidere ferocemente la figlia, quando la crede rivale in amore. Chi sia interessato potrà trovarne altri nelle raccolte di Giovan Francesco Straparola e Vittorio Imbriani (citt.).

 

[24]  I Filosofi Ermetici dicono che non bisogna disprezzare la cenere,  e  Morien  dice  che essa  è il  diadema  del Re. Bisogna capire questi termini della materia dopo che  è stata in putrefazione;  perché è allora che appare la cenere ed è da questa cenere che deve uscire lo zolfo filosofico,  che è il diadema del Re. (Corsivo nel testo)

 

[25]  Sono nera ma bella, figlie di Gerusalemme, / come il cedro dei tabernacoli, come le tende di Salomone. / Non giudicatemi perché sono scura, / perché è il sole che mi ha cambiato colore (Cantico dei Cantici, 1973; p. 10).

 

5. Dattero mio dorato

DATTERO MIO DORATO

 

 

 

 

 

 

 

Sapete qual è il percorso più breve fra due punti? No, non è la linea retta: è il sogno.

(Bineux, Rosalyn et le lions)

 

 

 

 

1. Golio de quarcosa

 

L'appagamento di un desiderio dovrebbe di certo recar piacere ma, ci si chiede, a chi? Naturalmente, a colui che prova il desiderio. Sappiamo però che il sognatore intrattiene coi propri desideri un rapporto del tutto speciale. Li rigetta, li censura, in breve non li vuole (Sigmund Freud, L'interpretazione dei sogni, 1899, p. 530, nota).

 

Con queste parole Freud introduce la piccola storia di una coppia povera alla quale appare una fata pronta a esaudire tre desideri. Allora la moglie, sentendo un buon profumo di salcicce arrostite, esclama: "Ah! se potessi averne un paio!". Appena vede le salcicce fumanti nel piatto della moglie, il marito grida: "Ti si attaccassero al naso!". In un batter d'occhio anche questo desiderio è esaudito. I due coniugi si mettono a discutere se sia meglio usare il terzo desiderio per ottenere immense ricchezze, o per far tornare normale il naso della donna. Infine decidono per la seconda richiesta: la fata scompare e loro restano poveri come prima.

La storiella presenta la magia come funzione del soggetto: essa si manifesta spesso nelle fiabe, così come nella vita quotidiana sono frequenti le potenzialità creative. Ma in entrambi i casi la trasformazione si dà, si rappresenta, solo se il soggetto sa esprimere un desiderio.

Non basta il bisogno ad attivarla, altrimenti la Cenerentola di Perrault sarebbe stata visitata dalla fata madrina all'inizio della sua penosa condizione servile. Invece ha passato tanto tempo umiliata nella cenere, senza chiedere né ricevere alcun aiuto, e quando le sorellastre tutte agghindate sono uscite per andare al ballo del re si mette a piangere. Col pianto esprime una mancanza, e la fata madrina può aiutarla a esprimere il suo desiderio:

 

La sua madrina, venutala a trovare, la vide in un mare di lacrime e le domandò cos'avesse:

- Io vorrei... vorrei...

Piangeva così forte che non poteva continuare. La madrina, che era una fata, le disse:

- Vorresti andare al ballo, non è vero?

- Ahimè, sì, - disse Cenerentola con un sospiro.

(Perrault, cit., p. 19)

 

Pur nella passività venata di masochismo che la caratterizza, Cendrillon non beneficia della magia se non quando il pianto sgorgando la apre al desiderio.[1]

Può anche capitare che la protagonista disponga dell'oggetto magico e lo usi solo in un momento particolare, quello del massimo bisogno, come accade a una principessa nel Cunto de li cunti (Basile, cit., pp. 910-921). Dopo essersi impastata un marito di suo gusto, con la pasta di mandorle e l'acqua di rose, Betta se lo vede rubare nel bel mezzo della festa di matrimonio. Vagando per il mondo senza sapere dove andare a cercarlo, capita da una buona vecchia, alla quale racconta la sua storia. La donna:

 

...N'avette tanta compassione che le 'mezzaie tre parole: la primma, tricche varlacche ca la casa chiova; la seconna, anola tranola, pizze fontanola, la terza, tafar'e tammurro, pizze 'ngongole e cemmino, decennole che le iesse decenno a tiempo de lo chiù granne abbesuogno, ca ne cacciaria gran beneficio (Ivi, p. 914) [2].

 

Formule magiche da pronunciare nel tempo del più grande bisogno, che Betta userà quando avrà ritrovato il suo sposo smemorato con una regina ladra. Solo in un percorso verso il termine del proprio desiderio o del proprio bisogno si riceve in dono un oggetto magico, e lo si usa nel momento culminante della storia, quando agire, imprimere un cambiamento al panorama in cui ci si trova, è decisivo, impossibile, e irrinunciabile.

La permanenza nella cenere, o nello sporco, in una condizione degradata, deprimente, è caratterizzata da un'assenza di desiderio. Finché l'elaborazione del lutto non è compiuta, nessun desiderio si rappresenta, e nessuna magia viene in soccorso del soggetto.

Nella Gatta Cennerentola troviamo una finissima rappresentazione di questo rapporto fra desiderio e magia. Il giorno del matrimonio fra suo padre e la maestra di cucito:

 

...mentre stavano li zite 'n tresca , affacciatese Zezolla a no gaifo de la casa soia, volata na palommella sopra no muro, le disse: "Quanno te vene golio de quarcosa, mannal'addemannare a la palomma de le fate a l'isola de Sardegna, ca l'averrai subeto (Ivi, p. 126) [3].

 

Per tanto tempo Cenerentola penerà nel degrado, senza chiedere aiuto alla colomba delle fate. La fiaba non ci descrive il suo lamento, né la sua ribellione, né un solo tentativo di cambiare qualcosa. Fino a che un tempo indefinito di tristezza, lunghissimo perché non si vede come possa finire, non riceve una battuta nuova. Accade qualcosa per cui il soggetto dal patire e dal subire passa all'agire, e l'agire è chiedere qualcosa, o mandare a chiedere qualcosa, verso una terra lontana, dove vive la fata che era pronta fin dall'inizio ad ascoltarla, a realizzare subito i suoi desideri.

Si ricorre alla magia quando si pronuncia il desiderio, quando la rappresentazione del desiderio giunge alla coscienza: prima di quel momento non è il caso di pronunciare parole magiche, né di farlo sapere alla colomba delle fate, perché non è ancora venuto golio de quarcosa, voglia di qualcosa.

 

 

 

 

 

2. La bambola e la fata

 

Una bambina gioca con la sua bambola: la accarezza, la copre, la spoglia, o la maltratta e la lascia da parte. Nella relazione con la bambola la bambina rappresenta la sua relazione con la madre: se ha introiettato una figura materna positiva, la bambina nutre e accudisce amorevolmente la sua bambola preferita. Le donne che soffrono di anoressia e bulimia di solito non ricordano di aver giocato con piacere con una bambola. Una giovane donna mi ha raccontato che la sola bambola per la quale aveva qualche interesse era per metà blu, con i capelli verdi, e lei la picchiava e la gettava per terra.

Nelle fiabe la protagonista riceve in dono bambola alla morte della madre. Come se all'eclissarsi della figura originariamente onnipotente, alla sua morte, potesse corrispondere l'ascesa del simbolo materno, in una sequenza che prevede prima una perdita e successivamente un'acquisizione.

Vassilissa la bella, la Cenerentola russa, riceve la bambola con queste parole:

 

- Ascolta piccola Vassilissa! ricorda e adempi le mie ultime parole. Io muoio, e insieme alla  materna benedizione ti lascio questa bambola; tienila sempre vicina a te e non mostrarla a nessuno; e se ti capiterà qualche malanno, dalle da mangiare e chiedile consiglio. Essa mangerà e ti dirà come tirarti fuori dai pasticci (Afanasjev, cit., p. 18).

 

Non mostrarla a nessuno, dice la madre, affidando a Vassilissa il compito di custodire in segreto il suo simbolo, educandola a proteggere  la vita che può curare nella sua intimità nascosta.

La bambola è un simbolo della potenza femminile, della capacità della donna di nutrire e far crescere dentro di sé qualcosa di invisibile.

Nella fiaba russa Vassilissa la bella dopo la morte della madre viene perseguitata dalla matrigna e dalla sorellastra, che per farla morire la mandano dalla baba-yaga. Questa è allo stesso tempo fata e strega, figura dell'ambivalenza materna, che come una dea-madre arcaica può dare doni e salvezza, ma anche la morte. Per affrontarla Vassilissa può contare sull'aiuto della bambola, del simbolo materno che non dimentica di nutrire, e quando la baba-yaga le impone un compito impossibile, pena la morte, ricorre a lei:

 

...Pose dinanzi alla bambolina i resti della cena della vecchia, pianse e disse: "Toh, bambolina, mangia di cuore, e porgi orecchio al mio dolore! la baba-yaga m'ha dato un lavoro pesante, e minaccia di mangiarmi se non l'eseguo tutto; aiutami!". La bambola rispose: "Non temere bella Vassilissa! cena, prega, e mettiti a dormire; la notte porta consiglio!" (Ivi, p. 22)

 

Nel primo capitolo abbiamo incontrato Adamantina, che dopo la morte della madre dà tutto quello che possiede per una bambola, la poavola, e la cura come fanno le bambine, le fanciullette, ungendole il pancino e vestendola per la notte, durante la quale la tiene accanto a sé.

La poavola, come la bambolina di Vassilissa, compare alla morte della madre: perdere la figura materna primaria precede l'acquisizione di questo simbolo del femminile col quale la protagonista da povera e disperata diviene ricca e potente. Nelle fiabe che presentano questa relazione iniziale con la bambola il superamento della miseria o del rischio di soccombere a un femminile persecutorio precede un movimento narrativo diverso, attraverso il quale si perverrà all'unione regale.

Nella fiaba di Cenerentola il simbolo della potenza femminile, di far crescere in segreto, diventa accessibile attraverso una mediazione paterna. Il filo della relazione con la madre buona va intrecciato con il filo dell'amore col padre: da questo intreccio viene il simbolo che porterà la protagonista non solo al superamento della miseria e del rischio di soccombere alla persecuzione della matrigna, ma alle nozze regali.

La trasformazione nella crescita del femminile si verifica quando la protagonista entra in relazione con la madre e con il padre, legati in un unico oggetto simbolico.

Alla bambola di Vassilissa e di Adamantina, corrisponde in Cenerentola la fata, anch'essa rappresentazione del materno soccorrevole, positivo. Abbiamo visto come in Perrault la fata madrina compaia quando Cenerentola piange: la nostra eroina soffre perché non può partecipare al ballo durante il quale il principe si sceglierà una sposa, mentre Vassilissa e Adamantina devono liberarsi dalla miseria o dalla persecuzione.

Le fiabe raccontano come il simbolo della madre buona basti a vincere la persecuzione della matrigna o la miseria: è superato il rischio di morire di stenti, come tanto tempo fa, come oggi. E raccontano come per incontrare e sposare il principe occorra anche altro, qualcosa che richiede la presenza della figura paterna.

 

 

 

 

 

3. Il ramo e la rosa

 

Ricordiamo che Pelle d'Asino aveva avuto dal padre vesti splendenti come il sole e la luna, color del mare con i pesci ricamati che nuotavano, o di una seta tanto sottile che si potevano riporre in un guscio di noce. Vestita dall'amore del padre, accolto e respinto con la richiesta dei doni, la principessa aveva raggiunto il massimo splendore, per fuggire subito dopo coperta dalla pelle dell'asino, repellente come la passione incestuosa.

Mentre l'incesto è il tema centrale nelle storie di Pelle d'Asino, nel tipo Cenerentola è in primo piano la lotta con la madre. Ma anche l'eroina della cenere è molto amata dal padre all'inizio della storia, e nell'assassinio della prima matrigna si parla di una figlia che pretende una centralità assoluta nel gioco familiare degli affetti.

La marginalità e l'oscurità della vita di Cenerentola designano la sua perdita di entrambe le figure genitoriali positive: con la morte della madre la sua figura negativa perseguita la protagonista, mentre il padre si lega alla matrigna tanto da amare le figliastre dimenticando la figlia.

A questo punto della storia, come raccontano sia  Basile che i Grimm, il padre deve partire per i suoi affari, e chiede alle figliastre che dono vogliono da lui:

 

...E chi le cercaie vestite da sforgiare, chi galantarie pe la capo, chi cuonce pe la faccia, chi iocarielle pe passare lo tiempo e chi na cosa e chi n'autra. Ped utemo, quase pe delieggio, disse a la figlia: "E tu, che vorrisse?". Ed essa: "Nient'autro, se non che me raccomanne a la palomma de le fate, decennole che me manneno quarcosa; e si te lo scuorde non puozze ire né 'nanze né arreto. Tiene a mente chello che te dico: arma toia, maneca toia" (Basile, cit., p. 128)[4].

 

Il dono paterno è un rametto, un seme o un uccellino, e compare anche quando si narra di una figlia non trascurata dal padre, come nella fiaba Grattula Beddattula di Pitrè e Calvino, o nell'Uccellin Verdeliò di Vittorio Imbriani. Quando finalmente tocca a lei chiedere un dono, la protagonista si differenzia dalle sorelle, che desiderano ornamenti per confermare ed  arricchire letteralmente l'identità esteriore.

La Cenerentola di Calvino disse al padre:

 

- Io voglio che vossignoria mi porti un bel ramo di datteri in un vaso d'argento. E se non me lo porta, che il bastimento non possa più andare né avanti né indietro.

- Ah, sciagurata, - le dissero le sorelle, - ma non sai che puoi mandare a tuo padre un incantesimo? (cit., vol. II, p. 512)

 

Il ramo di dattero della versione mediterranea diventa un rametto nella versione dei Grimm, e Aschenputtel lo chiede quando finalmente tocca a lei:

 

Babbo, il primo rametto che vi urta il cappello sulla via del ritorno (cit., ivi, p. 94).

 

Le Cenerentole tendono la mano a una loro parente fiabesca: la Bella, che proprio a causa di questo dono conoscerà la bestia. Per cogliere la rosa che gli ha chiesto la più piccina il padre entra nel giardino, e in questo modo sarà costretto dalla bestia a condurgli la figlia. Consideriamo questa fiaba diversa dal nostro tipo perché la condizione degradata è del maschile anziché del femminile, ma possiamo osservare che la richiesta di questo dono al padre apre il contatto con un reame sconosciuto, e determina l'incontro tra i personaggi che alla fine diventeranno re e regina.

Una rosa, un rametto, un uccellino e un dattero da far crescere, sono i doni del padre. Il termine latino virga designa il virgulto, il germoglio, il bastone o la bacchetta magica. In Italiano verga è sia il bastone sia il fallo.

La Gatta Cennerentola sa come obbligare il padre separato da lei, il padre che l'ha dimenticata, quando chiude il suo discorso dicendo che senza soddisfare la sua richiesta non potrà più andare né avanti né indietro.

Nella versione di Calvino le sorelle rimproverano Nina per questo pericoloso incantesimo, ma né lei né il padre se ne curano. Il contenuto manifesto di questo passaggio - non poter più andare né avanti né indietro - allude alla stessa area simbolica: se il padre non aiuterà la figlia ad accedere al simbolo del maschile, lui stesso perderà simbolicamente la potenza virile. Il movimento del vascello del padre ricorda l'atto sessuale, e insieme il gioco della vita, il viaggio di andata e di ritorno tra il proprio reame e un'isola lontana, tra una figlia bambina e una donna, tra una figlia adorata e una figlia trascurata.

Aschenputtel pianta il rametto donato dal padre sulla tomba della madre e lo annaffia con le sue lacrime: cresce un alberello di nocciolo sul quale va a posarsi un uccellino bianco. I significati, anche linguistici, dell'uccello vanno dalla denominazione volgare del genitale maschile alla colomba dello Spirito Santo. E la Cenerentola di Vittorio Imbriani, anziché un ramo chiede al padre:

 

"Vo' m'avete a comperare un uccellin Verdeliò." - [Le sue sorelle dissero:] "La sciocca! Non si sa che gli abbia a che fare dell'uccellino! Invece di ordinarsi un bel vestito, un bello scialle, si piglia l'uccello chi sa per farne che!" (cit., p. 151).

 

Mentre le sorelle andranno al ballo abbellendosi con i doni che hanno chiesto, segni esteriori della femminilità, Cenerentola, in qualunque parte del mondo si racconti la sua storia, ancora vestita di stracci ricorre all'albero di dattero o al nocciolo, o chiama l'uccellin Verdeliò: grazie al simbolo della relazione d'amore con la figura paterna chiede e ottiene vesti di meraviglioso splendore. Questa bellezza di origine segreta è insieme segno e simbolo della femminilità intimamente cresciuta, come una luna che si alza, finito il tempo della sua oscurità.

 

 

 

 

 

4. Dattolo mio 'naurato

 

Il padre non ama più la figlia: nel linguaggio delle fiabe si rappresenta il distacco dal padre, che non dà più amore. La morte della madre designa la perdita della figura originaria di identificazione, ed è il passaggio nel lutto che precede l'acquisizione della nuova identità. Per ottenerla la figlia deve passare attraverso la perdita dell'attaccamento infantile alla figura paterna come oggetto di desiderio: il padre non ama più la figlia significa allo stesso tempo che la figlia non ama più il padre. Dal lutto Cenerentola esce con la sua richiesta al padre, e il padre, aiutandola a ottenere quel simbolo del maschile che solo lui può procurare alla figlia, consente la trasformazione.

Nella tragedia di re Lear si racconta della mancanza di questo passaggio, e la situazione di impotenza e di follia del re corrisponde al non poter andare né avanti né indietro del padre di Cenerentola. Trasformazione, crescita, significa avvicendamento delle generazioni: è la condizione opposta all'incesto, nel quale sono confusi il generante e il generato, al punto che nessun personaggio può andare né avanti né indietro.

Se non fosse per l'incantesimo che gli ha fatto Cenerentola, il padre non le procurerebbe il suo dono:

 

Iette lo prencepe, fece li fatte suoie 'n Sardegna pe cose necessarie a lo stato suio, accattaie quanto l'avevano cercato le figliastre e Zezolla le scie de mente; ma, 'nmarcatose 'ncoppa a no vasciello e facenno vela, non fu possibele mai che la nave se arrassasse da lo puorto e pareva che fosse 'mpedecata de la remmora. Lo patrone de lo vasciello, ch'era quase desperato, se pose, pe stracco, a dormire e vedde 'n suonno na fata, che le disse: "Sai perché non potite scazzellare la nave da lo puorto? perché lo prencepe che vene con vui ha mancato de promessa a la figlia, allecordannose de tutte fora che de lo sango propio". Se sceta lo patrone, conta lo suonno a lo prencepe, lo quale, confuso de lo mancamiento c'aveva fatto, ieze a la grotta de le fate, e, arrecommannatole la figlia, disse che le mannassero quarcosa.

E ecco escette fora de la spelonca na bella giovane, che vedive no confalone, la quale le disse ca rengraziava la figlia de la bona memoria e che se gaudesse ped ammore suio: cossì decenno le dette no dattolo, na zappa, no secchietiello d'oro e na tovaglia de seta, dicenno che l'uno era pe pastenare e l'autra pe coltevare la chianta. Lo prencepe maravigliato de sto presiento se lecenziaie da la fata a la vota de lo paiese suio e, dato a tutte le figliastre quanto avevano desiderato, deze finalmente a la figlia lo duono che le faceva la fata (Basile, cit., pp. 128-130)[5]. 

 

La madre deve dire alla figlia: tu sei come me terra fertile, e da questo dipende la sua capacità di nutrire, simbolizzata nelle nostre fiabe dalla relazione con la bambolina. Dopo aver stabilito la sua identità con la madre, dicendo: io sono terra come te, la figlia ha bisogno del dono del padre, che deve dirle: riceverai un seme come il mio. La differenza tra un legame imprigionante, articolato in una relazione di tipo narcisistico con le figure genitoriali, e una acquisizione di identità che spinga alla crescita, alla trasformazione nell'esperienza, è nel come: la madre non deve dire: io sono te, terra; il padre non deve dire: ti dono il mio seme. La chiave della crescita è nella comprensione della metafora: come. Come la madre, non la stessa cosa della madre, come dal padre, non dal padre.

Le fiabe raccontano di tante crescite possibili, e le loro parole danno nome agli ostacoli e alle soluzioni che si incontrano lungo il cammino. La magia nelle fiabe è la possibilità di dar nome, di rappresentare secondo un codice comunicabile a tutti, le esperienze di trasformazione che portano a una sufficiente maturità affettiva.

La ricchezza dei simboli che contengono attesta la potenza della metafora: il simbolo è una metafora di ordine prezioso, non riducibile ad allegoria. Risiede nella natura potente e misteriosa della metafora la corrispondenza del linguaggio verbale con le leggi del sogno e dell'immaginario. La magia, che rappresenta nelle fiabe un passaggio di trasformazione tenendo conto delle sue radici inconsce, non è una fuga dal linguaggio della coscienza, né l'allontanamento dal significato condivisibile. Come la metafora nel linguaggio, essa vale nelle fiabe come un ponte, indispensabile perché il cammino psicologico del soggetto con i suoi desideri non si interrompa, ed è dotata della pregnanza simbolica che sta alla base del potere di significazione dello stesso linguaggio verbale.

Una fata colomba si rallegra del suo ricordo e le invia un dono da coltivare, un padre va lontano a prenderle questo dono e glielo porta: la Gatta Cennerentola ora ritrova nel segreto del suo cuore entrambe le figure genitoriali positive, trasformazione simbolica delle figure onnipotenti e totalizzanti dell'infanzia. Come lei è pronta all'incontro col principe Aschenputtel: lei ha una piantina di nocciolo, donata dal padre, cresciuta col suo pianto sulla tomba della madre.

Uscita dal lutto col desiderio di ottenere il dono paterno, ora che l'ha fra le mani Cenerentola, al colmo della gioia, non ha bisogno di istruzioni per decidere cosa farne:

 

... Co na preiezza che non capeva drinto la pella, pastenaie lo dattolo a na bella testa, lo zappoleiava, adacquava e co la tovaglia de seta matino e sera l'asciucava, tanto ch 'n quattro juorne cresciuto quanto è la statura de na femmena ne scette fora na fata, dicennole: "Che desidere?". Alla quale respose Zezolla che desiderava quarche vota de scire fora de casa, né voleva che le sore lo sapessero. Leprecaie la fata: "Ogne vota che t'è gusto, vieni a la testa e dì:

 

Dattolo mio 'naurato,

co la zappetella d'oro t'aggio zappato,

co no secchietiello d'oro t'aggio adacquato,

co la tovaglia de seta t'aggio asciuttato;

spoglia a te e vieste a me! "

(Ivi) [6]

 

 

 

 

5. Il senso e i legami

 

Un bambino di sei anni fa il suo primo disegno: un serpente boa che sta digerendo un elefante. Ma gli adulti dicono che non è altro che un cappello. Il bambino continua a chiedere agli adulti che incontra cosa vedono nel disegno, e siccome rispondono sempre: "un cappello", non parla con nessuno di loro ...né di serpenti boa, né di foreste vergini, né di stelle... [7], che sono nei luoghi dei suoi sogni. Nessuno di loro lo aiuta a trovare per il suo mondo interiore un linguaggio metaforico e simbolico.

Il bambino ormai cresciuto si mette allora al livello degli adulti, che finalmente si compiacciono della sua ragionevolezza. Fino a che, essendo vissuto ...solo, senza nessuno con cui parlare veramente... [8], si trova nel deserto per un guasto del suo aereo: incontra un bambino che viene dalle stelle, e che di fronte al suo vecchio disegno vede finalmente il boa che ha ingoiato l'elefante. E incontrando questo bambino che viene dallo spazio indefinito, un po' perduto come ogni bambino i cui disegni non vengono mai riconosciuti, Antoine De Saint-Exupéry parla veramente, creando Le petit prince (1943). Il bambino è il solo a capire il bambino, in un gioco di volo, di stelle e di deserto: una comprensione irragionevole per l'adulto rigidamente legato alla logica della coscienza, ma la sola capace di rompere la solitudine.

La coscienza di ogni essere umano forse comincia con uno scacco simile a quello narrato da Saint-Exupéry, al quale si può rispondere cercando di essere ragionevoli, credendo che non esista una comprensione autentica, o facendo della propria vita una ricerca di questo senso.

È le renard, la volpe, a trasmettere al bambino il segreto del senso, la cui mancanza provoca tanta solitudine.

Ricordiamo che il piccolo principe sul suo minuscolo pianeta ha una rosa, che crede unica nell'universo e cura con costanza, come le Cenerentole curano il seme di dattero o il rametto di nocciolo. Quando, durante il viaggio, capita in un giardino pieno di rose, tutte somiglianti alla sua rosa, il piccolo principe prova un grande dispiacere, e pensa che la sua rosa si lascerebbe morire se scoprisse ciò che lui ha scoperto: è un fiore comune. La delusione a proposito dell'unicità del fiore curato e amato è immediatamente seguita dallo sconforto per la propria identità, e all'orgoglio per il suo pianeta subentra nel piccolo principe questo pensiero:

 

Je me croyais riche d'une fleur unique, et je ne possède qu'une rose ordinaire. [...] ...ça ne fait pas de moi un bien grande prince... (Ivi, p. 87) [9].

 

Piange disteso sull'erba, perché si è oscurata l'identità che si rispecchiava nella bellezza oggettivamente unica della sua rosa. Proprio allora arriva la volpe, che si ferma un po' lontana da lui:

 

- Qui es-tu? dit le petit prince. Tu es bien joli...

- Je suis un renard, dit le renard.

- Viens jouer avec moi, lui proposa le petit prince. Je suis tellement triste...

- Je ne puis pas jouer avec toi, dit le renard. Je ne suis pas apprivoisé.

- Ah! pardon, fit le petit prince.

Mais, après réflexion, il ajouta:

- Qu'est-ce qui signifie "apprivoisier"? (Ivi, p. 88) [10].

 

Una cosa troppo dimenticata, gli dirà poco dopo la volpe, addomesticare significa "creare dei legami". Una verità antica e profonda, che come un tesoro sepolto può restare inaccessibile dentro di noi: il suo senso risuona allo stesso modo in ogni storia che presenta una crescita profonda. In un cammino psicoanalitico importa comprendere cosa ci impedisce di accedere a questo senso, e trovare le risorse interiori per superare la ferita del proprio disegno non compreso.

Ma torniamo alla volpe. Al piccolo principe che vuole andare a trovare degli amici, propone di addomesticarla, e quando lui lamenta che non ha tempo, perché deve procedere nella sua ricerca e imparare molte cose, dice:

 

On ne connaît que les choses que l'on apprivoise, dit le renard. Les hommes n'ont plus le temps de rien connaître. Ils achètent des choses toutes faite chez les marchands. Mais comme il n'existe point de marchands d'amis, les hommes n'ont plus d'amis. Si tu veux un ami, apprivoise-moi!

- Que  faut-il faire? dit le petit prince.

- Il faut être très patient, répondit le renard. Tu t'assoiras d'abord un peu loin de moi, comme ça, dans l'herbe. Je te regarderai du coin de l'oeil et tu ne diras rien. La langage est la source du malantendus. Mais, chaque jour, tu pourras t'asseoir un peu plus prés... (Ivi, p. 91)[11].

 

Giorno dopo giorno: il tempo nella creazione dei legami è un alleato indispensabile, e va compreso come realtà altra rispetto al desiderio assoluto, che porta gli uomini a comprare le cose già fatte dai mercanti. Certo non si possiede né si controlla nulla addomesticando e lasciandosi addomesticare, né si evita il dolore: alla fine il piccolo principe deve partire, e chiede alla volpe se piangerà. Quando gli risponde di sì, esclama che allora non ha guadagnato nulla facendosi addomesticare da lui. Ma la volpe sa e racconta cosa ha guadagnato: il colore del grano. Prima di farsi addomesticare dal piccolo principe i campi di grano non avevano alcun valore per lei, mentre ora le spighe mature le ricorderanno il colore dei suoi capelli. E prima di dire addio al suo amico, la volpe gli svela il suo segreto:

 

- Il est tres simple: on ne voit pas qu'avec le coeur. L'essentiel est invisible pour les yeux.

- L'essentiel est invisible pour les yeux, répéta le petit prince, afin de se souvenir.

- C'est le temps que tu as perdu pour ta rose qui fait ta rose si important.

- Ce le temps que j'ai perdu pour ma rose... fit le petit prince, afin de se souvenir.

- Les hommes ont oublié cette vérité, dit le renard. Mais tu ne dois pas l'oublier. Tu deviens responsable pour toujours de ce que tu as apprivoisé. Tu es responsable pour ta rose...

- Je suis responsable pour ma rose... répéta le petit prince, afin de se souvenir (Ivi, p. 93) [12].

 

Questo momento resta un mistero mai sfiorato per molte persone, e la sua sostanza è analoga a quella del tesoro di ogni percorso iniziatico. La psicoanalisi esplora il movimento interiore rappresentato dalle fiabe accostando posizioni e stati della psiche  a questo momento di grazia, perché esso è la meta di ogni cammino umano, consentendo quell'apprendimento rappresentato dall'incontro tra la volpe e il piccolo principe che Wilfred R. Bion definisce apprendere dall'esperienza (1962).

Del viaggio fiabesco o iniziatico l'analisi ha la sospensione del tempo: quando inizia un percorso analitico è impossibile dire quanto durerà, e anche dare assicurazioni sul risultato del percorso stesso. Ma il viaggio nasce per conoscere la psiche e affrontare una sofferenza altrimenti elusa, mai ascoltata, ed è aperto a chiunque, indipendentemente dal suo grado di cultura, dalla sua appartenenza a una razza o a un ceto sociale. Esso non ha come meta diventare membri di una sorta di società segreta, perché la meta è il percorso stesso: conoscersi. Usando i temi del Piccolo principe, possiamo dire che ognuno deve comprendere il suo primo disegno, perché continua a proporlo in quella forma, e cosa può fare se vuole essere compreso. La coppia al lavoro in analisi potrebbe somigliare al piccolo principe con la volpe, in un gioco reciproco di addomesticamento, di costruzione del legame affettivo, nel quale però il linguaggio non è la fonte dei malintesi, ma lo strumento per crescere, dando nome alle cose, come al dolore, alla solitudine, all'amicizia. Chi i rivolge all'analisi dovrebbe scoprire il suo bisogno di non essere isolato, e forse iniziare un'analisi ne costituisce una prima testimonianza. Se comprende questo, può imparare ad ascoltare la volpe quando gli si avvicina, e poi addomesticare ciò che sceglie, vale a dire prendersi cura della sua propria vita. Il linguaggio è fonte di malintesi quando esclude la delicatezza di cui abbiamo bisogno per incontrarci, quando dimentichiamo che le nostre somiglianze e le nostre diversità sono bellissime ma ritrose, quando entriamo in uno spazio intimo con passi da colonizzatori, incapaci di sederci a una certa distanza e di guardarci con la coda dell'occhio.

Il linguaggio poetico di Saint-Exupéry non è fonte di malintesi, ma definisce tali le parole degli uomini. Linguaggio assurdo o incomprensibile per i bambini, come per Pinocchio, linguaggio che porta alla fine dell'infanzia, come alla conclusione del libro. 

Alla fine la partenza del piccolo principe avviene per il morso di un serpente:

 

Il hésita encore un peu, puis il se releva. Il fit un pas. Moi je ne pouvais pas bouger.

Il n'y eut rien qu'un éclair jaune près de sa cheville. Il demeura un istant immobile. Il ne cria pas. Il tomba doucement comme tombe un arbre. Ça ne fit même pas de bruit, à cause du sable (Ivi, p. 107) [13].

 

Questo bambino che si accascia senza far rumore sulla sabbia ci ricorda l'ultima immagine di un altro grande libro, il più letto dai bambini e ai bambini in tutto il mondo: le spoglie di Pinocchio ormai senza vita, accasciate sulla seggiola, mentre accanto a Geppetto un bravo bambino normale ha preso il suo posto. Se consideriamo questi due finali, poeticamente altissimi, un nutrimento per i bambini, che li incoraggi a essere se stessi pur diventando adulti, dobbiamo affermare sconfortati con Salman Rushdie che "...se esiste un terzo principio, si chiama infanzia. Ma muore; o meglio, viene assassinato" (I figli della mezzanotte, 1984, p. 172).

Sperando che il terzo principio possa ricorrere in appello, e vivere, cerchiamo nelle fiabe come si rappresenta da secoli un cammino che può portare gli esseri umani a comprendere la realtà dei loro sogni, a conoscere col cuore, non rinunciando a guardare con gli occhi, ma imparando pazientemente che gli occhi e il cuore sono in conflitto tra loro solo se servono componenti scisse della personalità. Quando un bambino gioisce ascoltando una fiaba antica, di cui il narratore, genitore o insegnante, comprende il valore, avendo riconosciuto a quale tesoro intimo può guidare, possiamo pensare che il suo linguaggio ne  viene delicatamente arricchito, che almeno per quella volta il bambino non è stato assassinato.

Dopo aver ascoltato Li sette palommielle di Giambattista Basile[14], i bambini di una prima media mi chiesero se c'è la morale della favola. Rimandai a loro la domanda, e un bambino scrisse:

 

Secondo me, questa favola ha una morale e forse è una tra i più importanti che ci può far capire una di queste fiabe. Il morale della favola, è una cosa che ti fa capire la realtà o cosa bisogna fare in certi casi e secondo me il morale di questa fiaba è "di non perdersi mai di speranza" infatti, se i fratelli di Nina si fossero persi di speranza e non avrebbero detto niente, di come si poteva risolvere il problema di non essere più colombini, ma uomini essi sarebbero per sempre rimasti colombini.

 

Non c'è cammino possibile senza la fiducia che un possibile cammino esista. Un filo può bastare, per uscire dalla condizione di angoscia che ciascuno sperimenta nella vita, un filo di magia che intendiamo come rappresentazione di quella grazia interiore alla quale scegliamo di legarci, pur ignorando dove e come arriveremo, semplicemente tendendo alla nostra meta irrinunciabile. Nelle fiabe russe accade che il principe Ivan non sappia più come trovare la sua strada, e che un uomo vecchissimo gli dia un gomitolo con queste parole: "Quando arriverai al limitare del bosco, lancia il gomitolo, e segui la via che ti indicherà".

I bambini ascoltano seguendo il filo della fiaba, e se sono invitati a dare il loro parere su una lacuna nella narrazione o su come vada inteso un passaggio, rivelano una ricchezza che sorprende l'adulto abituato a considerarli meno profondi o intelligenti di se stesso. Raccontavo un giorno una fiaba di Straparola (cit., vol. I, pp. 127-137) la cui protagonista, Biancabella, subiva tragiche peripezie, tra le quali il taglio delle mani. Mentre a un certo punto della storia si diceva che aspettava un bambino, alla fine non se ne faceva menzione. I bambini notarono la lacuna, e li invitai a colmarla. Alcuni di loro scrissero come la povera Biancabella avesse abortito fra tante sciagure, altri come il bambino fosse morto di stenti, altri come si fosse salvato e fosse presente nel finale felice. Nell'incontro successivo lessi in classe tutti questi finali, e chiesi loro di scrivere quale avrebbero scelto a quel punto per colmare la lacuna. Un bambino che aveva optato la prima volta per l'aborto causato dai patimenti di Biancabella, dopo aver sentito i racconti dei suoi compagni scrisse:

 

Per me è importante quello del

figlio che e nato ed sia un

bambino con occhi neri, capelli neri

robusto, che sia un bel bambino di

nome Lorenzo e che quando sia grande sia un bel

principe fidanzato con Chiara

principessa di Firenze

Io ho scelto questa

parte perchè‚ a Biancabella sono

successe molte cose dispiacevoli

allora con bel figlio

possa ritrovare tutta la

felicita. [15]

 

Questo bambino, un po' robusto, si chiamava Lorenzo,  e Chiara era il nome della sua compagna di scuola preferita.

La capacità dei bambini di esprimere e condividere con l'adulto, cercando le parole per farlo, la loro ricchezza, scaturisce ogni volta che l'adulto, di fronte al disegno del bambino che gli chiede che cosa sia, lo aiuta a trovare il nome, o la storia, che ne esprime il senso.

Mio nipote, quando aveva quattro anni, mi raccontava dei suoi sottomarini, con i quali andava a vedere i pesci degli abissi, e poteva anche entrare nella sabbia in fondo al mare. Descriveva questi suoi sottomarini con dovizia di particolari, erano di tutti i colori, avevano arredi preziosissimi... Quando gli chiedevo se potevo partecipare anch'io a una delle sue meravigliose crociere, mi rispondeva sempre che non potevo andarci, perché non c'era nessuna stanza col mio nome. Si divertiva a farmi dispetto, e io lo deliziavo rammaricandomi, finché un giorno gli dissi: "Beh, se tu non mi ci porti, pazienza, vorrà dire che andrà sul sottomarino del mio amico". Allora fece un'espressione smarrita e rassegnata, dicendo: "Eh... lui ce l'ha per davvero, che va sotto l'acqua?". "Certo", gli risposi, e mentre temeva che avessi decretato la fine della sua potenza fantastica, esercitando contro di lui il diritto della persona adulta, continuai: "certo che va sott'acqua, come i tuoi, no?". La sua gioia per questa soluzione fu tale che tutta la flotta dei sottomarini ne fu abbellita fino a diventare d'oro puro, e pur interdicendomene la visita, me ne ha proseguito a lungo il racconto.

A quattro anni il bambino rivela una piena comprensione della differenza tra la realtà oggettiva e la realtà della sua immaginazione. È compito dell'adulto aiutarlo a trovare un linguaggio che gli consenta di seguire il filo del suo desiderio e della sua esperienza muovendosi su diversi piani di rappresentazione.

Desidero portare infine l'esempio di un'insegnante che svolge questo compito [16]. Per un mese aveva lavorato con la sua classe quinta elementare sulla poesia e la metafora, partendo dal film Il postino di Massimo Troisi (1994). Una mattina, parlando in senso scientifico del vento, aveva spiegato che il vento non è una realtà, una veraa e propria cosa, ma l'effetto di spostamenti d'aria dovuti al calore o a eventi meccanici. Quando più tardi la classe è tornata a occuparsi di poesia, una bambina ha pensato bene di scrivere del vento, della metafora e della sua realtà poetica. La sua poesia ci insegna a comprendere le fiabe:

 

Il vento si muove lentamente.

Passa sopra il mare

e lo ascolta raccontare.

Passa accanto al sole

e lo sente chiacchierare.

Passa sopra la luna

e la ode sospirare.

Continua a viaggiare

e le fiabe raccolte

lo cavalcano gridando.

Entra in una casa

e le storie vanno

nella bocca di una madre.

Le racconta al bambino

che ride nella culla.

 

Quando da un'antica fiaba che rinarriamo scaturisce la fiaba nuova di un bambino, quando le sue parole formano una figura piena di poetica intuizione del valore dell'esperienza e del sentimento, penso che potremmo perfino cercare di metterci in comunicazione con Antoine De Saint-Exupéry, scomparso mentre volava, anche lui come il piccolo principe senza far rumore, e rispondere all'appello col quale chiude il suo capolavoro:

 

Alor soyez gentils! Ne me laissez pas tellement triste: écrivez moi vite qu'il est revenu... (Ivi, p. 111)[17].



[1]  A proposito dell'oggetto magico e della sua funzione complessa nella fiaba, vedi anche il mio saggio Aladino e la lampada meravigliosa. Viaggio psicoanalitico, 1993.

 

[2]  ...Ne ebbe tanta compassione che le insegnò tre formulette: la prima, tricche varlacche ca la casa chiova; la seconda, anola tranola, pizze fontanola, la terza, tafar'e tammurro, pizze 'ngongole e cemmino, raccomandandole di dirle quando ne avesse avuto un gran bisogno, perché ne avrebbe tratto un gran bene (Ivi, p. 915).

 

[3]  ...Mentre gli sposi stavano a trescare tra loro, Zezolla, si affacciò a un terrazzino di casa sua e una colombella, volata su un muro, le disse: "Quando ti viene voglia di qualcosa mandala a chiedere alla colomba delle fate nell'isola di Sardegna, subito l'avrai" (Ivi, p. 127).

 

[4]  ...E chi chiese vestiti da esibire, chi ornamenti per la testa, chi belletti per la faccia, chi giochini per passare il tempo e chi una cosa e chi un'altra. Alla fine, quasi per scherno, disse alla figlia: "E tu cosa vorresti?". E lei: "Nient'altro se non che mi raccomandi alla colomba delle fate chiedendole di mandarmi qualcosa; e se te ne scordi possa tu non andare più né avanti né indietro. Ricordati quello che ti ho detto: arma tua e mano tua" (Ivi, p. 129).

 

[5]  Il principe partì, fece i suoi affari in Sardegna, comprò quello che le figliastre gli avevano chiesto e si dimenticò di Zezolla; ma, quando si fu imbarcato su un vascello e stava per far vela, la nave non riuscì a staccarsi dal porto e sembrava che fosse frenata dalla remora. Il padrone del vascello, che era quasi disperato, si mise, stanco, a dormire e vide in sogno una fata che gli disse: "Sai perché non potete staccare la nave dal porto? perché il principe che è a bordo non ha mantenuto una promessa fatta alla figlia e si è ricordato di tutte tranne di quella che è del suo sangue". Il padrone si svegliò, raccontò il sogno al principe che, confuso per la sua mancanza, andò nella grotta delle fate e, dopo avergli raccomandato la figlia, chiese che le mandassero qualcosa.

Ed ecco che uscì fuori dalla spelonca una bella ragazza - sembrava un gonfalone - che gli disse che ringraziava la figlia del buon ricordo e che se la godesse per amor suo: così gli diede un dattero, una zappa, un secchiello d'oro e una tovaglia di seta, dicendo che l'uno era per seminare e le altre cose per coltivare la pianta. Il principe, meravigliato di questi doni si congedò dalla fata alla volta del suo paese e, dato a tutte le figliastre quello che avevano chiesto, diede finalmente alla figlia il dono che le aveva mandato la fata. (Ivi, pp. 129-131)

 

[6]  E lei, con un'allegria che non la faceva stare nella pelle, piantò il dattero in un bel vaso, lo zappettava, lo annaffiava e con la tovaglia di seta l'asciugava mattina e sera, tanto che in quattro giorni, cresciuto della misura d'una femmina, ne uscì fuori una fata dicendo: "Cosa desideri?". Zezolla le ripose che desiderava uscire qualche volta da casa, ma non voleva che le sorelle lo sapessero. La fata replicò: "Ogni volta che ti fa piacere, vieni al vaso e dì: Dattero mio dorato, / con la zappetta d'oro t'ho zappato, / con il secchiello d'oro t'ho bagnato, / con la tovaglia di seta t'ho asciugato, / spoglia te e vesti me. (Ivi)

 

[7]  "Alors je ne lui parlais ni de serpents boas, ni de forêts vierges, ni d'étoiles. Je me mettais à sa portée. Je lui parlais de bridge, de golf, de politique et de cravates. Et la grande personne était bien contente de connaître un homme aussi raisonnable" (Ivi, p. 39). [Allora non gli parlavo né di serpenti boa, né di foreste vergini, né di stelle. Mi mettevo alla sua altezza. Gli parlavo di Bridge, di golf, di politica e di cravatte. E la persona grande era proprio contenta di conoscere un uomo così assennato.]

 

[8]  J'ai ainsi vécu seul, sans personne avec qui parler véritablement,... (Ivi, p. 40).

 

[9]  Mi credevo ricco di un fiore unico, e non possiedo che una comune rosa. [...] ...questo non fa di me un principe davvero grande.

 

[10]  "Chi sei?" disse il piccolo principe. "Sei così carina...". "Sono una volpe", disse la volpe. "Vieni a giocare con me", le propose il piccolo principe. "Sono così triste...". "Non posso giocare con te", disse la volpe. "Non sono addomesticata". "Ah! scusa", fece il piccolo principe. Ma, dopo una riflessione, aggiunse: "Che cosa vuol dire 'addomesticare'?".

 

[11]  "Si conoscono solo le cose che si addomesticano", disse la volpe. "Gli uomini non hanno più il tempo per conoscere nulla. Comprano cose già fatte dai mercanti. Ma siccome non esistono affatto mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico, addomesticami!". "Che si deve fare?" disse il piccolo principe. "Bisogna essere molto pazienti, rispose la volpe. All'inizio ti metterai a sedere un po' lontano da me, così, nell'erba. Io ti guarderò con la coda dell'occhio e tu non dirai nulla. Il linguaggio è la fonte dei malintesi. Ma ogni giorno potrai metterti a sedere un po' più vicino...

 

[12]  "E' molto semplice: non si vede bene che col cuore. L'essenziale è invisibile agli occhi". "L'essenziale è invisibile per gli occhi", ripetè il piccolo principe, per ricordarsene. "E' il tempo che tu hai perso per la tua rosa che rende la tua rosa così importante". "E' il tempo che ho perso per la mia rosa..." fece il piccolo principe, per ricordarsene. "Gli uomini hanno dimenticato questa verità", disse la volpe. "Ma tu non te la devi dimenticare. Tu diventi responsabile per sempre di ciò che hai addomesticato. Tu sei responsabile della tua rosa...". "Io sono responsabile della mia rosa...", ripetè il piccolo principe per ricordarsene.

 

[13]  Esitò ancora un poco, poi si alzò. Fece un passo. Io non potevo muovermi.

Non ci fu che un lampo giallo vicino alla sua caviglia. Rimase immobile per un istante. Non gridò. Cadde dolcemente come cade un albero. Non fece rumore, per via della sabbia.

 

[14]  Basile, pp. 788-811; ho letto la fiaba nella mia trascrizione (cit., pp. 35-46).

 

[15]  Ho riportato questi esempi dei bambini in altri contesti, sia saggi che conferenze. Chi ama il lavoro con i bambini comprenderà che non si tratta, come potrebbe sembrare, di mancanza di fantasia o di scarsità di materiali significativi. E' che un loro scritto, bello di per sé e ancora più significativo per chi scrive, anche per il contesto nel quale lo ha ricevuto, si fa amare come una poesia, che diventa la "nostra" poesia, e non ci si stanca mai di ricordarla.

 

[16]  L'insegnante, Maura Landucci, ha condotto questa esperienza nella scuola elementare statale Don Minzoni, a Firenze, nell'anno scolastico 1995-96. La ringrazio per avermela comunicata, e per la bellissima poesia che, conoscendo questa ricerca sulla fiaba, ha messo a mia disposizione.

 

[17]  Siate gentili! Non lasciatemi così tanto triste: scrivetemi presto che è tornato...

 

6. La fuggitiva

LA FUGGITIVA

 

 

 

 

 

Ma il dito grosso non entrava e la scarpa era troppo piccolina; allora la madre le porse un coltello e disse: - Tagliati il dito; quando sei regina, non hai più bisogno di andare a piedi.

 

 

 

 

 

1. La fuggitiva

 

Ciò che è sotto i nostri occhi è la cosa più difficile da vedere, troppo vicina, come la punta del naso. Per questo è arduo procedere nell'analisi di Cenerentola, che non è solo la fiaba più diffusa in tutto il mondo, ma anche la più presente nelle nostre espressioni quotidiane, come quando una ragazzina, che i genitori sollecitano a rientrare presto, esclama: Ma non dovrò mica tornare a mezzanotte, come Cenerentola!

Penso che questa popolarità di Cenerentola abbia a che fare con un desiderio profondo che non è facile tradurre in parole, e che nella fiaba trova meravigliose figure. C'è una storia del femminile in Cenerentola che va oltre le ideologie correnti e quelle passate, accennando alla possibilità di una crescita ancora oggi difficile da decrivere con parole diverse da quelle della fiaba.

Tutte le Cenerentole, varie e variegate, a un certo punto fuggono eclissandosi, dopo aver brillato con l'incanto della luna, simbolo per eccellenza del femminile, che esercita il proprio influsso sui fluidi della generazione, sulla crescita delle piante e sul movimento del mare.

Nella versione più celebre, quella di Perrault e Disney, andiamo a vedere Cenerentola che sta salendo, finalmente bellissima, sul cocchio che era stato una zucca, con i lacchè e i topini che poco prima abitavano un angolo del giardino.

 

...La madrina le raccomandò sopra ogni cosa di non lasciar passare la mezzanotte, avvertendola che se lei fosse rimasta al ballo anche un momento di più, la sua berlina sarebbe ridiventata una zucca, i cavalli sorcetti, i suoi lacchè lucertole, e i vecchi vestiti avrebbero preso l'aspetto di prima. Ella promise alla madrina che sarebbe venuta via dal ballo prima di mezzanotte. E partì, non stando più in sé dalla gioia (Perrault, cit., p. 20).

 

Mezzanotte è il limite in cui due giorni si danno il cambio, dove la fine dell'uno e il principio dell'altro creano una cesura immaginaria: in questa cesura può manifestarsi la magia. Per Cendrillon coincide con il punto di catastrofe, di trasformazione radicale, del suo aspetto, nel quale l'incantesimo che l'ha preparata per il ballo svanisce.

Il principe appena la vede la sceglie e balla solo con lei: ma alle undici e tre quarti Cendrillon gli fa un inchino e se torna a casa nei suoi abiti laceri, per poi alzarsi ad aprire alle due sorelle, di ritorno dalla festa, come se non si fosse mossa di casa. La sera dopo il suo piacere di ballare col principe le fa dimenticare il limite del suo incantesimo, e fugge quando già rintocca la mezzanotte: nella fuga precipitosa perde una scarpetta di vetro, e il principe che la insegue la raccoglie. Attraverso la fuga, presente in tutte le versioni di Cenerentola, il principe viene in possesso della scarpetta, che riconosce come mezzo per trovare la bella fuggitiva. Cendrillon deve abbandonare il ballo per ordine della fata madrina: senza accettare questo limite il principe la vedrebbe nei suoi abiti laceri.

Ma se andiamo a leggere quasi tutte le altre versioni, nelle quali gli abiti meravigliosi vengono dal dattero della Gatta Cennerentola o dall'uccellino bianco che vive sull'alberello di nocciolo di Aschenputtel, scopriamo che niente e nessuno impongono a Cenerentola di fuggire: lascia il ballo, o la passeggiata dove incontra il re che se ne innamora a prima vista, senza che ci siano un'ora o un numero di volte prestabilite per farlo. La bella fuggitiva, che ritorna al luogo del suo lutto, della sua invisibilità, alla sua cenere, ripete per un numero rituale di volte questo percorso simbolico, sia che glielo ordini la fata madrina, sia che lo scelga autonomamente. Certo è che Cenerentola, nella versione più celebre, non decidendo quando e come sparire e comparire, si può avvicinare a un'ideale moralistico di bambina perfetta, che deve all'arrendevolezza e all'obbedienza quasi masochistica tutta la sua fortuna. Già Perrault, sottraendole l'iniziativa della fuga, doveva averci pensato, se la alla fine della fiaba scriveva:

 

Gran bella cosa avere del talento,

Nobil sangue, coraggio, chiaro discernimento

E gli altri doni che dispensa il cielo.

Ma a nulla serviranno, se a metterli in valore

Non ci sarà lo zelo

Di Padrini e Madrine di buon cuore.

(Cit., p. 24)

 

Cercheremo di capire se ci sia una maggiore pregnanza di senso dove Cenerentola, dopo aver curato la fonte materna e quella paterna della propria magia, ne dispone pienamente, secondo il suo ritmo lunare, e come questa alternanza possa suggerire un'intima verità della natura femminile nell'incontro col principe.

 

 

 

 

 

2. Né l'ascia del padre...

 

Quando Aschenputtel va per la prima volta al ballo indossando l'abito meraviglioso donato dall'uccellino bianco che sta sull'albero di nocciolo cresciuto con le sue lacrime, il principe balla con lei sola. Mentre nessun ordine esterno limita il suo tempo alla festa, lei decide di tornare a casa, e il principe la accompagna. Per non fargli scoprire dove abita, questa Cenerentola gli sfugge balzando nella colombaia, e il principe resta lì ad aspettare che torni il padre, al quale dice come e dove è scomparsa la bella sconosciuta. Al padre viene il dubbio che si tratti proprio di sua figlia, e abbatte la colombaia con un'accetta e un piccone, ma non la trova, perché ha ripreso le sue vesti umili e giace fra la cenere del focolare.

Con un abito ancora più bello, Cenerentola il giorno dopo torna a ballare col principe, poi:

 

La sera ella se ne andò e il principe la seguì per veder dove entrasse; ma ella fuggì d'un balzo nell'orto dietro casa. Là c'era un bell'albero alto da cui pendevano magnifiche pere; ella si arrampicò fra i rami svelta come uno scoiattolo e il principe non sapeva dove fosse sparita. Ma aspettò che arrivasse il padre e gli disse: - La fanciulla forestiera mi è scappata e credo che si sia arrampicata sul pero -. Il padre pensò: "Che sia Cenerentola?" Si fece portar l'ascia e abbatté l'albero, ma sopra non c'era nessuno (Grimm, cit., ivi, p. 97).

 

Analizzando questo movimento Bettelheim scrive:

 

...La ripetizione dei suoi interventi al ballo simboleggia l'ambivalenza della ragazzina che vuole impegnarsi personalmente e sessualmente, e nello stesso tempo ha paura di farlo. È un'ambivalenza che si riflette anche nel padre, che si chiede se la bellissima fanciulla sia sua figlia Cenerentola ma non si fida delle proprie impressioni. Il principe, come se riconoscesse di non poter ottenere Cenerentola fintanto che rimane emotivamente legata a suo padre in una relazione edipica, non la insegue personalmente, ma chiede al padre di farlo per lui. Soltanto se il padre indica per primo di essere pronto a liberare la propria figlia dai legami che l'avvincono a lui, essa può vedere con favore il trasferimento del suo amore eterosessuale dal suo oggetto immaturo (il padre) al suo oggetto maturo: il suo futuro marito. Il gesto del padre che demolisce i nascondigli di Cenerentola - sfasciando la piccionaia e abbattendo il pero - mostra che è pronto a passarla al principe. Ma i suoi sforzi non hanno il risultato desiderato.

A un livello completamente diverso, la piccionaia e il pero rappresentano gli oggetti magici che finora hanno sorretto Cenerentola. Il primo è la dimora dei servizievoli uccelli che fecero la cernita delle lenticchie per Cenerentola: sostituti dell'uccello bianco sull'albero che le procurò i suoi begli abiti, nonché le fatali scarpette. E il pero ci ricorda l'altro albero che era cresciuto sulla tomba della madre. Cenerentola non deve più credere in oggetti magici e affidarsi al loro aiuto se vuol vivere bene nel mondo della realtà. Il padre sembra capirlo, e quindi abbatte i suoi nascondigli: essa non dovrà più nascondersi in mezzo alla cenere, ma inoltre non dovrà più cercar rifugio dalla realtà in luoghi magici (cit., pp. 253-254).

 

L'interpretazione non spiega come mai questi sforzi del padre, alleato del principe, manchino il risultato desiderato. Ci sembra interessante che l'azione violenta del padre sia priva di esito, e proprio per questo approfondiamo l'analisi. Nelle fiabe non è possibile distinguere il piano delle rappresentazioni magiche da quello della realtà quotidiana, pena una torsione eccessiva del loro senso. Ammettendo che la colombaia e il pero siano luoghi magici, l'azione del padre munito di ascia è sicuramente inadeguata a smantellarli: l'effetto di un incantesimo si dissolve quando il tempo stabilito è trascorso o per un incantesimo di segno opposto, non per un'azione violenta. È pur vero che le armi hanno una funzione simbolica, basti pensare  alla spada con la quale Ulisse rende inefficaci le arti magiche della maga Circe sulla sua persona: ma Ulisse compie i gesti secondo il rito sul quale lo ha istruito Mercurio, e oltre a questo ha con sé un'erba magica che lo stesso dio gli ha dato. Inoltre Circe troverà nella spada, insieme al limite delle sue arti perturbanti, il simbolo della potenza maschile: Ulisse diviene da quel momento il suo amante.

L'ascia e l'accetta, che servono ad abbattere l'albero e la piccionaia, richiamano piuttosto un tentativo di domare Cenerentola, di costringerla a manifestarsi così come il principe e il padre la vogliono, bella e desiderabile, attraverso una castrazione. Aschenputtel lascia il principe e il padre senza risultati perché non è attraverso una castrazione che può trasformarsi. Il principe resta ad attenderla perché non comprende ancora il senso del suo occultamento, e la sua attesa è per questo vana. Il padre per quanto si dia da fare non la scopre, pur intuendo che si tratta di lei, perché Aschenputtel si è già staccata da lui, quando il suo posto è stato preso dalla matrigna e dalle sorellastre. Cenerentola ha ricevuto col rametto di nocciolo il simbolo dell'amore paterno, e con questo ha compiuto la trasformazione della sua relazione con lui.

L'azione distruttiva del padre armato prima di accetta e poi di ascia fa pensare a una rappresentazione delle nozze in cui la donna da proprietà del padre diviene, senza soluzione di continuità, proprietà del marito. La donna così come l'uomo la vuole, idealizzata nella sua bellezza al ballo, è oggetto di un passaggio tra uomini, ma questa fiaba, come un grande sogno collettivo, ci rivela che esiste una storia più bella. Come la luna  Cenerentola si illumina e si oscura, ed è sempre la stessa luna, costante e molteplice a un tempo. I suoi balzi agilissimi sulla piccionaia e sul pero non possono essere impediti dall'ascia del padre, che fallisce lo scopo della sua azione: in questo modo il principe comprende che solo lui personalmente potrà trovarla per averla come sposa.

La sera dopo il principe fa cospargere di pece la scalinata del suo palazzo, e Cenerentola fuggendo vi lascia attaccata la sua scarpetta sinistra, tutta d'oro. Nel linguaggio alchemico, analogico quanto le fiabe ai processi psichici, questa azione del principe è descrivibile come una fissazione. Della quale Dom Pernety scrive:

 

Fixer est proprement changer un sel volatile en sel fixe, et de maniere qu'il ne s'évapore, ni se sublime plus. Le volatil ne se fixe jamais par lui même...[1] (cit., p. 168)

 

Cenerentola senza il principe non cesserebbe di apparire e scomparire dal ballo al focolare, avanti e indietro da una forma ferina o disgustosa a una bellezza splendente. Il principe dei Grimm ha compreso che deve fissarla, ma ciò che si ritrova fra le mani non è ancora la sposa: ha solo la sua scarpetta. Ciò che calza alla perfezione il piede, forma con questa parte del corpo un binomio simbolico della relazione fra uomo e donna, che nel linguaggio comune si usa per indicare un'unione ben riuscita. Ha trovato la scarpa per il suo piede, oppure è proprio la scarpa per il suo piede, si dice di un uomo in relazione a una donna, ma anche viceversa.

Nel rito del matrimonio lo scambio degli anelli, che l'uomo e la donna si infilano reciprocamente al dito della mano sinistra, corrisponde al gioco della scarpetta. Se il cerchio dell'anello è simbolo del contenitore femminile, e il dito del contenuto maschile, che significa il fatto che entrambi gli sposi compiano lo stesso gesto? se il piede simbolizza il fallo, e la scarpetta la vagina nella quale entra a pennello, come mai sia il piede che la scarpa sono di Cenerentola? perché l'atto di riconoscimento da parte del principe consiste nel far entrare il piede della futura sposa nella sua stessa scarpa?

Il principe lo sa, agisce secondo questo simbolo, quando si presenta dal padre di Aschenputtel e gli dice:

 

- Sarà mia sposa soltanto colei che potrà calzare questa scarpa d'oro - (Grimm, cit., ivi,  p. 98).

 

 

 

 

 

 

 

 

3. Né il coltello della madre...

 

All'interno della fiaba, se sappiamo interpretarla, si rivela la risposta che cerchiamo. Nella storia dei Grimm questa interazione è rappresentata in un'articolazione complessa, che ci aiuta a comprendere il senso di questo simbolo di riconoscimento anche nelle versioni più ermetiche. Così accade analizzando molte versioni della stessa fiaba, come lavorando su diversi sogni notturni di una persona: un sogno aiuta a comprendere il senso ancora oscuro di altri sogni, per l'intima solidarietà delle loro scansioni e dei loro simboli.

Alla richiesta del principe non rispose il padre, ma si fece avanti la matrigna che prese in mano la scarpa e la portò alle sue figlie:

 

Allora le due sorelle si rallegrarono, perché avevano un bel piedino. La maggiore andò con la scarpa in camera sua e volle provarla davanti a sua madre. Ma il dito grosso non entrava e la scarpa era troppo piccolina; allora la madre le porse un coltello e disse: - Tagliati il dito; quando sei regina, non hai più bisogno di andare a piedi -. La fanciulla si mozzò il dito, serrò il piede nella scarpa, contenne il dolore e andò dal principe. Egli la mise sul cavallo come sua sposa e partì con lei. Ma dovevano passare davanti alla tomba; due colombelle, posate sul cespuglio di nocciolo, gridarono:

 

                             - Volgiti, guarda:

                             c'è sangue nella scarpa.

                             Strettina è la scarpetta,

                             La vera sposa è ancor nella casetta.

 

Allora egli le guardò il piede e ne vide sgorgare il sangue. Voltò il cavallo, riportò a casa la falsa fidanzata, e disse che non era quella vera... (Ivi, p. 98).

 

È la volta della seconda sorellastra, alla quale la madre consiglia di amputarsi il tallone, tanto da regina non avrà bisogno di camminare: la sequenza si ripete identica, e il principe riporta anche lei a casa dalla madre.

Prima che il riconoscimento avvenga, deve rappresentarsi questo gioco violento tra madre e figlia. Abbattendo l'albero e la piccionaia con l'ascia il padre aveva tentato una castrazione come limitazione del movimento, dei salti e dei balzi di Cenerentola. Se ci è sembrato che questo tentativo di castrazione sia significativo perché corrisponde al passaggio di proprietà della donna dal padre al marito, che è la forma di matrimonio più diffusa nelle culture patriarcali, altrettanto significativa è questa azione della madre-matrigna. Le sorellastre rappresentano un'identità femminile formata nel gioco dell'identificazione proiettiva e del rispecchiamento narcisistico con la figura materna. Non sono destinate a diventare regine perché non hanno attraversato quel percorso trasformativo che ha portato Cenerentola a staccarsi sia dalla madre che dal padre come figure genitoriali onnipotenti dell'infanzia. Le sorellastre sono replicanti della madre, figure illusorie di Cenerentola, che tentano di ingannare il principe. Lo mettono alla prova, o meglio, Cenerentola come rappresentazione del femminile che ha attraversato la cenere e lo sporco mette alla prova il principe attraverso le sorellastre. La matrigna, figura materna negativa per Cenerentola, tenta  per due volte di imporre la propria riproduzione come sposa, attraverso una castrazione che limita la capacità di movimento, come quella operata dal padre, ma che riguarda il corpo stesso delle figlie.

Se il discorso del padre è: io rinuncio al tuo possesso per farti possedere dal tuo sposo, senza accettare l'autonomia del tuo movimento, possiamo verbalizzare così il messaggio della madre-matrigna: posso farti diventare regina se rinunci a quella parte del tuo corpo che ti consente di muoverti da sola. Il messaggio che la figlia riceve dai genitori nella cultura patriarcale le dice che potrà sposarsi se rinuncerà alla sua autonomia di movimento, e se rispecchia questo aspetto del materno opererà una dolorosa e irrimediabile autocastrazione. Andrà sanguinante alle nozze, amputando una parte del suo piede: sangue mestruale che sgorga nel dolore della castrazione subita, in un modo collettivo di pensare la donna come vuoto che l'uomo riempie, come assenza che permette alla presenza, al fallo maschile, di esistere. Questo è il senso delle amputazioni delle sorellastre, che vivono la loro femminilità come accettazione masochistica della castrazione, della rinuncia definitiva a un'autonomia che il corpo renderebbe possibile, ma che è qualcosa di troppo se si vuole entrare nella scarpetta e diventare regine. La madre-matrigna di Cenerentola non è mai regina, non ha il suo regno, e non può pensare e desiderare che sua figlia lo abbia.

Ricordiamo la Pelle d'Asino molisana di cui abbiamo parlato nel secondo capitolo, la cui madre si occulta e muore perché  ha saputo che partorirà una figlia più bella di lei. Questa rappresentazione del femminile è complementare di un maschile che non conosce la propria potenza generativa, perchè fissato all'onnipotenza narcisistica del fallo: non cerca una regina che regni al suo fianco, con la quale ascendere al trono, ma un opposto che va bene per lui perché non potendo camminare lo rassicura sulla sua autonomia, altrimenti minacciata.

Il principe di Cenerentola si è innamorato di una fuggitiva, di una donna che sa risplendere levandosi e stendendosi nuovamente nella cenere: di un femminile la cui identità va oltre rispetto alle idealizzazioni materne e paterne. Il principe si trasforma per amore di Cenerentola, in un gioco di sogno che è ben rappresentato nell'ultima versione della fiaba, quella del film Pretty Woman (regia di G. Marshall, 1990). Nella scena finale il principe-Richard Gere sale a prendere Cenerentola-Julia Roberts dalla scala antincendio, come sulla torre di un antico castello, e le dice: "Alla fine lui salva lei, e poi che accade?". La prostituta riconosciuta come principessa risponde: "Che dopo lei salva lui!"

A questo proposito è opportuno andare a vedere l'interpretazione di Bruno Bettelheim, che utilizza la teoria freudiana secondo la quale la personalità della donna si costruisce intorno all'angoscia di castrazione e all'invidia del pene, anche se Freud poneva alla sua concezione della crescita femminile un punto interrogativo, auspicando una riflessione analitica della donna stessa sui suoi propri misteri[2]. Ci interessa mettere in rilievo come gli elementi di questa teoria, puntualmente riscontrati nella fiaba, entrino in contraddizione, come se il senso del discorso sfuggisse all'interprete quasi senza che egli se ne rendesse conto.

Questo motivo viene definito come uno stranissimo incidente, una contorta idea delle sorellastre, che sono:

 

...donne terribili e false, e non si arrestano davanti a nulla pur di defraudare Cenerentola, che desidera conseguire la felicità unicamente in virtù della propria autentica individualità.

[...]

Ma il particolare è così straordinariamente crudo e crudele che deve essere stato inventato per qualche motivo specifico, anche se probabilmente inconscio. Le automutilazioni sono rari nelle fiabe, in contrasto con le mutilazioni inflitte da altri, che sono tutt'altro che rare come punizione o per qualche altro motivo.

Quando Cenerentola fu ideata, il comune stereotipo contrapponeva alla grossa taglia del maschio l'esilità della femmina, e la piccolezza dei piedi di Cenerentola si propone di sottolineare la sua femminilità. Le sorellastre hanno piedi così grossi che non entrano nella pantofola, e questo le rende più mascoline di Cenerentola, e quindi meno desiderabili. Disperando di poter avere il principe, le sorellastre non esitano di fronte a nulla che possa trasformarle in donne affascinanti.

Il tentativo delle sorellastre d'ingannare il principe automutilandosi viene scoperto quando si nota che stanno sanguinando. Esse hanno cercato di rendersi più femminili tagliandosi via una parte del loro corpo; la perdita del sangue ne è una conseguenza. Esse operano un'autocastrazione simbolica per dimostrare la propria femminilità; il sangue dove è stata operata questa autocastrazione può essere un'altra dimostrazione della loro femminilità, dato che può rappresentare la mestruazione.

Che l'automutilazione o la mutilazione da parte della madre rappresenti o meno un simbolo inconscio della castrazione, dell'eliminazione di un pene immaginario, che la perdita di sangue costituisca o meno un simbolo della mestruazione, la storia dice che gli sforzi delle sorelle falliscono. Gli uccelli rivelano l'emorragia, la quale dimostra che nessuna delle sorellastre è la sposa giusta. Cenerentola è la sposa vergine; a livello inconscio, la ragazza che non ha ancora le mestruazioni è più evidentemente verginale di una che le ha già. E la ragazza che permette che la propria perdita di sangue sia vista - come le sorellastre coi loro piedi sanguinanti non possono esimersi dal fare - è non solo grossolana ma anche, indubbiamente, meno verginale di una che non sanguina. A quanto pare, quindi, questo episodio, a un altro livello di comprensione inconscia, pone la verginità di Cenerentola in contrasto con la sua assenza nelle sorellastre (cit, pp. 257-258).

 

Osserviamo come il lavoro di analisi, che interpreta l'amputazione come castrazione e come causa del sangue mestruale, non proceda nella comprensione di questo sogno collettivo. La descrizione del contenuto latente viene forzata verso una concezione del femminile che lega la verginità, come condizione che rende la donna altamente desiderabile, alla sua mancanza di mestruazioni, o almeno al loro perfetto occultamento. Crediamo invece che la cenere nella quale cresce la nostra eroina, che corrisponde alla condizione sporca o ferina delle varianti di Pelle d'Asino, implichi una scelta della donna di rappresentarsi in termini diversi dall'idealizzazione patriarcale, che le impongono di nascondere il suo sangue. L'identità che Cenerentola acquisisce prevede che non scotomizzi la sua parte considerata sporca: materia disprezzata ma essenziale alla vita.

Nelle storie bibliche la donna con le mestruazioni è impura, deve occultare il suo sangue, e non è difficile comprendere il significato di questa condizione tabù, che nella tradizione popolare la fa astenere dal lavorare il pane, del quale impedirebbe la lievitazione, e dal toccare le piante, che appassirebbero per il suo potere negativo. Non è certo la relazione tra il sangue e la vita che nutre di sé a renderla impura, ma il nesso con la castrazione: il flusso di sangue attesta in senso fantasmatico che ha subito la castrazione. L'orrore fobico della cultura patriarcale, e di tanti uomini contemporanei, per questo sangue, è relativo all'angoscia di castrazione. La donna come portatrice di un sesso costituito sulla privazione e l'assenza del fallo, come se il sesso femminile non esistesse di per sé, ricorda all'uomo il rischio di subire la stessa sorte.

La rappresentazione della donna come castrata è ben riconoscibile nella teoria secondo la quale la sua funzione nella riproduzione sarebbe stata quella della terra nella crescita della pianta: il seme maschile, come il seme di grano, veniva interrato nel grembo della donna, che lo faceva crescere col suo nutrimento. Il medico e naturalista rinascimentale Paracelso riteneva che il bambino fosse contenuto nello sperma come ogni pianta nel suo seme, tanto che se un uomo avesse fecondato un animale, ne sarebbe indubitabilmente nato un essere umano.

Accorgendosi che i figli somigliavano anche alle madri, pensarono che la donna potesse influire sul bambino che cresceva dal seme con la sua immaginazione. Condizionata dagli astri che influiscono con più forza sulle femmine che sui maschi, questa incontrollabile disposizione immaginativa della donna avrebbe determinato fra l'altro la nascita di ogni genere di esseri mostruosi.

Ma Paracelso attribuiva un potere spermatico, cioè generativo, anche  al sangue mestruale, grazie al quale la donna da sola può generare un mostro, il basilisco:

 

...temibile sopra ogni altro, perché può uccidere un uomo con un solo sguardo. Esso possiede un veleno più velenoso di ogni veleno, a cui nessun altro può essere paragonato in tutto il mondo. Tale veleno agisce misteriosamente nei suoi occhi, e deve essere considerato non dissimile da quello della donna mestruata, anch'essa portatrice nello sguardo di un tossico occulto.

Ad una sua semplice occhiata, uno specchio si ricopre di chiazze e si guasta; allo stesso modo, se essa guarda una ferita o una piaga, la fa suppurare e impedisce la sua guarigione. Anche il suo fiato, come il suo sguardo, può guastare, corrompere e rendere inservibili molte cose, e così pure il suo tocco. Vedrete, infatti, che se essa maneggia del vino durante il periodo mestruale, questo vino si trasformerà immediatamente, assumendo un dubbio sapore.

Persino l'aceto, da lei maneggiato, svapora e non vale più un soldo; dicasi così anche del vino in fermentazione, che perde ogni forza, e dello zibetto, dell'ambra, del muschio ed altri profumi del genere, che perdono tutti l'aroma se sono portati da o vengono in contatto con donne in tali condizioni. Infine, anche l'oro ed i coralli, insieme a molte pietre preziose, sbiadiscono e si macchiano come gli specchi di cui già abbiamo parlato.

[...] Il basilisco nasce e cresce nella somma impurità della donna, vale a dire dal mestruo e dal sangue spermatico. Se quest'ultimo è racchiuso in un recipiente di vetro e si decompone dentro una vescica di cavallo, da tale putredine nascerà un basilisco (Paracelso, sta in: Aa.Vv., In forma di parole, 1983; pp. 156-158).

 

Ricordiamo Re Lear, che chiedeva un'oncia di zibetto per profumare la sua immaginazione, dopo aver descritto la lussuria e l'orrore della parte bassa della donna. Diciamo anche che prima di trovare assurdo Paracelso dobbiamo riflettere su quanto la concezione patriarcale della donna, da lui espressa come una verità scientifica, abbia giocato, e continui a giocare una parte importante nella cultura.

Essendo poi un alchimista, come tutti gli scienziati del suo tempo, Paracelso aveva anche una rappresentazione del femminile come polarità essenziale e complementare del maschile nella trasformazione delle sostanze verso la creazione del lapis, della pietra filosofale. Nell'opus, nel lavoro alchemico, la donna poteva affiancare l'uomo, costituendo con lui la coppia degli adepti, soror e frater. Né mancano splendide rappresentazioni del femminile nella religione e nella letteratura: purché non sanguinino per le mestruazioni, purché siano prive di un desiderio erotico autonomo, purché aiutino il maschio a rimuovere la sua propria angoscia di castrazione.

La donna bella è la donna idealizzata, la parte superiore per Re Lear, e questa idealizzazione aiuta a contenere il fantasma di castrazione in una coppia dove il piede intatto, il fallo, l'autonomia di movimento, è del maschio perché non è della femmina, o, viceversa, la femmina deve castrarsi perché il maschio ce l'abbia.

Il sogno collettivo di Cenerentola si rinnova continuamente in innumerevoli versioni proprio perché rappresenta qualcosa di lontano dalla capacità di pensare e teorizzare una donna completa, un femminile che trae la sua ricchezza dalla sua molteplicità, dal suo fecondo desiderio lunare di muoversi tra splendore e oscurità, tra la bellezza della festa e la cenere del focolare o lo sporco del pollaio.

 

 

 

 

 

 

 

 

4. Né il tino sotterraneo....

 

Mentre si analizza una fiaba, alla memoria del ricercatore si presentano, via via tenui, o forti, non soltanto le varianti di cui conosce l'esistenza, ma anche motivi di fiabe diverse, il cui senso è richiamato dal motivo, analogo, che si sta interpretando. Si potrebbe descrivere questo gioco labirintico, croce e delizia di chiunque si occupi di fiabe, con una figura geometrica: sia una fiaba un insieme, i cui punti a, b, c, d, sono le sue figure, i simboli, i movimenti trasformativi. Si possono allora definire le varianti come insiemi analoghi, contenenti i punti a1, b1, c1, d1, oppure a2, b2, c2, d2, e così via. Ma altri insiemi-fiaba, i cui punti dotati di senso sono diversi, possono contenerne uno analogo all'insieme-variante indagato, come se i punti costitutivi fossero a, f, g, h. Il ricercatore ha chiaro il senso di quell'analogia, e come in un labirinto la luce favorisce la scelta di un percorso, l'intuizione del senso fa nascere in lui il desiderio di muoversi in quella direzione. Ma se l'oggetto d'indagine diventa la fiaba a, f, g, h, dopo un certo percorso si presenterà alla memoria una meravigliosa fiaba a, f, i, d, e la natura errabonda del ricercatore di fiabe lo porterebbe a procedere verso il senso di questa fiaba, in un processo affascinante di cui però gli sarà impossibile disegnare la mappa. Come la ricerca è una sorta di erranza tra giochi di senso, alcuni illusori, e nessuno definitivo, è anche il paziente disegno di una mappa, che descriva per quanto è possibile il viaggio, e che altri possano utilizzare per viaggiare a loro volta. La natura labirintica delle fiabe è la stessa dei sogni, e di ogni realtà psichica: compito del ricercatore è restare in equilibrio tra la vaghezza necessaria per rispettare la natura variegata e metamorfica del suo oggetto e il rigore che consente di descrivere un'immagine, una carta topologica che, per quanto approssimativa, favorisca il viaggio.

Un libro di analisi delle fiabe è anche una storia del ricercatore. Se evocherà la bellezza delle meraviglie visitate, la sua esistenza sarà assicurata, ma se aiuterà altri a desiderare di visitare il labirinto scintillante delle fiabe, il libro avrà un senso. Si può dire che  la scelta di analizzare una fiaba, e di questa alcune varianti, e di accostarvi rappresentazioni mitiche, letterarie, quotidiane, risponde solo a questa ricerca di bellezza e di senso: solo una cosa è certa, che descrivere i risultati di un'indagine condotta in un campo come i sogni collettivi, come le fiabe, è al massimo un approssimarsi. Questa chiave è utile per avvicinarsi alla costruzione teorica della psicoanalisi, a partire da Freud: una conoscenza scientifica perché rigorosa, ma in continuo movimento. Se così non fosse la teoria avrebbe una natura troppo diversa dall'oggetto che tenta di descrivere: la realtà psichica, della quale la fiaba offre una piccola rappresentazione.

Il movimento che desidero accostare al tema della castrazione della donna operata nell'identificazione proiettiva con la madre appartiene a una fiaba, molto diffusa, in cui una sorella bella e una brutta hanno una madre, o una matrigna, che ama la brutta e odia la bella. Per farlo devo ricordare il secondo capitolo di questo saggio, e in particolare la versione della Pelle d'asino molisana in cui una donna bellissima chiede ogni mattina al sole che passa davanti al suo balcone chi è la più bella del mondo, per sapere che è proprio lei. Quando rimane incinta il sole le dice che la più bella del mondo ora è la figlia che ha in seno: abbiamo visto nel dolore della donna, che si chiude in una stanza e muore dando alla luce la figlia, una rappresentazione della fissità narcisistica presente nella relazione madre-figlia. Le madri-matrigne di fiaba che perseguitano le figlie belle, tentando di promuovere le brutte, totalmente identificate con loro e docili ai loro comandi, sono la parte della donna che per non invecchiare immobilizza madre e figlia in un reciproco  rispecchiamento: una figlia più bella, o una figlia che diventa regina nonostante la sua diversità dalla madre, rappresenta la vita che si rinnova. La posizione narcisistica nega la morte, insieme alla morte nega il tempo, e con il tempo la vita, che implica l'avvicendarsi delle generazioni. Nessuna capacità generativa è nella posizione di Narciso: la morte di queste diadi femminili è la condizione per la crescita della donna, come la morte di Narciso è la condizione perché sulla riva dello specchio nasca il suo fiore di primavera.

L'autocastrazione indotta dalla matrigna di Aschenputtel esprime una modalità di rispecchiamento tra madre e figlia: il sangue mestruale come sporcizia femminile da occultare tra donne è un patto omosessuale che Cenerentola rifiuta.

La bella Caterina oppure La Novella de' Gatti raccolta da Gherardo Nerucci (cit., pp. 35-42) è una bellissima versione della fiaba che vogliamo accostare a quella di Cenerentola. Caterina è perseguitata in ogni modo, ma la sua bellezza non fa che aumentare, e allora la madre la manda al castello delle fate e del Gatto Mammone, dove spera che morirà. In questo luogo di magia ambivalente, che ci ricorda la casa della baba-yaga dove abbiamo seguito Vassilissa la bella, la Cenerentola russa, Caterina aiuta i gattini a fare le faccende in cucina, e scegliendo solo doni modesti ottiene giielli, vesti meravigliose, e una stella in fronte. Vedendola tornare così splendente, la madre manda anche la brutta nel reame della magia, ma con la sua pretesa di ottenere tutto la poveretta si ritrova più brutta di prima e con una coda di ciuco in mezzo alla fronte. Dopo un po' di tempo dalla casa delle due sorelle passa il principe, che vedendo la bella Caterina se ne innamora. La chiede in sposa, ma quando va a prenderla la madre gli fa salire in carrozza la brutta, che ha ricoperto di veli, dopo averle rasato la coda di ciuco.

Come il suo pari di Aschenputtel, il principe se la porterebbe via, se non fosse per un confuso miagolio che sembra venire da sottoterra. Sono i gattini del castello delle fate che lo mettono in guardia:

 

Mau maurino!

La Bella è nel tino,

La Brutta è in carrozza,

E 'l re se la porta.

(Ivi, p. 42)

 

Il principe solleva i veli e compare la bruttezza della falsa sposa, con un bel pezzo di coda asinina ricresciuto nel frattempo: allora va a liberare la bella Caterina dal tino, dalla cantina sotterranea, dal luogo senza luce dove la madre l'aveva rinchiusa. Al suo posto fa rinchiudere la madre e la brutta, sulle quali fa colare tanto olio bollente che finiscono cotte. Subiscono la stessa pena che volevano infliggere alla bella Caterina, imprigionate sottoterra, rinchiuse nella terra madre, come non nate: è il motivo della reinfetazione, e richiama la fiaba molisana, con quel chiudersi in una stanza oscura della donna gravida, destinata a essere superata in bellezza dalla figlia. Sorte anche peggiore di quella che tocca alle sorellastre di Cenerentola, che si sono tagliate un pezzo di piede, come più crudele è il tentativo di reinfetazione per il quale Caterina rischia di perdere insieme al principe la vita. Crediamo che il tema della reinfetazione sia utile anche per comprendere il sonno nella bara di Biancaneve e il sonno senza tempo, cent'anni, di Rosaspina: sono imprigionate in un grembo mortifero, che causa un sonno simile alla morte, dall'ostilità materna, tra invidia e narcisismo che impediscono la crescita, che fermano il tempo della trasformazione in una condizione priva di luce. Occorre un principe che porga orecchio agli miagolii sotterranei dei gattini, che ascolti le colombine sul nocciolo di Aschenputtel, ci vuole un principe che ami la bellezza della donna senza fuggire di fronte all'aura malefica che l'avvolge. Il maschile libera la donna da questo sonno, purché si tratti di un principe sensibile: che ascolti le voci e guardi le immagini seguendo il proprio desiderio[3].

 

 

 

 

 

5. O bianco viso...

 

Ci sono fiabe che non si raccontano mai, e per quanto siano pubblicate sono invisibili: tra queste vogliamo ricordarne una bellissima, che per più motivi richiama le nostre storie. Basile (cit., pp. 500-517) racconta che una volta nacque una principessa, e il re suo padre interrogò gli astrologhi, che le predissero, come a Rosaspina, un destino di morte a causa di un oggetto pungente, un osso. Il padre allora fece chiudere la figlia in una torre con l'ordine che nessun osso potesse esservi portato. La principessa crebbe con le cameriere e le dame di compagnia, finché un giorno passò sotto la torre un principe, di nome Cecio, si innamorarono a prima vista, e Renza trovò la via della fuga scavando il muro con l'osso che un cane aveva portato nella torre proprio quel giorno.

Renza e Cecio restarono insieme fino a quando un messaggero annunciò al principe che sua madre era molto malata e voleva rivederlo almeno una volta. Dopo averle assicurato che sarebbe tornato prestissimo a prenderla, Cecio lasciò Renza, che si disperò e decise di seguirlo: si travestì da monaco e lo raggiunse incappucciata. Riconosciamo il tema del travestimento, e vediamo cosa succede in questa storia:

 

...le disse: "Buono trovato gentilommo mio!" E Cecio le respose: "Buono venuto patreciello mio!" da dove se vene? e dove site abbiato?". E Renza respose:

 

Vengo da parte dove sempre 'n chianto

stace na donna, e dice, "O ianco viso

deh, chi me t'ha levato da lo canto?"

(Ivi, cit., p. 506) [4]

 

Il principe trova bellissimi questi versi, e tiene tanto alla compagnia del fraticello che gli chiede di accompagnarsi a lui. E così giungono alla reggia, dove però la madre di Cecio, che non è affatto malata, gli ha trovato una sposa. Riconosciamo la madre-suocera, che come la madre-matrigna vuole impedire l'unione tra i protagonisti: in tante fiabe, a volte con un bacio incantato, fa dimenticare al figlio la bella che fiduciosa sta ad aspettare che torni. Renza non si allontana mai da Cecio, e lui le chiede di continuo di ripetere i versi, che sono come una carezza per il suo cuore. Durante il banchetto seguito alle nozze con la rivale Renza prova tanto dolore che va a sfogarsi nel giardino della reggia, dove nessuno può sentirla piangere. Alla fine, Cecio la vuole persino nella camera nuziale, e mentre Renza è nel suo lettuccio le chiede di dire ancora la sua poesia. A quel punto la sposa gli fa presente che era venuta per un'altra musica, e per accontentarla Cecio:

 

..le dette no vaso cossì forte che sse sentie no miglio lo schiasso, tanto che lo rommore de le lavra loro fu truono a lo pietto de Renza, la quale appe tanto dolore che, curze tutte li spirite a dare soccurzo a lo core, fecero comm'a chillo: lo sopierchio rompe lo copierchio, pocca fu tale e tanto lo concurzo de lo sango, che affocatola stese li piede (Ivi, p. 512)[5].

 

Dopo aver compiuto i suoi doveri coniugali, il principe Cecio chiese voleva risentire O ianco viso, ma nessuno rispose. Allora si alzò e andò a scuotere il suo compagno di viaggio: sentendo che era freddo fece portare delle candele e gli tolse il cappuccio dal viso. Quando riconobbe la sua principessa maledisse il destino e si unì a lei nella morte, trafiggendosi il petto.

I genitori li seppellirono insieme, e sulla tomba scrissero la loro storia, che ancora possiamo raccontare.

Questi amanti sfortunati come Giulietta e Romeo ci aiutano a comprendere che la differenza che consente ai principi e alle principesse di raggiungere la meta delle nozze regali, e a noi di sognare il loro finale felice, non sono le voci e gli avvertimenti magici, ma la loro disposizione ad ascoltarli. Lo miagolii sotterraneo della Bella Caterina, o il cinguettio delle colombine di Aschenputtel non sono di per sé più efficaci delle parole di Renza. Sarebbe interessante approfondire l'analisi di questo racconto,  i motivi di un viaggio che non porta, come si crede accada sempre nelle fiabe, al finale felice: per il momento ci accontentiamo di osservare che il principe ascolta senza sentire, mentre la principessa, senza farsi riconoscere, canta la sua canzone struggente.



[1]  Fissare è precisamente trasformare un sale volatile in un sale fisso, e in modo che non evapori, né si sublimi più. Il volatile non si fissa mai da solo...

 

[2]  "Se volete saperne di più sulla femminilità, interrogate la vostra esperienza, o rivolgetevi ai poeti, oppure attendete che la scienza possa darvi ragguagli meglio approfonditi e più coerenti" (Freud, Introduzione alla psicoanalisi. Nuove lezioni, 1932, p. 241).

 

[3]  Si trova nel mito greco, per trovare l'antica parentela tra il sonno e la morte. Come racconta Esiodo (Teogonia, vv.  123-125), Morte e Sonno erano fratelli, avendo come unico genitore la Notte, sorella del Buio sotterraneo (Erebo); la Notte e il Buio poi avevano come unico genitore il Caos, divinità primigenia. Ci preme notare che la permanenza in un lungo e penoso sonno uguale alla morte, che è privazione di parola e di nutrimento, che noi riferiamo alla reinfetazione, come ritorno a una condizione di non nati, è la punizione per ogni dio che infranga il giuramento più sacro, sulle acque infere di Stige: "Resta senza respiro per un anno intero, / e non gli si avvicina mai nutrimento di nettare / e di ambrosia, resta a giacere in un letto così, / senza fiato e senza voce, avvolto da un cattivo letargo" (ivi, vv. 795-798). Il giuramento sulle acque di Stige (Gelo) è il vincolo che limita il potere degli dei olimpici, incluso Zeus, ed è la condizione stessa dell'ordine che con loro ha origine.  

 

[4] ...gli disse: "Ben trovato, gentiluomo mio". E Cecio le rispose: "Ben venuto, monachino mio! da dove vieni? e dove vai?". E Renza rispose: Vengo da un posto deve sempre in pianto / c'è una ragazza e dice: "O bianco viso, / deh, chi m'ha tolto te da qui accanto?" (Basile, p. 507).

 

[5] ...Le diede un bacio così forte che se ne sentì il frastuono a un miglio, tanto che il rumore delle loro labbra fu un tuono per il petto di Renza, che ne ebbe tanto dolore che, corso tutto il sangue per portar soccorso al cuore fece come dice quel detto: il di più rompe il coperchio, perché fu tale e tanto il suo afflusso che la soffocò e le stese i piedi (Ivi, p. 513).

 

7. Il principe sensibile

IL PRINCIPE SENSIBILE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

"Aggio na figlia, ma guarda sempre lo focolaro, ped essere desgraziata e da poco e non è merdevole de sedere dove magnate vui".

Disse lo re: "Chesta sia 'n capo de lista, ca l'aggio da caro" (Basile)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1. Né per bellezza né per abbigliatura...

 

Il processo di rimozione che la fiaba subisce dal momento in cui si è cominciato a dedicarla ai bambini è descrivibile come rimozione del bambino stesso. Scrivendo storie per lui gli adulti hanno preferito rassicurarsi sulla sua innocenza: la psicoanalisi, con il suo bambino freudianamente perverso e polimorfo, si muova in modo radicalmente diverso. Se uno psicoanalista parla dell'infanzia, descrive una condizione umana che non ha nulla a che vedere con visioni rassicuranti o consolatorie. Quando l'adulto pensa al bambino come a un essere privo di aggressività, di pulsioni erotiche e di angoscia, è preso da un mito delle origini analogo a quello del paradiso terrestre che avrebbe preceduto la nostra caduta in questo mondo, dove siamo segnati da un destino cinico e baro. Ma riconoscere  il dramma e le perturbanti paure dell'essere umano che cresce non è solo la perdita di un'illusione. Attraverso l'esercizio della conoscenza, il pensiero procede non ritraendosi moralisticamente, e smette di eufemizzare e imbellettare ciò che non gli piace vedere. Insieme al conflitto, alla via dolorosa, alla prova, c'è la luce improvvisa, la trasformazione profonda, la ricchezza del tesoro. Come nelle fiabe, se si fugge alla vista del drago, non si può accedere al tesoro, se si scotomizzano angoscia e paura, non si accede al sentimento della realtà e alla ricchezza creativa.

L'analisi di Cenerentola ci fa scoprire che la rimozione dello sporco, o dell'uccisione della matrigna, come nella versione di Perrault e Disney, implica la perdita di valori simbolici e di percorsi narrativi, preziosi. Oltre alla cura della pianta, o del seme, che simbolizza la capacità di nutrire e far crescere qualcosa di piccolo, la cui potenza è nascosta, si può perdere, ad esempio, il numero rituale delle trasformazioni di Cenerentola da brutta a bella e viceversa, che da tre diventano due in Perrault.

Abbiamo osservato che Cendrillon  è privata della sua autonomia di scelta nel manifestarsi al principe splendente e di tornare a nascondersi nella cenere. Ma la rappresentazione del principe impallidisce forse più della sua.

Come la fata madrina, figura materna legata alla protagonista, rappresenta una parte di Cenerentola, i servitori del re, che per ordine suo vanno a fare la prova della scarpetta, sono aspetti del re stesso.  Simbolicamente è il principe che attraverso loro va a cercarla nella cenere, ma perde spessore psicologico e ricchezza espressiva con questa semplificazione. Il principe, ci racconta Perrault, passò il resto della festa a contemplare la scarpetta di vetro, e da questo si capì che era proprio innamorato.

 

...Pochi giorni dopo, il figlio del Re fece proclamare a suon di tromba ch'egli avrebbe sposato colei a cui la scarpina avesse calzato perfettamente al piede. Si cominciò a provarla alle principesse, poi alle duchesse, e a tutte le dame della corte, ma fu tempo perso. La portarono anche dalle due sorelle, che fecero tutto il possibile per farsi entrare al piede quella scarpa, ma non vi riuscirono. Cenerentola, che le guardava, e riconobbe la sua scarpetta, disse come per scherzo:

- Vediamo un po' se alle volte non mi stesse bene!

Le sorelle si misero a ridere e a canzonarla. Il gentiluomo che era incaricato di provare la scarpa, aveva guardato attentamente Cenerentola e, avendola trovata molto bella, disse che la cosa era giustissima e lui aveva ricevuto ordine di provarla a tutte le ragazze. Fece sedere Cenerentola, e accostando la scarpetta al piedino di lei vide ch'esso vi entrava senza fatica e la calzava come un guanto. Lo stupore delle due sorelle fu grande, ma si fece ancor più grande quando Cenerentola tirò fuori di tasca la seconda scarpetta e se la misse al piede.

A questo punto arrivò la madrina che, dopo aver toccato con la bacchetta i vestiti di Cenerentola, li fece diventare ancora più sfarzosi di tutti gli altri.

Fu qui che le due sorelle riconobbero in lei la bella signora veduta al ballo. Si gettarono ai suoi piedi e le chiesero perdono di tutti i maltrattamenti che le avevano fatto subire. Cenerentola le fece alzare e disse, abbracciandole, che le perdonava di tutto cuore e le pregava di volerle sempre bene. Poi, vestita com'era, fu condotta dal giovane principe. Egli la trovò più bella che mai, e pochi giorni dopo la sposò (cit., pp. 22-23).

 

Non c'è alcuna relazione diretta tra il principe e Cendrillon nella sua oscurità: perfino i servitori  la vedono subito bella anche se le manca l'abito fatato, e se pensiamo al film di Disney, Cenerentola sembra vestita da uno stilista anche quando è in soffitta. Riteniamo che in questa versione il motivo dello sporco e della cenere, il lato oscuro di Cenerentola, sia molto attenuato: il principe non la vede mai brutta o sporca di cenere, non trasforma il suo amore per l'immagine bella, per la figura femminile idealizzata, in un amore che comprende anche la parte brutta della futura sposa.

Non limitandosi alle principesse e alle dame, la ricerca in Perrault mantiene questo motivo, ma tanto lieve che di sporco difficile da accettare non rimane che una traccia quasi invisibile. Non a caso l'ultima versione della fiaba, famosa perché significativa, raccontata dal film Pretty woman, recupera con piena coerenza simbolica la condizione degradata: il principe-Richard Gere è un ricchissimo uomo d'affari, mentre Cenerentola-Julia Roberts è una prostituta. Questo principe americano può averla solo chiedendole di sposarlo, quindi riconoscendo la sua compiuta bellezza, e andando a cercarla nella casa dei quartieri bassi dove lei ha vissuto da prostituta. Di questa versione cinematografica possiamo dire che è una vera e propria Cenerentola, ricca come quelle antiche, anche se più breve: inizia con il ballo, cioè quando il principe da una strada povera la porta nel proprio reame, l'albergo lussuoso. Il motivo degli abiti meravigliosi è estesamente trattato, grazie anche al prodigarsi di un anziano signore: Cenerentola-Pretty woman è aiutata da una figura maschile, come Aschenputtel dall'uccellino[1].

Per parlare del lavoro psicologico del maschile che consente a Cenerentola di compiere la sua crescita, vedremo in Basile una prova della scarpetta condotta dai servi, dove però il motivo dello sporco e della bruttezza, opposti alla splendente bellezza della fanciulla incontrata dal principe, ha ben altro spazio che nella fiaba di Perrault. Andiamo prima a ritrovare la Cenerentola fiorentina di Vittorio Imbriani, che, come sappiamo, non aveva né una matrigna né delle sorellastre che la perseguitavano. Le sue sorelle avevano anzi cercato di dissuaderla dal chiedere in dono al padre l'Uccellin Verdeliò, consigliandola di farsi portare, come loro, un vestito, uno scialle, o un bel cappello.

Se dall'analisi di Aschenputtel abbiamo compreso che la crescita del femminile non ha nulla a che fare con l'autocastrazione indotta dalla madre, possiamo riconoscere nell'Uccellin Verdeliò il simbolo della funzione maschile, dono del padre, e la capacità di dirigersi autonomamente.

Quando il re di questa storia le invita alle sue feste da ballo, le sorelle indossando gli abiti chiesti in dono le dicono:

 

"Vedi tu, Cenerentola, se ti avevi ordinato un bel vestito? Stasera s'ha a fare di andare alla festa di ballo." - Dice: - "Non me ne importa nulla! Andate pure, io non ci vengo" - Eccoti la sera, quando gli è l'ora, si preparano tutte per bene, tutte pettinate, dicendo alla Cenerentola: - "Vien via, ti si accomoderà anche te." - "Eh, io non voglio venire, andate voi, io non voglio venire." - "Ma" - dice suo padre - "andiamo, andiamo! Vestitevi e venite via, lasciatela stare." - Quando le sono andate via, la va dall'uccellino: - "Oh Uccellin Verdeliò, fammi più bella ch'io non so'." - La vien tutta vestita di verdemare e tutta brillanti che a guardarla si accecava (Imbriani, cit., pp. 151-152).

 

Fin dalla prima sera, vedendo la bellissima sconosciuta alla sua festa, il re ordina a due servitori di tenersi pronti a seguirla. Appena Cenerentola se ne va, le si mettono dietro, ma lei sparge dietro di sé due sacchetti di monete che l'Uccellin Verdeliò le ha dato insieme agli abiti per la festa. Per raccogliere il danaro i servitori si fermano e perdono di vista Cenerentola, che rincasa e chiede al suo aiutante:

 

"O Uccellin Verdeliò, fammi più brutta ch'io non so'." - La vien così brutta, orrenda tutta, tutta cenere, bisognava vedere in che modo! (Ivi, pp. 152-153).

 

Notiamo l'opposizione enfatizzata tra bellezza e bruttezza, e torniamo dal re con i servitori:

 

...Non avevano il coraggio di presentarsi a Sua Maestà, stavano lontani. Li chiama: - O come è andata?" - Si buttano a' piedi: - "Così e così!... Ci ha buttati tanti quattrini!..." - "Vili! che non siete altro" - dice. - "Avevi paura di non essere ricompensati?" - dice. - "Ahn? bene!" - dice - "domani sera, pena la morte se voi non istate attenti." (Ivi, p. 153)

 

Le monete d'oro fanno parte della ricchezza magica di Cenerentola, ma hanno anche un valore oggettivo, concreto. Essendosi fermati per questo valore oggettivo i servitori hanno perduto lo splendore simbolico di Cenerentola, che il re vuole scoprire. La sera dopo i servitori sono decisi a non lasciarsi distrarre dalle monete, ma Cenerentola questa volta ha ricevuto dall'Uccellin Verdeliò due sacchetti di rena: mentre fugge la butta negli occhi dei servitori, che restano accecati e la perdono di nuovo.

 

Venghiamo a Maestà che sta aspettando i servitori perché gli dicano dove sta di casa. Invece gnene riportan tutti ciechi, perchè s'ebbero a fare accompagnare, gua'! - "Briccona!" - dice. - "Questa signora o l'è quarche fata o dove avere quarche fata che la protegge." (Ivi, p. 154)

 

La sera dopo rifiuta per la terza volta l'invito delle sorelle:

 

Quando le sono ite via, la Cenerentola va dall'uccellino: - "Uccellin Verdeliò, fammi più bella ch'io non so'." - La viene tutta del colore del cielo, proprio dell'aria del cielo; tutte le comete, le stelle, la luna nel vestito, e il sole in mezzo alla fronte. Entra nella festa: chi la poteva guardare! solamente pel sole, gua', bassavan gli occhi, accecavan tutti (Ivi, p. 155).

 

Forse è questa la metafora più luminosa, nella sua grazia popolare, della bellezza di Cenerentola, ricca com'è di simboli astrali che la portano tutta nella luce: il re balla con lei, anche se non può guardarla perché è abbagliato dal suo splendore, al quale evidentemente è sensibile. 

La sua capacità di comprendere il valore di Cenerentola è già rappresentata dal doppio registro con cui l'ha definita dopo l'accecamento dei servitori, come briccona, e come fata, o favorita dalle fate. Grazie a questa forma di intelligenza psicologica, non rimprovera i servitori, ma ordina loro di prepararsi a inseguirla a cavallo. Questa volta Cenerentola non ha ricevuto dall'Uccellin Verdeliò nulla per fermarli: fugge più lesta che può, ma le cade una pianella, che i servitori raccolgono e portano al re, insieme all'indirizzo della bella sconosciuta.

Quando torna dal suo aiutante perché la faccia ritornare brutta, l'uccellino per un po' non le risponde, poi dice:

 

" Briccona! bisognerebbe che non ti facessi divenire più brutta, ma..." - e la fa divenire brutta e poi gli dice: - "Ora e che vuoi fa'? Tu siei scoperta." - La si mette a piangere, piangeva proprio (Ivi).

 

Perché l'uccellino la rimprovera, e perché Cenerentola ha paura di essere scoperta? Prima di esporre la nostra ipotesi, seguiamo i servitori, che il giorno dopo bussano alla sua casa per la prova della pianella:

 

"Cosa mi comandano?" - gli dice il padre, gua', a questi servitori. - "Quante figlie avete voi?" - Dice: - "Due." - "Bene, fatecele vedere." - Ecco il padre le fa venire di qua. - "Mettetevi a sedere" - dicono a una di quelle. Gli provano la pianella, cheh! la ci entrava dieci volte. Quest'altra si mette a sedere; gli era piccola. - "Ma ditemi, galantomo, non avete altre figlie voi? Badate a dire la verità, veh! Perchè Maestà lo vole: pena la morte!" - "Signori, ce n'è un'altra, ma non lo dico neppure. Gli è tutta nella cenere, nel carbone, se vedeste! Io non la chiamo nemmen figliola per vergogna." - "Noi non siamo venuti né per bellezza né per abbigliatura: si vol vedere la ragazza!" - Eccoti, le sorelle chiamano: - "Ce-ne-reen-to-la!" - ma urla, urla! Ma lei non rispondeva. Dopo un pezzo: - "Che v'è egli?" - la risponde. - "Bisogna che tu venga giù! c'è de' signori che ti vogliono vedere" - "Io non vo' venire, io." - "Ma bisogna che tu venga, ti pare?" - dice. - "Sì, ditegli che or'ora vengo." - La và dall'uccellino: - "Ah Uccellin Verdeliò, fammi più bella ch'io non so'." - La vien vestita come l'ultima sera, col sole, con la luna e con le stelle, e l'aveva per dippiù tutte catene d'oro, ma grosse! messe così. Dice l'uccellino: - "Portami via, sai? mettimi in seno, via, sai?" - Si mette l'uccellino in seno e principia a scender le scale. - "La sentono?" - dice il padre - " la sentono? La si strascica la catena del cammino. Si figurino che orrenda cosa che sarà quella!" - Eccoti quelli, quando è l'ultimo scalo, la veggono apparire. - "Ah!" - riconoscono la signora dell'altra sera (Ivi, pp. 156-157). 

 

Se c'era bisogno di un'altra figura del sogno collettivo di Cenerentola per capire che nella sua crescita la componente maschile, paterna, è essenziale, in contrapposizione all'autocastrazione come rinuncia all'autonomia, l'Uccellin Verdeliò ce l'ha fornita.

Cenerentola piange quando si accorge di essere stata scoperta perché teme di dover rinunciare alla libertà di movimento di cui è debitrice all'uccellino chiesto e avuto in dono dal padre, al posto degli abiti e degli ornamenti comuni. Allo stesso modo l'Uccellin Verdeliò le dice che si meriterebbe di essere lasciata vestita bene: nell'identità splendente facilmente amata e riconosciuta, ma che non le consentirebbe di essere desiderata anche nel suo aspetto degradato.

Cenerentola è un sogno antico e attualissimo, di una crescita femminile complessa e difficile da attuarsi: certo rarissima nella letteratura o nell'opera lirica, dove le eroine più affascinanti e autonome devono morire, come Carmen o Violetta. Ci sembra che la donna intera, come del resto l'uomo intero, siano tutt'altro che comuni, non solo nella vita di tutti i giorni, ma anche nel pensiero.

 

 

 

 

 

 

2. 'Na 'nfanzia

 

Anche il re di Basile faceva seguire Cenerentola da un servitore, quando lasciava la passeggiata per scomparire di sua iniziativa. Durante il primo inseguimento questo servitore si fermò a raccogliere le monete d'oro che lei aveva gettato dietro di sé; la seconda volta, pur essendo stato redarguito dal re, non riuscì a resistere alla vista di una bella manciata di pietre preziose. In entrambi i casi l'inseguitore si lascia accecare dal valore corrente, letterale, che fa parte della ricchezza magica di Cenerentola. Allora il re gli comanda di non perderla di vista, qualunque cosa gli faccia cadere davanti:

 

"Pe l'arma de li muorte mieie, ca si tu non truove chessa, te faccio na 'ntosa e te darraggio tante cauce 'n culo quante haie pile a ssa varva" (cit., p. 132)[2]

 

Se il servitore, che rappresenta una funzione del re, è determinato a non lasciarsi abbagliare, a non confondere il valore della bella sconosciuta con una ricchezza comune, Cenerentola, come nella fiaba dell'Uccellin Verdeliò, non ha più nulla per distrarlo:

 

Essa, vedenno che sempre l'era a le coste, disse: "Tocca, cocchiero", e ecco se mese la carrozza a correre de tanta furia e fu cossì granne la corzeta che le cascaie no chianiello, che non se poteva vedere la chiù pentata cosa. Lo servetore, che non potte iognere la carrozza che volava, auzaie lo chianiello da terra e lo portaie a lo re, dicennole quanto l'era socceduto.

Lo quale, pigliatolo 'n mano, disse: "Se lo pedamiento è cossì bello, che sarrà la casa? o bello canneliero, dove è stata la cannela che me strude! o trepete de la bella caudara, dove volle la vita! o belle suvare attaccate a la lenza d'Ammore, co la quale ha pescato chest'arma! ecco, v'abbraccio e ve stregno, e si non pozzo arrevare a la chianta, adoro le radeche, e si non pozzo avere li capitielle, vaso le vase! già fustevo cippo de no ianco pede, mo site tagliole de no nigro core; pe vui era auta no parmo e miezzo de chiù chi tiranneia sta vita, mentre ve guardo e ve possedo" (Ivi, pp. 132-134) [3]

 

Dopo aver contemplato con tanto amore la rinomata calzatura, il re, certo che esistesse una sola donna alla quale la scarpa sarebbe andata a pennello, e che la sua grazia e la sua magia non avessero nulla a che vedere con la sua condizione, invita tutte le femmene de la terra a un banchetto. Della terra forse significa del suo reame, ma ci piace pensare che proietti la ricerca della bella fuggitiva nel mondo intero, senza confini.

 

Venute le femmene tutte, e nobele e 'gnobele e ricche e pezziente e vecchie e figliole e belle e brutte e buono pettenato, lo re, fatto lo profizzio, provaie lo chianiello ad una ped una a tutte le convitate, pe vedere a chi iesse a capillo ed assestato, tanto che potesse canoscere da la forma de lo chianiello chello che ieva cercanno; ma, non trovanno pede che 'nce iesse a sesto, s'appe a desperare.

Tuttavia, fatto stare zitto ogn'uno, disse:  "Tornate craie a fare n'atra vorta penetenzia co mico; ma, se mi volite bene, non lasciate nessuna femmena a casa, e sia chi voglia". Disse lo prencepe: "Aggio na figlia, ma guarda sempre lo focolaro, ped essere desgraziata e da poco e non è merdevole de sedere dove magnate vui". Disse lo re: "Chesta sia 'n capo de lista, ca l'aggio da caro". Cossì partettero e lo iuorno appriesso tornaro tutte e, 'nsiemme con le filie de Carmosina venne Zezolla, la quale, subeto che fu vista da lo re, l'ebbe na 'nfanzia de chella che desiderava, tuttavota semmolaie. Ma fornuto de sbattere, se venne a la prova de lo chianiello; ma non tanto priesto s'accostaie a lo pede de Zezolla, che se lanzaie da se stisso a lo pede de chella cuccupinto d'Ammore, comme lo fierro corre a la calamita. La quale cosa vista da lo re, corze a farele soppressa de le braccia e, fattola sedere sotto lo vardacchino, le mese la corona 'n testa, commannanno a tutte che le facessero 'ncrinate e leverenzie, comme a regina loro (Ivi, pp. 134-136)[4].

 

Non solo questo re cerca la sua sposa in tutto il mondo, senza limiti di condizione sociale o di età, ma vuole e desidera, ha caro, che proprio la più disprezzata dal padre, indegna di mangiare alla sua tavola, sia la prima  della lista delle invitate.

Il principe azzurro, eterno ideale maschile e oggetto di desiderio delle donne, corrisponde a un ideale femminile altrettanto irreale. Cenerentola per compiere la sua crescita, non compresa a questo punto, com'è giusto, né dal padre né dalla madre, tende al principe o al re sensibile: che la riconosca nella sua inadeguatezza di cenere, parte integrante della sua natura quanto lo splendore. Il re vedendo Cenerentola-Zezolla ha 'na 'nfanzia, un'impressione, un'intuizione, alla quale corrisponde la splendida prova, che fa personalmente: come il ferro va alla calamita, la scarpa corre a calzare il suo piede.

E anche noi analizzando tante Cenerentole abbiamo avuto 'na 'nfanzia a proposito della scarpa e del piede. Il lettore più attento avrà osservato che nella versione di Vittorio Imbriani, quando le due sorelle provavano la pianella, un piede risultava troppo grosso, un altro troppo piccolo. Quanto alla Gatta Cennerentola, non si fa mai riferimento alle dimensioni della scarpa, bensì alla sua perfetta corrispondenza col piede. Così è nella maggior parte delle versioni esistenti: come mai ha prevalso quella di una scarpa straordinariamente piccolina, tanto che nessun'altra donna poteva infilarci il piede? [5]

Possiamo ricordare che in Cina veniva attribuito un grande valore alla piccolezza del piede femminile, al punto che per limitarne le dimensioni si ricorreva a metodi che talora pregiudicavano una corretta ambulazione. Ci viene in mente la matrigna di Aschenputtel che spinge le figlie ad amputarsi il tallone o l'alluce sinistro: dice che quando saranno regine non avranno bisogno di camminare a piedi. Se riconosciamo la castrazione in questo motivo, possiamo pensare che l'apprezzamento per il piede piccolino, e la relativa minuscola scarpetta, abbia origine dalla comprensione inconscia del suo valore fallico, e dell'autonomia di movimento che rappresenta.

Si può riconoscere alla donna una componente maschile, ma si auspica che sia il più possibile piccola, rendendola tale con l'educazione, o stringendole i piedi con vere e proprie fasciature.

Consideriamo però che il piede corrisponde alla scarpa come il fallo alla vagina, e interpretiamo la prova della pianella, o del chianiello, né piccolo né grande, ma giusto, come una rappresentazione del rapporto perfettamente equilibrato tra la componente maschile e quella femminile nella donna stessa. Rapporto che deve essere ben compreso dal re, presente in lui come in Cenerentola, se non ha dubbi sulla possibilità di trovare la sua sposa solo attraverso la scarpetta.

Abbiamo già ricordato il rito che presenta lo stesso simbolismo, e che può essere interpretato allo stesso modo: quello nuziale dello scambio degli anelli. Come la scarpa sta al piede, l'anello sta al dito, e sia lo sposo che la sposa fanno lo stesso gesto, di infilare un anello della misura giusta al dito dell'altro: la donna, il femminile, contenitore, è anche contenuto, per sé e per lo sposo, e l'uomo, il maschile, contenuto, è anche contenitore, per sé e per la sposa.

Difficile comprendere in profondità la fiaba di Cenerentola, che ha nella prova della scarpetta la sua chiave di volta, senza riconoscere il gioco degli opposti complementari di cui Carl Gustav Jung ha riconosciuto il profondo valore psicologico. In un gioco simbolico che il lettore interessato può riconoscere nei riti nuziali di tante religioni come nelle fiabe: ma ancora difficile da comprendere razionalmente, e anche da descrivere psicologicamente senza far ricorso a immagini poetiche e simboliche, come quelle che abbiamo presentato.

 

 

 

 

 

3. Tutt' li nom' so' di Dio

 

Da molto non tornavamo a Pelle d'Asino, che ha in comune con Cenerentola sia la trasformazione da bellissima a bruttissima, sia il tema del riconoscimento: che richiede l'entrata in campo di un principe sensibile.

Ce ne offre un bell'esempio, fra tanti, la versione molisana Tacc' taccun' d' Maria d' legna, già ricordata, nella quale si racconta di una fanciulla che per fuggire le nozze incestuose finì a servire nel pollaio di una reggia. Si chiamava Maria, ma quando glielo chiesero disse di chiamarsi Tacc' taccun' d' Maria d' legna. Sporca da far pietà, al mattino portava al principe le uova fresche, e un giorno, mentre si puliva le scarpe, questo principe disse:

 

- Stasera vaglie da balle. -

Facett' chesta:

- Pecchè nen m' c' puort' pur' a me?

- Ma vavatten'! Addonda a ra i, brutta zuzzosa. - E r' mena la spazzola appriess'.

Chesta z' piglia la spazzola e z' la porta (Gioielli, cit., p. 458).

 

Il mattino dopo il principe si stava lavando i denti, e alla richiesta di Maria, di portarla al ballo, le tirò dietro lo spazzolino, mentre il terzo giorno fu la volta dell'orologio: Tacc' taccun' d' Maria d' legna si prese anche questi due oggetti, e la sera si preparò per il ballo. Non disponeva di abiti magici, ma appena si lavò divenne bellissima. Quando la vide arrivare il principe ballò solo con lei, e non sapendo chi fosse le chiese come si chiamava. Maria d' Legna non rispose, ma poi:

 

Prima de la mezzanott' ... ricett':

- Mi chiam' "Spazzolappress' " - e z' n' scappatt'.

(Ivi, p. 459)

 

Il mattino dopo, quando andò a portargli le uova fresche, il principe le raccontò della sconosciuta che gli piaceva tanto, e del suo strano nome, e a sera Maria andò al ballo ancora più bella. Disse che il suo nome era Spazzolinoappresso e fuggì.

Per la seconda volta il principe raccontò cos'era successo al ballo, e Maria, sentendo lo strano nome della sconosciuta, osservò:

 

...Tutt' li nom' so' di Dio -

Ricett' quist':

- Ma ch' t' mangie tu, il giorno? -

- Eh... che m' magn'? M' magn' l' tacc' taccun', l' tacc' taccun'. -

- E come t' l' magn'? - ric' - Rent' a ru pollaie c'è spuorch' -

- Eh... signor Maestà, a l' tacc' taccun' c' sta la pirucchiella, la munn'zella, la cuzz'chella ... com' vienn' m' l' magn' - ricett' (Ivi, pp. 459-460).

 

Recatasi per la terza volta al ballo, alla domanda del principe Maria rispose di chiamarsi Ur'loggeappriess', e fuggì di nuovo, lasciandolo così disperato che il giorno dopo dovette mettersi a letto. Alla regina madre disse che voleva l' tacc' taccun' d' Maria d' legna, e per quanto lei cercasse di dissuaderlo, facendogli osservare in quale sporcizia viveva la ragazza, non ci riuscì. Allora la regina andò al pollaio, chiese a Maria 'd legna di preparare la pasta per suo figlio, e le raccomandò di ripulirsi bene prima di cominciare. Ma Maria d' legna disse:

 

- Eh, signor Maestà, com' vienn' z' l' magna. E ch' pozz' fa? Rent' a lu pollaie c' sta la cuzz'chella la pirucchiella... chell' com' vienn' z' l' magn' (Ivi, p. 461).

 

In questa fiaba, tutta giocata sul tema della condizione sporca, degradata, nella quale vive la protagonista, vediamo che la regina madre, pur provando disgusto, asseconda la volontà del figlio. Maria 'd legna è disposta a palesare la sua identità solo se l'accettazione dello sporco avverrà senza limiti e senza riserve. Per tre volte preparerà le tacconelle, mettendo uno dopo l'altro sotto la pasta la spazzola, lo spazzolino e l'orologio, tutto ciò che il principe le ha tirato dietro in segno di disprezzo. La Pelle d'Asino molisana dice che tutti i nomi sono di Dio, ogni volta che il principe osservava la stranezza dei nomi della bella sconosciuta:  così indica al principe che il senso, il valore del nome, della parola, va cercato anche, o soprattutto, dove sembra assente. Osserviamo inoltre che lei stessa dice di chiamarsi come la pasta, tacc' taccun', chiesta dal principe: e lui finalmente mangia di gusto, senza badare allo sporco di pirucchiella, munn'zella, cuzz'chella, nel quale si preparano, come la sua amata.

Il principe può seguire la traccia della sconosciuta, i suoi strani nomi, che sono tutti nomi di Dio, perché accetta il collegamento tra il suo amore, per la bella, e il suo disprezzo, per la serva pidocchiosa del pollaio. Il principe sensibile opera una trasformazione perché accostando bellezza e bruttezza, desiderio e sporcizia, cerca la donna là dove ha bisogno di essere trovata: fuori dall'idealizzazione che la vorrebbe separata dalla sua storia complessa, dalla maturazione dolorosa e dal lutto legati all'amore  incestuoso del padre, e per il padre. Desiderandola veramente, il principe dovrà riconoscere la sua bontà, la bontà di Tacc' taccun' d' Maria d' legna, tra i pidocchietti e le sostanze maleodoranti del pollaio.

Dopo aver mangiato il secondo piatto di tacconelle, nel quale ha ritrovato lo spazzolino, il principe sembra aver chiara l'identità della sua amata:

 

Ru iuorn' appriess' nen chiammava cchiù: "voglie 'l tacc' taccun d' Maria d' legna", ma:

- Mamma voglie Maria d' legna! Mamma voglie Maria d' legna! -

Allora la mma iett' ... tutta cosa,

- Ma ch' tè succiess? -

- Mamma i' voglie Maria d' legna. Voglie gl'atre tacc' taccun'. Va'! Va'! Vacc'l' a dic'! - (Ivi).

 

Così mangia per la terza volta 'l tacc' taccun d' Maria d' legna, sotto alle quali trova l'orologio che le aveva tirato appresso: a questo punto la richiesta che rivolge alla madre è inequivocabile:

 

- Mamma voglie prota Maria d' legna! m' l'ara ì a piglia! Voglie Maria d' legna! (Ivi).

 

Bisogna sapere che la nostra eroina si fa vedere tutta sporca, ma quando è da sola nel pollaio si tiene in ordine e pulita: così la scopre la regina madre, guardandola dal buco della serratura. Costretta a uscire bella e pulita come si trova, Maria chiede pietà alla regina e le racconta tutta la sua storia: la regina non solo la comprende, ma è ben contenta di farle sposare il figlio, che, come dice, è sciut' pazz', è impazzito per lei.

La madre di Maria d'legna, in punto di morte, aveva chiesto al marito di renderla eterna sposando una donna identica a lei: al rispecchiamento narcisistico della madre nella figlia, e della figlia nella madre, è succeduto il desiderio incestuoso, e l'oscuramento della bellezza. Il recupero della bellezza richiede una figura materna disposta ad accettare che il proprio figlio sia nutrito da una serva repellente, che prepara il cibo tra pidocchi e la sporcizia del pollaio.

Il principe che sposa Spazzolappress', o Maria d'legna che dir si voglia, ha superato la fissazione a un'immagine ideale della donna, come la regina madre non disdegna di far preparare la pasta nel pollaio.

 

 

 

4. Il bacio dell'orsa

 

Il motivo del cibo come veicolo simbolico di riconoscimento tra il principe e la protagonista non ancora scoperta è in moltissime versioni di Pelle d'Asino, ma l'interazione fra il principe e la regina madre nella fiaba molisana ci sembra profondamente e felicemente apparentata con l'Orza, un Cunto del capolavoro secentesco (Basile, cit., pp. 356-369). I motivi e le felicissime soluzioni narrative del Cunto de li cunti sono sparsi in ogni raccolta dell'Italia meridionale, come se in ogni chiesa, per quanto piccola e semplice, fosse riconoscibile in un capitello, in una statua, o in una colonna, l'impronta della meravigliosa cattedrale elevata in quell'area culturale.

Questa Pelle d'Asino, la principessa Preziosa, per sfuggire al padre si era trasformata in orsa e si era rifugiata in un bosco, dove viveva con le bestie feroci. Quando un principe cacciatore la vide, dapprima si spaventò, ma poi si accorse che si lasciava addomesticare, e chiamandola con tanti vezzeggiativi la portò al suo palazzo. La fece accomodare nel suo giardino e ordinò ai servitori che la curassero come facevano con lui stesso. La trasformazione di Preziosa era reversibile: era diventata orsa mettendosi uno steccolino in bocca, e se voleva tornare fanciulla bastava che se lo togliesse. Un giorno il principe si affacciò alla finestra per vedere la sua orsa, e vide invece la principessa, che credendo di essere sola voleva acconciarsi i capelli: si precipitò per le scale, ma Preziosa si era già ritrasformata in animale. Il povero principe si ammalò, e non faceva altro che dire: Orza mia, orza mia! 

La regina madre pensò che l'orsa gli avesse fatto del male, e ordinò ai servitori di ucciderla, ma siccome tutti nella reggia erano affezionati all'animale, disobbedirono alla regina, e la riportarono nel bosco dove il principe l'aveva trovata.

Quando gli arrivò questa notizia, il principe montò a cavallo come impazzito, andò nel bosco a ritrovarla, la riportò nella reggia, e, presala da parte, le disse:

 

O bello muorzo de re, che staie 'ncaforchiato drinto sta pella! o cannella d'ammore, che staie 'nchiusa drinto sta lanterna pelosa! a che fine fareme sti gatte-felippe, pe vedereme sparpatiare e iremenne de pilo 'm pilo? io moro allancato, speruto ed allocignato pe ssa bellezza e tu ne vide li testemonie apparente, ca io so' arredutto 'n tierzo comm'a vino cuotto, ca n'aggio si no l'uosso e la pella, ca la freve me s'è cosuta a filo doppio co ste vene. Perzò auza la tela de sso cuoiero fetuso e famme vedere l'apparato de sse bellizze, leva leva le frunne da coppa sso sportone e famme pigliare na vista de ssi belle frutte; auza sto sportiero e fà trasire st'uocchie a bedere la pompa de le meraviglie! chi a puosto a na carcere tessuta de pile n'opera cossì liscia? chi ha serrato drinto no scrigno de cuoiero cossì bello tesoro? famme vedere  sso mostro de grazie e pigliate 'm pagamiento tutte le voglie mie, bene mio, ca lo grasso de ss'orza pò schitto remmediare a l'attrazione de nierve ch'io tengo (Basile, cit., pp. 364- 366)[6].

 

Cosa manca a Preziosa per lasciare il suo carcere di peli? abbiamo detto che il principe sensibile deve riconoscere che la bella e la brutta sono la stessa persona, ma non basta: il principe deve amare la bella nella brutta, e la brutta nella bella. Nell'accorata preghiera l'animale è disprezzato, mentre la principessa è amata: la trasformazione del femminile non è ancora avvenuta, perché il maschile se ne rappresenta le due polarità come contrapposte, e come vuole la parte bella con tutto se stesso, vuole la distruzione della parte animale. Il valore psicologico di questa rappresentazione è sublime: non basta riconoscere il luogo ferino, o sporco, in cui si nasconde la donna amata, occorre amare quel luogo insieme a lei.

Il silenzio dell'orsa fa aggravare la malattia del principe, e i medici lo danno ormai per spacciato. Allora entra in scena la regina madre, parente stretta di quella che abbiamo incontrato nella versione molisana, e sollecita il figlio a chiederle qualunque cosa: il principe vuole che venga nella sua camera l'orsa, e che si prenda cura di lui. La regina madre personifica una funzione materna positiva, opposta alla regina madre della protagonista, che aveva imposto al marito, morendo, la propria bellezza come ideale. Al posto del narcisismo della madre dell'inizio della storia abbiamo una figura materna che accetta di far nutrire il figlio da una sporca serva o da un'animale feroce. Non c'è più il padre che pretende di legare a sé la figlia come se fosse la madre, la sua sposa, ma c'è una madre che amando il figlio lascia che sia curato da un animale feroce, come nella versione molisana chiedeva per lui il cibo preparato nel pollaio.

 

La mamma, si be' le parze no spreposeto che l'orza avesse da fare lo cuoco e lo cammariero e dubetaie ce lo figlio frenetecasse, puro, pe contentarelo, la fece venire. La quale, arrivato a lo lietto de lo prencepe, auzaie la granfa e toccaie lo puzo de lo malato, che fece scorreiere la regina, penzanno ad ora ad ora che l'avesse a sciccare lo naso.

Ma, lo prencepe decenno a l'orza: "Chiappino mio, non me vuoie cocinare e dare a magnare e covernare?", essa vasciai la capo mostranno d'azzettare lo partito. Pe la quale cosa la mamma fece venire na mano de galline e allomare lo fuoco a no focolaro drinto a la stessa cammara e mettere acqua a bollere e l'orza, dato de mano a na gallina, scaudatola la spennaie destramente e, sbrentatola, parte ne 'mpizzaie a no spito e parte ne fece no bello 'ngrattinato, che lo prencepe, che non ne poteva scennere lo zuccaro, se ne leccaie le deieta, e comme appe fornuto de cannariare, le deze a bevere co tanta grazia che la regina la voze vasare 'n fronte.

Fatto chesso, e sciso lo prencepe a fare la preta paragone de lo iodizio de li miedece, l'orza fece subito lo lietto e, corza a lo giardino, cogliette na bona mappata de rose e shiure de cetrangolo e 'nce le sparpogliaie pe coppa, tanto che la regina disse che st'orza valeva no tresoro, e c'aveva no cantaro de ragione lo figlio de volerele bene.

Ma lo prencepe, vedenno sti belle servizie, ionze esca a lo fuoco e se primma se conzomava a dramme mo se strodeva a rotola e disse a la regina: "Mamma, 'gnora mia, si no dongo no vaso a st'orza, m'esce lo shiato!". La regina, che lo vedeva ashevolire, disse: "Vasalo, vasa, bell'anemale mio, non me lo vedere speruto sto povero figlio!".

Ed accostatose l'orza, lo prencepe pigliatola a pezzechille non se saziava de vasarela e, mentre stevano musso a musso, non saccio comme scappaie lo spruoccolo de vocca a Preziosa e restaie fra le braccia de lo prencepe la chiù bella cosa de lo munno. Lo quale, stregnennola co le tenaglie ammorose de le braccia, le disse: " 'Ncappaste sciurolo, non me scappe chiù senza ragione veduta!" (Basile, cit., pp. 366- 368) [7].

 

 

 

 

5. Narciso e il cortese cavaliere

 

Il percorso trasformativo di Cenerentola e Pelle d'Asino coi loro principi sensibili è il gioco della vita stessa, che si ricrea nell'incontro fra esseri diversi. Va percorsa la separazione dai genitori, e l'emancipazione dai modelli collettivi che rappresentano, in una sorta di accettazione vertiginosa, catastrofica, della propria verità intima. Proprio quando la separazione è massima, come nella cenere o nella pelle animale, una nuova unione diventa possibile, proprio quando l'accettazione della diversità, fino a quel punto impensabile, dell'altro e dell'altra, ha luogo, contenitore e contenuto, maschile e femminile, si legano. La completezza è possibile quando l'incompletezza è radicalmente accettata.

Figura essenziale del rifiuto dell'incompletezza è Narciso, che torniamo a cercare in Ovidio, insieme alla sua innamorata Eco. Dal principio della sua favola la ninfa Eco non parlava per sé: intratteneva con i suoi discorsi Giunone per tenerla lontana dai convegni amorosi di Giove padre. Quando Giunone scopre il suo inganno, come una madre-matrigna la punisce, radicalizzando e rendendo tragico proprio il suo discorrere non per se stessa: Eco è condannata a ripetere solo le ultime parole dei discorsi degli altri. Potrebbe essere l'amante ideale per Narciso, perché può echeggiarlo, non essendo che un riflesso della voce degli altri.

Quando Eco segue i suoi passi, Narciso parla:

 

..."Ecquis adest?", et "Adest!" responderat Echo.

Hic stupet, utque aciem partes dimittit in omnes,

voce "Veni!" magna clamat: vocat illa vocantem.

Respicit et rursus nullo veniente: "Quid" inquit

"me fugis?" et totidem, quot dixit, verba recepit.

Perstat et alternae deceptus imagine vocis

"Huc coëamus!" ait, nullique libentius umquam

responsura sono "Coëamus!" rettulit Echo

et verbis favet ipsa suis egressaque silva

ibat, ut iniceret sperato bracchia collo.

Ille fugit fugiensque manus complexibus aufert:

"Ante" ait "emoriar, quam sit tibi copia nostri!"

Rettulit illa nihil nisi: "Sit copia nostri!"

(L. III, vv. 380-391)[8]

 

Narciso propone l'unione a Eco attratto dalla sua natura di specchio, e la respinge quando vede il suo corpo, la sua realtà da fuggire in quanto alterità irriducibile. Morire piuttosto che essere un tuo possesso, ma copia nostri, significherebbe alla lettera ricchezza di me.

Difficile non ripensare a questo proposito alla teoria kleiniana sull'invidia del seno, che distrugge la possibilità di una relazione creativa, attaccando il proprio sé come l'altro da sé. Narciso escludendo l'amore verso l'altro può illudersi di mantenere il pieno possesso di se stesso: aborrisce Eco quando la vede oltre a sentirne la voce che ripete le sue parole, fugge dalla realtà corporea della ninfa.

L'indovino Tiresia, consultato alla sua nascita, aveva detto che Narciso avrebbe vissuto fino a che non avesse visto se stesso. Nel narcisismo l'innamoramento segna una catastrofe: si desidera misconoscendo l'alterità di chi si ama, ci si chiude alle sue parole diverse. Mentre crediamo di conferirgli bellezza, lo perdiamo di vista, idealizzandolo non possiamo riconoscerlo. Tante volte la realtà degli amanti si dissolve, la relazione muore nel dolore, proprio perché si ripete la tragedia di Eco e Narciso: la diversità dell'altro dal modello ideale che prima avevamo creduto di vedere o sentire, o la nostra diversità dal modello di cui eravamo portatori, è avvertita come un tradimento, e non resta alcuna possibilità d'incontro. Oppure, se la relazione si chiude per un motivo che si considera oggettivo ed esterno ad essa, si può restare con la propria parte più viva a fissare l'immagine ideale e perduta, nell'illusione di un rispecchiamento, che permane solo a condizione che la realtà dell'altro, la sua diversità, il suo corpo, non si manifesti più.

Narciso si innamorerà perdutamente della propria figura rispecchiata da una fonte, che, secondo una versione ellenistica del mito, è la madre stessa trasformata in specchio d'acqua. L'incorporeità, la natura illusoria, il riflesso rimandato da quest'acqua materna, il sé perduto, è identico a sé, speculare come le parole di Eco. Ma mentre Eco poteva comparire come altro da sé, l'immagine nell'acqua non è altro che riflesso: troppo amata per potersene distaccare, è troppo labile per poter essere toccata. Narciso contemplandola dimentica anzitutto il proprio corpo, perché non mangia più, e si consuma nel dolore, come la ninfa aborrita.

Infatti Eco, dopo essere stata respinta e disprezzata da Narciso, si era rifugiata nella solitudine, a consumarsi d'amore, fino a distruggere il corpo che ha impedito l'unione. Si è assottigliata e ha perso consistenza, in una sorta di anoressia mitica, fino a che, svanendo nell'aria, resta solo come voce, che ancora ripete fra i monti le nostre parole. Eterna, come Narciso è eterno nel fiore che cresce col suo nome vicino alle acque.

Prima di morire Narciso comprende che la copia, la ricchezza, il possesso di sé, va donata e perduta per poterla trovare: il possesso implica la perdita della ricchezza, il dono la fa trovare, perché ogni trasformazione profonda, nella realtà psichica come nella fiaba, deve una parte essenziale a qualcosa che sfiora il segreto di grazia della vita.

La distanza tra gli amanti, di cui Narciso comprende il valore, non è pensabile se non ha avuto luogo la separazione dalle figure genitoriali: elaborando questa rottura, questo lutto, il soggetto può procedere verso la propria autonomia, e verso il desiderio dell'altro.

 

Quod cupio, mecum est: inopem me copia fecit.

O utinam a nostro secedere corpore possem!

votum in amante novum: vellem, quod amamus abesset!

(cit.)[9]

 

Tornando a Cenerentola possiamo ora dire che le sue nozze regali, il lieto fine della fiaba, rappresentano la meta di un percorso di trasformazione complesso, un patrimonio di esperienza profonda raramente accessibile nella vita di una sola persona.

L'attaccamento alle figure parentali determina un gioco endogamico degli affetti, che si ripete nella ricerca dell'altro: l'oggetto d'amore è indispensabile alla nostra vita come per Narciso la sua propria immagine.

Nell'innamoramento la più grande disperazione per l'amante non è la lontananza o la perdita dell'amato, ma l'incertezza sul proprio essere. All'altro, come al riflesso di Narciso, è conferito un arbitrio che nessuna persona reale può esercitare: si supplica l'amato di accogliere e confermare la ricchezza e la verità del proprio sentimento, che coincide con il nostro essere. Accogliendo, rispecchiando, la nostra bellezza, confermando la realtà e la legittimità del nostro desiderio, darà senso definitivo alla vita, rifiutandoci ci condannerà a morire.

Ricordiamo le parole di una struggente canzone di Pier Paolo Pasolini:

 

Ch'io possa essere dannato

se non ti amo

e il mondo non esiste

se non è vero. [10]

 

Il desiderio struggente non è rivolto al possesso dell'amato, somigliando piuttosto a un vortice tragico intorno al fondamento del proprio amore: se non si conferma la verità del proprio sentimento, è il mondo intero a perdere la sua realtà.

Per questo Amleto può rinunciare ad Ofelia, ma non a chiederle la stessa conferma:

 

Doubt thou the stars are fire;

Doubt that the sun doth move;

Doubt truth to be a liar;

But never doubt I love.[11]

(A. II, Sc. 2)

 

 

Il desiderio dell'unione con l'altro è qualcosa che non ha il suo centro nella conferma del proprio essere: la bruttezza, la condizione servile, la sporcizia di Cenerentola o di Pelle d'Asino, i loro occultamenti, sfidano il principe sensibile a staccarsi dalla contemplazione della bellissima immagine di cui si è innamorato al ballo. La bella che vuole essere trovata nel pollaio, o nella forma di orsa, o nella cenere, è distante da Eco quanto il principe sensibile è distante da Narciso. Staccarsi dalla bellezza come luogo di rispecchiamento significa rinunciare alla conferma della propria identità, del senso stesso del proprio essere, mantenuta nel riflesso dell'altro.

C'è una storia della bruttezza femminile che desideriamo ricordare ora[12], in cui si narra che una volta Re Artù vide un cervo e lo inseguì. Lo raggiunse e lo uccise, ma, mentre lo scuoiava, fu sorpreso da un grande cavaliere sconosciuto, che voleva ucciderlo: il re protestò che in quel momento lui era vestito solo di verde. Allora il possente cavaliere, che era tutto armato, gli concesse un anno di tempo, scaduto il quale avrebbe dovuto tornare da lui, con lo stesso vestito verde. Re Artù avrebbe avuto salva la vita solo se avesse trovato la risposta giusta per questa domanda: "Qual è quella cosa che una donna desidera di più al mondo?".

Il re tornò tristemente dai suoi e si confidò solo con Galvano, che era il più bello e cortese fra i cavalieri di Camelot. Galvano gli propose di partire entrambi, viaggiando in direzioni diverse e chiedendo a tutti quelli che avrebbero incontrato lungo il camini la risposta all'enigma. Così fecero, e allo scadere dell'anno si ritrovarono: ciascuno di loro aveva un libro pieno di risposte, e con queste re Artù si avviò all'appuntamento col cavaliere sconosciuto. Quando fu nella foresta il re incontrò una donna bruttissima, madama Raganella, che suonando il liuto cavalcava allegramente, montando un palafreno dalla ricca sella. La donna bruttissima disse al re che nei suoi libri non c'era la risposta che poteva salvargli la vita: lei la sapeva, ma l'avrebbe rivelata solo se Galvano avesse acconsentito a sposarla. Allora re Artù portò la richiesta a Galvano, che per amore del suo re accettò cortesemente di sposare madama Raganella.  E lei diede la risposta tanto desiderata:"Noi donne desideriamo, sopra ogni altra cosa, avere sugli uomini sovranità".

Il cavaliere che voleva uccidere re Artù si infuriò, e disse che quella risposta non potevano averla saputa che da sua sorella, che era per l'appunto la donna repellente, ma dovette lasciare libero il re, che fece ritorno a Camelot con Galvano e la sua bruttissima fidanzata. Madama Raganella pretese un matrimonio solenne, e durante il banchetto di nozze mangiò a quattro palmenti, mentre dame e cavalieri piangevano per la triste sorte di Galvano.

La prima notte di nozze, siccome il bel cavaliere le girava le spalle, madama Raganella gli chiese di onorare il talamo nuziale almeno con un bacio. Galvano rispose che avrebbe fatto di più, e quando l'abbracciò sentì una pelle vellutata, e capelli lisci come la seta, mentre si aspettava qualcosa di ispido e rivoltante. Allora accese una torcia e ai suoi occhi apparve la creatura più bella del mondo. Al mattino madama Raganella gli chiese di scegliere: voleva che fosse bella di giorno o di notte? Galvano ci pensò a lungo, e poi disse che lasciava a lei la scelta. Allora madama Raganella lo benedisse e gli svelò che sarebbe stata sempre bella, perché proprio così l'aveva liberata da un incantesimo.

Quando al mattino re Artù andò a vedere se Galvano era sempre vivo, il cavaliere gli disse che non aveva nessuna intenzione di uscire dalla camera nuziale, e gli mostrò la splendida sposa accanto al fuoco.

Il desiderio della donna, di esercitare la propria sovranità non solo su se stessa, ma anche sull'uomo, è la verità che salva il re e che nessuno, né uomo né donna, riesce a dire.

Solo il perfetto cavaliere, il principe sensibile, la accetta, e ottiene la sposa più bella lasciandola libera. Cortesemente rinuncia al potere di regolare la femminile alternanza tra oscurità e splendore.



[1]  Al movimento della protagonista dallo sporco o dall'oscurità, significate dalla condizione di prostituta, a quello di regina - cioè moglie legittima - corrisponde il movimento del protagonista - ricchissimo  uomo d'affari, principe contemporaneo - verso la riconciliazione con la figura paterna: alla fine agisce eticamente e si assume responsabilità verso gli altri: diventare re. Il riferimento alla nostra fiaba è esplicito nel film, quando Cenerentola/Julia Roberts chiede all'amica se conosca anche una sola persona che sia mai riuscita a lasciare felicemente la condizione di prostituta. L'amica, dopo averci pensato, risponde, con un'espressione volgare che allude alla sua invidiabile fortuna, che la sola è stata Cenerentola.

 

[2] Per l'anima dei miei morti, se tu non me la trovi, ti faccio una battuta e ti do tanti calci nel culo quanti peli hai nella barba (Ivi, p. 133).

 

[3] "Lei, vedendo che gli stava sempre alle costole, disse: "Sferza cocchiere", ed ecco che la carrozza si mise a correre di tutta furia, e la corsa fu così rapida che le cadde una scarpetta, ed era difficile vedere una cosuccia più carina. Il servo, che non era riuscito a raggiungere la carrozza che volava, raccolse la scarpetta da terra e la portò al re, raccontandogli quello che era capitato. E lui, presa in mano la scarpetta, disse: "Se le fondamenta sono così carine, cosa mai sarà la casa? o bel candeliere, dove è stata la candela che mi consuma! o treppiede della bella caldaia dove bolle la mia vita! o bei sugheri attaccati alla lenza d'Amore, con la quale hai pescato quest'anima! ecco, vi abbraccio e vi stringo e, se non posso arrivare alla pianta, adoro le radici e se non posso avere i capitelli bacio le basi! già siete stati cippi di un bianco piede e ora siete tagliole di un cuore nero; per mezzo vostro era alta un palmo e mezzo di più quella che tiranneggia la mia vita e per mezzo vostro cresce altrettanto di dolcezza questa vita, mentre vi guardo e vi posseggo" (Ivi, pp. 133-135).  Si può considerare questo brano come un vertice della letteratura. Nel genere fiaba l'espressività più efficace, nella scrittura colta come nel dettato popolare, coincide con la massima ricchezza simbolica: si osservi come la fuga barocca di metafore sia allo stesso tempo vertiginosa in senso letterario e psicologico. La traduzione letterale vale come strumento d'accesso al testo di Basile, che è lo Shakespeare delle fiabe, anche per l'uso dei registri diversi, dal tragico al comico, dal lirico al grottesco. 

 

[4] Arrivarono tutte le femmine, nobili e ignobili e ricche e miserabili e vecchie e bambine e belle e brutte, e, dopo che ebbero ben pettinato, il re, fatto il prosit, provò la scarpetta ad una ad una a tutte le invitate, per vedere a chi andasse a capello e a pennello, in modo che potesse riconoscere dalla forma della scarpetta quello che andava cercando; ma, non trovando piede che ci andasse bene, stava a disperarsi. Tuttavia, dopo aver fatto fare silenzio a tutti, disse: "Tornate domani a fare un'altra penitenza con me; ma, se mi volete bene, non lasciate nessuna femmina a casa, sia chiunque sia. Disse il principe: "Ho una figlia, ma sta sempre a guardia del focolare, perché è disgraziata e da poco e non merita di sedere dove mangiate voi". Disse il re: "Questa sia la prima della lista, perché così mi piace". Così si congedarono e il giorno dopo tornarono tutti, e, con le figlie di Carmosina venne Zezolla, e il re, appena la vide, ebbe come l'impressione che fosse quella che desiderava tuttavia fece finta di nulla. Ma, quando ebbero finito di battere i denti, arrivò la prova della scarpetta, che non s'era neppure accostata al piede di Zezolla che si lanciò da sola al piede di quell'ovetto dipinto d'Amore, come il ferro corre verso la calamita. Il re, visto questo, corse a prenderla nella morsa delle braccia e, fattala sedere sotto il baldacchino, le mise la corona in testa, comandando a tutte che le facessero inchini e riverenze, come alla loro regina (Ivi, pp. 135-137).

 

[5]  Lo chianiello della Gatta Cennerentola, come annota Michele Rak (Basile, cit., p. 138) era una calzatura di sughero che si calzava sopra alla scarpa, e aveva tacchi molto alti: si noti che però nello stesso testo viene tradotta con scarpetta. Purtroppo anche nella mia versione per bambini (cit., p. 28) ho tradotto chianiello con scarpetta, influenzata dalla versione più celebre, che pone la chiave del riconoscimento nella straordinaria piccolezza del piede. Non avevo ancora riflettuto sulla simbologia scarpa-piede.

 

[6] O bel boccone di re, che stai rintanato in questa pelle! o candela d'amore, che stai chiusa in questa lanterna pelosa! perché farmi questi cucù-setè, per vedermi consumare e andarmene pelo dopo pelo? io muoio affamato, consumato e stremato per questa bellezza e tu ne vedi le prove evidenti, perché io sono ridotto a un terzo come il vino bollito, non ho altro che l'osso e la pelle, la febbre si è cucita con filo doppio su queste vene. Perciò alza la tela di questo cuoio puzzolente e fammi vedere l'apparato delle tue bellezze, togli togli le fronde da questa cesta e fammi guardare questi bei frutti; alza questa cortina e fai passare gli occhi a vedere la pompa delle meraviglie! chi ha messo in un carcere di peli un'opera così liscia? chi ha chiuso in uno scrigno di cuoio un tesoro così bello? fammi vedere questo mostro di grazia e prenditi in pagamento tutti i miei desideri, bene mio, perché soltanto il grasso di quest'orsa può essere un rimedio per i miei nervi rattrappiti (Ivi, pp. 365-367)

 

[7]  La mamma, anche se le sembrò uno sproposito che l'orsa dovesse fare da cuoco e da cameriere e se sospettò che il figlio stesse farneticando, tuttavia, per accontentarlo, la fece portare. E lei, arrivata al letto del principe, alzò la zampa e toccò il polso del malato e fece spaventare la regina, convinta che da un momento all'altro gli avrebbe strappato il naso.

Ma, quando il principe disse all'orsa: "Chiappino mio, vuoi cucinare per me e darmi da mangiare e prenderti cura di me?", lei abbassò la testa indicando che gli stava bene. Per questo la mamma fece portare un poco di galline e accendere il fuoco in un camino nella stessa camera e mettere a bollire l'acqua e l'orsa, presa una gallina, la scottò, la spennò abilmente e, dopo averla fatta a pezzi, parte ne ficcò in uno spiedo e parte ne fece un bel gratinato e il principe, che non riusciva a mandar giù lo zucchero, finì per leccarsi anche le dita e, quando ebbe finito d'ingoiare, gli diede da bere con tanta grazia che la regina volle baciarla in fronte.

Fatto questo, mentre il principe faceva un poco di roba per gli esami dei medici, l'orsa fece subito il letto e, corsa in giardino, colse un bel mazzo di rose e di fiori di cedro e li sparpagliò là sopra, tanto che la regina disse che quest'orsa valeva un tesoro e che il figlio aveva un vaso da notte di ragione a volerle bene.

Ma il principe, vedendo questi bei servizi, aggiunse esca al fuoco, e se prima si consumava a chili ora si sbriciolava a quintali e disse alla regina: "Mamma, signora mia, se non do un bacio a quest'orsa mi scappa via il fiato!". La regina, che lo vedeva venir meno, disse: "Bacialo, bacia, bella bestia mia, non me lo far vedere distrutto questo povero figlio!".

E l'orsa si accostò e il principe la prese e non si saziava di sbaciucchiarla  e, mentre stavano muso a muso, non so come il bastoncino cadde di bocca a Preziosa e tra le braccia del principe restò la più bella cosina del mondo. E lui, stringendola con le tenaglie amorose delle braccia, le disse: "Ci sei caduto scoiattolo, non mi scappi più senza ragion veduta!". (Ivi, pp. 367-369).

 

[8]  "Chi c'è qui presente?" - "Presente" rispose la ninfa. / Egli stupisce e girando lo sguardo da tutte le parti / "Vieni!" gridò con gran voce; e la ninfa chiamò lui che chiama. / Guarda di nuovo, né alcuno venendo, "Perché mi t'involi?" / disse; e la ninfa ogni volta ripete le voci di lui. / Egli si ferma e, deluso dal suono di quell'altra voce, grida "Qui uniamoci!" - "Uniamoci!" pronta rispondegli l'altra. / Né mai avrebbe risposto più lieta a qualunque altra voce. Le sue parole seconda ed, uscita dal bosco, correva / per abbracciare quel collo desiato. Ma fugge Narciso / e, nel fuggire, le strappa le braccia all'amplesso e "Ch'io muoia! / prima che io sia di te!" Ma soltanto rispose la ninfa: / "Ch'io sia di te!" (Le Metamorfosi, cit., vol. I, p. 123).

 

[9]  Cit., a p. 73

 

[10]  Canzone dal film Cosa sono le nuvole, regia di P.P. Pasolini; parte di Capriccio all'italiana (1969).

 

[11]  Dubita che gli astri siano accesi / dubita che il sole si muova / dubita che la verità sia bugiarda / ma non dubitare mai che io ami.

 

[12]  La storia è riportata da Zimmer, cit., pp. 108-115.

 

8. L'insostenibile vaghezza del senso

L'INSOSTENIBILE VAGHEZZA DEL SENSO

 

 

 

 

 

 

 

If this is magic, let it be an art

Lawful as eating.

                            (Shakesperare)

 

 

 

 

1. State di buon animo, messere

 

Il mio lettore, se è arrivato a questo punto, forse si sarà appassionato, avrà riconosciuto qualcosa di suo, avrà dubbi, e si sarà interrogato su quale sia la sostanza di questo ciclo di grandi sogni di tutto il mondo intorno a Cenerentola. Non si sogna ciò che abbiamo chiaro, né ciò che è così lontano da essere insignificante per la nostra coscienza.

Descrivere un sogno significa correre un rischio, scompaginando giudizi sulla realtà, o sulla realtà psichica, ma non per proporre giudizi più saldi, né per accrescere la convinzione di possedere qualche certezza in più. Alla fine del percorso, che non è compiuto, ma rappresenta piuttosto un cammino, comune all'autore e al lettore, nel favoloso paese di Cenerentola e dintorni, potrebbero essere diminuite le certezze, a vantaggio di una vaghezza che non assicura niente di buono. Le fiabe hanno come i sogni notturni un carattere fluido, mutevole, che in un batter d'occhio apre orizzonti alla luce, e altrettanto rapidamente li può chiudere, fino a opprimere il protagonista, e il lettore, sotto una cappa minacciosa come una prigione senza porte né finestre.

La natura della fiaba è tale che chi pretenda di trarne certezze si trova presto fuori dal suo reame, in territori dove non si è né imbruttiti né abbelliti dai suoi incantesimi. Oppure ci si perde in questa terra, di simbolo in simbolo, di figura in figura, illudendosi che si tratti di saggezza iniziatica mentre si usano nuclei di senso senza cercare di tradurli nel linguaggio comune, comprensibile a tutti. Comprendere qualcosa di un sogno, di una fiaba, comprendere qualcosa della realtà psichica, anche attraverso un esercizio costante e rigoroso della psicoanalisi, non significa evitare questi due rischi: la ricerca può naufragare come una nave costretta a passare tra Scilla e Cariddi. Sbattendo da una parte si fornisce una descrizione corretta, solida, rassicurante e ripetibile, ma priva della complessa e fluida ricchezza della materia, mentre sbattendo dall'altra si evoca, come novelli cantastorie o mistici ermeneuti, questa ricchezza, senza saperne veramente dire nulla. Per questo secondo caso, ritengo che l'evocazione della ricchezza sia appannaggio dei sogni, delle fiabe, dei miti e dell'arte, e che dal ricercatore, visto che si propone come tale, ci si attenda almeno qualche chiarimento. Esiste anche il rischio di naufragare sia da una parte che dall'altra: il lavoro fatto sarebbe inconsistente e inutile. Se il lettore è venuto con me paziente, fino a questo punto, posso illudermi che il naufragio non sia stato totale.

L'interpretazione del sogno di Cenerentola, Pelle d'Asino e Cordelia è terminata, e se il mio lettore è un po' preoccupato dalla sua vaghezza, vorrei rassicurarlo con le parole che il mago Prospero, nella Tempesta di Shakespeare, dopo aver fatto apparire e dissolvere figure e scenografie fantastiche che appaiono vere, dice al suo interlocutore:

 

Be cheerful, sir.

Our revels now are ended. These our actors,

As I foretold you, were all spirits, and

Are melted into air, into thin air;

And, like the baseless fabric of this vision,

The cloud-capp'd towers, the gorgeous palaces,

The solemn temples, the great globe itself

Yea, all which it inherit, shall dissolve,

And, like this insubstantial pageant faded,

Leave not a rack behind. We are such stuff

As dreams are made on; and our little life

Is rounded with a sleep.

(A.IV, Sc. 1) [1].

 

Anche il nostro divertimento è finito, Cenerentola, Pelle d'Asino, Cordelia, Zuccaccia, Bianco Viso, Maria 'd Legna, l'Orsa, le loro scarpe, gli abiti di cielo e di mare, le streghe, le Grandi Dee, Narciso, Madama Ranocchia e i principi sensibili, che in questo viaggio si sono avvicinati fino a dare nome a passioni, intrighi, conflitti, disillusioni e speranze della nostra vita di ogni giorno, e di ogni notte, possono rientrare in un magazzino della nostra memoria, come i loro libri nello scaffale. Tutte figure di fantasia, che possono apparire reali come gli spiriti sull'isola del mago Prospero, ma che sono destinate a dissolversi, a spandersi nell'aria, nell'aria sottile. La struttura di questa visione non è fondata, è baseless, senza base, e non c'è nulla che possa essere soppesato, misurato, catalogato e ritrovato come gli oggetti che appaiono concreti. Ma attraverso il magistero della parola di Shakespeare, il lettore che si è appena tranquillizzato sulla stabilità, la certezza della sua realtà oggettiva, la perde di colpo, se sa ascoltare, e definitivamente: gli spiriti e i sogni e le fiabe si dissolvono in un batter d'occhio, ma, anche se con tempi diversi, si dissolvono in maniera altrettanto radicale le torri, le cui cime toccano le nubi, i sontuosi palazzi, i solenni templi, lo stesso immenso globo, e tutto ciò che esso contiene.

Lo stesso inesorabile gioco fra tempo e illusione si manifesta a una fanciulla di fiaba, i cui sette fratelli erano diventati sette colombini. Basile ci racconta che per farli tornare umani viaggiò fino alla casa del Tempo, compiendo un cammino tra i più belli e ricchi del paese delle fiabe. Un vecchio pellegrino, al quale la protagonista aveva curato amorevolmente il bernoccolo causato dal tiro di un gatto mammone, le dice:

 

Ora siente buono, bella figlia mia senza peccato, agge da sapere qualemente cosa 'ncoppa la cimma de la montagna trovarrai no scassone de casa, che non s'allecorda quanno fu favrecata: le mura songo sesete, le pedamente fracete, le porte carolate, li mobele stantive e 'nsomma ogni cosa conzomata e destrutta: da ccà vide colonne rotte, da llà statue spezzate, non essennocene autro sano che n'arma sopra la porta quartiata, dove 'nce vedarrai no serpe che se mozeca la coda, no ciervo, no cuorvo e na fenice. Comme sì trasuta drinto vedarrai pe terra lime sorde, serre, fauce e potature e ciento e ciento caudarelle di cennere, co li nomme scritte, come arvarelle de speziale, dove se leggeno: Corinto, Sagunto, Cartagene, Troia e mille autre città iute all'acito, le quale conserva pe memoria de le 'mprese soie (Basile, cit., pp. 800- 802) [2].

 

La polvere delle città sta in piccoli contenitori, e si riconosce solo dall'etichetta simile a quella dei vasi del farmacista, non avendo maggiore consistenza di quella delle figure di fiaba. La chiave del gioco la tiene il Tempo alato, che intacca, rode e divora ogni cosa, persino, racconta Basile, la calce dei muri di casa sua: solo lo stemma, il simbolo, resta inalterato.

Al lettore che abbia lasciato risuonare nel suo cuore e nella sua mente le parole di Shakespeare, vorremmo dire che la stabilità, che non è nemmeno negli oggetti che per anni o secoli abbiamo potuto misurare e pesare credendo di pervenire alla certezza, potrebbe trovarsi proprio in quei nuclei vivi di senso umanissimo che la fiaba e il mito continuano a rappresentare, nei libri, nella storia, nei sogni. Così Roger Caillois, che è tra i pochi ad aver viaggiato nelle fiabe senza naufragare tra Scilla e Cariddi, cita e commenta il poeta Ronsard:

 

Il poeta che profetizzava: Neptune quelquefois de blés sera couvert, / la matière demeure et la forme se perd[3], s'ingannava. In realtà, la materia evapora e il modello persiste (Ricorrenze nascoste, 1978, p. 61).

 

 

 

 

2. Una favola che non significa nulla

 

Teatro e realtà, illusioni e certezze, sogno, incubo e risvegli: torniamo a Shakespeare, ancora a uno dei suoi passi più citati, per trovare una descrizione perfetta della tragedia e dell'annientamento che ogni uomo, anche se non ha le parole per descriverla, sperimenta nei momenti di disperazione, almeno nella sua intimità con se stesso. Siamo alla fine del Macbeth, quando al re viene annunciato che la regina è morta suicida; così parla Macbeth:

 

She should have died hereafter;

There would have been a time for such a word.

To-morrow, and to-morrow, and to-morrow,

Creeps in this petty pace from day to day

To the last syllable of recorded time,

And all our yesterday have lighted fools

The way to dusty death. Out, out, brief candle!

Life's but a walking shadow, a poor player,

That struts and frets his hour upon the stage,

And then is heard no more; it is a tale

Told by an idiot, full of sound and fury,

Signifying nothing

(Atto V, Sc. 5)[4].

 

La vita è una favola: l'affermazione è dello stesso ordine di quella che conclude il discorso di Prospero: noi siamo della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni.

Ho fatto entrare Shakespeare in questo libro, fin dal titolo, grazie all'assoluta libertà di cui può godere ogni lettore, di appropriarsi a suo modo di qualunque cosa sia stata scritta e perciò affidata al successivo gioco della lettura e della scrittura. Che non la esaurisce né la imprigiona, né può, se non apparentemente, travisarla o avvilirla, perché la forza viene alle parole dall'indomabile potenza del desiderio, che si lascia legare soltanto nei versi e nelle vicende ricche di senso. Resta potente e indomabile, perché, pur fissato in una forma, la dilata e la rende sottile come un incantesimo, per diffondersi, oltre che per dissolversi, nell'aria, nell'aria sottile. In grazia di quale attitudine, ricchezza, bisogno umano questo può accadere?

Prima di tentare di descrivere dove mi trovo per la mia ricerca originata da questa domanda, devo dire qualcosa di Macbeth, che ha creduto negli spiriti, creature dell'illusione che possono apparire assolutamente reali. Al ritorno da una battaglia vittoriosa, a buon diritto certo di ricevere premi e onori dal suo re, Macbeth incontra tre streghe, che lo salutano con un titolo che non ha mai avuto, e gli predicono che diverrà re lui stesso. Quando gli viene comunicato che il vecchio re gli ha conferito proprio il titolo col quale lo hanno salutato le streghe, insieme a Lady Macbeth si chiede se debba prestar fede anche alla seconda parte della profezia, e come sia possibile che avvenga. Spinto dalla sua ambizione e dalla sua sposa, Macbeth agisce perché questo destino si attui, per fare della realtà il campo del suo sogno: fa assassinare il re suo ospite e prende il potere. Più che di sogno si tratta di delirio, perché mentre chiamiamo sogno qualcosa che vive entro limiti che non coincidono mai con quelli della realtà del giorno, che condividiamo con gli altri, che sono segnati dalla norma, dalla legge, dal linguaggio comune, possiamo chiamare delirio la sovrapposizione a questa realtà di un piano fantastico, che ha una tale presa adesiva da confondersi totalmente con essa. Le parole di Macbeth che abbiamo citato rappresentano il panorama del soggetto quando la fusione tra delirio e realtà è avvenuta, e l'azione conseguente si è data senza limiti.

A proposito della realtà degli spiriti e delle loro previsioni, ricordiamo che Macbeth, dopo aver ucciso il suo re, e tutti coloro che si frappongono alla realizzazione del suo potere, è perseguitato dai fantasmi, e torna a visitare le streghe. Gli spiriti che esse evocano gli dicono che nessun uomo partorito da donna potrà mai sconfiggerlo, e che il suo regno durerà fino a che la foresta di Birnam non salirà al suo castello.

Alla fine l'esercito che viene a combatterlo sale come un bosco semovente, perché ogni soldato avanza schermandosi con un grosso ramo degli alberi di Birnam. Macbeth non può più svegliarsi dal suo delirio, che attribuisce al demonio:

 

I pull in resolution, and begin

To doubt th' equivocation of the fiend

That lies like truth.

(Ivi) [5]

 

Poi, quando il suo avversario gli rivela di non essere stato partorito da donna, perché è stato estratto anzitempo con un taglio da sua madre, prima di affrontarlo in duello e morire, esclama:

 

And be this juggling fiends no more believ'd

That palter with us in a double sense,

That keep the word of promise to our ear,

And break it to our hope!

(Ivi) [6]

 

Ciò che Macbeth non ha capito, e che neppure di fronte alla morte capisce, è che i demoni non sono fuori di lui. Macbeth non comprende la natura simbolica delle parole, e la sua tragedia è preceduta e causata dall'incomprensione per la natura finzionale del linguaggio.

Finzione viene dal latino fingere, a sua volta dal nome fingulus, che significa vasaio. Dare forma al vaso che senza l'attività umana non esiste, alla materia che si lascia plasmare e cuocere per trasformarsi in un contenitore utile agli uomini è un'opera analoga alla formazione del linguaggio, che articola alcuni suoni secondo regole condivise.

La confusione tra la cosa e la lingua, tra la propria tensione verso un oggetto e la natura della relazione che ne può nascere, porta a non considerare, insieme alle regole del linguaggio, che svela e cela, il cui senso non è univoco né definitivo, le regole che gli uomini hanno stabilito e che mantengono per vivere insieme. Nessuna profezia, nessuna promessa, nessuna formula magica, vale indipendentemente dal contesto in cui viene offerta, ricevuta, usata. Confondere il prodotto, la forma manifesta della formula o della poesia, con la realtà, o con la verità assoluta, significa dimenticare che dipendono dalle relazioni che gli uomini sono riusciti a costruire fra loro, trasformandosi quotidianamente nell'ambito di queste stesse relazioni.

 

 

3. Storie false che sembrano vere

 

Arte e artificiale hanno la stessa matrice, anche se il secondo termine ha oggi un'accezione negativa, che lo contrappone a naturale: ma la cultura, le leggi dell'uomo, i suoi racconti e le sue parole, senza l'opera dell'uomo non esistono. Scrive Roger Caillois:

 

Ecco dunque dove sta l'essenza dell'arte. Un'avventura sulla quale, fino all'ultimo, regna un'incertezza pericolosa e salutare. Da questa singolare ipoteca sono esenti la linfa e l'ingranaggio, che si assomigliano nella stessa certezza dei loro prodotti e nella stessa cecità della loro operazione (Babele, 1948, p. 70).

 

Il campo dell'uomo è la sua cultura, nella quale si muove in rapporto con la sua stessa vita interiore, e con gli altri uomini, sia suoi contemporanei, che passati e futuri. La cultura, che si trasmette e si trasforma quotidianamente attraverso il linguaggio, può essere immaginata come un'estensione illimitata dell'addestramento che l'animale riceve dal genitore e che trasmette ai suoi piccoli; essa lega tutti gli uomini con un vincolo forte come quello che tiene insieme una famiglia di animali, ma si ramifica in una complessità  infinita. Vi sono storie che hanno un significato, e quindi un valore, per tanti secoli e sotto tutti i cieli, in forme diverse eppure strettamente apparentate. Abbiamo scelto di analizzare Cenerentola, che viene narrata da oltre mille anni, in tutto il mondo, ma vi sono innumerevoli fiabe e miti egualmente pregnanti.

In greco mìthos significava sia parola che racconto, e il racconto, nelle sue innumerevoli forme, è la casa della parola. Il greco Esiodo, ottocento anni prima di Cristo, ci ha raccontato nella Teogonia delle prime generazioni degli dei. Nel suo testo, mitico per eccellenza, ci è dato osservare l'unità di racconto e parola: la nascita delle divinità Terra (Gaia), Cielo (Urano), Notte e Oceano, è l'origine delle realtà fisiche che personificano, e allo stesso tempo dei nomi che le designano da allora, rimasti in vigore, in molti casi, fino al nostro tempo. Esiodo si presenta a noi come un pastore, intento alla cura del suo gregge, che le Muse richiamano al loro servizio, offrendogli il canto: questo è allo stesso tempo il dono della poesia e del suo contenuto, le storie da celebrare con il canto. Le Muse sono figlie della dea Memoria (Mnemosine) e del sovrano degli dei olimpici, Zeus, che ha fissato limiti e domini per gli dei e per gli uomini. I limiti di cui Zeus è fondatore e tutore rappresentano la legge, il principio che mantiene la continuità nella vita degli esseri umani, che per i greci era necessario per la stabilità degli stessi dei olimpici.

Quando le nove Muse, che sono la personificazione di tutte le arti, si rivolgono a Esiodo, cominciano con queste parole:

 

poimeneV agrauloi, kak' elegcea, gastereV oion,

idmen yeudea polla legein etumoisin omoia,

idmen d', eut' eqelwmen, alhqea ghrusasqai

(vv. 26-28)[7]

 

Le Muse definiscono la condizione di Esiodo come limitata e chiusa nella sua corporeità, nient'altro che ventre: rappresentazione di un senso della vita che si considera solo materia, insieme oggettivo di dati, di eventi misurabili e descrivibili come pecore da vendere o erba da tagliare. A questa definizione dell'essere umano, cieco e limitato nella sua convinzione che si possa parlare senza fare i conti con la natura finzionale del linguaggio, segue immediatamente l'affermazione delle Muse, che come tutta l'arte significano proprio questa natura finzionale, che si gioca nella parola, nel racconto, nel simbolo. Chi garantisce a Esiodo che le nove fanciulle gli racconteranno storie vere, visto che loro stesse lo hanno avvertito che anche quando raccontano storie false le fanno apparire vere? Non è per la certezza sulla verità della storia che Esiodo si disinteressa da quel momento di tutto quello che non è poesia, mito, canto: è perché le Muse gli hanno donato la comprensione della natura del linguaggio.

Chi credesse che la cosa, posta in questi termini da quasi duemila anni, sia chiara, farebbe un errore tale da impedirgli la comprensione non solo delle storie, ma del senso stesso della vita umana. Ciò che vale è il gioco degli affetti tra gli uomini, che proprio mediante il carattere finzionale del linguaggio possono rappresentare la loro realtà intima e quella degli altri, costruendo relazioni e apprendendo dall'esperienza. Tra la sua natura personale, unica e irrepetibile, e i suoi legami con gli altri,  l'uomo può crescere solo se rafforza la prima arricchendo allo stesso tempo le articolazioni con questi legami. Scrive Wilhelm von Humboldt:

 

...Lottando profondamente nel suo intimo per tendere verso quell'unità e totalità, l'uomo vorrebbe trascendere i limiti della sua individualità, ma poiché, simile al gigante che solo riceve la sua forza dal contatto con la madre terra, ha la sua potenza soltanto in essa, è costretto ad accrescere proprio la sua individualità in questa superiore lotta. Qui, in modo davvero meraviglioso, gli viene ora in aiuto il linguaggio, che unisce anche quando isola e che, nella veste della più individuale espressione, racchiude la possibilità di universale intelligenza. Il singolo, dove, quando e come vive, è un frammento staccato di tutta la sua stirpe, e il linguaggio dimostra e mantiene questo eterno nesso che guida il destino del singolo e la storia del mondo (Über die Verschiedenbeiten des menschlichen Sprachbaues, cit. da Ernst Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, 1923; vol. I, p. 118).

 

Il racconto è la casa del linguaggio, e le fiabe e i miti, fra queste case, sono le più resistenti nel tempo e le più abitate sotto ogni cielo. Come il sogno notturno è indispensabile, col suo gioco solo in apparenza arbitrario, al nostro equilibrio psichico, così il racconto collettivo, quello nel quale ogni essere umano può rispecchiarsi, per arricchire la sua consapevolezza di sé, di ciò che vale nella sua intimità, mantiene una trama profonda che consente di rappresentare, con la massima chiarezza possibile, i bisogni e i desideri che accomunano tutti gli esseri umani. Studiarli significa lavorare per comprendere la cultura dell'uomo, che è la sua specifica natura[8].

Da pastore Esiodo ignorava di aver a che fare con simboli, credendo che la sua pancia e le sue pecore fossero la sola vera realtà, ma le Muse gli impongono di seguirle, e gli conferiscono il dono più bello, loro che hanno lingue sciolte, e parole dolci come il miele. Imposizione e dono, il mito, come parola e come racconto, rendono meravigliosamente e irrimediabilmente incerta la comunicazione tra uomini. Leggiamo ancora von Humboldt:

 

Gli uomini s'intendono fra loro non per il fatto che si scambino realmente i simboli delle cose, e neppure per il fatto che si determinino l'un l'altro nel produrre esattamente e perfettamente lo stesso concetto, ma per il fatto che reciprocamente toccano l'uno nell'altro lo stesso anello della catena delle loro rappresentazioni sensibili e delle loro produzioni concettuali, battono gli stessi tasti del loro strumento spirituale, e in conseguenza di ciò scaturiscono allora in ciascuno concetti corrispondenti, ma che non sono gli stessi. ...Se ...in questa maniera vengono toccati l'anello della catena, il tasto dello strumento, vibra allora tutto il complesso, e ciò che scaturisce dall'anima come concetto si trova in accordo con tutto quello che circonda il singolo anello fino alla più remota lontananza (Ivi, p. 122).

 Arrivano fino a noi, le parole imposte e donate a Esiodo dalle Muse, che facevano risuonare la terra coi loro passi leggeri quando si recavano dal padre Zeus, e colmavano la notte di canti danzando avvolte nella nebbia:

                         ὃ δ᾽ ὄλβιος, ὅν τινα Μοῦσαι
φίλωνται· γλυκερή οἱ ἀπὸ στόματος ῥέει αὐδή.
εἰ γάρ τις καὶ πένθος ἔχων νεοκηδέι θυμῷ
ἄζηται κραδίην ἀκαχήμενος, αὐτὰρ ἀοιδὸς
Μουσάων θεράπων κλέεα προτέρων ἀνθρώπων
ὑμνήσῃ μάκαράς τε θεούς, οἳ Ὄλυμπον ἔχουσιν,
αἶψ᾽ ὅ γε δυσφροσυνέων ἐπιλήθεται οὐδέ τι κηδέων
μέμνηται· ταχέως δὲ παρέτραπε δῶρα θεάων.
Χαίρετε, τέκνα Διός, δότε δ᾽ ἱμερόεσσαν ἀοιδήν.
κλείετε δ᾽ ἀθανάτων ἱερὸν γένος αἰὲν ἐόντων,
οἳ Γῆς τ᾽ ἐξεγένοντο καὶ Οὐρανοῦ ἀστερόεντος,
Νυκτός τε δνοφερῆς, οὕς θ᾽ ἁλμυρὸς ἔτρεφε Πόντος.
εἴπατε δ᾽, ὡς τὰ πρῶτα θεοὶ καὶ γαῖα γένοντο
καὶ ποταμοὶ καὶ πόντος ἀπείριτος, οἴδματι θυίων,
ἄστρα τε λαμπετόωντα καὶ οὐρανὸς εὐρὺς ὕπερθεν
οἵ τ᾽ ἐκ τῶν ἐγένοντο θεοί, δωτῆρες ἐάων
ὥς τ᾽ ἄφενος δάσσαντο καὶ ὡς τιμὰς διέλοντο
ἠδὲ καὶ ὡς τὰ πρῶτα πολύπτυχον ἔσχον Ὄλυμπον.
ταῦτά μοι ἔσπετε Μοῦσαι, Ὀλύμπια δώματ᾽ ἔχουσαι  

........(vv. 96-113) [9]

 

 

 

 

4. Far credito alla storia dove sembra impossibile

 

La gioia e la disperazione, lo stallo e la trasformazione, riconoscersi o perdersi, l'incantesimo che fa diventare belli o brutti, non dipendono dalla natura illusoria del linguaggio, che Macbeth attribuiva ai demoni e alle streghe. La trasformazione si manifesta in una trama che sembra la stessa di una storia alla quale manca il lieto fine, come abbiamo visto nel capitolo VI, quando i protagonisti della fiaba di Bianco viso, anziché salire al trono e vivere per sempre felici e contenti, sono accomunati dalla morte prematura e violenta.

Noi non sappiamo nulla delle ragioni segrete di questa trama, tranne un punto che riguarda la posizione del soggetto: i protagonisti delle fiabe a lieto fine sono sempre pronti ad ascoltare, a chiedere aiuto, a offrirlo, a unirsi a qualcuno in un tratto del loro cammino. Questo fa una differenza essenziale, e appare come una disponibilità a giocare il proprio desiderio fino in fondo, che si articola e si intreccia con tutti gli elementi, di qualunque segno, che si presentano lungo la via. Le fanciulle delle fiabe non sono buone in senso moralistico: c'è la Bella Caterina di Nerucci, che vedendo i gattini maldestri nella cucina delle fate si mette a fare le faccende per loro, ma c'è anche la Cenerentola di Basile che rompe l'osso del collo alla matrigna. La Bella Caterina nella sua disperazione viene interrogata da un vecchio lungo la via, e gli narra la sua pena: quando il vecchio le chiede di pettinarla lei lo fa con cura, e quando lui le chiede cosa gli ha trovato fra i capelli, che sono pieni di pidocchi, lei risponde che ha visto oro e perle. "E oro e perle avrai", le annuncia il vecchio, che da bisognoso diventa aiutante (cit., p. 40). Ma con la stessa leggerezza, per avere il sangue necessario a completare l'unguento che  potrà salvare dalla morte il suo principe, una fanciulla di Basile non esita a dare una bastonata alla volpe parlante che l'ha accompagnata per praticarle un bel salasso. Non comprende la fiaba chi legge in senso moralistico lo stile d'azione dei suoi protagonisti, guidati da un senso nella storia che si comprende solo riconoscendone i simboli. E i simboli sono articolazioni indispensabili della realtà psichica, non sostegni della morale, che compete solo alla coscienza.

I protagonisti delle fiabe quando hanno una pianta la coltivano, se devono servire lo fanno senza lamentarsi, sanno rinunciare a un tesoro inestimabile appena emerso da una caverna sotterranea senza esitare, e se è necessario uccidono l'animale parlante che li accompagna. Essi rappresentano l'azione che si dà seguendo il proprio desiderio, ma questa azione è caratterizzata da bordi sfrangiati, aperti al contatto con tutto ciò che si presenta, che comparendo nel racconto riguarda il soggetto. La loro traiettoria è diretta verso la meta, ma si struttura secondo continue deviazioni, percorsi imprevedibili, spirali, labirinti. Essi scelgono un sentiero come il fratello più piccolo di una fiaba antica, seguendo il canto dell' usignolo, o come il principe Ivan, che abbiamo già ricordato, che lanciò un gomitolo e ne seguì il filo. 

Dubitare della veridicità di ciò che vediamo e comprendiamo, vacillare nel momento stesso in cui sentiamo di pervenire a una certezza, mantenerci fedeli a una persona o a una ricerca ascoltando la voce che a tratti ci dice che non ne vale la pena, convincente come le ingannevoli voci delle streghe: questo caratterizza la posizione del soggetto che si trasforma nell'esperienza. Solo in questo percorso il soggetto sperimenta e arricchisce il Wirklichkeitsgefül, il sentimento della verità, di cui parla Freud, di regola ricordato nella nostra lingua come senso della realtà. Il sentimento della verità è una posizione del soggetto il cui desiderio ha i bordi aperti come quello dei protagonisti di fiaba, del soggetto la cui esperienza della propria soggettività cresce come la ricchezza delle sue relazioni con gli altri. Il senso di realtà spesso è equivocato con la convinzione di conoscere, ormai, la vera realtà, perché non ci si illude più sulla sua capacità di eludere e mettere in scacco il desiderio. Mentre il sentimento della verità non può che essere nella volontaria e involontaria trasformazione del soggetto che apprende dall'esperienza.

Andiamo a trovare in Shakespeare le parole per descrivere poeticamente questo concetto, che richiama l'incertezza, la vaghezza del senso della parola e del racconto, ma non la attribuisce al demone ingannatore. Nel Pericle principe di Tiro, di cui abbiamo parlato nel capitolo III a proposito dell'incesto, il protagonista affida alle acque la bara della giovane sposa morta di parto, e consegna la figlia neonata a una coppia amica in una città di mare. Dopo quindici anni torna a prenderla, ma i genitori ai quali l'ha affidata piangendo gli mostrano la sua tomba. Allora Pericle giura che vivrà per sempre nel lutto, senza più radersi, né lavarsi, né vestirsi d'altro che di sacco. Sua figlia Marina in realtà è stata rapita dai pirati e venduta al tenutario del bordello di Mitilene: grazie alla sua straordinaria capacità di raccontare la storia della propria vita, gli aspiranti clienti si impietosiscono, e le danno del denaro senza farla prostituire. In un giorno di festa approda a Mitilene la nave di Pericle, che giace sul letto in una tenda. Il governatore della città manda da lui Marina perché lo distolga dalla disperazione con i suoi racconti pieni di grazia, e quando lei gli dice che la storia della propria vita è forse ancora più dolorosa di quella di lui, Pericle la prega di raccontarla, e Marina esprime la sua esitazione: 

 

If I should tell my history, it would seem

like lies, disdain'd in the reporting

(A. V, Sc. 1)[10].

 

Marina non poteva avere la stessa fiducia delle Muse nell'arte del racconto, ma il padre le dice:

 

                             I will believe thee,

And make my senses credit thy relation

To points that seem impossible; for thou lookest

like one I lov'd indeed

(Ivi) [11].

 

Pericle, che ha pianto sulla sua tomba, non potrebbe credere al suo racconto, ma vuole darle darà credito proprio dove i suoi sensi lo troveranno impossibile, invece di giudicarlo una storia falsa. Marina somiglia alla madre, la sposa che Pericle ha composto nella bara: è il suo desiderio per quell'amore che, riconosciuto, gli consente di affrontare l'insostenibile vaghezza del senso. 

Mano a mano che Marina narra la sua vita, Pericle comincia a credere che si tratti di sua figlia, ma la differenza tra ciò che ha creduto vero e reale fino a quel punto e le parole di lei è tale che, come temendo di subire un inganno insopportabile, a un certo punto esclama:     

 

O, stop there a little!

[Aside] This is the rarest dream that e'er dull sleep

Did mock sad fools withal. This cannot be:

My daughter's buried. - Well, where were you bred?

I'll hear you more, to th' bottom of your story,

And never interrupt you

(Ivi)[12].

 

Un racconto a cui prestare credito proprio dove sembra impossibile, da ascoltare senza interromperlo fino alla fine: questa è la condizione di tolleranza della vaghezza del senso che sola permette la trasformazione. Così i nostri sogni notturni si presentano insensati, come se demoni o dei li mandassero per beffarci o per soccorrerci, fino a che la nostra coscienza non smette di combattere il carattere finzionale, artificiale o artistico, del linguaggio e del gioco delle figure. La natura artificiale, incerta, mai definitiva, del linguaggio, è il carattere della realtà psichica dell'uomo, e del suo mondo stesso come campo di esperienza e di conoscenza. Che viene travisata da chi pretende di descriverla come un ordine assoluto, pesabile e misurabile in ogni parte. Ma la comprensione di questa natura è altrettanto impossibile per chi creda che esista una chiave simbolica, allegorica, iniziatica, entrando in possesso della quale il mistero possa svelarsi. Occorre tollerare la vaghezza, l'erranza, l'incertezza, ma non riprodurle, come occorre cercare punti di chiarezza senza pretendere di fissarli per sempre.

 

 

 

 

5. Una magia lecita come mangiare

 

Quando ho intrapreso lo studio psicoanalitico della fiaba e del mito, ho seguito, come un filo, l'intuizione di una verità nel racconto e sul racconto. La mia meta, fornire una buona descrizione di questa verità evidente e inafferabile, non si è allontanata, ma io non mi sono avvicinata, pur camminando, e quello che ho scritto è semplicemente la descrizione di qualche tratto del mio errare. Ha richiamato dell'attenzione, ma mi piacerebbe che avesse suscitato in qualche lettore, per le risonanze imprevedibili del linguaggio, il desiderio di mettersi in cammino per conto proprio.

Concludendo questo saggio, non posso fare a meno di esprimere, scusandomi per la loro approssimazione, qualche parola sulla meta, sull'intuizione che traccia il sentiero della mia ricerca.

C'è nelle fiabe una geometria rigorosa, possibile da evocare, da commentare senza tradirla, ma impossibile da descrivere.

Mi è parso di trovare in certe nuove teorizzazioni delle scienze dure, come nella teoria delle catastrofi del matematico René Thom, dei modelli di descrizione preziosi, ma che non posso utilizzare, non essendo il caso di affrontare le difficoltà e le aporie di questa ricerca con temi e concetti embricati a terreni di lavoro, come la matematica, sui quali non so muovere un passo. Ma è qualcosa che secondo me René Thom ha in mente, ad esempio quando annota:

 

...La geometria euclidea classica si può considerare come una magia: al prezzo di una distorsione minima delle apparenze (il punto senza estensione, la retta senza spessore...), il linguaggio puramente formale della geometria descrive adeguatamente la realtà spaziale. In questo senso, si potrebbe dire che la geometria è una magia che ha successo. Mi piacerebbe enunciare la reciproca: ogni magia, nella misura in cui ha successo, non è necessariamente una geometria? (René Thom, Stabilità strutturale e morfogenesi, 1972, p. 15, nota 4)

 

Ho tentato diverse volte, con risultati sempre deludenti, di contribuire a questo enunciato a proposito della magia della fiaba, accostando certi elementi della teoria delle catastrofi con le azioni della fiaba, partendo dalle funzioni della morfologia rivisitate con le teorie psicoanalitiche[13]. Nell'ambito di scienze che fino a pochi decenni fa operavano fidando di dare descrizioni certe di fenomeni ripetibili e misurabili, sono entrati oggetti così complessi, come i quanti o gli infiniti, che impongono teorizzazioni nuove, e un nuovo linguaggio, che consenta l'elaborazione di nuovi modelli. Le discipline che si avvalgono del linguaggio comune a tutti, e non hanno, né possono avere, un lessico specialistico noto solo ai ricercatori, e condiviso da tutti loro, possono descrivere oggetti complessi, come la realtà psichica, ma non riescono a fondare un'epistemologia grazie alla quale sia possibile costruire un linguaggio specialistico che consenta loro di intendersi su qualcosa senza equivoci, di trovarsi d'accordo e di dissentire senza che ogni ulteriore teorizzazione implichi un'apparente distruzione e ricostruzione dell'edificio.

Occorrerebbe il concorso di molti ricercatori per sperare di procedere verso un'epistemologia rigorosa, che però non implichi un linguaggio specialistico privo della vaghezza del linguaggio verbale comune a tutti: ammesso che ne sia mai esistito uno, se non nell'autorevole e autoritaria affermazione di certi scienziati, questo lessico non avrebbe infatti alcuna probabilità di far avanzare la comprensione di oggetti complessi come la fiaba o il mito, che intendiamo come riflessi dell'infinita e vitale complessità della realtà psichica.

Ciò che si dovrebbe tentare di descrivere sono le costanti che in questa complessità è possibile cogliere: riuscire a dar conto della ragione rigorosa che rende possibile far diagnosi interpretando un sogno o un lapsus, la cui descrizione può risultare arida o apparire romanzesca, o addirittura una mistificazione. Descrivere come una geometria della mente, certo a più di tre o quattro dimensioni, come le costanti di un'equilibrio psichico e della sua perdita, come normalità e patologia siano pensabili secondo la diversa disposizione e proporzione delle stesse figure. Descrivere come una minima variazione permetta in certi momenti a un essere umano di riprendere il suo cammino esprimendo la sua unicità, o lo abbatta, chiudendolo nella follia.

Per ora le descrizioni migliori restano l'arte del racconto e della poesia. Come Pericle principe di Tiro non poteva credere alle sue orecchie, il re del Racconto d'inverno non può credere ai suoi occhi, quando, certo che la moglie è morta da molto tempo, e ammirandone una statua, la vede animarsi. Così esprime il desiderio che marca la sospensione della differenza tra inanimato e animato, tra morto e vivo, quel confine tra possibile e impossibile che costituisce l'insopportabile vaghezza nell'esperienza di ogni uomo:

 

If this is magic, let it be an art

Lawful as eating

(A. V, Sc. 3) [14].

 

Nella realtà psichica, rappresentata dai sogni notturni, dalle fiabe e dai miti, possiamo riconoscere questa potenza, apparentemente magica, della trasformazione. Ciò accade nell'esperienza di diagnosi e cura dello psicoanalista, e se descrivere come accade è difficile, non per questo è consentito rinunciarvi. Anche se non potesse mai portare a una descrizione che renda conto in maniera chiara e soddisfacente del processo al quale è dedicata, si potrebbe ricordare René Thom quando alla fine della sua opera che non vince la vaghezza scrive:

 

Una gran parte delle mie affermazioni riguardano pura speculazione; si potrà senza dubbio tacciarle di fantasticherie... Accetto tale qualifica; la fantasticheria non è forse la catastrofe virtuale con cui si inizia la conoscenza? Nel momento in cui tanti studiosi calcolano, in qualche parte del mondo, non è auspicabile che qualcuno, che lo può, sogni? (Thom, 1972, cit., pp. 366-367)

 

 

 

 

 

6. L'ultima scarpa

 

Chi pensa o sente che questa potenza opera secondo leggi geometriche, anche se non sa ancora descriverle, trova nella variegata costanza delle fiabe e dei miti una terra promettente. Anche quando coltivandola non si ottiene il frutto sperato, il raccolto non delude, e la vista è sublime. Si vola nel tempo e nello spazio, come nella propria intimità, per comprendere quanto sia vasta, ampia e articolata la realtà di ogni essere umano. Il volo è permesso perché le regole del gioco qui possono modificarsi come nel sogno, obbedendo a una costanza segreta.

Torniamo al tema del libro, a Cenerentola come figura della crescita femminile, che si dilata, si rappresenta in mille e una forma, e si sottrae al pensiero dell'uomo come della donna, perché incarnando e significando la vita che fugge, si occulta, e torna a fiorire, impone, perché il pensiero non arretri terrorizzato, di accogliere la vaghezza che allude al limite tra notte e giorno, vita e morte, inconscio e coscienza. Il sole è così potente e generoso che illumina e scalda persino, come dice il poema indiano Mahabarata, i suoi bestemmiatori, ma si perde nella notte: se non fosse per quella luce lieve della luna che rischiara le tenebre col suo riflesso.

Pensiamo alla somma dea Iside, che alla morte dello sposo fratello, Osiride, si traveste e si nasconde nel lutto, come Cenerentola, la sua piccola e grande parente di fiaba. Occultandosi si mette in cammino per ricercare il chiarore del dio Osiride, il sole, fino a quando non ne ricompone il corpo smembrato e perduto perché possa rinascere.

Le divinità che attraversano il buio, la notte, la morte, hanno un'irregolarità misteriosa, appartengono a un'area figurale dove possiamo riconoscere Cenerentola, Pelle d'Asino, Cordelia, con la loro alternanza di bellezza e bruttezza, la dea Iside che come lei si traveste nel lutto, Demetra che si occulta avendo perso la figlia, Kore. Dove possiamo riconoscere divinità maschili ma non solari, contrassegnate dallo smembramento e dall'estasi, come Dioniso. O come il dio fabbro Efesto, zoppicante da entrambi i lati: a lui e ai Ciclopi ai quali è legato con molteplici parentele gli dei devono la potenza del fuoco che si accende nel giorno come nella notte. Il fulmine è l'arma che consente a Zeus di regnare. Alle divinità che possono attraversare o abitare le tenebre senza smarrirsi, proprio grazie al loro movimento non diretto, ma vago, apparentemente incerto, errante, come il fabbro Efesto che zoppica da entrambi i lati, o come Prometeo il cui pensiero procede per angoli, serpeggiando (ankulomètes), gli uomini devono la potenza del fuoco, per illuminare le tenebre e forgiare i metalli.

Il lavoro del fingulus, del vasaio, che finge, dà forma con arte alla materia, e la modella secondo le necessità dell'uomo, rappresenta la cultura stessa, che vince le tenebre che ogni sera sconfiggono, irrimediabilmente, la luce del sole.

Nella dimora del Tempo del Cunto de li cunti solo il simbolo, nello stemma sulla porta, non è logorato, e la fanciulla quando entra toglie i contrappesi all'orologio e lo ferma: così il divoratore di città deve rivelarle come potranno tornare umani i suoi sette fratelli colombini. Una gola smisurata come la voracità del Tempo della fiaba è quella del lupo Fenrir, che in uno scenario di distruzione apocalittica salirà dalle tenebre per ingoiare tutto: se lo facesse il mondo non potrebbe rinascere dalle sue ceneri. Leggiamo la storia norrena scritta quasi mille anni fa:

 

Il lupo Fenrir giungerà con le fauci spalancate, la mascella superiore puntata contro il cielo e l'inferiore contro la terra, e le spalancherebbe ancor di più se ci fosse spazio bastante. Fuoco gli uscirà dagli occhi e dalle nari. Il lupo ingoierà Odhin, questa sarà la sua morte. Ma subito dopo Vidharr si volgerà e pianterà un piede sulla mascella del lupo - questo piede è calzato di una scarpa il cui materiale è stato raccolto attraverso tutti i tempi: sono i ritagli di cuoio che gli uomini taglian via dalle scarpe per l'alluce e per il tacco, perciò colui che vuol esser d'aiuto agli Asi deve gettar via questi ritagli. Con una mano egli afferra l'altra mascella del lupo e gli lacera le fauci, e questa sarà la morte del lupo (Snorri Sturlusen, Edda, 1975; p. 119).

Dopo che Odino è stato divorato dal lupo si fa avanti un dio la cui spinta parte dal passo, dal piede, che trae la sua presa irresistibile dalla calzatura: gli esseri umani che vogliono aiutare Vidharr a salvare il mondo non devono riutilizzare i pezzetti di cuoio che tolgono in corrispondenza dell'alluce e del tallone. Ciò che gli uomini nel loro lavoro scartano, rinunciando a riutilizzarlo, è il mezzo della salvezza di fronte alla gola smisurata.

Freud ha dato forma alla psicoanalisi analizzando il sogno, fino a quel punto considerato insignificante, si è occupato di sintomi come la paralisi isterica, che la medicina scartava perché non avevano un fondamento verificabile. Ha scritto sul lapsus, che nel linguaggio è la parte scartata, avendo intuito che con i mezzi della scienza che domina la realtà fissando certezze e ignorando le cose insopportabilmente vaghe non avrebbe proceduto nella comprensione e nella cura del dolore dei suoi pazienti nervosi. Ciò che fino a quel momento era scartato, inconscio, conteneva il segreto per una nuova forma di cura.

La psicoanalisi ha descritto in maniera definitiva la vaghezza del confine tra normalità e patologia. Una verità presente da tempi lontani, ma solo in forma iniziatica: gli alchimisti affermavano che la pietra filosofale, capace di trasformare in oro tutti i metalli, ha un aspetto vile e comune, e si trova nello sterco: in stercore invenitur.

La luna è nella cenere, per chi abbia la pazienza e l'arte di cercarla.



[1] State di buon animo, messere. I nostri svaghi sono finiti. Questi nostri attori, come vi ho già detto, erano tutti degli spiriti, e si sono dissolti in aria, in aria sottile. Così, come il non fondato edifizio di questa visione, si dissolveranno le torri, le cui cime toccano le nubi, i sontuosi palazzi, i solenni templi, lo stesso immenso globo e tutto ciò che esso contiene, e, al pari di questo incorporeo spettacolo svanito, non lasceranno dietro di sé la più piccola traccia. Noi siamo della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni, e la nostra breve vita è circondata da un sonno (Tutte le opere, cit., p. 1207).

 

[2]  Ora ascolta bene, bella figlia mia senza peccato, devi sapere che proprio in cima a quella montagna troverai una casa così vecchia che non è possibile ricordare quando fu costruita: le mura sono incrinate, le fondamenta fradice, le porte tarlate, i mobili ammuffiti e insomma qualsiasi cosa è consunta e a pezzi: da qua vedi colonne rotte, da là statue spezzate, non c'è niente altro di intero se non uno stemma inquartato sulla porta, dove vedrai un serpente che si morde la coda, un cervo, un corvo e una fenice. Appena entrata vedrai a terra lime sorde, seghe, falci e falcetti e cento e cento paiolini di cenere, con sopra scritti i nomi, come alberelli [ma probabilmente meglio albanelle] di speziale, dove si legge: Corinto, Sagunto, Cartagine, Troia e mille altre città andate a male, che conserva per ricordo delle sue imprese (Ivi, pp. 801-803).

 

[3]  Nettuno un giorno di biade sarà coperto / la materia rimane e la forma si perde.

 

[4]  Avrebbe dovuto morire più tardi / ci sarebbe stato il tempo per una parola come questa. / Domani, e domani, e domani, / striscia a piccoli passi giorno dopo giorno / fino all'ultima sillaba del tempo prescritto, / e tutti i nostri ieri hanno illuminato a dei folli la via / per la polvere della morte. Spegniti, breve candela! / La vita è solo un'ombra che cammina, un povero attore, / che nella sua ora si pavoneggia e si agita sulla scena, / e poi non si sente più; è una favola / narrata da un idiota, piena di rumore e di furia, / che non significa nulla.

 

[5]  Io batto nella mia risolutezza, e comincio / a dubitare degli equivoci del demonio / che mente come se fosse vero.

 

[6]  Nessuno mai più creda a questi demoni illusionisti / che ci menano per il naso in un doppio senso / che mantengono la parola della promessa al nostro orecchio / e la rompono alla nostra speranza!

 

[7]  Pastori campagnoli, mala genia, solo pancia / sappiamo raccontare molte storie false che sembrano vere / ma sappiamo anche, quando vogliamo, far sentire le storie vere.

 

[8]  Ritengo che la fiaba rappresenti la dimensione individuale della psiche, mentre il mito ne rappresenta la dimensione gruppale. Nelle fiabe è presente la maturazione psicologica in relazione alle figure familiari e la conseguente realizzazione del desiderio dell'unione felice con una persona dell'altro sesso, che implica l'uscita dalla situazione endogamica di partenza. Al centro del mito si trova invece il gruppo, più vasto della famiglia, sia clan, tribù o popolo, e ogni mito riguarda una trasformazione irreversibile considerata come un passaggio della civiltà, che caratterizza la storia del soggetto ma anche quella della sua comunità, intesa spesso come l'umanità intera. In questa dimensione gruppale il mito costituisce una figura di rispecchiamento per il gruppo umano, più o meno vasto: ma allo stesso tempo questa figura di rispecchiamento riflette la dimensione gruppale dell'individuo, il suo essere strutturato come un gruppo formato dalle sue figure genitoriali, o dai suoi oggetti interni buoni e cattivi, dalle parti in crescita intrecciate a quelle narcisistiche e conservatrici, ecc. Si veda a questo proposito W.R. Bion, Esperienze nei gruppi, 1971.

 

[9]  Felice chi è amato dalle Muse: / dolcemente dalla sua bocca scorre la voce, / e se qualcuno ha un dolore che gli opprime l'anima, / e gli dissecca il cuore, appena il poeta, alunno delle Muse, / canta lo splendore dei primi uomini e degli dei beati dell'Olimpo, / si dissolve la sua angoscia, passa qualunque dolore: / in un istante il dono delle Muse divine ha allontanato la pena; / voi, figlie benedette di Zeus, donatemi il bellissimo canto, / cantate la gloria della nascita sacra degli immortali, / generati dalla Terra e dal Cielo stellato, / narrate della Notte tenebrosa, di chi nutrì il Mare salato...

 

[10]  Se narrassi la mia storia, sembrerebbe / una bugia, che si disprezza appena è raccontata.

 

[11]  Ti credo, e costringerò i miei sensi a credere al tuo racconto anche dove appaia inverosimile, perché tu somigli a una che veramente amai (Tutte le opere, cit., p. 1110).

 

[12]  Oh, fermatevi un momento. [A parte] Questo è il sogno più strano con cui il pesante sonno abbia mai beffato un triste pazzo; non può essere. Mia figlia è sepolta. Ebbene, dove foste allevata? Vi starò ancora a sentire fino al fondo della vostra storia, e non v'interromperò mai. (Ivi)

 

[13]  René Thom accosta alle catastrofi elementari, rappresentate da una funzione e da una figura geometrica, un'interpretazione spaziale, ossia un sostantivo, e un'interpretazione temporale, un verbo, nella sua accezione costruttiva e distruttiva. Questa doppia connotazione temporale, o doppia azione, collegata alla catastrofe come cambiamento di stato, dà conto dell'ambivalenza che caratterizza l'inconscio, richiamando insieme gli archetipi junghiani, con le loro polarità opposte e complementari (vedi la Tavola delle catastrofi elementari, in René Thom, Modelli matematici della morfogenesi, 1980, p. 200-201). Per suggerire qualche possibile accostamento, si possono osservare, fra le catastrofi elementari, e le relative morfologie archetipiche proposte da Thom, la farfalla e il fungo.

La farfalla (centro organizzatore: V = x6; dispiegamento universale: V = x6+ux4+vx3+wx2+tx), ha come sostantivi la tasca e la squama, e come verbi

desquamarsi, esfoliarsi, per la valenza distruttiva, donare, ricevere, per la valenza costruttiva. Non è difficile pensare alla XIV funzione di Propp, designata dalla lettera Z, relativa alla fornitura, al conseguimento del mezzo magico (vedi: Vladimir Ja. Propp, 1966; p. 49).

Il fungo, ombelico parabolico, (centro organizzatore: V = x2y + y4; dispiegamento universale: V = x2y + y4 + wx2 + ty2 - ux - vy), ha come sostantivi il getto (d'acqua), il fungo, la bocca, e come  verbi infrangersi, espellere, forare, tagliare per la valenza distruttiva, mentre ha legare, aprire, chiudere (la bocca) per la valenza cotruttiva. A questa catastrofe possiamo accostare le due funzioni accoppiate XXV e XXVI (C e A), relative alla proposta o imposizione di un compito difficile, e al suo adempimento (Ivi, pp. 65-66).

 

[14]  Se questa è magia, vorrei che fosse un'arte, / lecita come mangiare.

 

Bibliografia

BIBLIOGRAFIA

 

Avvertenze.

Tutte le traduzioni che non recano in calce alcuna indicazione sono dell'A.

I testi dei bambini sono citati con asoluta fedeltà, e provengono da originali in mio possesso.

 

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Ultima revisione 4 novembre 2018
Il bambino nato nel tempo di questo libro è maggiorenne al tempo di questa revisione.
Ringrazio ancora Faeti, perché solo ora capisco quanto ha creduto nel mio libro,
certo più di quanto ci credessi io stessa, pur amando il mio progetto tanto da dedicare
passione e tempo perché si incartasse - le anime si incarnano, i libri si incartano.

ultima revisione 3 ottobre 2022