ADALINDA GASPARINI
PSICOANALISI E FAVOLE |
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Cinerem ne vilipendas nam ipse est diadema cordis tui. (Morienus) INDICE Parzialmente disponibile anche su Amazon |
Ringraziamenti |
Ringrazio
tutte le persone che per casi differenti
hanno partecipato, volontariamente o
involontariamente, a questo libro: per
l'aiuto che mi hanno dato nella
comprensione della fiaba, Silvana
Caluori e Sebastiano Tilli, colleghi
dell' 'Istituto per la ricerca in
psicoanalisi Gradiva', di
Firenze; per le rappresentazioni che mi hanno
portato nel lavoro clinico, di cui solo loro
riconosceranno le tracce, i miei pazienti; per
la sensibilità e l'interesse, gli insegnanti
delle scuole materne, elementari e medie, che
hanno partecipato ai miei corsi di
aggiornamento, mi hanno ospitato nelle loro
classi, o hanno letto ai loro alunni le "mie"
fiabe antiche, a Firenze, a Città di Castello
(PG), a San Miniato e a Ponte a Egola (PI),
nelle province di Forlì e Rimini-Cesena, a
Longiano in particolare; per l'attenzione,
coloro che hanno partecipato ai seminari, alle
lezioni e alle conferenze nelle quali ho
anticipato qualche tema di questo libro,
all'Istituto Gradiva e altrove; per il
desiderio e la gioia con cui ascoltano e
narrano la fiaba antica, i bambini che ho
incontrato nelle scuole. |
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INDICE Cinderella vuota il mare 1. C'era una volta Cenerentola assassina 2. La madre, la morte, lo specchio 3. Il padre, l'incesto, la fuga 4. La cenere e il tempo 5. Dattero mio dorato 6. La fuggitiva 7. Il principe sensibile 8. L'insostenibile vaghezza del senso |
8
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Cinderella
vuota il mare. Prefazione di Antonio Faeti |
Questo
libro, tutto sapientemente collocato nell'ambito
del mito e in quello della fiaba, è tuttavia
dotato di una vibrante consapevolezza orwelliana.
E non c'è alcuna contraddizione, in questo
accostamento che può apparire tanto poco
giudizioso. Pur non insistendo molto su certi
pretesti, che oggi ci appaiono invece assillanti e
incontrollabili, la distopia orwelliana aveva
benissimo individuato una connessione tra il
potere occulto del Grande Fratello e spazi ben
poco riconoscibili come esplicitamente politici:
la sessualità, la cultura dell'eros, gli affetti,
il corteggiamento, la coppia. Oggi, nessuno può
negarlo, la cattura orwelliana dell'immaginario
non si rende violenta e assoluta nel guidare i
popoli verso oceaniche adunate, non crea
gagliardetti multimediali, non inventa fanfare con
il ritmo degli spot, ma si colloca interamente tra
divani, letti, tinelli, bagni, sale ovali,
stagiste, abiti macchiati, carezze carpite. Non è
più pensabile uno scontro proustiano tra
dreyfusardi e antidreyfusardi, però ci sono i
partigiani di Monica e quelli di Bill (nella
ironica tomba in cui riposa, la signora Verdurin
gongola e sussurra: ve lo avevo detto, lo sapevo
già...). Che cosa
è accaduto, davvero? Piano piano, nel corso di
decenni, certi media, come la televisione, i
grandi magazine popolari, il telefonino, internet,
le linee bollenti, le videocassette, la
pubblicità, le radunate di sette, le assunzioni in
cielo dei guru, le cubiste, le discoteche hanno
acquisito, in senso monopolistico, l'intera
gestione dei sentimenti, dei rapporti
interpersonali, di quelli di coppia, di quelli che
legano i figli ai genitori. Non si ha più una
fenomenologia di sentimenti fortemente dubitabili,
come la gelosia, per esempio, se ne ha invece una
subdola eternizzazione, e proprio mentre
l'antropologia culturale suscita cautele di cui i
guru e gli ayatollah multimediali non sanno certo
tener conto. La conduttrice, dalla sua cattedra
televisiva, urla che amore vuole dire gelosia,
come in un'antica canzone apparentemente
demenziale, ma forse autoironica, e orde di
liceali (italiani, cioè vittime dei nostri licei)
annuiscono. Basterebbe mostrare un servizietto su
quella ragazza tibetana che ha sposato otto
fratelli (contemporaneamente) per far capire come
certe canzoni e certe conduttrici dovrebbero
venire almeno diffidate. Del resto, leggendo le
cronache di un recente delitto si poteva scoprire
che perfino una laureata in architettura aveva
tratto lumi (poi rivelatisi catastrofici) dalla
trasmissione Stranamore. C'è come
una delega, generalizzata e collettiva, che
assegna alla pochezza dei media citati, o meglio
dei loro gestori, una specie di mandato coloniale,
di protettorato onirico, di controllo
imperialista, su temi da sempre al centro del
vivere umano, oggi collocati tra le futilità
spettacolari. Si sono
derise le cripte dei Cappuccini e quelle di
Superga, si ironizza su Sissi, su la Bella Rosina,
si parodizza Mayerling (lo fece per primo Benito
Mussolini), si carnevalizzano gli amori di
D'Annunzio, si mette in barzelletta Leopoldo del
Belgio, ma poi, coerentemente, inevitabilmente, si
crea la saga parabolica (non in senso biblico) e
satellitare, della Principessa del Popolo (del
popolo multimediale, ma non viene mai
specificato), che fa piangere in diretta e fa
vendere un po' di tutto, non certo solo i piselli.
Una delega, si è detto, una delega planetaria,
nata da un equivoco terribile, i cui esiti nefasti
sono già presenti tra noi. Si è detto che con
internet non sarebbe esistito il Vittorianesimo
(inteso, naturalmente, come dimensione culturale
complessiva, non come epifania dei pruriti
sessuofobici). E sembra poco, per caso? La delega
ha assunto misteriose connotazioni. Vent'anni fa,
un graffiante fumettista "di destra", Lauzier,
raccontò la storia di un gruppo di bambini figli
di genitori tutti appartenenti a una "Comune", di
quelle ancora in uso allora. Nelle loro segrete
riunioni i ragazzini si confidavano
vicendevolmente di temere un mostro assassino,
furioso, sanguinoso, implacabile, truce, che si
chiamava "la Società". I bambini spiavano i loro
genitori, li sentivano sempre dire, di tutto
quanto accadeva di triste, funesto, grave "che era
colpa della società" e ne avevano fatto un
indefinibile Babau. Oggi,
senza che qualche Lauzier sembri occuparsene, la
delega, che funziona senza controlli, e comunque
nel sonno della ragione, ha creato infiniti mostri
dello stesso tipo. L'equivoco a cui si alludeva,
naturalmente, è quello che colloca ai margini
l'eros, i sentimenti, i legami (ai margini
culturali, perché sono sempre, invece, al centro
di un'incolta, acritica, passiva, ossessiva
attenzione) e rende volgare, provvisorio,
banalizzante ogni tipo di approccio. Ecco,
allora, questo libro salvifico. Qui, la
quotidianità dei sentimenti, quella "bassa", delle
matrigne, dei padri incestuosi, delle divette che
vogliono sorgere dalla cenere e farsi incoronare a
Salsomaggiore, dei divetti che ora possono
mostrare i glutei e il gel (nei capelli), a ricche
Crudelie poco occupate, qui la cronaca misteriosa
incline a far sorridere ma poi tinta di sangue,
ritrova un ordinamento concettuale, riprende il
timbro dell'ermeneutica, esce dal ghetto della
delega per ottenere il rilievo conoscitivo da cui
non si può prescindere. Il metodo
usato si rende palese attraverso una fittissima
rete di rimandi, di citazioni, di collegamenti, di
avventure interpretative. L'ansia del sottoscala,
il dramma del cuscino, la tragedia della trapunta,
qui ritrovano gli dei, quegli dei così litigiosi,
furfanti, bugiardi, tanto umani da ergersi come
insostituibili paradigmi. E con loro riappaiono
gli alleati del fiabesco: streghe, matrigne,
sorellastre, cassepanche, madie, regine,
guardiacaccia. Chi sono gli attori di questo
immenso teatro, qui sapientemente chiamati via via
alla ribalta? Questo è un libro mellifluo,
ossimorico, insinuante: costellato da archeologici
ritrovamenti, martellato di intuizioni in cui si
rincorrono la sapienza filologica e quella
psicanalitica, il libro (che cita Bettelheim con
affetto e rispetto) non è mai un libro "alla
Bettelheim", perché ritrova piuttosto il colto
garbo allusivo dei grandi secoli libertini, il
Seicento e il Settecento. Ossimorico
perché trova gli dei ma li riporta nella piazza
del mercato, da cui li cacciò monsignor vescovo
(praticava l'usura?), per imporre una catechesi
basata soprattutto sull'omissione, il libro
dialoga frequentemente con gli dei-bambini delle
scuole visitate dall'autrice. Sono loro che amano
Pelle d'Asino e le efferate esecuzioni delle
matrigne, sono loro che pongono immensi quesiti e
pretendono sublimi risposte, sono loro che ridono
della genitalità e mescolano i misteri della
nascita con quelli degli escrementi. Breviario
per spiriti liberi e libertini, questo libro
organizza la Resistenza contro l'oscuro signore di
Mordor, contro il Grande Fratello, contro il Mondo
Nuovo vibrante della scurrile melopea dei
telefonini ("Ma quanto bene mi vuoi?"). È da
leggere, è da usare, perché si rende antefatto
pedagogico e strumento didattico. Però, anche,
conforta. Quando guardiamo i nodi autostradali, le
periferie agoniche, i centri urbani lordati
dall'asfissia graffistica, a volte pensiamo di
avere smarrito tutto, di doverci rinchiudere, come
disperatamente fanno tanti vecchi, poveri negletti
clandestini, nella metropoli concentrazionaria dei
consumi. Il libro fa risplendere dorate radici che
ci confortano perché ci danno pienezza di
lontananza e validità del senso. Dai Miti
al Basile, da Shakespeare allo Straparola, dalla
Grecia all'Irlanda, il libro legge il messaggio
della fiaba e delle grandi narrazioni originarie,
tiene accanto a sé un sorridente Puer Aeternus, da
cui sollecita risposte che sono di oggi, che sono
di ieri. Nella
pedagogia dell'inattuale, che è sempre comunque
connessa con le fiabe e con il mito, si cercano le
ceneri, non per sprofondare, ma per ritrovare i
modi e i fini di una rinascita. Tutto quanto
determina la nostra mortifera quotidiana opacità,
può essere decifrato, illuminato, conosciuto. C'è il
grande espediente della comparazione. Il re amò
sua figlia: non fugga il padre terrorizzato
dall'inclemente bellezza di quella quattordicenne
che prima era la sua bambina, e ora lo turba e lo
disorienta. Colga il senso dei paradigmi, entri
nei meandri qui esplorati, chieda pure, a
un'eccelsa casistica, sia le cause di un tormento,
sia il comportamento da tenere per evitare il
disastro. Di libri
così colti e civili, un tempo si diceva, alla
svelta, che erano "politici". Perché non dirlo,
più meditatamente, anche oggi, mentre il verniano
"padrone del mondo" annusa sconsolato le mutande
su internet di una collaboratrice a termine? Nel
colloquio con le radici si fa come la Cinderella
disneyana (anche se nel libro il grande Walt è più
volte messo in castigo) ovvero si canta, si danza,
si dice che si può vuotare il mare e poi metterci
la luna, anche nel buio spionistico, nel mondo
diviso a metà di un dopoguerra repressivo e tetro. |
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Capitolo 1 |
C'ERA UNA VOLTA CENERENTOLA ASSASSINA Ma cosa può fare, dopo tutto, un bambino, se non inghiottire tutto quanto, e sperare un giorno di cavarne un senso? (Salman Rushdie) Essendo
una psicoanalista appassionata di fiabe, mi trovo
spesso a raccontarle nelle scuole, e poi chiedo ai
bambini di esprimere ciò che desiderano con un
disegno o scrivendo. Ogni volta che guardo i
disegni o le frasi dei bambini mi commuovo, perché
confermano l'importanza delle antiche fiabe,
liberando un sogno, descrivendo per la prima volta
un'angoscia o un terrore: in molti casi rivelano
una grande comprensione dei loro contenuti
profondi. Possiamo
considerare le fiabe come un tesoro inalterabile,
per quanto molti adulti, anche insegnanti o
pedagogisti, le trattino come un insieme di
oggetti di poco conto, come se prendessero
smeraldi per cocci di bottiglia, dipingendoli con
lo smalto o rompendoli per farli entrare in una
scatoletta. Nei
disegni e negli scritti dei bambini ho potuto
osservare i molteplici legami che si formano fra
la mente di chi ascolta e le figure della fiaba,
come se il mondo dopo la narrazione fosse un poco
cambiato: durante il racconto nasce qualcosa che
non era contenuto nel bambino e nemmeno nella
fiaba, essendosi generato da entrambi. Ritengo che
nessuna struttura narrativa e simbolica favorisca
questa generazione di nuove figure come la fiaba
antica. Una volta
un bambino di sette anni aveva sentito una fiaba
sudamericana nella quale il protagonista, un
bambino di nome Pau, faceva un lungo viaggio. Si
era anche trovato solo in un bosco, e aveva bevuto
l'acqua del ruscello: in quel momento aveva
sentito dei passi che
l'avevano turbato. Il bambino aveva disegnato Pau
chino sul ruscello, col bosco fitto alle sue
spalle. Tra lui e il bosco, un animale di media
grandezza, col corpo simile a un cane o a un
gatto, e la testa come una sfinge. Dato che la
fiaba passava a raccontare nuove avventure, in
nessuna delle quali c'era uno strano animale, e
non spiegava cosa aveva spaventato Pau, non capivo
il disegno, così girai il foglio e lessi:
Io ho fatto questo disegno per sapere di chi
erano quei passi Giocando
con le immagini e i raccordi narrativi della fiaba
il bambino aveva fatto uscire dal suo proprio
bosco, che era lo stesso bosco di Pau, un suo
animale. Racconto
fiabe antiche, scritte prima che si pensasse che
servivano a educare i bambini, quando gli adulti
non consideravano la magia e i reami fantastici
con superiorità condiscendente. Una di queste
fiabe è Cenerentola, come si trova nella
prima e più bella raccolta di fiabe del mondo, il
Cunto de li cunti di Giambattista Basile
(1634-1636). Vi si racconta di una principessina
orfana di madre: il padre, che l'amava moltissimo,
si era però risposato con una donna che le dava
occhiatacce spaventose. La principessina se ne
lamentava sempre con la maestra di cucito, e
sospirava: "O dio, e non potisse essere tu la
mammarella mia, che me fai tante vruoccole e
cassesie?" (Cit., p. 124) [1]. Esperta
nell'arte di ricamare, sfilare, e intrecciare
trame e orditi, la maestra le espose un piano,
seguendo il quale il suo desiderio si sarebbe
realizzato, e la protagonista non esitò ad
attuarlo. Chiese alla matrigna di prenderle un
vecchio vestito drinto lo cascione granne de
lo retretto (ivi, p. 126), nella cassapanca
del ripostiglio, per rispamiare quello nuovo che
indossava, e quando le fu chiesto di reggere il
coperchio, obbedì. Mentre la matrigna era
spenzolata nella cassa a cercare la principessina
lasciò il coperchio, che battendo sul collo della
donna glielo ruppe. Dopo poco tempo prese a
insistere col padre perché si risposasse con la
maestra di cucito, e finalmente lo convinse. Ma
solo per pochi giorni si realizzò il suo desiderio
di avere una madre che l'accontentava in tutto:
presto la nuova matrigna portò in casa sei figlie
sue, e insieme a loro le tolse tutto ciò che
aveva, ogni
privilegio, anche la sua stanza, anche l'affetto
del padre. La principessina, abituata a una bella
camera e a un letto a baldacchino, dovette
adattarsi a lavorare come una serva, in cucina,
nel canto del fuoco, fra la cenere, tanto che
perse anche il suo nome e fu chiamata da allora Gatta
Cennerentola. Racconteremo
successivamente come continua la storia, e la
analizzeremo in profondità, per il momento
vogliamo osservare l'assassinio perpetrato da
Cenerentola, che nelle versioni correnti, in
particolare quella del film di Walt Disney (1950),
è impensabile. I bambini, di età dai sei ai
tredici anni, ai quali racconto questa versione,
non hanno mai mostrato stupore né hanno fatto
domande sul matricidio, c'è anzi un disegno a
colori tenui, di un'alunna di seconda media, nel
quale Cenerentola, somigliante alla bambina che
l'ha fatto, ha appena lasciato il coperchio, che
sta per rompere l'osso del collo alla matrigna
spenzolata nella cassapanca. Un
bambino della stessa età, abitualmente poco
diligente a scuola, ha fatto un disegno
straordinario. C'è un grande camino che occupa
quasi tutto il foglio, alla base del quale, che è
anche la parte più bassa del disegno, è distesa
Cenerentola, probabilmente addormentata, mentre
nell'angolo destro del caminetto la veglia un
gatto. Entrambe le figure sono contornate da una
linea che le racchiude isolandole, e il loro
sfondo è rosso, a contrasto con il nero del
camino. Questo sfondo con Cenerentola distesa
potrebbe ricordare una bara, e rappresenta
perfettamente la degradazione e il lutto, la
depressione di Cenerentola, che finirà solo quando
comincerà a uscire con abiti magici e
meravigliosi. Il particolare più commovente di
questo disegno è però l'abito dell'eroina tra la
cenere, stracciato, a toppe, come si racconta,
povero e trascurato: ma il bambino ha dipinto le
toppe di tutti i colori che aveva. La molteplicità
dei colori rivela una grande ricchezza psichica,
anche se per il momento l'identità del personaggio
è a pezzi, come la veste di Arlecchino. Nel cuore
della condizione degradata, nel sonno, o
nell'immobilità nella
bara, c'è una ricchezza, e preannuncia la crescita
e la trasformazione che la fiaba rappresenta come
in poesia. 2. Una bambina troppo
perfetta Tra le
mille e una Cenerentola sparse in tutto il mondo,
quella di Perrault è la più famosa, anche perché
ha ispirato il film di Walt Disney. Poco resta di
sporco o degradato in questa Cenerentola,
sottoposta a una matrigna, la donna più altezzosa
e arrogante del mondo, che ha due figlie
identiche a lei, pronte a maltrattare la
dolcissima sorellastra in ogni modo. Si
rappresenta in questa fiaba un'eroina tutta buona,
di una bontà che la rende vittima passiva. Quando
le sorellastre si preparano per il ballo del
figlio del re, si prendono gioco di lei
chiedendole se le piacerebbe andarci, e
chiamandola Cucendron, Culincenere,
la escludono. Ben diversa dalla protagonista di
Basile, questa Cenerentola subisce quasi
masochisticamente i soprusi, e dedica il suo
lavoro e il suo buon gusto a preparare le due
smorfiose per la festa. Alla matrigna più
arrogante fa da contrappunto la madre morta, che
era stata la donna migliore del mondo. La
perfetta bontà di Cenerentola corrisponde
all'immagine idealizzata con la quale
l'ascoltatore si difende dalle sue proprie
componenti aggressive, e la popolarità di questa
versione corrisponde all'educazione come troppo
spesso viene intesa da genitori e insegnanti: il
bambino viene sollecitato a rimuovere lo sporco,
le pulsioni aggressive, la gelosia, e solo se
corrisponde all'immagine ideale dei suoi educatori
ne merita l'affetto. In questo modo l'educazione
dei bambini, a casa e a scuola, incoraggia i
processi di rimozione degli aspetti perturbanti,
che non corrispondono agli ideali consensuali, e
rende impossibile un'articolazione della vita
interiore con la sua pregnanza affettiva, nella
quale sono intrecciate pulsioni distruttive e
pulsioni riparatorie. Rimuovendo le prime si
ottiene nella migliore delle ipotesi una
personalità nevrotica costruita attorno a un
ideale dell'io, perché le pulsioni distruttive
possono trasformarsi solo trovando un linguaggio,
un accesso alla coscienza, una modulazione
affettiva nella vita di relazione. Se la condanna
moralistica le chiude nel non sapere di sé,
formando una parte inaccettabile, oscura, della
personalità, anche gli aspetti costruttivi più
profondi, creativi, restano inibiti. In una
educazione idealizzante la persona può essere
adattata, non creativa, può accettare le norme
consensuali, non maturare un vero senso morale. Una
volta, raccontando fiabe antiche [2] in una prima media, ho
visto una bambina di prima media, grande e grossa,
che stava sempre accigliata in disparte. Finché un
giorno, proponendo la drammatizzazione di una
fiaba, cercavo chi venisse a fare la suocera
strega che vuol uccidere i bambini dai capelli
d'oro, e mentre nessuna bambina ne voleva sapere,
quella sempre accigliata si alzò, e facendo
spallucce disse: "La faccio io, tanto io sono
cattiva!". La
drammatizzazione riuscì per la bravura della
bambina cattiva: sembrava che avesse già
calcato le scene, mentre recitava per la prima
volta. In quella classe le drammatizzazioni
proseguirono con successo, e la bambina istruiva
le sue compagne. Da allora iniziò una
trasformazione positiva nel suo rapporto con la
classe e nel rendimento scolastico. Poter
esprimere la cattiveria, la malevolenza, l'odio, è
come avere un'arena in cui far correre i tori, o
un ring per il pugilato: col contenitore
appropriato, ogni aspetto psicologico può trovare
un canale espressivo e articolarsi in relazione
con gli altri e con la propria cultura. Se si
forma un contenitore adatto, un fattore
d'isolamento può diventare un fattore di
relazione: perché accada occorre ascoltare e
accogliere ciò che si presenta in una situazione,
non respingerlo senza dargli nome con un giudizio
moralistico. Chi si occupa di educazione può
chiedersi quante volte delle indicazioni, che
vengono fornite come psicologicamente corrette,
sono invece funzionali a questo moralismo e al
bisogno di dimenticare che i nostri affetti sono
ambivalenti. In quasi
tutti i libri di fiabe per bambini, come nel film
di Walt Disney, Cenerentola è una bambina ideale,
arrendevole e passiva: non osa nemmeno esprimere
un desiderio. Lo fa per lei la fata madrina,
impartendole anche le istruzioni sull'ora alla
quale deve lasciare il ballo. Vedremo
successivamente il significato delle volontarie
fughe di Cenerentola, delle sue trasformazioni
reversibili da elegante e splendente a sporca e
oscura: ma in Perrault e nelle versioni che ne
sono derivate la protagonista ha come sola
attività il pianto. Il giorno del ballo: ...le due sorelle partirono alla volta del palazzo reale e Cenerentola le seguì con gli occhi più a lungo che poté; poi, quando non le vide più, scoppiò a piangere. La sua madrina, venutala a trovare, la vide in un mare di lacrime e le domandò cos'avesse: - Io vorrei... vorrei... Piangeva così forte che non poteva continuare. La madrina, che era una fata, le disse: - Vorresti andare al ballo, non è vero? - Ahimè, sì, - disse Cenerentola con un sospiro. (I racconti di Mamma l'Oca, 1797,
p. 19) Come si
racconta di un'attività distruttiva, del
matricidio, nella versione di Basile si racconta
di quando Cenerentola riceve in dono un seme di
dattero e lo coltiva con amore mattina e sera,
zappandolo con una zappettina d'oro, annaffiandolo
con un secchiello d'oro, e asciugandolo con un
tovagliolo di seta. Il dattero diventa una palma
alta come una persona, e allora ne esce una fata
che chiede: "Che cosa desideri?". Scrive
Bruno Bettelheim: Eliminando l'albero e sostituendolo con una fata madrina che sbuca improvvisamente e inaspettatamente dal nulla, Perrault priva la storia di parte del suo più profondo significato (Il mondo incantato, 1976, p. 250). Se
Perrault avesse attinto al Cunto de li cunti
di Basile, eliminando come elemento perturbante e
inaccettabile la colpa di Cenerentola, il
matricidio, avrebbe così perduto anche il processo
di riparazione della figura materna che culmina
nella crescita della palma da dattero. La
maggioranza dei bambini ai quali racconto La
Gatta Cennerentola sceglie spontaneamente
di rappresentare questo albero, perché coglie il
simbolo centrale della storia, il punto di
trasformazione fondamentale al quale la versione
di Perrault rinuncia. Una volta
un bambino di seconda media ha disegnato la palma
al centro, con una figura femminile che esce
dall'albero come un'antica driade. Cenerentola
ancora mal vestita la guarda e nel suo fumetto si
legge: Vi ho annaffiato con il secchio...
Così il bambino ha riscritto quello che ricordava
della filastrocca di Basile, con la quale, in nome
delle cure che gli ha dedicato, Cenerentola
esprime il suo desiderio: Dattolo mio 'naurato, co la zappetella d'oro t'aggio zappato, co lo secchietiello d'oro t'aggio adacquato, co la tovaglia de seta t'aggio asciuttato, spoglia a te e vieste a me! (Basile, cit., p. 130) [3] Il
bambino ha disegnato una palma da dattero con otto
rami e quattro robuste radici, ai piedi
dell'albero si vedono gli strumenti per curarlo,
mentre alle spalle di Cenerentola una carrozza è
già pronta. Forse per una scarsa conoscenza
dell'antico mezzo di trasporto il bambino l'ha
raffigurata simile a una carrozzina per neonati,
che rimanda alla potenza generativa della
situazione magica. Anche i raggi delle ruote sono
otto, formando un mandala, simbolo del processo di
crescita[4]. La scena, di cui la
storia non dice in quale momento accada, è qui
rappresentata di notte: in cielo splendono una
falce di luna crescente, come Cenerentola
rappresentazione del femminile, e otto stelle. Il
potenziale di crescita di questo bambino si è
articolato con la fiaba antica, nella comprensione
intuitiva dei suoi simboli, permettendo la
rappresentazione di un bellissimo sogno di
trasformazione e di ricchezza: perché un sogno si
realizzi bisogna prima di tutto sognare, perché un
bambino abbia la forza di seguire i suoi desideri
migliori bisogna aiutarlo a raccontarli. 3. Una bambina
prigioniera nel buio La morte
della madre è una delle costanti essenziali nella
storia di Cenerentola: si racconta che era morta,
non se ne parla affatto, o si comincia proprio con
la sua morte. È il caso di Aschenputtel,
la Cenerentola dei Grimm, che pur essendo tutta
buona come quella di Perrault, si muove, come
vedremo, in una trama di maggiore ricchezza
simbolica e narrativa. Prima di
morire la madre chiamò la sua unica figlia e le
disse: "Bimba mia, sii sempre docile e buona, così il buon Dio ti aiuterà e io ti guarderò dal Cielo e ti sarò vicina". Poi chiuse gli occhi e morì. La fanciulla andava ogni giorno sulla tomba della madre, piangeva ed era sempre docile e buona (Grimm, Fiabe per i fanciulli e per la famiglia, 1812-1815, vol. I, p. 94). Con la
morte della madre si rappresenta la perdita della
buona madre, quella che è sempre pronta a
donare, ad accontentare, ad accogliere. Così si
introduce la necessità di crescere, di rinunciare
a una condizione di piena soddisfazione che viene
fantasticata come se fosse esistita nel passato,
per poi venire a mancare nel presente. Ognuno fa
esperienza, se non lo vive come condizione
permanente, di questo rimpianto per una situazione
o una persona collocata in un passato perduto,
morto, insieme alla quale si è perduto
irrimediabilmente il vero bene, la vera felicità.
Che si tratti della propria infanzia idealizzata,
di un amore finito, del Paradiso Terrestre o
dell'Età dell'Oro, il gioco consiste nel
preservare un bene perfetto dislocandolo nel
passato. In questo modo si può continuare a
credere alla sua esistenza, giustificandone la
mancanza di fatto, per sopportare la delusione e
la sofferenza presenti. La Gatta
Cennerentola di Basile uccide la prima
matrigna nell'illusione di ripristinare una
relazione perfetta con la madre, e così facendo
cade in una condizione ancora peggiore. Aschenputtel
invece piange ogni giorno sulla sua tomba, e
quando il padre si risposa con una donna dura
di cuore, le cui due figlie la maltrattano
riducendola a un'umile serva, continua ad essere docile
e buona. Come
ricorda Bruno Bettelheim, la perfetta bontà di
qualcuno è realistica quanto l'apparizione di una
fata madrina. Ma per quanto non realistica, la
sensazione di una perfetta bontà è vera
psicologicamente, come quella di un'assoluta
malvagità, attribuita a sé o all'altro. In questi
casi si subisce il dramma dell'ambivalenza, che è
alla base del nostro psichismo, ma che è
tollerabile solo quando la maturità affettiva
consente di modulare la vita di relazione e
l'ascolto della propria vita interiore. Due
bambini che litigano si attribuiranno
vicendevolmente la colpa di qualcosa, e se
passeranno a picchiarsi ciascuno dei due cercherà
di punire nell'altro la parte cattiva che espelle
da sé. È lo stesso meccanismo che causa l'odio
razziale: il male che non sopporto di riconoscere
in me è dislocato, proiettato, sull'altro, che
posso combattere, per ripristinare la situazione
buona che a causa della malvagità dell'altro è
stata perduta. Per quanto abbiamo esempi
antichissimi di una saggezza che sollecita a
prendere le distanze da questi stati d'animo
totalizzanti e distruttivi, continuiamo a essere
giocati dal bisogno di negare l'ambivalenza
perturbante che ci costituisce, e a distruggere
l'altro illudendoci di distruggere il male. Nel
processo di crescita il bambino vive grandi
difficoltà nell'adeguarsi ai modelli che gli
propongono i genitori e gli educatori in genere; a
volte non capisce, non può capire, cosa gli viene
chiesto, perché è troppo contraddittorio. Deve
tollerare stati d'animo in cui si sente
ingiustamente maltrattato, e altri stati d'animo
in cui si sente così sporco e crudele che crede
sua la colpa di una malattia grave, di un
incidente o della morte di un membro della
famiglia. La coppia di persecutore e perseguitato,
vittima e aguzzino, prima che all'esterno, tra due
persone reali, vive dentro di noi, come gioco
drammatico e potenzialmente tragico tra fantasmi
crudeli e fantasmi salvifici, tra figure
genitoriali positive e negative. Solo la maturità,
intesa qui come competenza affettiva all'ascolto
di sé e degli altri, consente di riconoscere
l'ambivalenza: di tollerarla, e di modularla,
facendone esperienza vera. La
perdita della madre, l'assenza della madre buona e
idealizzata, al posto della quale subentra, in
un'alternanza schizoide dalla quale nessuna
crescita è immune, una figura materna ostile,
invidiosa, crudele, inscena i due lati opposti
della figura materna. Cenerentola sarà ridotta a
una condizione sporca e degradata, tanto brutta da
non poter nemmeno uscire come le sue sorelle:
precipiterà nella condizione che il bambino
avverte come una minaccia che può annientarlo se
non riuscirà a capire e a costruire quello che il
mondo adulto si aspetta da lui. Nelle sue
diverse fasi e varianti, Cenerentola è
abbandonata, perseguitata o respinta da tutti,
vive nella cenere, o
in un pollaio, o coperta da una pelle d'asino che
la rende repellente. L'invisibilità della sua
bellezza, la perdita del suo stesso nome, allude a
una percezione di sé comune negli stati di tipo
depressivo: "nessuno si accorge di me, nessuno mi
vuole bene, nessuno si occupa di me, nessuno mi
vede". Per
uscire da questa condizione qualcosa deve
accadere: ma può bastare che la protagonista della
storia, il filo dell'identità con la quale si
attraversa la densità perturbante della vita,
ricordi un gesto che qualcuno ha fatto nei suoi
confronti, anche una sola volta, può bastare il
ricordo di uno sguardo diverso. Irrealistico e
vero quanto l'assoluta bontà o l'assoluta
cattiveria di qualcuno, può bastare un sogno al
quale si dia credito, per uscire dalla cenere. Le fiabe
non sono realistiche, ma sono vere, come sa bene
una bambina ripetente di prima media, che
preoccupava gli insegnanti perché non partecipava
ai giochi né ai discorsi dei compagni. La vedevo
a ogni incontro nel primo banco, immobile e
pallida, poco attraente:
se provavo a rivolgerle la parola, la vedevo
irrigidirsi ancora di più, con lo sguardo fisso e
spaventato, come se chiedesse solo di non essere
di nuovo sollecitata, come se affermasse con la
sua fissità un'incapacità a rispondere, a essere
nel gioco di tutti. Una volta avevo raccontato
nella sua classe la storia di una principessa, che
tre fratelli, ciascuno con una straordinaria
abilità, avevano liberato dalla torre in cui era
chiusa da chissà quanto tempo con un immenso
tesoro. Tornati alla casa del padre, i fratelli
avevano diviso in quattro parti il tesoro senza
litigare, ma arrivati alla bella prigioniera
ciascuno di loro e il padre avevano affermato che
il loro diritto ad averla era maggiore di quello
degli altri. L'autore della fiaba, Giovan
Francesco Straparola, scriveva quattrocento anni
fa che cominciarono a litigare, e neppure il
ricorso al giudice servì a trovare l'accordo: E furono fatte molte e lunghe dispute,
chi di loro meritasse di averla; e fino al presente
pende la causa sotto il giudice. A cui veramente
aspettar si debba, lasciolo giudicare a voi (Le
piacevoli notti, 1551-1553, vol. II, p. 60). Gli
alunni risposero con sorprendente entusiasmo alla
richiesta di dirimere la questione, c'era chi
preferiva uno dei fratelli, il più giovane, e chi
il più vecchio, un bambino poi disse che la bella
prigioniera doveva sposare il padre, così lui
guadagnava una moglie e i figli una mamma. Una
bambina a un certo punto osservò: "Secondo me
dovevano chiederlo a lei, perché non la facevano
scegliere?". Loro stessi osservarono che questa
principessa non parlava mai, e quando mi chiesero
perché rilanciai la domanda: "La fiaba non
lo dice, ma se la bella prigioniera non parla ci
dev'essere una ragione. Quale sarà?". Il mio intervento stava
finendo, e chiesi ai bambini di scrivermi le loro
risposte. Anche la bambina che restava immobile
senza parlare mi diede la sua ragione per tanto
silenzio: La pricepesa non parlo ma stando nel castello buio che non parla con nessuno. La
bambina diceva per la prima volta qualcosa sul
proprio silenzio, era prigioniera nel buio, e non
aveva nessuno con cui parlare, ma ora era pronta a
farlo, perché ci stavamo interrogando sul
misterioso silenzio della Bella prigioniera.
La mia emozione fu pari a quella di un filologo
che veda per la prima volta un documento in una
lingua fino ad allora inaccessibile, dove non può
venire in mente che si debbano correggere errori,
perché ci sono strumenti espressivi da
comprendere, e parole che nascondono e rivelano,
nel gioco che forma e trasforma di continuo ogni
lingua. L'anacoluto è fecondo come se lo usasse un
poeta: "la pricepesa non parlo", sta per: "la
principessa non parlò", ma grazie all'errore
permette alla bambina di dire allo stesso tempo:
"non parlo, io non parlo". La
bambina rivelava che il suo mutismo e l'isolamento
dipendevano dal fatto che si sentiva al buio da
tanto tempo, e in una frase cancellata si poteva
leggere ancora: Buio castello non pala con nessuno mon sapeva a chi dirlo la decisione... Anche la
bambina lasciata al buio, alla quale le
sollecitazioni ad aprirsi arrivavano
incomprensibili e minacciose, era una pricepesa,
una principessa, come tutte le sue compagne, e ora
diceva che avrebbe avuto qualcosa da dire, e
sapeva anche scegliere, solo che a nessuno era mai
interessato davvero chiederglielo, ascoltarla. Leggendo
queste composizioni dei bambini mi chiedo come sia
possibile che da una parte letterati sensibili
riconoscano vertigini di senso nella letteratura
sperimentale e nelle espressioni primitive o
popolari, ormai perdute, mentre a scuola si
continua come sempre a chiedere ai nostri piccoli,
che dovremmo aiutare a crescere, di rinunciare
alle loro parole, di considerarle errori, per
assumere parole e strutture sintattiche che
possono apparire estranee, specialmente se vivono
una marginalità culturale. Come psicoanalista
ipotizzo che la scissione tra la ricerca
linguistica e i modelli educativi applicati a
scuola nell'insegnamento della lingua riproduca la
rimozione dei bisogni affettivi dei bambini, e del
bambino che ciascuno di noi porta dentro. Per
quanto possa essere utopistico, credo sia
necessario esercitarsi a essere sensibili e colti
anche nei confronti del linguaggio di questi
bambini, che in certi casi sono solo spaventati.
Non si tratterebbe di fare una diagnosi, non in
quel contesto, né di descrivere clinicamente il
caso: molte difficoltà si scioglierebbero se il
contenitore in cui vivono tanto, la scuola, fosse
prima ricettivo che giudicante, se solo si
riuscisse a ricordare che nessun giudizio ha senso
se non è stato preceduto da un ascolto [5]. Come nel
caso della bambina che faceva le parti di cattiva,
perché tanto lei era cattiva, alla bambina
immobile e taciturna bastò questo ponte espressivo
gettato con la fiaba antica tra la sua difficoltà
e il resto della classe, per uscire
dall'isolamento. Tre incontri dopo questo, a
commento della drammatizzazione collettiva di una
fiaba, un suo compagno di classe scrisse: A me piace la fiaba mimata perché si può
capire meglio la fiaba e perché sembra che prenda
vita, mimandola ci possiamo divertire lavorando
insieme. Certe volte mi piace mimare perché mi
diverto e diverto i miei compagni, riempiendo l'aria
di allegria Nella sua
lingua un po' diversa, la bambina uscita dal buio
scriveva la stessa cosa: A me per le reciature sono belle quando si racontano ognuno la storia sono belle quando si scrivano ognuno dell'un alunno e spiega la storia e più si diverte che uno c'ià una sua penionione Le storie
dei bambini hanno la stessa intensità poetica
delle fiabe, e sono loro a farci vedere quale
forza di crescita si sprigiona se si realizza una
situazione di ascolto, e se in questa situazione,
come su un'aia d'estate, o intorno a un focolare,
ricreata con sensibilità e competenza nelle aule
prefabbricate di una scuola pubblica, anziché
rimpianta come perduta, si racconta una fiaba
antica. Ricordo a
questo proposito una storia della tradizione chassidica:
Un tempo il rabbi di una certa comunità, quando il suo popolo aveva un bisogno o un desiderio, si recava in un luogo sacro del bosco, accendeva il fuoco ritualmente, recitava una preghiera, e il desiderio veniva esaudito. Il rabbi, il maestro, della generazione successiva, aveva dimenticato la preghiera, ma quando ce n'era bisogno andava in quel luogo nel bosco, accendeva il fuoco, e diceva: "Signore, abbiamo dimenticato la preghiera, ma siamo venuti in questo luogo sacro, abbiamo acceso il fuoco, e ti preghiamo di esaudire egualmente il nostro desiderio", e veniva esaudito. Nella generazione successiva dimenticarono anche come si accendeva il fuoco, ma il rabbi andava nel bosco, e diceva: "Signore, noi non conosciamo più la preghiera, né come accendere il fuoco, ma siamo venuti in questo luogo sacro, e ti chiediamo di esaudire egualmente il nostro desiderio". Quando l'ultimo maestro doveva provvedere ai desideri e ai bisogni del suo popolo, si era perduta anche la via per giungere al luogo sacro nel bosco. Allora il maestro si sedeva nella sua stanza, e pregava così: "Noi non sappiamo più la preghiera, non conosciamo il rito per accendere il fuoco, e abbiamo smarrito il sentiero che porta al luogo sacro nel bosco. Tutto ciò che sappiamo fare è ricordare questa storia e raccontarla, e questo deve bastare". E i desideri della comunità venivano esauditi. 4. Una Cenerentola più
colorata Di tutte le varianti italiane della
famosa Cenerentola, la più colorata e mediterranea è
questa fiaba dei datteri, raccontata dalla grande
narratrice palermitana Agatuzza Messia. Non v'è
traccia, qui, del patetico moralismo della sorella
reietta come in Perrault e in Grimm, ma tutto
diventa un puro gioco di fantasie meravigliose
(Calvino, 1956, vol. II, p. 519). Così
Italo Calvino, nelle sue Fiabe italiane,
commenta brevemente Grattula Beddattula,
che fu raccolta da Giuseppe Pitré in Sicilia alla
fine del secolo scorso, e sembra derivare per più
aspetti dal Cunto de li cunti. Il simbolo
della pianta di dattero ad esempio, che soddisfa
il desiderio della protagonista, è comune a
entrambe: ma in Grattula Beddattula la
pianta arriva già cresciuta, in un vaso d'argento,
mentre la Gatta Cennerentola riceve un
seme da piantare e gli strumenti per coltivarlo. Una
versione simile a quella preferita da Calvino, per
la parte di viaggio interiore che rappresenta, è La
Cenerentola contenuta nella Novellaja
fiorentina di Vittorio Imbriani (1871). In
entrambi i casi il
motivo d'inizio è la partenza del padre con la
richiesta di doni, che sono vesti e gioielli per
le due sorelle, mentre la protagonista chiede l'Uccellin
Verdeliò.
Le sorelle con gli abiti e gli ornamenti
ricevuti in dono si recano al ballo, e
Cenerentola: ...quando le sono andate via, la va dall'uccellino: "Uccellin Verdeliò, fammi più bella ch'io non so' ". La vien vestita tutta di verdemare; ricamate tutte le qualità di pesci del mare e poi brillanti mescolati che non si pol credere... (Imbriani, cit., p. 153). Anche la
Cenerentola dei Grimm aveva chiesto al padre di
portarle un ramo, e dopo aver ricevuto il rametto
di nocciolo che gli aveva urtato il cappello sulla
via del ritorno: ...lo ringraziò, andò sulla tomba della madre, piantò il rametto e pianse tanto che le lagrime vi caddero sopra e l'annaffiarono. Il ramo crebbe e divenne una bella pianta. Cenerentola ci andava tre volte al giorno, piangeva e pregava, e ogni volta si posava sulla pianta un uccellino bianco... (Grimm, cit., ivi, p. 95). Nella
versione preferita da Calvino per l'assenza di
ogni patetico moralismo, il motivo
d'inizio non è la morte della madre, della quale
non si parla affatto, e non c'è alcuna matrigna,
né perfide sorellastre, al posto delle quali
Cenerentola ha due sorelle che cercano di
convincerla a prepararsi per andare con loro al
ballo del re. Quindi in questa variante non
compare il drammatico tema del confronto e della
separazione dalla madre, che invece apre la storia
della Gatta Cennerentola e di Aschenputtel,
continuando con le persecuzioni della matrigna e
delle sorellastre. Manca la rappresentazione del
conflitto per il quale Cenerentola è assassina o
piange tanto sulla tomba della madre. La
Cenerentola preferita da Calvino per i suoi colori
mediterranei, e per l'assenza di patetico
moralismo, comincia la sua storia quando
questo dramma ha già avuto luogo: è al di là della
storia. Come è fuori dalla trama della Cenerentola
rossiniana, Melodramma giocoso che
comincia con i preparativi per il ballo, e
rappresenta quindi solamente l'ultima sequenza
della vicenda. Certo una
fiaba non deriva il suo valore dalla complessità
della vicenda interiore che rappresenta, ma la
comprensione psicoanalitica non può condividere la
qualifica di patetico moralismo della sorella
reietta per il dramma di Cenerentola. Nella
variante che rappresenta prima di tutto la rottura
del legame schizoide e totalizzante con la madre,
la protagonista affronta una terrificante matassa
intricata di aggressività, abbandono, narcisismo,
depressione, e riesce nell'impresa difficilissima
di crescere. Una bambina che stia vivendo questo
conflitto con la figura materna, che può avere
un'espressione tragica nell'anoressia,
identificandosi con Cenerentola assassina e
reietta saprà nel racconto che c'è una possibile
soluzione, per quanto la sua distruttività la
faccia sentire indegna, incompresa e perseguitata.
Per lei il gioco brioso di Grattula Beddattula
e dell'Uccellin Verdeliò è un orizzonte
psichico ancora inaccessibile. Quando
l'educatore non tiene conto dell'ambivalenza e
delle pulsioni distruttive che sono presenti nel
bambino, non lo ascolta, e non può insegnargli a
modulare la sua vita affettiva. Noi non ascoltiamo
i bambini perché nessuno ci ha insegnato ad
ascoltarci, e li vogliamo convincere a ignorare,
rimuovere, i tratti più oscuri, che insieme a
quelli luminosi ci costituiscono, perché non
vediamo una strada per risolverli. Dimentichiamo
ciò che è tanto facile guardare tutto intorno a
noi: noi siamo come siamo, non come dovremmo
essere. Sappiamo che nella collera si peggiora una
relazione, ma questo non ci impedisce di perdere
le staffe, le perdiamo anzi in maniera più
pericolosa quanto più ci forziamo a non farlo.
Sappiamo che nessuna guerra ha mai risolto il
problema di un popolo, nemmeno quello del
vincitore, eppure continuiamo a farle. Sembra più
semplice negare l'esistenza delle difficoltà,
anziché affrontarle, imprigionandoci in un ideale
dell'Io che sostituisce all'esperienza un insieme
di regole morte. Dal
sapere psicoanalitico, che opera secondo questa
consapevolezza nel lavoro clinico, non si è
imparato nulla in campo pedagogico, e il risultato
è che i bambini sono incoraggiati e forzati a
modellarsi sui nostri ideali, non educati a
fidarsi della loro sensibilità e a imparare
dall'esperienza. Cerchiamo di cancellare dalla
coscienza gli impulsi distruttivi, come l'invidia
e la voracità, rimuovendone la rappresentazione
persino dalle fiabe, visto che non si trova un
libro per bambini in cui Cenerentola sia
assassina, e che pare a Italo Calvino un
patetico moralismo il lungo pianto di Aschenputtel,
mentre si tratta di un modo poetico, per quanto
comprensibilmente datato, di portare a espressione
il lutto e la sua successiva elaborazione. Non
accettiamo la parte di noi che non corrisponde a
un modello idealizzato e moralistico, di qualunque
segno, e poi ci
stupiamo delle esplosioni di violenza di bambini e
adolescenti. Dovremmo comprendere che si tratta di
aspetti scissi della loro personalità, che non
abbiamo certo aiutato a trasformarsi negando loro
nome e accesso alla coscienza. Considero
moralistica l'istanza pedagogica che rimuove dalle
fiabe le figure e le azioni perturbanti, con il
pretesto di liberare il bambino da fantasmi
paurosi o patetici del passato. Nella profondità
della psiche le regole non coincidono con quelle
della coscienza, somigliando piuttosto alla
varietà policentrica e indefinibile dei sogni e
delle fiabe. È perturbante accettare questa
verità, ma farlo apre una possibilità di ascolto,
di contatto con la verità propria e degli altri,
che, se non ha certezze, porta però a sentirsi in
cammino nella vita. E come nella fiaba, un seme di
dattero coltivato con amore e costanza, una
colombina bianca che insegna come rivolgersi alla
fata Colomba dell'isola di Sardegna, nella cenere
del focolare o su un ramo di nocciolo, contengono
una magia. Sono simboli, nuclei di senso che
nessun ragionamento può definire. 5. Come nelle fantasme Quando da
una scuola o da una biblioteca mi chiedono di
tenere una conferenza, se propongo come titolo C'era
una volta Cenerentola assassina, chiedono
di solito, se possibile, un titolo meno violento,
mentre i bambini, come abbiamo visto, non avendo
ancora un'identità del tutto strutturata secondo
norme consensuali e rigide idealizzazioni,
comprendono la fiaba in maniera eccellente. Quando
chiedono se non è pericoloso per il senso di
realtà dei bambini nutrirli di fiabe e miti pieni
di cose non realistiche, insegnanti e genitori
esprimono spesso preoccupazione per il loro
proprio equilibrio fondato sulla rimozione, non
per l'educazione dei bambini. Allo stesso modo a
volte mi chiedono se la psicoanalisi, che è uno
strumento per conoscersi in profondità, può
turbare l'equilibrio in maniera pericolosa. La
conoscenza di sé è il percorso che consente di
nominare gli oggetti psichici, non la magia
pericolosa che li crea: le realtà minacciose sono
interiori. Tanto
tempo fa, la prima volta che teneva un ciclo di
incontri con i bambini, fui sollecitata
dall'insegnante di classe, una seconda elementare,
a dire che i miti greci non erano veri. Un
genitore era venuto a lamentarsi perché la sua
bambina aveva affermato che nell'antica Grecia si
poteva nascere anche dalla testa o dalla coscia.
Ero tenuta a dire qualcosa, ma non avevo nessuna
intenzione di definire non veri fin dalla loro
nascita Atena e Dioniso. Allora
chiesi ai bambini se conoscevano il loro segno
zodiacale, e tutti in classe lo sapevano. Dopo
aver disegnato tanti punti sulla lavagna chiesi
ancora: "Avete mai visto il cielo stellato?" e,
siccome era nell'esperienza di tutti i bambini,
continuai: "Avete visto le stelle come tanti
puntini luminosi, così... ecco, molte migliaia di
anni prima di inventare la scrittura, gli uomini
guardando il cielo videro le costellazioni, che
possiamo disegnare così... alcune linee collegano
certe stelle, e formano una costellazione, come
quelle dello zodiaco, o come l'Orsa maggiore e
l'Orsa minore, con la Stella Polare nella coda,
che permette di orientarsi nel buio... Ecco: la
realtà di tutti i giorni, le cose che si vedono e
si toccano, uguali per tutti, sono come i puntini
luminosi, mentre le storie che raccontiamo, miti e
favole, sono come le linee che collegando i
puntini fra loro permettono di vedere le figure
nel cielo". Ma sono
gli adulti ad aver bisogno di certe spiegazioni,
non i bambini, basta leggere alcune cose che
scrivono spontaneamente dopo aver ascoltato una
fiaba, come questa bambina di seconda media: Secondo me questa fiaba sarà anche
fantastica, ma è bella, e mi piacerebbe molto che
invece di essere fantastica fosse vera. Mi è
piaciuta moltissimo. So superbenissimo che questa
fiaba è fantastica, ma vorrei essere una
protagonista. La
bambina che recitando i personaggi cattivi era
uscita dal suo isolamento, dopo l'ultimo incontro
mi scrisse una piccola lettera: Quando noi arriviamo al giovedì siamo
tutti contenti perché arriva lei e con le sue favole
entriamo in un mondo di gioia e di fantasia, e
quando bussano scoppia la mia fantasia e mi scoccia
molto. Chiudiamo la porta e io rimonto nella mia
nuvoletta multi colori per avviarmi nel mondo
fantasioso. Purtroppo la favola finisce e il mio
mondo e la nuvoletta diventano briciole che nel
corso dei giorni si ricompongono per un'altra fiaba
che parli di amicizia, e di fedeltà. È
difficile che un adulto, per quanto sensibile e
attento, raggiunga in un solo ciclo di incontri
sulla fiaba una comprensione così piena della sua
funzione: un gioco di relazioni e di simboli che
per un po' permettono alla mente di sciorinare
sogni e paure, come panni in un giorno di sole;
anche se viene interrotto bruscamente dalla
custode che bussa per chiamare l'insegnante, sa
riprendere quota, aereo. Il mio mondo e la
nuvoletta incantata
poi diventano briciole, scrive la bambina, e
pensiamo alle sue difficoltà da affrontare nella
vita quotidiana, fatta troppo spesso di ritmi
disarmonici, di fili spezzati, riflessioni
interrotte. È ben chiara per lei la differenza tra
il mondo della fiaba e del sogno e quello della
realtà di tutti i giorni, ma la cosa più bella
sono le briciole che restano quando la
fiaba è finita, simili ai semi che secondo
Bettelheim si
depositano nella mente del bambino. Briciole,
frammenti di cibo, che senza sforzo nel corso
dei giorni si ricompongono per un altra fiaba
che parli di amicizia, e di fedeltà. Il senso
di verità non coincide con il realismo di
un'esperienza, e ne è completamente separato se
s'intende per realtà qualcosa che
richiede di rimuovere il senso del sogno e del
desiderio. Cosa c'è di realistico in un
innamoramento? o in uno stato di depressione che
vede chiuso, bloccato da ogni parte, l'orizzonte
altrimenti vasto e aperto della vita? Acquisire il
senso della realtà comune a tutti, apprendere e
affinare un linguaggio che permetta di comunicare
e crescere insieme, richiede una lunga
frequentazione dei registri fantastici, onirici,
simbolici, sia personali che collettivi. Il nostro
tempo è il solo nella storia della cultura in cui
un bambino rischia di crescere senza alcun
nutrimento simbolico. Un'educazione che crede di
costruire il senso della realtà rimuovendo questi
registri non fa che rafforzare le serrature delle
stanze dove sono chiusi i nostri fantasmi,
dimenticando che le realtà incorporee si beffano
di qualunque serratura. Un realismo di questo tipo
porta a una visione del mondo più anti-scientifica
di quella dei miti o delle fiabe che vorrebbe
dimenticare come primitiva e infantile. Lo
comprende bene Italo Calvino quando spiega cosa lo
ha spinto a scrivere le Fiabe italiane: ...È che io credo questo: le fiabe sono
vere. Sono, prese tutte insieme, nella loro sempre
ripetuta e sempre varia casistica di vicende umane,
una spiegazione generale della vita, nata in tempi
remoti e serbata nel lento ruminio delle coscienze
contadine fino a noi; sono il catalogo dei destini
che possono darsi a un uomo e a una donna,
soprattutto nella parte di vita che appunto è il
farsi di un destino: la giovinezza, dalla nascita
che sovente porta in sé un auspicio o una condanna,
al distacco dalla casa, alle prove per diventare
adulto e poi maturo, per confermarsi come essere
umano (cit., vol. I, pp. 15-16) [6]. In campo
letterario è netta e insuperabile la definizione
di Marcel Proust a proposito del realismo nel
racconto: Quando
temono che ascoltando una fiaba i bambini si
aspettino di trovare l'orco alla fermata
dell'autobus, o il drago dalle sette teste nel
giardino zoologico, gli adulti esprimono il loro
realismo antiscientifico, come se entrassero in
rapporto con la realtà solo a patto di negare la
molteplicità di registri che sono sempre presenti
nella nostra mente, che vanno da quello più oscuro
del sogno notturno a quello della fantasia a occhi
aperti, senza la quale è difficile pensare al
formarsi di un desiderio e di un progetto. Non
riescono a vedere che nella fiaba stessa ci sono formule di entrata e di
uscita. C'era una volta, tanto tempo fa,
nell'ultimo dei reami... stretta la foglia larga
la via / dite la vostra che ho detto la mia...
si avverte che si entra in un reame particolare,
delimitando la fiaba, come addormentarsi e
svegliarsi delimita il sogno notturno. Tra i
personaggi fiabeschi che dedicano cure amorose a
un oggetto che dispiega in loro favore le sue
virtù magiche, c'è Adamantina, una bambina orfana
di madre come Cenerentola. Si racconta che
s'innamorò di una poavola[7], un bambola vista al
mercato, e per averla diede una libbra di filo,
tutto ciò che possedeva, anziché comprare il pane.
Per questo prese le botte dalla sorella maggiore,
ma non se ne lamentò: Venuta la sera, Adamantina, come le fanciullette fanno, tolse la poavola in braccio, ed andossene al fuoco; e preso dell'oglio della lucerna, le unse lo stomaco e le rene: indi, rivoltata in certi stracci ch'ella aveva, in letto la mise, ed indi a poco, andatosene a letto, appresso la poavola si coricò (Straparola, cit., vol. I, pp. 221-222).
Attraverso
molte peripezie la poavola rese Adamantina
ricca e poi sposa del re, proprio per le cure
amorose che le aveva dedicato. Adamantina e
Cenerentola, dopo aver perduto la madre, crescono
fino a diventare regine grazie alle cure che
dedicano a un seme o a una poavola: atto
che può apparire insignificante a una lettura
piatta e realistica, mentre simbolicamente
rappresenta l'esito positivo di un processo di
riparazione e di crescita. La bambola è per la
bambina ciò che lei stessa è per la madre: le cure
amorose che le dedica simbolizzano la
soddisfazione nella relazione con la madre. Il
seme è l'elemento che contiene, invisibile, la
nuova pianta, che nella terra germoglia e cresce
come il bambino nel seno della donna. La magia
segna una trasformazione psichica profonda, della
quale nessuna descrizione realistica può dar
conto, poi, quando la storia si è compiuta nelle
pagine del libro e nel gioco della fantasia, non
si parla più del dattero della fata Colomba, che
ha dato il suo aiuto nel momento della massima
difficoltà. La magia, il miracolo di cui parlano
le fiabe, consente trasformazioni che sembravano
impossibili, aiuta a riprendere un cammino che si
era bloccato, per povertà, per invidia, per
bruttezza, per sfortuna, poi non ce n'è più
bisogno, come raccontava
Straparola nella fiaba della bambola: La poavola, vedute le superbe nozze
dell'una e dell'altra sorella, ed il tutto aver
sortito salutifero fine, subito disparve. E che di
lei n'avenisse, mai non
si seppe novella alcuna. Ma giudico io che si
disfantasse, come nelle fantasme sempre avenir suole
(cit., vol. I, p. 226). [1]
O dio, e non avresti potuto essere tu
la mammetta mia, tu che mi fai tante carezze e
moine? (Ivi, p. 125) [2]
Per rendere accessibili a un pubblico
più ampio, e in particolare ai bambini, le
antiche fiabe italiane, ne ho scelte
venticinque dalle raccolte di Straparola e
Basile alle quali ho sempre attinto per i miei
racconti nelle scuole, trascrivendole in un
linguaggio facilmente comprensibile. La mia
raccolta (Le prime fiabe del mondo,
1996) include la prima versione a stampa di
fiabe rimaste celebri in altre versioni, come
il Gatto con gli stivali, Cenerentola,
La bella addormentata, e comprende in
equilibrio fiabe comiche e fiabe drammatiche,
con protagonisti maschili e femminili. Sono
state le mie esperienze nella scuola a indurmi
a preparare questa trascrizione di racconti,
scelti in modo da offrire un ampio ventaglio
di rappresentazioni dei temi e dei problemi
della crescita. [3]
Dattero mio dorato, / con la zappetta
d'oro t'ho zappato, / con il secchiello d'oro
t'ho bagnato, / con la tovaglia di seta t'ho
asciugato, / spoglia te e vesti me (Ivi, p.
131). [4]
Per il simbolismo del mandala e la
crescita come processo di individuazione,
vedi: Carl Gustav Jung, Gli archetipi
dell'inconscio collettivo (1934/1954). [5]
Sul lavoro psicoanalitico con la fiaba
nella scuola, vedi il mio saggio Re porco
e i bambini narratori; in: AA.VV.,
La crescita misconosciuta, Edizioni
ETS, Pisa 1997. [6]
A proposito dell'attribuzione della
fiaba alla cultura orale e contadina, occorre
prendere le distanze da uno schematismo che
impedisce di vedere come le fiabe si formino
secondo movimenti complessi, non solo di bocca
in bocca, ma anche di libro in libro, e, molto
più spesso di quanto non si creda, dalla carta
stampata alla tradizione orale, oltre che da
questa alla letteratura culta. [7]
Basile si ispirò a questa fiaba delle Piacevoli
notti per La papara (Basile,
pp. 888-895), che prende il posto della poavola
di Straparola. Non so se Basile ignorasse che
poavola significa bambola, e se
possa aver preso il termine bergamasco per il
nome di un uccello, come alzavola o poiana:
di fatto, per quello che fa col sedere del re,
una bambola di pezza è molto più plausibile di
un'oca. Ma la papera è stata abbastanza
fortunata da arrivare, attraverso l'Oca
d'oro dei Grimm, fino alle versioni
correnti (Grimm, cit., vol. II, pp. 19 sgg.).
Valga come esempio della ricchezza espressiva
delle fiabe, nelle quali anche il
fraintendimento è fecondo. |
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2. La madre, la morte, lo specchio |
LA MADRE, LA MORTE, LO
SPECCHIO Specchio, specchio delle mie brame, chi è la più
bella del reame? 1. La relazione
pericolosa Il
matricidio della Gatta Cennerentola è una
figura esplicita e perturbante della distruttività
tra madre e figlia, anche se riguarda ogni
relazione tra due esseri umani nella quale può
inscenarsi il conflitto intrapsichico tra il
fantasma materno e le possibilità creative e
generative del soggetto, maschile o femminile. Analizzeremo
la fiaba di Cenerentola nelle sue molteplici
varianti come un racconto di straordinaria
efficacia del dramma cruciale del femminile: la
crescita, la rottura delle identificazioni
infantili con i genitori, il lutto causato dalla
perdita del loro fantasma onnipotente, la
riparazione e la riscoperta di una figura materna
positiva, l'acquisizione di una identità femminile
eterosessuale ricca e complessa, l'incontro
esogamico con il maschile. Approdare a questa meta
è la massima aspirazione della donna, ma
completare il cammino che consente di realizzarla
è un raro dono della vita, che non coincide certo
con la scansione cronologica che lo vorrebbe
considerare compiuto all'età in cui di solito la
donna si sposa. La fiaba di Cenerentola è un
grande sogno collettivo che esistendo in tutto il
mondo attesta il desiderio, il bisogno, e la
penosa mancanza, di questa crescita. Stiamo
parlando di un femminile che non trae la sua
identità e la forza di vivere né dalla
riproduzione acritica della figura materna né
dalla fissazione alla figura paterna. Osserveremo
nella fiaba varie rappresentazioni della violenza
nella relazione madre-figlia, considerandole come
sogni collettivi dai quali la censura non ha
espulso l'elemento più perturbante[1]. xzxz In ogni
storia di Cenerentola la madre muore o è morta, e
il fatto che la protagonista non sia assassina
come quella di Basile significa solo che il
soggetto non mostra consapevolezza della sua
stessa distruttività, proprio come quando sognamo
che una persona cara muore: possiamo anche
soffrirne nel sogno, e disperarci, ma se il nostro
regista notturno ha messo in scena la sua morte,
vuol dire che la nostra aggressività nei confronti
di quella persona si manifesta. Si dice
comunemente che se si sogna che qualcuno è morto,
gli si allunga la vita, e credo che questo detto
abbia almeno due valenze: può equilibrare il senso
perturbante che la distruttività emersa, anche se
nel sogno, provoca, oppure può indicare che la
distruttività stessa, pur essendo emersa solo nel
sogno notturno, è meno pericolosa, perché è
pervenuta ad espressione. Intendiamo con
distruttività una componente aggressiva, della
quale nella vita di tutti i giorni possiamo
osservare le manifestazioni nel bambino piccolo,
che al genitore che non l'ha accontentato dice:
"sei brutto, va' via, non ti voglio più", o
nell'adulto alterato dalla collera che scaglia
maledizioni fatte di accidenti e morte per
l'antagonista. Quando la
madre buona è morta, la protagonista cade in balia
di una madre cattiva: percepisce così la figura
materna quando la parte generosa, accogliente, è
stata distrutta dall'invidia e dalla voracità.
L'alternanza tra la percezione di una madre tutta
buona e una madre tutta cattiva designa una
posizione schizoide, tanto più forte quanto più il
bambino è piccolo, ma ricorrente in condizioni di
scarso equilibrio psichico. Melanie Klein
definisce come posizione schizoide la fase in cui
il lattante passa senza soluzione di continuità da
un benessere legato alla sazietà, assoluto come il
paradiso, con una madre dal seno pieno che
dispensa latte a volontà, a un malessere disperato
legato alla fame, con una madre dal seno vuoto,
divorante come la fame stessa. Possiamo osservare
delle oscillazioni schizoidi nell'innamoramento
dell'adulto e nelle turbolenze dell'adolescenza, condizioni in cui si
riattivano con la massima intensità i fantasmi
infantili tenuti fino a quel momento sotto
controllo, quasi sotto chiave, dalla rimozione. L'adolescente
vede nei genitori, vissuti nell'infanzia come
onnipotenti, degli esseri incapaci e privi di
comprensione, che non fanno altro che ostacolare
la sua crescita. L'innamorato percepisce la
persona amata come la più bella e ricca del mondo,
ma se l'amore fallisce la descriverà come la più
crudele; oppure la posizione schizoide varrà come
aggressione verso se stessi anziché verso l'altro:
credendosi ricambiato l'innamorato si sente un re
e un probabile trionfatore, per sentirsi poi
abbandonato e malvisto dal mondo intero appena
crede di essere tradito o abbandonato. La madre,
colei che dà vita, latte, carezze, attenzione, al
neonato, quando la dipendenza dell'essere umano è
massima, è la matrice e il modello di tutte le
successive relazioni. Nel caso del maschio l'altro
sesso, da amare nella fase edipica e nell'età
adulta, resta quello della prima matrice, mentre
la relazione col proprio sesso, col padre,
riguarda l'identificazione: invece nel caso della
femmina il primo oggetto d'amore, la madre, è il
proprio sesso, al quale deve subentrare come
oggetto d'amore la figura maschile, il padre,
mentre la figura femminile deve costituire il
modello per l'identificazione. L'identità maschile
e l'identità femminile hanno percorsi diversi e
non paralleli, né speculari, a meno che non si
consideri la donna, come è accaduto anche in
psicoanalisi fino a Melanie Klein, come specchio
dell'uomo, e la sua psicologia come un gioco
centrato sulla mancanza del pene e la
rassegnazione a questa mancanza. Riteniamo che una
permanenza oltre certi limiti nella sfera di
questa relazione con la madre comporti per la
donna l'impossibilità di pervenire all'incontro
col diverso, con l'uomo, impedendole di
raggiungere l'eterosessualità esogamica, che la
fiaba rappresenta con le nozze regali. Non
parleremo di omosessualità femminile come della
scelta adulta di oggetti erotici del proprio
sesso, ma in un senso molto ampio, come della
tendenza a vivere e crescere esclusivamente o
prevalentemente in relazione con l'altra donna,
prima di tutto con la madre, poi con i suoi
sostituti, sia propizi, come le amiche del cuore,
sia persecutori, come le rivali in amore o le
suocere, che, per inciso, nelle fiabe svolgono le
stesse funzioni in rapporto alle protagoniste. Il
carattere di una psiche femminile può essere
prevalentemente omosessuale anche in presenza
della scelta di un oggetto d'amore maschile. La
donna continua spesso a rapportarsi all'altra,
simile a sé, più che all'altro da sé, al diverso,
all'uomo, anche se si sposa e ha figli. L'identità
sociale acquisita può essere solo un involucro,
più o meno fragile, che avvolge le caratteristiche
profonde della persona, nascondendole invece di
consentirne l'espressione, comprimendole con
meccanismi di rimozione e denegazione anziché
favorendo i processi di trasformazione senza i
quali non esiste crescita né gioco affettivo e
creativo della persona sulla scena della vita. La morte
della madre, intesa come rottura violenta
dell'identificazione simbiotica con la figura
materna, rappresenta un passaggio normale nella
crescita della donna. Se assumiamo il simbolo
delle nozze regali come figura della piena
identità eterosessuale ed esogamica, possiamo dire
con la fiaba: ogni volta che nella situazione
d'inizio la madre muore, la figlia, protagonista
della fiaba, dopo una serie di tappe e movimenti,
perviene all'identità regale. Quanto affermiamo
contrasta con l'immagine della madre eufemizzata
che la cultura propone, sempre disponibile,
accogliente, pronta a mettersi da parte per i
figli, sacra come la Madonna e priva di qualunque
pulsione egocentrica e distruttiva. L'affermazione
che nello sviluppo della donna l'uccisione,
l'eliminazione violenta, della figura materna,
costituisce un evento normale e necessario, suona
come aberrante e crudele, e turba, perché tocca
una corda che esiste in ciascuno di noi.
L'idealizzazione della madre serve proprio a
negare, per difenderci dall'angoscia che
comportano, le componenti distruttive che nella
relazione con la madre sono presenti: ma solo
confrontandoci con ciò che esistendo ci preme, e
se non ne siamo coscienti ci preme ancora di più,
possiamo cercare di trasformarlo nella relazione
viva con noi stessi e con coloro che incontriamo.
Possiamo pensare alla morte della madre, che apre
tutte le storie di Cenerentola, come alla caduta
delle foglie di un albero ad autunno, senza la
quale non ci sarebbero nuove foglie, e fiori e
frutti nella nuova stagione, o alla luna che
diminuisce il suo splendore fino a scomparire alla
vista, per poi ricrescere e tornare a illuminare
il cielo notturno. 2. La figlia più bella
della madre C'erano
una volta un re e una regina che avevano una
figlia, e la regina si ammalò gravemente. Quando
capì che era alla fine chiamò il marito affranto e
gli fece giurare che non si sarebbe risposato se
non avesse trovato una donna bella come lei. Ogni
volta che una fiaba comincia con questa morte e
con questo giuramento, accade che il re, dopo aver
pianto più o meno a lungo la sposa, si metta a
cercare senza successo una donna con quelle
caratteristiche. Intanto la principessa cresce, ed
essendo la sola donna al mondo come l'ha descritta
la madre e come la cerca il padre, il re vuole
sposarsela. Nella
raccolta di Perrault questa fiaba si intitola Pelle
d'Asino, ma è meno conosciuta delle altre:
il motivo esplicito dell'incesto ne ha causato
l'oblio, ed è improbabile che ne vedremo un
cartone animato della Disney. Come il matricidio
della Gatta Cennerentola, le nozze
incestuose volute dal padre rappresentano qualcosa
che esiste comunemente, ed è proprio la sua realtà
perturbante a provocarne la rimozione. Noi ci
indignamo e parliamo di criminalità e perversione
quando si verificano violenze eclatanti nella
famiglia, ma non vogliamo riconoscere la presenza
di questi temi in ogni relazione tra figli e
genitori. Freud, che teorizzò l'amore edipico come
stadio normale della crescita, preferì indagarlo
in un solo senso, dai figli verso i genitori,
lasciando da parte quello dei genitori verso i
figli, nonostante la cronaca ne attesti
continuamente la presenza. Se la rappresentazione
fiabesca di questi temi viene compresa anziché
rimossa, noi ci accorgiamo che il sogno collettivo
di Cenerentola o di Pelle d'Asino ci offre un
grande tesoro, perché insieme alla tensione
perturbante racconta la sua trasformazione. Non
c'è possibilità di contenere la patologia psichica
e di favorire la crescita se la rimozione che
guida l'educazione
non lascia spazio alla comprensione della realtà
affettiva. Riconoscere la realtà psichica schiude
la visione di una complessità che turba, ma
cercando di non vedere si gira a vuoto. Così
accade allo psicologo quando si comporta come
l'ubriaco che, avendo smarrito il suo orologio in
un vicolo buio, lo cercava sotto un lampione:
quando gli chiesero cosa mai sperasse di trovare,
si giustificò dicendo che quello era l'unico posto
illuminato. Ben
lontana dal luminoso cliché della madre che ama
con tutto il suo grande cuore e gioisce della
bellezza e della crescita della figlia, ma
preziosa per comprendere la tensione di questa
relazione, è una storia molisana, intitolata U
padre e a figlia: C'era 'na vota 'nu marito e 'na
mogliera: chessa mogliera era 'nu poco fanatica; a
mattina ieva sempe 'ncoppa a loggia, e quanno
passava u sole addimannava: Sole mio ritunno, Si àveto e si tunno E giri tutto lu munno; Ce sta 'na femmena chiù bella e me?
e u sole diceva: none! none! none! Tutti i juorni era sta storia, fintanto che asciva prena, se guastava de colore, e quanno iette 'ncoppa a loggia e dice: Sole mio ritunno ecc. ecc. u sole risponneva: sine! sine! sine! essa iette a chiagne a bascio, e d'a collera le venne a freve. U juorno appriesso, iva ncoppa a loggia pe addimannà a u sole: chi è sta femmena chiù bella di me? e u sole: è sta figlia che tieni in cuorpo. Chesta femmena nu ghievo chiù 'ncoppa a loggia, se mettive a chiagne into u lietto, fintanto che partoreva, e ne moreva (Gioielli, Fiabe, leggende e racconti popolari del Sannio, 1993, p. 406). Oggetto
magico con la stessa funzione di questo sole
molisano, ma molto più famoso, è lo specchio della
regina Grimilde, che comincia a perseguitare
Biancaneve quando la principessina la supera in
bellezza. In questo caso la figura materna
persecutoria blocca la crescita e la vita della
protagonista, che per un tempo indeterminato dovrà
giacere nella bara di cristallo come morta. Dello
stesso sonno simile alla morte cade vittima per
cento anni Rosaspina, e riteniamo che si tratti
anche qui di un conflitto col femminile. Di
invidia si parla a proposito della dodicesima
fata, quella che non era stata invitata al
battesimo, e che per questo aveva lanciato la sua
maledizione: "A quindici anni la principessa si
pungerà con un fuso e cadrà a terra morta". Bruno
Bettelheim interpreta il lungo sonno come
rappresentazione della passività che le ragazze
vivrebbero nel periodo della prima mestruazione, e
negli anni della pubertà in genere, e descrive
così il momento in cui la principessa si punge col
fuso: A questo punto la storia abbonda di simbolismo freudiano. Nell'avvicinarsi al luogo fatidico, la ragazza sale per una scala a chiocciola; nei sogni queste scale rappresentano in modo tipico delle esperienze sessuali. In cima a questa scala essa trova una porticina con una chiave infilata nella toppa della serratura. Girata la chiave, la porta "si apre di scatto", e la fanciulla entra in una stanza dove una vecchia è intenta a filare. Nei sogni una stanzetta chiusa a chiave rappresenta gli organi sessuali femminili; spesso l'atto di girare una chiave in una serratura simboleggia il rapporto sessuale. Quando vede la vecchia che fila, la ragazza le chiede: "Cos'è questa cosa che salta qua e là in modo così bizzarro?" Non ci vuole molta immaginazione per capire le possibili connotazioni sessuali della conocchia, ma non appena la ragazza la tocca si punge un dito, e cade addormentata (cit., p. 224). Certo la
Rosaspina dei Grimm analizzata
da Bettelheim è densa di simbolismo sessuale, ma
nonostante la forma del fuso, della conocchia, o
della resta di lino, presente nella versione
secentesca [2], riteniamo che la fiaba
non rappresenti una sorta di incontro prematuro
con l'altro sesso, che avrebbe effetti tanto
laceranti da far cadere la principessa in un sonno
simile alla morte, magari per un secolo intero.
Come Rosaspina anche Biancaneve appare morta, e
sarà il bacio del principe a svegliarla, ma per
lei nessuna forzatura interpretativa potrebbe
mostrare che la stasi come di morte è provocata da
un incontro con l'altro sesso. Se si considerano i
sette nani, parenti di antiche divinità
itifalliche, portatori di valori sessuali
maschili, dobbiamo osservare che l'incontro con
loro e la permanenza nella casetta nel bosco
proteggono Biancaneve dalla minaccia di morte che
la perseguita. I nani le consentono inoltre di
sperimentare una identità femminile senza rivali:
sono felici di tutto quello che per loro fa
Biancaneve, pulendo e cucinando, in attività che
designano la sfera del femminile. Nella loro
funzione maschile i nani riescono a sventare i
primi due attacchi della perfida matrigna: il
materno persecutorio nascosto dalla maschera
inoffensiva della vecchietta offre una stringa di
seta e un pettine. Biancaneve, nonostante i nani
l'abbiano ammonita a non aprire a nessuno in loro
assenza, li accetta: sono oggetti inerenti
l'identità femminile, e Biancaneve ha bisogno di
ottenere dalla figura materna elementi di identità
che le mancano e che non possono venirle dai nani.
I sette ometti del bosco riescono a individuare i
due oggetti, salvando Biancaneve dai veleni con i
quali la madre persecutoria ha inquinato questi
simboli dell'identità femminile. Ma sono impotenti
rispetto al terzo dono avvelenato: la mela. Mentre
il pettine e la stringa di seta riguardano
l'identità visibile della donna, la mela, il
frutto per eccellenza, chiama in campo il
nutrimento materno che è primariamente la madre
stessa. Di nuovo vediamo che Biancaneve è attratta
da un cibo che non trova dai nani: dalla madre
stessa. Solo il principe, e solo dopo un tempo nel
sonno simile alla morte, potrà liberarla. È
essenziale comprendere questo cibo avvelenato, che
rappresenta l'irrinunciabile nutrimento che viene
dalla madre ma che allo stesso tempo distrugge:
costituisce il fulcro della patologia più grave
nella quale si esprime il conflitto madre-figlia.
Nell'anoressia il bisogno di difendersi dalla
madre come cibo avvelenato si attua con un rifiuto
di tutto il cibo, che allo stesso tempo è rifiuto
del proprio corpo, della propria crescita, della
propria carne. La distruzione della madre come
rifiuto del cibo-madre coincide con la distruzione
di sé. Tornando
al fuso, alla conocchia o alla resta di lino che
fanno cadere in un secolo di sonno Rosaspina,
possiamo osservare che la maledizione viene da una
figura femminile invidiosa, la fata trascurata, e
interdice una sfera simbolica che può designare
l'intero femminile: filare e tessere. Non ci
sembra che il sonno simile alla morte di
Biancaneve e Rosaspina rappresenti la fase di
latenza relativa alla pubertà, né che l'oggetto
appuntito che lo provoca simbolizzi il fallo
maschile. Fuso o resta di lino, appartiene alla
sfera femminile, e preferiamo interpretarlo come
simbolo del carattere fallico femminile, presente
nel fantasma materno prima che esso sia delimitato
e contenuto dalla figura maschile. In queste fiabe
vediamo che il re padre opera questo contenimento,
proibendo la filatura nel suo reame, e l'effetto
della sua proibizione, come dell'esortazione dei
nani a Biancaneve a non accettare nessun dono,
riesce ad attenuare la distruttività materna. Alla
morte viene sostituito un sonno simile alla morte,
e la condanna di questa protagonista femminile non
resta senza appello. La
distruttività della figura materna è percepita
come onnipotente quando la figlia vive con la
madre un rapporto simbiotico, non articolato dalla
figura del padre. In questo caso la sua
possibilità di sposarsi e generare figli è
compromesso, a meno che non intervengano processi
di trasformazione che, come nella fiaba, sciolgono
la stretta totalizzante in cui il soggetto vive,
nella sfera dell'ambivalenza materna. Una
giovane paziente, che è venuta in analisi per
disturbi anoressico-bulimici, poco prima di
cominciare a nutrirsi normalmente ha sognato una
figura femminile, che assimilava a se stessa, immersa nell'acqua, in
una cassa di vetro, con molte corde che la
fissavano al fondo. Quando la donna cominciava a
crescere, come lievitando, le corde le tagliavano
la carne. Immersa
nel liquido materno, contenuta in una prigione
simile alla bara di cristallo di Biancaneve, la
donna si rappresenta la sua crescita come morte.
Può scegliere tra questa morte e il controllo del
proprio peso attraverso il cibo, divorato e
vomitato senza riferimento ad alcuno stimolo di
fame o sazietà. Il controllo del cibo e del peso
si è ritirato per lasciare il posto alla
percezione comune del desiderio di mangiare e di
smettere di mangiare solo quando la giovane donna
ha sperimentato la possibilità di discriminare
secondo il proprio desiderio cibo buono, da
assimilare, e cibo cattivo, da rifiutare. Questo
processo è avvenuto nel corso di un lungo lavoro
d'analisi, a proposito del cibo simbolico, ovvero
delle parole e delle rappresentazioni che trovano
nella situazione analitica una sorta di cucina
alchemica. Mi pare importante che si rifletta su
questo: un comportamento che si presenta al nostro
giudizio comune come distruttivo, fino alla morte,
costituisce per il soggetto un disperato tentativo
di evitare una morte certa, il
cui senso è inaccesibile al senso comune. Ogni
volta che si sollecita un'anoressica a nutrirsi le
chiediamo di annientare il suo essere, per
preservare il quale l'anoressia è la sola
strategia che ha elaborato. Quando
intervengo nelle scuole penso che se
nell'educazione si desse spazio all'ambivalenza
presente nella relazione madre-figlia si
attuerebbe almeno una forma di prevenzione: le
figlie forzate a non esprimere la loro
aggressività diverranno madri tanto timorose della
propria distruttività da non permettersi nemmeno
quelle espressioni di rifiuto dei figli che erano
usuali una o due generazioni fa, quando la madre
nell'ira minacciava: "T'ho fatto e ti disfò!". Forse non
è inutile precisare che non esiste una madre reale
che non dispensi almeno un po' di cibo buono, né
una figlia che non ne abbia ricevuta almeno una
piccola quantità: nessuna crescita, per quanto
parziale, sarebbe altrimenti possibile. Parliamo
di madre per designare una figura materna, un
fantasma psichico, che non coincide con la persona
concreta. La madre persecutoria e distruttiva è
fantasmatica, ed è totalizzante se non sono
accessibili le risorse che consentirebbero la
crescita; questa realtà psichica non è da imputare
alla madre anziché alla figlia, o viceversa: la
malattia è malattia della loro relazione. Di questa
relazione dolorosa raccontano le fiabe, i sogni
collettivi che noi tutti sognamo leggendo o
ascoltando storie antiche dalla semplicità solo
apparente, dove tutto sembra succedere secondo un
arbitrio bizzarro, mentre è mosso da bisogni
affettivi profondi, quasi sempre nascosti allo
sguardo. Le stesse fiabe raccontano come questi
drammi possono essere vissuti senza esserne
distrutti, e come attraversare i conflitti
peggiori possa permettere al soggetto, alla
protagonista, di crescere e trasformarsi fino
all'acquisizione di una sufficiente maturità. 3. Ciò che limita il
vero Quando lo
psicoanalista interpreta un sogno, tiene conto
degli altri sogni che quel paziente ha portato,
nel contesto dell'intero caso clinico, mentre
l'interpretazione psicoanalitica delle fiabe viene
troppo spesso condotta su una sola o su poche
varianti. Per quanto le interpretazioni possano
essere giuste, esse possono suscitare nel lettore
un senso di arbitrarietà così forte da portare al
rifiuto dell'interpretazione. Per questo procedo
tenendo conto di un ampio numero di versioni,
anche se in questa esposizione ne cito solo
alcune, che ho scelto perché sono le più diffuse,
e quindi le più rappresentative, come un sogno
notturno ricorrente. Quando, è il caso della
versione molisana di Pelle d'Asino, scelgo
un particolare inconsueto, è perché a partire da
questo posso approfondire l'interpretazione del
tipo più comune. Ogni
interpretazione di una fiaba o di un sogno può
risultare incompleta e lacunosa, se rispetta la
complessità polimorfa del suo oggetto d'indagine,
ma se lo psicoanalista si avvale di molte
versioni, comparandole, e tiene conto degli studi
sulla fiaba che sono stati condotti in diversi
ambiti disciplinari, può adoperarsi per ridurre
quel senso di arbitrarietà che rischia di far
dubitare del valore dell'interpretazione
psicoanalitica stessa. Non esiste altro strumento
che la psicoanalisi per individuare il senso
psicologico delle fiabe antiche, e restituire
visibilità a rappresentazioni collettive che
altrimenti rischiano di essere dimenticate, come
tesori dei quali per incompetenza si misconosce il
valore. Lo
psicoanalista che indaga nelle fiabe deve aprire
linee interpretative che, cogliendo il senso di
motivi apparentemente arbitrari, consentano una
maggiore comprensione di questi grandi sogni
collettivi. Così può offrire un contributo agli
studiosi di altre discipline, mentre in
psicoanalisi lo studio delle immagini simboliche
collettive costituisce da sempre un campo
d'osservazione che chiarifica e arricchisce le
teorie elaborate nel lavoro clinico. Come
nella scrittura di un caso clinico, esporre
un'interpretazione della fiaba è altro dal
procedimento d'indagine, che ha una complessità di
elementi, di rimandi, una scansione temporale
nelle scoperte e negli approfondimenti,
impossibile da rendere. Un testo psicoanalitico
sulla fiaba sarà un lavoro riuscito non tanto se
sarà fornito di rigore e competenza tali da
limitare le accuse di arbitrarietà e
unilateralità, ma se aprirà percorsi di conoscenza
che invitino altri a mettersi in cammino,
arricchendo il percorso di conoscenza proposto, o
aprendone di nuovi. Secondo
il matematico René Thom il vero non è limitato dal
falso, ma dall'insignificante: "Ce qui limite le
vrai, ce n'est pas le faux, c'est l'insignifiant"
(Predire n'est pas epliquer, 1991, p. 132)[3]. In
psicoanalisi la stessa cosa è espressa da Wilfred
R. Bion: "Per una interpretazione, ancora peggiore
che essere ingiusta o sbagliata è il fatto di non
riuscire ad essere significante, anche se essere
significante basta solo ad assicurarsi della sua
esistenza" (Attenzione e interpretazione,
1973, p. 108) La
ricerca non è l'acquisizione della certezza, ha
come figura il cammino in un'area di conoscenza,
non il suo dominio, mira a una descrizione
efficace, non a una definizione esaustiva. Per la
fiaba, come per ogni rappresentazione che
partecipa dell'inesauribile complessità della
realtà psichica, l'incertezza e l'erranza
partecipano del rigore. D'altra parte, per la meta
di un percorso di conoscenza come di un viaggio,
la sola condizione che esclude che la meta possa
essere raggiunta, è la disperante impressione che
non esistano strade. Il
lettore attento potrebbe essersi chiesto come mai
la trama di Pelle d'Asino, con la
richiesta incestuosa del padre, abbia come motivo
d'inizio sia una madre che muore chiedendo al re
di sposarsi solo con una donna come lei, sia una
madre che muore perché ha saputo che la figlia che
porta in seno la supererà in bellezza. Premettendo
che la risposta a questa domanda potrà completarsi
solo con l'analisi di tutto il sogno di
Cenerentola, incluso l'incontro col principe,
possiamo osservare che in entrambi i casi è
presentata una figlia che eguaglia e supera in
bellezza la propria madre. Ogni competizione fra
madre e figlia, sia che la fiaba metta in campo il
personaggio della madre, sia che ricorra a
sostituti, come matrigne, rivali, suocere o
streghe, è sufficiente a fornire un motore al
racconto, che deve procedere fino a una soluzione
del conflitto. Il cui esito perfino nelle fiabe
può essere letale, come accade nella storia Lo
viso di Basile (cit., pp. 500-517), dove
compaiono gli stessi elementi di cui stiamo
parlando - l'assenza della madre e una maledizione
analoga a quella di Rosaspina - senza però che la
trama consenta altro che la tragica morte dei
protagonisti. Riprenderemo questa storia più
avanti, per il momento diciamo solo che ci sono
anche fiabe senza lieto fine, di una tristezza
struggente. 4. Una relazione troppo
perfetta Proponiamo
a questo punto alcune osservazioni su un grande
mito, che descrive la relazione tra madre e figlia
nel suo sfondo simbolico più ampio, dando conto in
questa chiave della prosperità e dell'aridità
della terra madre. Nominate
dagli antichi come le grandi dee, o
semplicemente come le dee, Demetra e Kore
per i Greci, Cerere e Proserpina per i latini,
costituiscono un'unità, in cui i due aspetti del
femminile vivono un benessere senza tempo, al
quale corrisponde sulla terra una produzione
spontanea e abbondante di messi e frutti. La
fanciulla, Proserpina, vive con la madre
nell'isola di Sicilia dove eterna è la primavera,
e mentre raccoglie fiori in compagnia con altre
fanciulle il dio degli Inferi, Plutone, irrompe da
profondità oscure e sulfuree per rapirla. Leggiamo
Ovidio: ...Dea territa maesto et matrem et comites, sed matrem saepius, ore clamat, et, ut summa vestem laniarat ab ora, conlecti flores
tunicis cecidere remissis, tantaque
simplicitas puerilibus adfuit annis: haec quoque
virgineum movit iactura dolorem. Raptor agit
currus et nomine quemque vocando exhortatur equos, quorum per colla iubasque excutit obscura
tinctas ferrugine habenas, perque lacus
altos et olentia sulphure fertur stagna Palicorum rupta ferventia terra... (L. V, vv. 396-406) [4] Molte
figure evoca questa brusca rottura, presenti nei
sogni notturni in cui irrompe una figura maschile
oscura, come nei riti legati alle nozze connessi
alla deflorazione: la perdita dei gigli e degli
altri fiori raccolti da Proserpina rappresenta la
verginità violata. Nell'antica Roma quando gli
sposi dopo la cerimonia entravano nella stanza
nuziale venivano gettate per terra delle noci e il
loro rumore, con le grida dei fanciulli che le
raccoglievano, doveva coprire le grida della
vergine. Nei giorni in cui ogni violenza era
aggravata da un senso sacrilego, non poteva aver
luogo la cerimonia nuziale, come se la prima notte
fosse assimilata allo stupro. Il mito
delle grandi dee contiene il senso dell'incontro
della fanciulla con lo sposo come una violenza,
per la quale Proserpina viene strappata a Cerere:
si rappresenta l'incontro della figlia con l'altro
sesso come tragica rottura della loro beata
unione. Abbiamo
osservato nelle fiabe rappresentazioni della
relazione madre-figlia colme di distruttività, e
abbiamo accennato alla patologia dell'anoressia
come esito drammatico di questa violenza. Ma non
possiamo pensare che una violenza tanto grave
potrebbe permanere nel tempo, ed essere trasmessa
di madre in figlia, come in un gioco di scatole
cinesi che si alimenta da se stesso, se non fosse
connessa al bisogno di mantenere qualcosa di
vitale ed essenziale. Di madre
in figlia si trasmette il mistero e il potere di
dare alla luce nuovi esseri viventi, e la coppia
delle grandi dee trae la sua perfezione
dal fatto che include colei che genera e colei che
è generata, in un'identità talmente forte che la
madre dispone sempre della figlia, e la figlia
della madre. Cerere
reagisce alla perdita rendendo arida la terra
intera: nessuna messe, nessun frutto viene
generato, mentre va peregrinando in cerca di
Proserpina, tanto che la stirpe umana rischia di
scomparire. Quando la dea madre viene a sapere del
rapimento chiede giustizia a Giove, padre di
Proserpina, e il padre degli dei le risponde: Commune est pignus onusque nata mihi tecum; sed si modo nomina rebus addere vera placet, non hoc iniuria factum, verum amor est... (Ivi, vv. 523-526) [5]. Accosto
il sogno di un'altra mia paziente a questo
confronto tra maschile e femminile riguardo alla
perdita della verginità. La donna, nella realtà
già sposata e con un figlio, sogna di essere in
auto con un amico e col proprio nonno paterno, che
fumano allegramente il sigaro. Quando si accorge
che la sua gatta l'ha ferita nell'incavo di un
ginocchio, sanguinante a seconda della posizione
in cui tiene la gamba, la donna si preoccupa e
chiede di essere portata subito all'ospedale. I
due uomini però non le danno retta: il nonno si
volta verso di lei e le sorride ammiccante. Il
sanguinamento dietro al ginocchio rimanda al ciclo
mestruale: la sognatrice vuole essere portata
all'ospedale perché vive questa manifestazione
della sua femminilità come un grave rischio. Ciò
che la donna considera come una ferita pericolosa,
è riconosciuto dal maschile come una condizione
che non desta preoccupazione. Nel mito
viene espressa in termini cosmici la stessa realtà
psichica: quello che Cerere vive come una
disgrazia tanto grande che nel suo lutto impedisce
alla terra, cioè a se stessa, madre e matrice, di
dare frutti, per Giove è vero amore. Tra
gli innumerevoli contesti nei quali è attiva
questa separazione tra i sessi, prendiamo il più
comune: tra donne è frequente trovarsi in pieno
accordo nel parlare degli uomini, mariti e figli,
disprezzandoli o accusandoli, nella generazione
passata più che altro di insensibilità e
prepotenza, nella generazione attuale di debolezza
e irresponsabilità. In questo atteggiamento è
presente la tendenza della donna a permanere,
anche se solo con una parte di sé, in una
posizione omosessuale, come se il mondo femminile
avesse caratteristiche indiscutibilmente migliori
di quello maschile. Perché la
terra torni a dare frutti, a nutrire, perché si
ripari quella lacerazione del femminile provocata
dalla separazione fra madre e figlia, Giove
acconsente a che Proserpina torni con Cerere, a
patto che nella sua permanenza negli inferi non
abbia gustato nessun cibo. Ma nel regno dello
sposo la figlia ha colto e mangiato sette chicchi
di melagrana: l'unione senza tempo con la madre
non può quindi essere ripristinata. Proserpina
tornerà con la madre per una parte dell'anno,
mentre nell'altra parte vivrà con lo sposo come
regina degli inferi. Quando la coppia delle dee si
ricostituisce sulla terra la stagione è bella e
ricca di messi, mentre alla loro separazione segue
il tempo cattivo e la terra invernale non fa
crescere nulla. La
melagrana, composta di tanti frutti, piccoli
rubini che sono insieme altrettanti semi, è
simbolo universale di fecondità: Proserpina ha
gustato negli inferi il frutto che nella relazione
simbiotica con la madre non poteva assaporare. Non ci
sono nozze senza la rottura del legame con la
madre, e la rottura è comunque drammatica, perché
pone fine a un rapporto felice grazie al quale la
terra intera prosperava anche senza che l'uomo la
coltivasse. Il mito racconta che al termine della
vicenda delle dee gli uomini impararono dalla dea
madre l'arte di coltivare la terra: questo
rappresenta l'esito della rottura di una felicità
primaria, un'età dell'oro priva di fatica e
dolore, caratterizzata dalla stessa abbondanza del
paradiso nel quale il neonato sazio è cullato
dalla madre. Ma l'uomo che racconta si colloca
sempre in un'età successiva a questa, il benessere
assoluto appartiene a un passato o a un futuro
sempre fantasticati. La
fusione tra madre e figlia crea un tempo senza
tempo, senza stagioni che ne scandiscano il
passare: senza la crescita della figlia, che
diviene irreversibile col suo ratto, quando
diventa sposa, la bellezza della coppia si
alimenta dell'una e dell'altra. Il dramma comincia
quando la figlia cresce, quando accade il
distacco: come nelle fiabe la matrigna comincia a
odiare la figliastra che crescendo la supera in
bellezza. La crescita della figlia implica il
declino della bellezza materna, che sfiorisce,
perché se la figlia non crescesse, se non dovesse
separarsi dalla madre, la madre non invecchierebbe
mai. Riteniamo che la posta in gioco dei rapporti
fusionali tra madre figlia sia proprio questa: se
la figlia accetta di essere identica alla madre,
la madre rivive nella figlia, e a livello psichico
può evitare di rappresentarsi il suo
invecchiamento e la sua stessa morte. In questo
senso sarebbe comprensibile un motivo contenuto in
alcune versioni del mito di Cerere e Proserpina.
Nella sua peregrinazione luttuosa, la dea madre ... saeva vertentia glebas fregit aratra manu parilique irata colonos ruricolasque boves leto dedit arvaque iussit fallere depositum vitiataque semina fecit. (Ivi, vv. 477-480) [6] La
disperazione e la distruttività della grande dea
madre è assoluta, come il suo digiuno, fino
all'incontro con la vecchia Baubò, che per farla
ridere si alza le sottane mostrandole il grembo e
il sesso, la matrice della vita nella sua versione
appassita e ormai sterile. Il bambino presente a
questa scena corre subito a toccare corre subito a
toccare il grembo della vecchia, e muove al riso
Demetra[7]. La dea madre sembra
perdere la fissazione a una femminilità perfetta,
di cui la diade con la figlia è l'espressione, che
esclude il desiderio maschile.
Ridendo accetta la bevanda offerta: rompe
il digiuno e il lutto, scioglie il rigore, e apre
la scena a nuove vicende, che porteranno a una
soluzione del dramma. Qualcosa
di simile accade nella storia cornice del Cunto
de li cunti, dove il re padre di una
principessa che non ride mai, in lutto quindi,
quanto Cerere/Proserpina, fa costruire nella
piazza sotto il palazzo reale una fontana di olio.
Gli scivoloni di coloro che vanno ad attingere il
prezioso liquido però non bastano a far ridere la
principessa, fino a quando vede dalla finestra una
vecchia, che riempie piano piano n'agliariello,
il suo vasetto, con una spugna. Appena lo ha
colmato, un paggio lancia un sasso e gliela rompe,
provocando la sua collera e le sue coloritissime
invettive, alle quali lui risponde per le rime: "Non vuoi appilare ssa chiaveca, vava de parasacco, vommeca-vracciolle, affoca-peccerille, caca-pezzolle, cierne-vernacchie?". La vecchia, che se sentette la nova de la cassa soia, venne 'n tanta zirria che, perdenno la vusciola de la fremma e scapolanno da la stalla de la pacienza, auzato la tela de l'apparato fece vedere la scena voscareccia, dove potea dire Sirvio "Ite svegliano gli occhi col corno". Lo quale spettacolo visto da Zoza le venne tale riso c'appe ad ashevolire (Basile, cit., p. 12) [8]. A causa
della maledizione della vecchia, la protagonista
lascia il castello del padre per cercare il suo
principe, che dorme di un sonno simile alla morte,
e potrà risvegliarsi solo se una donna riempirà
per amor suo una fiasca di lacrime. Questo riso
della donna, che vale l'apertura alla vita, e
l'incontro con l'altro sesso, scaturisce dalla
visione del grembo vecchio, e del gioco infantile.
Questo riso è riso di vita perché la vita è tale
nella sua trasformazione, mentre la fissazione a
una sua immagine ideale la imprigiona, e cercando
di fermarla la perde. Vertigine
di giochi e di rimandi nelle fiabe, di fronte alla
quale dobbiamo rinunciare a interpretare: se ci
permettesimo una digressione sul sonno di questo
principe, parallelo a quello di Rosaspina, e
corrispondente alla mancanza di sorriso nella
principessa della sua fiaba, giungeremmo a
un'altra vertigine di mistero e di senso, a una
nuova analogia, che ci spingerebbe verso un'altra
digressione. Riprendiamo dunque il cammino
restando fedeli al filo d'Arianna della nostra
Cenerentola. 5. Che cos'è questa
fiaba Prima di
passare al motivo del padre nel grande sogno di
Cenerentola, Pelle d'Asino e Cordelia, credo di
dover esporre i confini o i cardini che considero
essenziali in tutte queste fiabe: - nella
situazione d'inizio la madre muore o è morta e il
padre è amoroso verso la figlia; -
nell'intreccio la protagonista attraversa una
degradazione e una trasfigurazione magica, con una
ripetuta alternanza tra splendore e oscurità; - alla
fine l'agnizione da parte del principe, attraverso
un simbolo dell'unione degli opposti, porta alle
nozze regali. [9] Ogni
schema è arbitrario, e per quanto poco si possano
esplicitare i criteri che hanno portato a
definirlo, si deve riconoscere che alla sua
origine c'è una scelta del ricercatore, fondata a
sua volta sulle scelte operate dagli studiosi ai
quali fa riferimento. Questo
lavoro, che parte da una concezione psicoanalitica
della fiaba, la analizza come rappresentazione di
aspirazioni, conflitti e trasformazioni profonde
comuni a tutti gli esseri umani, non specifici di
un'età piuttosto che di un'altra, né di un tempo o
di un luogo piuttosto che di altri. E procede
cercando un senso che restituisca a chi legge la
possibilità di mettersi in gioco di fronte al
racconto, lasciando che i suoi incantesimi, i suoi
crimini, il suo finale felice, creino una
risonanza con gli oggetti profondi corrispondenti.
Nelle sue
applicazioni con i bambini, la mia ricerca opera
in una direzione opposta alla rimozione, che si
esercita sulle fiabe privandole delle
rappresentazioni perturbanti, come il matricidio
di Cenerentola, o il desiderio incestuoso del re
di Pelle d'Asino. Si tratta della direzione
classica della psicoanalisi, che negli oggetti
rimossi per il loro portato perturbante riconosce
la presenza di un senso perduto per la coscienza,
che può arricchirla e guarirla. Se
riesce, il mio lavoro sulla fiaba di Cenerentola
lascerà molti dubbi sul suo vero significato, ma
conforterà l'intuizione che essa abbia un senso
profondo, e che valga la pena cercarlo.
Comprendere il senso delle fiabe costituisce un
ponte per ascoltare e rispettare il bambino, che
prima di tutti ne avverte l'incanto e la bellezza:
sia il bambino inteso letteralmente, che genitori
e insegnanti hanno il difficilissimo compito di
educare, sia il bambino che vive, muore, o
sopravvive in ogni adulto. Noi riserviamo alla
nostra parte bambina, quella che può crescere e
trasformarsi, senza il benessere della quale
nessuna espressione creativa è possibile, lo stesso trattamento
dei bambini: la forziamo a corrispondere a
idealizzazioni, a deformarsi in coazioni a
ripetere, soffochiamo il suo sentimento della vita
per confermare la bontà di un assetto della
coscienza teso al controllo, al dominio della
realtà. Il bambino cresce solo se può fare
esperienza, ascoltandosi e ascoltando il mondo,
perché non esiste matrice autentica del senso
della vita se non nell'intimità della propria
psiche. Troppo spesso noi mimiamo una crescita, e
ci mostriamo adulti uniformandoci a criteri
consensuali, mentre ciò che ci preme veramente,
anche contro la nostra volontà, sono ancora giochi
di bambini mai giocati completamente, mai
superati. Avvicinarsi col linguaggio a questa
matrice, che è signora dei sogni, dei sintomi,
degli umori, della patologia, richiede molto
lavoro e molto desiderio. Credo che le fiabe di
magia raccontino di questa ricerca, e che
l'incanto che si crea quando le ascoltiamo venga
dalla speranza che suscitano, di poter percorrere
il nostro cammino. Nella
fiaba di Cenerentola leggeremo un racconto di come
la donna possa crescere, abbandonare la madre e il
padre, elaborarne la perdita, ed essere pronta a
incontrare il principe, per ascendere al trono
insieme a lui. Sposarsi e regnare ha il
significato di un superamento trasformativo della
solitudine, dell'angoscia di essere indegni, e
dell'isolamento profondo che ne consegue. Nelle
fiabe le nozze regali vengono al termine del
cammino lungo il quale i protagonisti hanno
affrontato le figure genitoriali persecutorie,
attraversando metamorfosi negative e umilianti,
come la principessa nascosta dalla cenere, da una
veste di legno, o dalla pelle di una vecchia morta
a cent'anni. Vengono solo quando i simboli e il
gioco degli eventi hanno permesso di ritrovare,
con l'aiuto della Fata Colomba o del rametto di
nocciolo che ha urtato il cappello del padre,
relazioni costruttive con le stesse figure,
possibili solo se è stato operato un distacco
netto dall'identificazione primaria e
narcisistica. Le fiabe alla fine rappresentano un
incontro tra maschile e femminile di cui il
matrimonio inteso comunemente non è molto più che
l'ombra. Un'unione che prima di tutto vive nello
spazio intimo del cuore, che si apre solo quando
certi conflitti sono stati vissuti, non evitati. [1]
Per il concetto di perturbante,
si fa riferimento all'Unheimlich
freudiano; vedi: Sigmund Freud, Il
perturbante, 1919. [2]
E' la fiaba Sole, Luna e Talia
(Basile, cit., pp. 944-953). [3]
René Thom ci racconta di una cena con
Jacques Lacan, durante la quale a un certo
punto parlarono del matema: "...Je
ne sais pas très bien ce que c'était que le
'mathème'!... Et lui
n'a pratiquement rien dit. A la fin du
repas, j'ai utilisé une formule qui l'a fait
réagir. Je lui ai dit: "Ce qui limite le
vrai, ce n'est pas le faux, c'est
l'insignifiant". Il a alor pris un'air
songeur et il a dit: "Cela me retient, cela
me retient." Voilà: j'avais
"retenu" le Maître... (Ivi, p. 132) [Non so
proprio bene cosa sia il matema!... E
lui praticamente non ha detto nulla. Alla fine
del pasto, ho usato una formula che lo ha
fatto reagire. Gli ho detto: "Ciò che limita
il vero non è il falso, è l'insignificante".
Allora lui ha fatto un'espressione pensosa e
ha detto: "Questo mi trattiene, questo mi
trattiene". Ecco! avevo "trattenuto" il Maestro...]. [4]
Proserpina chiama sgomenta / con voce
mesta la madre e le amiche, e più spesso la
madre, / e, poiché aveva squarciato dell'orlo
dell'abito un lembo, / giù dalla tunica rotta
le caddero i fiori raccolti. / In quell'età
puerile che semplicità di fanciulla: / anche
il cadere dei fiori toccò della vergine il
cuore! / Il rapitore sul carro sospinge i
cavalli e per nome / chiama ciascuno, scotendo
sul collo crinito le briglie / tinte di
ruggine nera e discorre per laghi profondi / e
dei Palìci pei stagni odorosi di zolfo,
bollenti / entro la terra squarciata... (Le
metamorfosi, 1983, vol. 1, p. 215) [5]
La figlia ci è pegno e ci è peso
comune; / ma se si vuole chiamare la cosa col
suo vero nome, / non è quel furto un'ingiuria,
ma segno verace d'amore... (Ivi, p. 223). [6]
...Spietata fracassa gli aratri, che
voltan le zolle, / e furibonda dà morte ai
coloni ed ai bovi operosi, / guasta sementi e
comanda che i campi ne frodino i semi. (Ivi,
p. 221) [7]
"Così dicendo levò il peplo e mostrò
tutta l'impronta, / nel corpo, per nulla
palese: ma era fanciullo Iacchos, / e si
slanciò ridendo con la mano sotto il grembo di
Baubò. / E di questo sorrise la dea, si
rallegrò nel suo cuore, / e accettò la coppa
rilucente, in cui era il ciceone". Frammento
orfico citato da Clemente Alessandrino; in G.
Colli, La sapienza greca, 1977; vol.
I, pp. 243-245. [8]
"Non vuoi chiudere questa chiavica,
nonna del diavolo, vomitabraccini,
affogabambini, cacapezze, sceglipeti?". La
vecchia, nel sentire queste novità di casa
sua, si arrabbiò tanto che, perdendo la
bussola della calma e scappando fuori dalla
stalla della pazienza, alzato il sipario
dell'apparato fece vedere la scena
boschereccia, dove Silvio avrebbe potuto dire
"Ite svegliando gli occhi col corno". E quando
Zoza vide questo spettacolo le venne tanto da
ridere che stava per restarci secca." (Ivi, p.
13). Da notare l'accostamento esilarante tra
il boschetto della vecchia, poco
attraente, come quello di Baubò, e i boschi
della poesia arcadica, attraverso la citazione
dal Pastor fido di
G.B. Guarini. [9]
Per Cenerentola disponiamo della più
ampia raccolta che sia mai stata pubblicata
sulle varianti di una fiaba. Si
tratta di CINDERELLA. Three hundred and
fourty-five Variants of Cinderella, Catskin,
and Cap o' Rushes... (1892). Credo
che vada riconosciuto alla giovane studiosa
vittoriana non solo il merito di aver per
prima, e credo per ultima, raccolto tante
varianti di una sola fiaba, ma anche di aver
organizzato per prima queste varianti in
gruppi e di averle riassunte e tabulate
secondo un criterio che può essere considerato
anticipatore del metodo elaborato dalla scuola
storico geografica, alla quale si devono
vastissimi indici delle fiabe di tutto il
mondo (vedi: Antti Amatus Aarne e Stith
Thompson, Motif Index of Folk-Literature,
1955, e Types of the Folk-Tale...,
1961. La prima edizione del Motif index era
apparsa nel 1910). E' vero che Marian Roalf
Cox non esplicitò i suoi criteri di
tabulazione, e che i motivi che figurano negli
Abstracts sono più di quelli che elenca
nella prefazione, ma non è difficile
immaginare che si sia interrogata a lungo sul
metodo, raggiungendo risultati utili per
organizzare il vastissimo materiale, ma che
non giudicò abbastanza rigorosi da meritare
una descrizione. Il suo lavoro pionieristico
fu considerato dall'inizio diligente ma non
importante in senso teorico. Andrew
Lang, che era diventato presidente della Folk-Lore
Society, scrive nella prefazione: "On
the first view of her learned and elaborated
work I was horrified a the sight of these
skeletons of the tale. [...] But science needs
horrors of this kind, it seems, and I have
wandered in Miss Cox's collection with
admiration of her industry and method... (cit., p. vii)
("Guardando il suo lavoro dotto ed elaborato,
sono inorridito dapprima, alla vista di questi
scheletri della fiaba. ... Ma la scienza ha
bisogno di orrori di questo genere, sembra, e
io ho vagato nella raccolta della signorina
Cox ammirato per il suo metodo e la sua
diligenza, ...". Tr. it. nostra) E ancora Stith
Thompson, nel 1946, scriveva: "Gli studi
comparati sulla favolistica eseguiti prima
dell'elaborazione del metodo
storico-geografico presentavano dei punti
deboli in piu' di un verso. Le opere come la
Cinderella della signorina Cox erano molto
accurate per quanto riguardava la raccolta
delle versioni e l'analisi dei caratteri, ma
non tentavano in alcun modo di interpretare i
dati così raccolti" (La fiaba nella
tradizione popolare, 1967, p. 596). E' la stessa Marian
R. Cox a dirci che non fu lei a decidere di
pubblicare a quel punto la ricerca: "The
Council of the Folk-lore Society, at whose
invitation I undertook this volume, deemed it
advisable to make an arbitrary end of the
labour of collecting which otherwise might be
carried in indefinitely" (cit., Preface, p.
xxxiv) (Il Consiglio della Folk-lore
Society, che mi ha incaricato di
preparare questo libro, ha giudicato opportuno
dare una fine arbitraria al lavoro di
raccolta, che altrimenti poteva andare avanti
indefinitamente." Tr. it. nostra). Avrei voluto
dedicare più spazio alle riflessioni su Marian
R. Cox, che mi appare come una Cenerentola
vittoriana, della quale i professori paludati
non hanno visto gli abiti meravigliosi,
lasciandola accanto al suo focolare. E' vero
che anche le gigantesche comparazioni e
raccolte citate sopra appaiono oggi molto meno
promettenti di quanto speravano i loro
compilatori, ma questi lavori sistematici
restano importantissimi, sia perché forniscono
repertori indispensabili a chi voglia
interpretare una fiaba, o un motivo fiabesco,
sia perché il tentativo di abbracciare tutte
le fiabe e di renderle indagabili ha un valore
metodologico che certi fallimenti, più o meno
parziali, non devono far dimenticare. La stessa
tripartizione del grande sogno collettivo
indagato in questo libro, presente nel
sottotitolo stesso, Cenerentola, Pelle
d'Asino e Cordelia, corrisponde ai tre
gruppi individuati da M.R. Cox, le cui
capolista sono, rispettivamente: Cinderella,
Catskin e Cap o' Rushes. Spero
di tornare in altri lavori su questa
ricercatrice straordinaria, che rivela tra le
righe, nello stile dei suoi riassunti, delle
sue traduzioni, nelle sue note, nei criteri
adottati, una grandezza misconosciuta. Per dare
un'idea di come comprendesse la fiaba, oltre
un secolo fa, leggiamo le ultime parole della
sua prefazione: "There will remain the regret
which invariably accompanies work of this kind
- the non-attainment of finality where
materials are ever pouring in; and experience
of this has reconciled me to aim at only
approximate completeness." (Cit., p. lxxii).
("Resterà il rimpianto che invariabilmente
accompagna lavori di questo genere - il
mancato raggiungimento della conclusione
mentre altri materiali stanno ancora
arrivando; per questa esperienza mi sono
accontentata di mirare a una completezza solo
approssimativa". Tr. it. nostra]. (Adalinda
Gasparini, La
luna nella cenere, cit., Capitolo 2,
nota 9) |
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3. Il
padre, l'incesto, la fuga |
IL PADRE,
L'INCESTO, LA FUGA He's father,
son, and husband mild; I mother,
wife, and yet his child. (Shakespeare) 1. Un giuramento fatale Una diade
perfetta si rompe perché la storia abbia inizio,
perché la parte più giovane, la figlia, possa
gustare il frutto della fecondità che la simbiosi
con la madre rende impossibile. La donna concreta
può sposarsi e restare vergine, gelida come
Turandot che mandava a morte i principi innamorati
di lei perché non sapevano sciogliere i suoi
indovinelli. [1] La donna
che non ha ucciso la propria madre, la donna per
la quale non ha avuto luogo il distacco, non
incontra l'uomo con tutta se stessa, anche se
conosce il piacere del rapporto sessuale e anche
se partorisce figli: nella sua parte più segreta
torna sempre al fantasma materno, al quale deve
dar conto della propria femminilità, e il suo
compagno somiglia in questo gioco allo sposo
infero che rapisce Proserpina. L'incontro è
parziale, come per Proserpina, che passa una parte
dell'anno con lo sposo e una parte con la madre. A livello
intrapsichico la donna vive questo mancato
distacco dal fantasma materno come una
interdizione a esprimere le sue caratteristiche
personali, perché la sottrarrebbero a un'identità
coincidente con quella della madre. Questa
identità ha a che fare con un'esperienza primaria
della madre, e può essere descritta come
narcisismo femminile. La madre chiede e impone
alla figlia di rispecchiarla, e la figlia
accettando questo rispecchiamento si struttura
secondo un'identità modellata su quella di lei.
Ogni forma di narcisismo funziona come una
conferma di sé ottenuta nell'immobilità, come
fuori dal tempo, fissando uno specchio, e tiene il
posto dell'esperienza della propria identità la
cui figura è il viaggio, il movimento che prevede
l'incontro con figure diverse da quelle
originarie, endogamiche. Non esiste una donna che
sia tutta e sempre di fronte a quello specchio, ma
una componente più o meno ampia di ogni donna vi
si trova, almeno in una fase della vita, e molte
madri non se ne staccano mai, educando a loro
volta le figlie a rispecchiarsi in loro.
L'anoressia rappresenta il limite estremo del
legame strettissimo e insopportabile con la madre,
e la portatrice della patologia rifiutando il cibo
tenta di distruggere l'immagine che impone il
rispecchiamento, anche se il successo di questa
distruzione è contemporaneamente la distruzione di
sé, fino alla morte. Abbiamo
ripreso il tema del capitolo precedente perché la
rappresentazione dell'incesto che andiamo ad
analizzare segue alla morte di una madre
bellissima, come quella della fiaba molisana che
ogni giorno interrogava il sole. La storia
della protagonista non si origina da una madre
persecutoria che subentra alla morte o
all'uccisione della madre buona, come nella Gatta
Cennerentola, Aschenputtel e Cendrillon.
Si apre il racconto con una bella morente che fa
giurare al re affranto di non risposarsi più, a
meno che non trovi una donna eguale a lei. La
fiaba esprime questa eguaglianza dicendo che la
nuova sposa deve essere bella quanto lei, o avere
come lei fili d'oro tra i capelli, o il dito della
misura giusta per il suo anello, come successe in
Zuccaccia, una delle Sessanta novelline
popolari montalesi di Gherardo Nerucci
(1880). Questa
fiaba dice che il re non pensava a risposarsi, e
aveva riposto l'anello in una scatolina che da
tanti anni stava in un cassetto. Ma la
principessina un bel giorno trovò l'anello, se lo
infilò al dito, e tutta contenta corse dal padre a
fargli vedere come le andava bene:
Dice il re: "Oh! figliola mia, 'gli è l'anello della tu' poera mamma. E sai, che mi disse quando lei me lo diede? Mi disse, che dovevo pigliare per isposa quella donna d'i' mi' pari, che l'anello gli stessi bene in dito. Dunque, cara figliola, bisogna bene che tu sia la mi' sposa." La ragazza a quel brutto discorso si sentiede tutta rimiscolare; ma il Re gli cominciò a fare delle carezze e a manifestargli delle parole, non più da padre, ma da amante; sicché la ragazza vergognosa e sbigottita la gli scappò a fatica di tra le mane, e diviata se n'andette dalla balia a raccontargli piagnendo quel che gli era successo. Dice la balia: "Nun vi sgomentate, figliola mia; ma, nunistante, badate di nun mettervi 'n contrasto con vostro padre. Date retta a me, ch'i' vi consiglierò a bene. Voi gli avete a promettere di sposarlo, a patto che vi regali un vestito di seta color d'aria e tutto tempestato con le stelle del cielo. Un vestito a questo mo' non si trova nel mondo, e voi allora nun siete più nell'obbligo di mantenergli la promessa" (Nerucci, cit., p. 87). Quando la
madre morendo si è fatta fare una promessa come
questa, ne segue sempre una situazione di incesto.
Per il padre fedele alla sposa morta, la fedeltà è
possibile solo sposando la figlia: ma la sposa
morta, la prima moglie, è la madre stessa: viene
infatti definita come unica e irrinunciabile, al
punto che solo una donna uguale a lei può
prenderne il posto. Possiamo dire che questo padre
vuole sposare la figlia perché crede che sia la
madre stessa, la identifica con lei, e afferma che
in questo modo obbedisce al suo estremo e
inelusibile desiderio. È la somiglianza con la
madre che rende questa protagonista di fiaba
irresistibile per il padre, e osservare questo ci
spinge a riflettere su un aspetto strutturale
dell'incesto: il tempo senza tempo che esso può
creare, come la diade madre-figlia. Al tempo
storico, irreversibile, che i calendari e gli
orologi dividono in segmenti ordinati come una
linea percorribile in una sola direzione,
corrisponde nella vita dell'uomo il passaggio
dalla dipendenza infantile dai genitori alla
maturità nella quale si generano e si crescono
figli, e poi all'invecchiamento. I figli attestano
il passaggio dalla condizione di generato a quella
di generante, di genitore, mentre la loro
crescita, quando raggiungono l'età adatta per
generare a loro volta, marca inevitabilmente
l'inizio di una decadenza fisica, della fase che
ha come sua conclusione la morte. Le generazioni
si succedono nel tempo: il tempo porta al
succedersi delle generazioni. Ma se la
madre si rispecchia nella figlia, e se questo
rispecchiamento di madre in figlia si ripete, la
vita dell'una è la vita dell'altra, e la morte non
esiste. E se il padre non accetta che la figlia
tagli definitivamente il suo legame con lui per
unirsi a un suo coetaneo, può arrestare il corso
del tempo: può illudersi di creare un tempo
ciclico, in cui la madre e la figlia e la sposa
sono confuse in una sola figura.
Anche le
fiabe in cui la principessa rifiuta tutti i
pretendenti presentano un arresto del tempo: il
regno rischia di finire per la mancanza di un
erede. In questo caso il tempo viene fermato dalla
parte giovane, che evita la crescita rifiutando le
nozze, mentre il padre è rappresentato come
addolorato per questo rifiuto. È la vicenda della
gelida Turandot, che pone enigmi ai suoi
pretendenti: se non riusciranno a risolverli sarà
loro tagliata la testa. Il regno senza erede, e la
pena di morte comminata a chi tenta la prova senza
superarla, figurano in altre rappresentazioni
dell'incesto. Prima fra tutti, per la sua
importanza nel senso greco della tragedia e per la
sua centralità nella psicoanalisi, la vicenda di
Edipo. Del suo mito e della sua tragedia, che
esprime il senso della conoscenza e della vita
umana, toccheremo soltanto alcuni punti per porli
in relazione con la fiaba. La città
di Tebe, il reame, è senza re, e un essere
chimerico, la Sfinge, pone un enigma a tutti
quelli che vi si dirigono. Chi non sa rispondere
viene gettato nell'abisso, chi risponde diverrà il
re della città. Pensando
alla complessità del mito e della tragedia, viene
da chiedersi come sia possibile che il punto di
catastrofe, di trasformazione radicale, sia
marcato da un indovinello che anche un bambino può
risolvere: "Qual è l'animale che al mattino
cammina con quattro gambe, a mezzogiorno con due e
alla sera con tre?". Eppure
rispondendo a questo piccolo gioco Edipo libera la
città dalla maledizione della Sfinge, ed è così
che cade nel destino che credeva di fuggire, il
parricidio e l'incesto. La risposta è semplice,
facile per Edipo, ma il mistero è contenuto in
questa stessa semplicità: per rispondere bisogna
abbracciare tutta la vita dell'uomo come arco
della sua luce, come un solo giorno. Lo sguardo
vede lo stesso uomo piccolo nella dipendenza, che
si erge allo zenit nel culmine della sua forza, e
torna a chinarsi verso la terra, verso la sua
tomba. Edipo dopo aver risposto all'enigma della
Sfinge diventa proprio quell'uomo, perché vive
contemporaneamente la condizione di generante e di
generato, di marito e figlio della propria madre,
di padre e fratello dei suoi figli. In un
romanzo latino del III secolo, letto e amato in
Europa fino al secolo XVIII, troviamo qualcosa che
ci può aiutare a capire il problema dell'enigma
tra fiaba e tragedia: Hystoria Apollonii Regis
Tyri, La storia di Apollonio re di Tiro.
C'era una
volta nel regno di Antiochia il re Antioco,
vedovo, la cui figlia era di una bellezza senza
pari, e il padre, mentre si chiedeva a chi
concederla in sposa, se ne innamorò al punto che
le usò violenza, e cominciò a vivere con lei un
legame incestuoso. Per allontanare gli
innumerevoli pretendenti fece questo bando:
l'avrebbe avuta in sposa solo chi fosse riuscito a
risolvere un indovinello, ma a chi avesse tentato
senza successo sarebbe stata tagliata la testa,
proprio come ai pretendenti di Turandot. Ancora
più dell'indovinello della Sfinge, questo enigma
rivela, mentre nasconde, la soluzione. La leggiamo
dal Pericle principe di Tiro, che
Shakespeare trasse da questo romanzo: I am no
viper, yet I feed On mother's
flesh which did me breed. I sought an
husband, in which labour I found that
kindness in a father. He's father,
son, and husband mild; I mother,
wife, and yet his child. (A. I, Sc. 1) [2] L'enigma
è una precisa rappresentazione della relazione
incestuosa: "Mi nutro della carne della madre che
mi ha allevato... egli è padre, figlio e dolce
marito; io sono madre, moglie e pure la sua
bambina". Per
indicare la sua relazione forte con i figli nel
linguaggio comune il genitore, e la madre in
particolare, dice "carne della mia carne":
nell'enigma per descrivere il rapporto incestuoso
è usato un verbo relativo alla sfera orale: "Mi
nutro della carne di mia madre". La figlia si
nutre del padre, di cui la madre si nutriva, e
questa regressione all'oralità richiama l'antica
azione mitica con la quale il Tempo stesso cerca
di arrestare il succedersi delle generazioni e la
perdita di potere che ne consegue: il dio greco
Crono, il cui nome significa tempo,
Saturno per i latini, per non essere spodestato da
uno dei suoi figli li divorava appena nati. Il
mito e le opere letterarie sono rette da una
geometria molto vicina a quella della teoria
psicoanalitica, ed è facile interpretare queste
formulazioni enigmatiche, sia che si faccia
riferimento alle fasi e alle zone erogene in
Freud, sia che si pensi ai fantasmi originari
kleiniani. Il bambino piccolo esprime le sue
ipotesi su come si fanno i bambini unendo senza
problemi di coerenza le zone orali, anali e
genitali; inoltre, anche lasciando da parte le
perversioni, è facile osservare nella sessualità
molte contiguità e scambi tra sfere erogene. Questo
impasto è nominabile come un caos originario dal
quale si enucleano rappresentazioni differenziate,
che permettono di separare, delimitare ed esperire
le diverse sfere erotiche, vitali: ma non scompare
mai completamente, e preme in maniera perturbante
e confusiva nell'adulto, ogni volta che affiorano
nuclei psicotici, destabilizzanti per la vita di
relazione e l'equilibrio personale. Possedere
sessualmente, mangiare, nutrirsi, arrestare lo
scorrere del tempo, mettere in scacco la morte
impedendo la crescita dei figli: questo gioco è
rappresentato dall'enigma che vela e svela la
relazione tra il re Antioco e sua figlia. La
difficoltà nel risolverlo, visto che la soluzione
è chiarissima, indica la difficoltà a
rappresentarsi l'evidenza del tema dell'incesto:
l'enigma esprime a un tempo questo contenuto
cruciale e la sua rimozione. Rivisitare
l'incesto in questa chiave, osservando come
annulli il tempo storico annullando la separazione
fra generazioni, impone di richiamare la
centralità che per Freud ha il tabù dell'incesto:
il divieto e la separazione fra generazioni che ne
consegue rendono possibile la civiltà umana [3]. Abbiamo
osservato che il processo di rimozione, che
attesta l'universalità delle pulsioni incestuose,
è rappresentato in primo luogo da questo
paradosso: che molti pretendenti non riescono a
rispondere all'enigma, nonostante l'enigma
descriva a chiare lettere le nozze tra padre e
figlia. Meglio ancora: è appunto per la sua
intollerabile evidenza che la soluzione non può
essere pensata. Ma
possiamo osservare un altro interessante livello
di rimozione, andando a leggere l'enigma nel
romanzo latino del III secolo e nella versione
inglese dell'XI secolo: le nozze incestuose sono
rivelate e svelate con altrettanta chiarezza, ma
c'è qualcosa d'altro. Scelere vereor, I am borne along the crime Materna carne vescor.
I devour my
mother's flesh Quaero
patrem meum, meae
I seek my brother, the husband Matris
virum, uxoris meae
Of my mother, the son of my Filiam, nec
invenio. [4]
Wife. I do not find him. [5] Nel
romanzo antico chi pone l'enigma è il re padre, in
Shakespeare è la figlia, come nella fiaba è
Turandot. Per lo scrittore e per il pubblico
adulto, come per Freud, è probabile che sia più
perturbante assegnare al padre il ruolo più attivo
nell'instaurarsi della relazione incestuosa.
Riteniamo che questo abbia provocato il minor
successo della bellissima versione di Pelle
d'Asino di Perrault rispetto ad altre sue fiabe:
nessuno si aspetta che la Walt Disney ne fornisca
una versione, a meno che non abbandoni la sua
rappresentazione eufemizzata dell'infanzia, che
riscuote tanto successo. Ma anche Shakespeare ha
preferito fornire una versione dell'enigma che
elimina l'ambiguità onirica o delirante espressi
alla fine dell'enigma dalle versioni più antiche:
Cerco il padre mio, di mia / madre lo sposo /
della mia sposa / la figlia, e non trovo...
Cerco mio fratello, il figlio di mia / moglie.
Io non lo trovo.... Prima di
interpretare questi versi antichi desideriamo
fornire un esempio di rimozione per
razionalizzazione. Ben Edwin Perry, nella sua
opera sul romanzo antico (cit., pp. 296
sgg.), trova illogico che il re Antioco ponga ai
pretendenti che desidera allontanare un
indovinello che rivela la relazione incestuosa
mentre la vuole mantenere segreta. Desiderando
spiegare questa incongruità, lo studioso ipotizza
che l'ignoto autore latino abbia inserito un
indovinello qualsiasi, che per caso aveva
sottomano in quel momento, dimenticando la
consequenzialità del suo racconto. Lo
psicoanalista analizza per riconoscere un senso
profondo, difficile da accogliere, proprio dove
appare una lacuna, procedendo in direzione opposta
alla rimozione. Questo consente di procedere nella
comprensione dell'opera letteraria, evitando che
talora ciò che sta sotto gli occhi, il motivo
essenziale dello stesso romanzo, l'enigma
contraddittorio e perturbante dell'incesto, possa
essere liquidato come una casuale svista
dell'anonimo autore antico. È strano che si sia
trascurato il senso della presenza di questa
stessa formulazione dell'enigma nella versione
dell'undicesimo secolo. Un esercizio meno rigido
della rimozione ha evidentemente consentito
all'antico traduttore inglese una comprensione del
testo superiore a quella del nostro contemporaneo
[6]. Si può
osservare il romanzo, o il sogno personale, come
un insieme espressivo, un corpo unico, governato
da una logica analoga a quella che governa il
corpo individuale, che sviluppa anche le malattie
autoimmunitarie, senza alcun riguardo per la
nostra difficoltà logica a comprendere come una
funzione che tutela la vita e la salute si
trasformi in un agente di morte. Se si operasse
secondo quella logica razionalizzante - che
rimuove il senso perturbante attraverso
razionalizzazioni - potremmo anche ipotizzare
un'interpolazione, trovando incongruente che la
Sfinge si sia gettata nell'orrido quando Edipo
risolve il suo enigma. Perché questa insidiosa e
mortifera chimera avrebbe dovuto suicidarsi solo
perché il suo indovinello era risolto? Non poteva
cambiare sentiero e continuare a porlo sulla via
di Sparta, oppure trasformarsi in una delle
innumerevoli divinità sparse nella Grecia antica?
Ma
nessuno trova incongruente il tragico e volontario
volo della Sfinge, quando si immola col suo ordine
enigmatico di fronte all'eroe del pensiero, che ha
osato risolvere semplicemente ciò che non è
semplice. Di questa complessità caotica, in cui è
diffuso il germe del desiderio, della passione,
dell'Eros, le antiche formulazioni danno una
straordinaria rappresentazione. Nel testo latino,
le parole scelere vereor, materna carne vescor
(temo per un delitto, mi nutro della carne
materna), potrebbero essere
pronunciate sia dal padre che dalla figlia, perché
carne materna può essere inteso sia come
figlia per il padre, sia per la figlia, come
padre, sposo/carne della madre. Nel testo inglese,
successivo di sette secoli circa, l'ambiguità
resta nella prima frase, I am borne along the
crime (sono portato/a da un delitto),
mentre è scomparsa dalla seconda: I devour my
mother's flesh (divoro la carne di mia
madre), può essere detto solo dalla figlia.
L'inizio
dell'ultimo periodo deve essere pronunciato in
entrambi i casi dalla figlia: al latino quaero
patrem meum, meae matris virum (cerco
mio padre, lo sposo di mia madre), corrisponde
una versione letterale nell'inglese antico, salvo
che al posto del padre compare il fratello,
sposo della madre: I seek my brother, the
husband of my mother. Ed è a questo punto
che l'incongruenza raggiunge il culmine: in latino
la ricerca della figlia diventa senza soluzione di
continuità la ricerca operata dal padre: uxoris
meae filiam. In inglese quale dei due cerca
il figlio maschio della propria moglie, the
son of my wife? Nel romanzo la
principessa è figlia unica, quindi il padre non
potrebbe cercarlo; e la figlia può cercare il
figlio di sua moglie? Nec
invenio (e non trovo), I do not find him (non lo
trovo).
Impossibile
rientrare nel passato: per quanto entrambe le
polarità della relazione incestuosa agiscano alla
lettera la loro passione, non trovano
l'impossibile oggetto d'amore, che è insieme sposa
e sposo, figlio e figlia, amante, e madre, padre,
fratello, sorella. La sorte della coppia
incestuosa è una splendida rappresentazione della
distruttività che entra in scena infrangendo il
tabù dell'incesto: il re di Antiochia e sua figlia
dopo un certo tempo vengono trovati carbonizzati
nel loro letto, puniti dagli dei con la loro
stessa passione, divorante come il fuoco. [7] Così
oscuro è anche un testo letterario, quando
rappresenta ciò che appartiene alla sfera
perturbante dell'inconscio non colonizzato,
razionalizzato, eufemizzato, dalla coscienza,
com'è oscuro un sogno notturno, e ogni fiaba
quando il suo senso ci sfugge. Ma il loro ordine
segreto, una volta che l'interpretazione abbia
consentito di coglierne il senso, è mirabile, e
solo in quel momento, con la coscienza derivante
dalla ricerca effettuata, possiamo affermare che
la miglior interpretazione di una fiaba, di un
sogno, di un testo letterario, è quella fiaba,
quel sogno, quel romanzo antico [8]. 3.
L'incesto in Pelle d'Asino Abbiamo
già parlato di narcisismo a proposito della
relazione troppo perfetta tra madre e figlia.
Narciso, fissando la propria figura, resta
immobilizzato in un tempo e uno spazio: la
relazione incestuosa, per quanto imprigionante,
implica due figure, di sesso diverso. Per Narciso
la sola uscita dalla prigione dello specchio è nel
dolore insopportabile al quale consegue la morte,
mentre dalla relazione incestuosa la protagonista
della fiaba, il soggetto che deve e vuole
crescere, può fuggire. Mentre
Edipo e il re Antioco vivono la tragedia di questa
vicenda umana essenziale, la fiaba rappresenta un
percorso del quale il motivo dell'incesto è una
parte, ed è seguito da una fuga bellissima della
protagonista, che dopo un tempo di occultamento
nella bruttezza e nello sporco splenderà come un
astro e diventerà regina. Le fiabe
confrontate tra loro ci raccontano che il rifiuto
della vita e del suo tempo storico ha gli stessi
effetti, sia che questo rifiuto sia agito dal
genitore che dalla figlia. La difficoltà che
impedisce di crescere è difficoltà nella relazione
tra genitore e
generato, e in ogni caso la possibilità di
scioglierla sta nel bisogno e nel desiderio di
uscire dalla relazione della parte giovane. Come nel
sogno i personaggi e gli scenari appartengono
tutti al sognatore, del quale mettono in scena
articolazioni e funzioni psichiche, così nella
fiaba antagonisti e protagonisti possono essere
intesi come figure intrapsichiche. Le violenze che
subiamo da figure esterne, concrete, si fissano in
coazioni che arrestano la nostra crescita nella
misura in cui queste figure hanno un corrispettivo
fantasmatico dentro di noi. Il potere di una
personalità sadica non esiste se l'altra persona
non ha in sé componenti masochistiche, rispetto
alle quali personifica un fantasma già esistente.
Il delirio di persecuzione porta le personalità
paranoidi a selezionare nella realtà esterna tutto
ciò che conferma la loro costruzione, fino a
individuare con assoluta certezza elementi
oggettivi che per un osservatore esterno sarebbero
neutri e insignificanti. Oppure si pensi alla
sconfortante tendenza delle persone che escono da
una relazione di coppia fallimentare a ritrovare
un tipo di partner con le stesse caratteristiche
del precedente. Dal punto di vista della realtà
psichica, di cui parlano le fiabe, interno ed
esterno sono condizioni intercambiabili di oggetti
significativi affettivamente. Parliamo di oggetti
psichici il cui campo non è solo quello della
coscienza, che ha la funzione di discriminare tra
soggetto e oggetto, interno ed esterno. Quando
questa separazione è possibile possiamo dire che
la persona ha acquisito il sentimento della vera
realtà[9], e distingue tra sé e
altro da sé abbastanza da cogliere le possibilità
trasformative dell'esperienza. Se la figlia
anoressica potesse distinguere in senso profondo
fra la propria identità e il fantasma materno, non
sarebbe determinata da un rifiuto della madre e
del cibo che cresce come rifiuto del corpo e della
vita. L'enigma
posto dalla Sfinge, e quello analogo del re di
Antiochia, sono tanto difficili da risolvere
perché per farlo occorre accogliere
l'incomprensibile che è in noi. Non è possibile
dare la risposta se la rimozione ha eliminato
dalla coscienza ogni traccia di quel passato in
cui eravamo intrecciati in una relazione
simbiotica con i genitori, non è possibile
rispondere se le barriere tra il generante e il
generato sono così rigide che non è possibile
vedere che nell'arco del suo giorno l'uomo è tre
esseri diversi, e non è mai solo l'uno senza
l'altro. Non è possibile se ciò che determina lo
psichismo non può accettare la morte come ultimo
termine della vicenda umana. Il padre
che vuole sposare la propria figlia vuole essere
sia generante che generato, tentando di fermare il
tempo storico e di vivere un tempo in cui si
illude di mettere in scacco l'invecchiamento e la
morte confondendo i due termini della relazione. Mentre
nel romanzo antico e nella tragedia di Edipo la
relazione incestuosa è consumata letteralmente, la
fiaba di Pelle d'Asino racconta che, un attimo
prima della infrazione del tabù, la figlia si dà
alla fuga. Si rappresenta quindi il motivo
dell'incesto come una vicenda in parte
deletteralizzata, quindi psichizzata. Dal momento
in cui fugge, la principessa avrà ancora molto
lavoro da compiere prima di giungere alle nozze,
ma il suo destino sta a quello della principessa
di Antiochia come un sonno lungo cent'anni sta
alla morte. 4. Cordelia Abbiamo
parlato di un tempo senza tempo, che prende vita
dalla relazione incestuosa col suo rifiuto
dell'avvicendarsi delle generazioni. Vogliamo
osservare ora la stessa condizione in una forma
deletteralizzata, nel senso che non si parla di un
rapporto incestuoso con la figlia, eppure dalla
figlia più giovane il padre esige un amore diverso
da quello che può dargli. Così
cominciano tante fiabe, come Occhi marci di
Nerucci: A' tempi antichi ci fu un Re che aveva tre figliole. Un giorno le chiamò tutt'insieme e disse alla maggiore: "Quanto mi vo' tu bene?". "Quant'al pane", quella gli arrispose. "Allora i' son contento", dice 'l padre. Poi s'arrivolse alla mezzana: "E te quanto mi vo' tu bene?". "Babbo mio, quant'al vino". Fa il padre: "Anco di te i' son contento, perché il vino mi garba e il paragone è giusto. E te, piccina, dimmelo anco te, quanto mi vo' tu bene?". Dice la piccina: "Quant'al sale". "Oh birbona," sbergola il Re: "dunque, tu mi vo' veder distrutto?". E s'incattivì, ché alla figliola, per bone ragioni che lei gli portassi del su' pensieri, non ci fu verso di farlo persuaso e d'abbonirlo. Dice lui: "Sì, tu mi vo' distrutto, perché 'l sale si strugge anco da sé indove si mette. Dunque una figliolaccia come te con meco nun ci pole più stare. Va' via di casa e ti maladico, e vai laddove più ti garba. Ma fuggi via subbito dalla mi' presenzia e ch'i' nun ti rivegga più mai" (cit., p. 106). Come la
protagonista di Zuccaccia questa
principessa disperata va a chiedere consiglio alla
sua balia, visto che la madre, come ci
aspettavamo, è assente, neanche nominata. E per
allontanarsi dal padre fugge in un reame lontano,
coperta da un travestimento repellente che la
occulta e dal quale uscirà in tutto il suo
splendore per sposare il suo principe: lo
svolgimento della vicenda è lo stesso che
analizzeremo nei prossimi capitoli, quasi identico
a quello di Pelle d'Asino. Invece di chiederle di
sposarlo, il re chiede alla figlia più piccola di
risponderle come lui desidera, e non sopporta che
gli voglia bene come al sale perché, dice, il sale
si distrugge anche da sé. Le altre due sorelle
paragonano il padre ai cibi fondamentali, gli
stessi che figurano nel sacrificio della messa,
dicono quindi al padre che lui è il cibo della
loro vita, mentre la più piccola gli richiama la
sua morte: il sale si distrugge anche da sé. Ci
piace considerare l'orrore provocato nel padre da
questa risposta come una conferma di quanto
abbiamo detto dell'incesto: essere al centro
dell'amore della figlia, essere il suo sposo,
permette al padre di respingere il fantasma della
propria morte. Dopo aver
incontrato il suo principe, colui che la
riconoscerà sia nell'oscurità del suo
travestimento che nel suo splendore, la figlia più
piccina si sposa, e al banchetto di nozze
partecipa anche suo padre, che invece non la
riconosce più. La sposa, come si racconta, dispose
che gli venisse servito tutto senza sale, e il re
non riuscì a mangiare, e se ne rammaricò dicendo
che le pietanze erano insopportabilmente sciocche.
"Dunque lei al sale gli vole bene?", addimandò la sposa. Dice lui: "Sicuro, ché insenza sale i' nun so fare io". "Oh! allora, signor padre", scramò la sposa, "perché mi mandò via di casa, quand'i' paragonai il bene ch'i' gli volevo al bene ch'i' voglio al sale?". A queste parole 'mprovvise il padre s'accorgette che era la su' figliola e disse forte: "T'ha ragione! I' feci male dimolto, e ti chieggo perdono, e ti benedisco con tutto il core" (Ivi, pp. 109-110). Attraverso
l'amore del padre la figlia si stacca dalla madre
e impara ad amare l'altro sesso, ma la sua
crescita si chiude nella relazione incestuosa se
il padre si configura per lei come nutrimento. Occhi
marci,
sorella di Cordelia, sa che la relazione col padre
deve essere deletteralizzata, simbolizzata, per
consentire la crescita verso l'eterosessualità
esogamica, le nozze regali. Il finale di questa
fiaba riporta ai suoi confini l'amore per il
padre: essenziale, esso non costituisce però il
cibo di cui può nutrirsi la figlia, che dovrà
trovarlo e prepararlo nel nuovo reame, staccandosi
dalla propria casa, sciogliendo i legami con la
propria famiglia. In questo
motivo fiabesco il simbolo del sale richiama la
funzione paterna come principio di separazione,
discernimento: avere del sale in zucca
significa essere saggi, agire sensatamente;
un cibo può essere sciocco come una
persona; il verbo latino sapio significa
sia aver gusto che esser savio, e
da esso derivano sapere e sapore.
Delle due
sorelle di Occhi Marci la fiaba non parla,
perché rappresentano la parte che smette di
crescere. Questa non è materia di fiaba, perché
non apre un percorso, un movimento dal noto
all'ignoto, dal legame con i genitori alla
costruzione di una nuova realtà affettiva, che
viene conquistata dalla protagonista e dal suo
principe, perché non si trova nella casa
dell'origine. Come
tragedia, non fiaba, verso la morte, non verso il
lieto fine, si svolge lo stesso tema in Re
Lear. Nel primo atto Shakespeare ci presenta
un re che abdica e vuole che le figlie ereditino
in anticipo il suo regno: apparentemente accetta e
favorisce il passaggio di potere alla nuova
generazione. Come il re della fiaba del sale
chiede alle tre figlie quanto lo amano, perché il
loro amore è la ricompensa che esige per il regno
di cui si priva. La prima
figlia dice: Sir, I love
you more than word can wield the matter; Dearer than
eyesight, space, and liberty; Beyond what
can be valued, rich or rare; No less than
life, with grace, health, beauty, honour; As much as
child e'er lov'd, or father found; A love that
makes breath poor and speech unable; Beyond all
manner of so much I love you. (A. I, Sc. 1) [10] Osserviamo
che nella risposta l'amore verso il generato e
l'amore verso il generante sono nominati in quella
identità senza limiti di cui abbiamo parlato come
carattere fondamentale dell'incesto: quanto
può essere amato il figlio, quanto può essere
amato il padre. Quand'è il suo turno, la
figlia mediana dichiara un amore ancora più
grande, perché la sua felicità è solo nell'amore
paterno, e re Lear, soddisfatto, assegna a
ciascuna di loro un terzo del suo regno. La più
piccola, la prediletta Cordelia, non ha nulla da
dire, poi, dietro le insistenze del padre, gli
risponde:
.....................................
Good
my lord, You have
begot me, bred me, lov'd me; I Return those
duties back as are right fit, Obey you,
love you, and most honour you. Why have my
sisters husbands, if they say They love
you all? Haply, when I shall wed, That lord
whose hand must take my plight shall carry Half my love
with him, half my care and duty. Sure I shall
never marry like my sisters, To love my father all. (Ivi)[11]. Re Lear,
deluso da questa risposta, si infuria e ripudia la
figlia più piccola, dividendo fra le due prime
figlie l'ultima parte di regno. Rimasta senza
dote, Cordelia viene rifiutata dal suo pretendente
duca di Borgogna, mentre il re di Francia chiede
la ragione del ripudio. Comprendendo la vicenda,
parla e agisce con una sensibilità corrispondente
a quella di Cordelia, e la sua poesia ci fa
incontrare per la prima volta il principe
sensibile, che ritroveremo nel capitolo 7: Fairest
Cordelia, that art most rich, being poor; Most choice,
forsaken; and most lov'd, despis'd! Thee and thy
virtues here I size upon, Be it lawful
I take up what's cast away. Gods, gods!
'tis strange that from their cold'st neglect My love
should kindle to inflam'd respect. Thy
dow'rless daughter, King, thrown to my chance, Is queen of
us, of ours, and our fair France. Not all the
dukes of wat'rish Can buy this
unpriz'd precious maid of me. Bid
farewell, Cordelia, though unkind; Thou loses
here, a better where to find. (Ivi)[12]. Mentre
abdicando sembra riconoscere la propria vicinanza
alla morte, Lear esige di essere rispecchiato come
assoluto oggetto d'amore. Esigere dalla propria
figlia che dichiari un amore più grande di ogni
cosa bella e profonda della vita, unendo l'amore
per il figlio e l'amore per il padre è una
richiesta incestuosa, anche se l'incesto non è
letteralmente presente. Ed è la richiesta posta
alla figlia da ogni padre che chiede di essere
idealizzato: la fissazione a questa figura paterna
le impedisce di amare veramente un altro uomo. La
donna che resta psicologicamente legata
all'immagine paterna, imprigionata nella relazione
edipica in una forma virtuale di incesto, amerà il
proprio partner a patto che corrisponda a questa
immagine idealizzata, e cercherà di distruggerlo,
sentendosi tradita e delusa, quando sarà costretta
a prendere atto che non potrà mai essere
all'altezza delle sue aspettative. La donna sarà
incapace di perdonargli non tanto le sue mancanze,
quanto il suo essere irrimediabilmente altro dal
padre. Amare un altro uomo non implica solo che la
donna abbia rotto lo specchio che mantiene
l'identità originaria con la madre, ma anche la
sua rinuncia alla bellezza di cui gode nell'amore
edipico. 5. Gli abiti
meravigliosi Nella
fiaba di Zuccaccia, che abbiamo già
introdotto, la principessa pone come condizione
per accettare le nozze che il padre le procuri un
vestito di seta color d'aria e tutto tempestato
con le stelle del cielo. La balia l'ha
consigliata di chiederlo pensando che il dono
fosse impossibile, ma il re innamorato incarica un
servitore di cercarlo in tutto il mondo, a
qualunque costo. In tutte le fiabe in cui viene
formulata questa richiesta, il re la soddisfa: poi
segue la richiesta di un altro abito, e di un
terzo, sempre più belli e difficili da procurare.
Così il
padre di Zuccaccia le dona il vestito color
dell'aria con le stelle del cielo, e poi un abito
di seta color dell'acqua, con tanti pesci d'oro
che ci nuotano dentro, e infine un terzo, tutto
tessuto di campanelline e catenelle d'oro. Nella sua
versione della fiaba Perrault racconta che il re
ordina ai suoi servitori di fare gli abiti
richiesti dall'Infanta: se non riusciranno li
impiccherà tutti. Così le dona un abito del color
dell'aria, bello come il cielo azzurro quando è
circondato da nuvole d'oro, uno che splende come
la luna, e il terzo del colore del sole: ...Il Re innamorato diede via senza rimpianti tutti i diamanti e tutti i rubini della sua corona, con l'ordine di non risparmiare alcuna cosa affinché l'abito fosse più splendente del sole. Infatti, non appena fu portato alla Corte, tutti quelli che lo videro furono costretti a chiudere gli occhi, tanto ne rimasero abbagliati. È da quel tempo che sono venuti in voga gli occhiali verdi e le lenti affumicate. Cosa divenne l'Infanta a tale vista? Non si era mai veduta cosa più bella né più artisticamente lavorata. Ella rimase senza fiato e, col pretesto d'aver male agli occhi, si ritirò in camera sua... (Perrault, cit., p. 5). Perché
l'Infanta e Zuccaccia chiedono al padre innamorato
abiti meravigliosi se vogliono evitare le nozze
con lui? Dato che sono abiti con i quali la loro
bellezza, già straordinaria, si esalta, vestendosi
dell'azzurro del cielo e dello splendore degli
astri, l'amore incestuoso non può che crescere. La figlia
sfida il padre ad arricchire la sua identità,
visto che gli abiti la simbolizzano, fino a fare
di lei più che una principessa bellissima: gli
pone come condizione per sposarlo di dimostrare
che col suo amore può renderla bella come il
cielo, il mare, la luna, le stelle, il sole... E
il padre con la sua regale potenza accetta la
sfida e soddisfa la richiesta. Ma questo non
basta, e la richiesta successiva a quella dei tre
abiti è completamente diversa: l'Infanta, su
consiglio della sua madrina, la fata dei Lillà,
chiede al padre la pelle dell'asino fatato, che
nelle stalle regali riempie ogni notte la lettiera
di monete d'oro. Quando il re senza esitare
sacrifica il suo animale per amore della figlia,
la principessa si copre con la pelle dell'asino e
fugge dalla reggia. Con gli
abiti meravigliosi che la seguono in una cassetta
sotto terra, pronti a tornare in superficie con un
tocco della bacchetta magica, la bella fuggitiva è
avvolta nella pelle dell'asino, che le aderisce
come una nuova identità, rendendola così brutta e
sudicia che nessuno vuol aver a che fare con lei.
Trasformata in Pelle d'Asino la protagonista
troverà finalmente un rifugio come sguattera e
guardiana di pecore e tacchini.
Come Cenerentola avrà un posto in cucina, e tutti
la disprezzeranno, disgustati dal suo aspetto
asinino. Non è con
la sua bellezza che l'Infanta può fuggire, né
tanto meno indossando le vesti che la fanno
risplendere come il firmamento, ricevute dal padre
innamorato, ma avvolta dalla pelle dell'asino: in
altre fiabe la principessa sfugge alle nozze
incestuose trasformandosi in un'orsa, o coperta da
una veste di legno. Ma il travestimento più
repellente, che rimanda alla vecchia Baubò del
mito delle grandi dee e alla vecchia della fiaba
cornice di Basile, è quello della principessa Occhi
marci, che aveva risposto al padre di
volergli bene come al sale. La balia non sa come
fare per salvarle l'onore, dato che la sua
bellezza richiama l'attenzione di tutti i giovani
che incontrano fuggendo: Una sera però, arrivate a una città le du' donne, s'imbatterno in un mortorio e gli dissano che era il funerale d'una vecchia morta a cento anni. Pensa subbito la balia: - "Se mi vendano la pelle di questa vecchia no' siemo salve." - Vanno dunque nella chiesa, e doppo finite le funzioni la balia cerca del becchino e gli domanda, se lui vole vendere la pelle della vecchia. Il becchino in sulle prime 'gli arrispose di no; ma poi, siccome la balia gli profferse cento scudi, lui s'accordò, e con un coltello scorticata per bene tutta la vecchia, la su' pelle la diede alla balia. La balia quand'ebbe avuto in mano la pelle della vecchia col viso, i capelli bianchi, le mane con l'ugne e tutto, la fece conciare e cucitala su del cambrì, mascherò con quella la ragazza, sicché la nun si riconosceva più (Nerucci, cit., p. 107). La
principessa diventa una cosa sola con la pelle che
la nasconde, e quando il principe le chiede la sua
età, risponde di avere centoquindici anni. Lo
stesso principe può scoprire che Occhi marci
è la bellissima sconosciuta che ha ballato con
lui, indossando abiti color del mare e color del
cielo, solo quando comprende che bruttezza e
bellezza compongono la sua identità, come elementi
egualmente importanti del suo complesso cammino di
crescita. L'idealizzazione della donna,
complementare all'idealizzazione dell'uomo,
impedisce l'uscita dal dominio genitoriale, reame
o casa originaria, e l'incontro profondo con
l'altro sesso. Tornando
a re Lear, abbiamo visto l'espressione di questa
idealizzazione in ciò che all'inizio pretende
dalle figlie, e più avanti troviamo l'opposto
complementare di questa idealizzazione, il
disprezzo. Le due figlie maggiori dopo essersi
sposate maltrattano il padre ormai privo di
potere, così come disprezzano i loro mariti: ciò
che muove le loro azioni sono la voracità e
l'invidia, che prosperano all'ombra di ogni
idealizzazione. La
perdita dell'immagine ideale del femminile, per
difendere la quale aveva sacrificato Cordelia, la
figlia più piccola e più amata, provoca in re Lear
il crollo dell'immagine idealizzata di sé, la
perdita irreparabile del suo senso di identità, la
sua pazzia. All'immagine ideale della donna amata,
che è madre, sposa e figlia allo stesso tempo,
subentra il suo opposto complementare. A questo
opposto, che costituisce la condizione in cui la
donna si sente brutta, colpevole, sporca e
inaccettabile, sarà dedicato il prossimo capitolo.
Ma prima leggiamo nelle parole di Lear ormai perso
nella follia l'espressione perfetta di tutto ciò
che l'uomo rifiuta di vedere nella donna, lo
stesso che la donna rimuove narcisisticamente da
se stessa: vi leggiamo ciò che forma l'oscurità
del femminile, inaccettabile perché sconosciuta,
negata, rimossa, eppure irrinunciabile se la
principessa vuole essere regina, come sanno
Cenerentola e Pelle d'Asino. Behold yond
simp'ring dame Whose face
between her forks presaes snow, That minces
virtue and does shake the head To hear of
pleasure's name - The fitchew
nor the soiled horse goes to't With a more
riotous appetite. Down from
the waist they are centaurs, Though women
all above; But to the
girdle do the gods inherit, Beneath is
all the fiends'; There's
hell, there's darkness, there is the sulphurous
pit - Burning,
scalding, stench, consumption. Fie, fie,
fie! pah, pah! Give me an ounce of civet, Good
apothecary, to sweeten my imagination. (A. IV, Sc. 6)[13] [1]
Vedi la Storia del principe Kalaf e
della principessa della Cina, in Pétis
de la Croix, I mille e un giorno
(1712), vol. I, pp. 150-250. Pétis de la Croix
fu il primo a pubblicare Turandot,
ambientandola in una Cina priva di riferimenti
storici e geografici, seguendo la moda
dell'orientalismo in voga all'inizio del
Settecento. Tra il 1704 e il 1717 erano uscite
Le mille et une nuits di Antoine
Galland, che divennero il best-seller
del Secolo dei Lumi. Anche il paese di Aladino,
nato alla carta stampata per opera di
Antoine Galland, era questa Cina, che va
intesa semplicemente come un lontano reame di
fiaba. Ma nei secoli il nome di maniera lavora
con la stessa procedura metastorica del
registro fiabesco, creando l'ambientazione
cinese della Turandot pucciniana, e
promuovendo, per le contemporanee
rappresentazioni di questo melodramma, scambi
concreti con la Cina per la sceneggiatura e la
regia. E' un bell'esempio di come l'arte, con
la sua illusione, senza pretese di veridicità,
finisca col creare la realtà. [2]
Non sono una vipera, eppure mi nutro /
della carne della madre che mi ha generato. /
Cercai uno sposo, e in questo lavoro / Trovai
quel favore in un padre. / Egli è padre,
figlio, e dolce sposo; / Io sono madre,
figlia, e pure sua bambina. [3]
Vedi Sigmund Freud, Totem e tabù
(1912-13). [4]
Temo per un delitto, / mi nutro della
carne materna. / Cerco il padre mio, di mia /
madre lo sposo / della mia sposa / la figlia,
e non trovo. (cit. da Peter Goolden, The
Old English Apollonius of Tyre,1958; p.
7) [5]
Sono portata da un crimine, / divoro la
carne di mia madre. / Cerco mio fratello, il
marito / di mia madre, il figlio di mia /
moglie. Io non lo trovo.(cit. da Ben Edwin
Perry, The Ancient Romances. A
Literary Historical Account, 1967, p.
296)
[6]
Questa formulazione enigmatica potrebbe
avere la sua matrice nelle Supplici di
Eschilo: "Simile a quegli uccelli che mangiano
carne di uccelli [...] s'è due volte nutrito
della sua propria carne, dapprima versando il
sangue paterno, poi unendosi col sangue
materno". (cit. da J.P. Vernant, Ambiguità
e rovesciamento sulla struttura enigmatica
dell'"Edipo re"; sta in:
Detienne, Il mito, 1989; p. 84). [7]
Il motivo degli amanti incestuosi che
vengono carbonizzati è presente nelle Mille
e una notte (1948, Storia del primo
mendicante nella Storia del facchino
e delle ragazze, vol I, pp. 64 sgg.),
dove subiscono questa pena un fratello e una
sorella. Ricorre anche nella Leggenda
Aurea, dove ad essere carbonizzata è una
madre che, non essendo riuscita a sedurre il
figlio, lo porta in tribunale accusandolo,
come Fedra, di peccati di lussuria. (Jacopo da
Varagine, 1990; vol. I, p. 14) [8]
A proposito dell'enigma vedi anche il
mio saggio Il motivo dell'enigma.
Trasformazioni e costanti del discorso
interiore, 1994. [9]
Wirklichkeitsgefül, usato da
Freud, significa letteralmente sensazione,
senso, sentimento della vera realtà, e
ci pare più poetico ed efficace della
locuzione più comunemente usata, principio
di realtà. Questo principio
viene troppo spesso inteso, o frainteso, in
termini riduzionistici, come contrapposto al
dominio del desiderio e della fantasia
desiderante. Riteniamo che il sentimento
della vera realtà scaturisca da una
trasformazione che tiene conto degli elementi
onirici, fantasmatici, simbolici, quanto dei
rapporti concreti che si articolano secondo
una norma consensuale. Se non c'è sentimento,
non c'è alcuna conoscenza profonda, nemmeno
nell'esperienza concreta. [10]
Signore, io vi amo più di quanto
possano riuscire ad esprimere le parole: v'ho
più caro della vista, dello spazio, della
libertà; vi amo al di sopra di tutto ciò che
può essere stimato ricco e raro; non meno
della vita, quando è unita alla grazia, alla
salute, alla bellezza, all'onore; vi amo
quanto figliolo amò mai padre, o padre si vide
amato; di un amore, il quale rende povero il
fiato e impotente la parola; io vi amo al di
là di tutti questi modi così alti di amare. (Tutte
le opere, a cura di Mario Praz, 1989, p.
904) [11]
Mio buon signore, voi mi avete
generato, allevato, voluto bene: io vi
corrispondo, da parte mia, con quei doveri che
sono giustamente convenienti; cioè vi
obbedisco, vi amo, e vi onoro del mio meglio.
Perché hanno marito le mie sorelle, se dicono
che tutto il loro amore è per voi?
Probabilmente, quando un giorno mi sposerò,
l'uomo che riceverà dalla mia mano il pegno
della mia fede, porterà con sé metà dell'amor
mio, metà delle mie cure e dei miei doveri:
certo, io non mi mariterò mai come le mie
sorelle, per dedicare tutto intero l'amor mio
a mio padre. (Ivi) [12]
Bellissima Cordelia, che sei ancora più
ricca perché sei povera, più eletta perché
abbandonata, più amata perché disprezzata, io
mi impossesso, qui, di te e delle tue virtù:
io, mi sia lecito, raccolgo ciò che vien
gettato via. Dèi, dèi! è strano che alla
gelida noncuranza di costoro, l'amor mio
dovesse accendersi, fino a divampare in
venerazione. Re, la tua figliola senza dote,
gettata nelle mie braccia dalla ventura, è
regina nostra, dei nostri sudditi, della
nostra bella Francia: tutti i duchi di
Borgogna non potranno ricomperare da me questa
preziosa fanciulla disprezzata. Cordelia, di'
addio a costoro, per quanto snaturati: tu
perdi questo luogo, per trovarne uno migliore.
(Ivi, p. 906) [13]
Guardate quella signora là, che sorride
scioccamente, che ha una
faccia, la quale vi farebbe credere, che fra
le sue gambe ci stesse di casa la neve, che fa
la santarellina, scuote il capo scandalizzata
a sentir pronunciare il nome del piacere;
ebbene, la puzzola e il cavallo pasciuto
d'erba fresca non ci si buttano con appetito
più sfrenato. Dalla vita in giù esse sono dei
centauri, sebbene nella parte superiore esse
siano donne; solo fino alla cintola
appartengono agli dei, la parte di sotto è
tutta del demonio, lì c'è l' inferno, lì c'è
l'abisso sulfureo, che brucia, che scotta, c'è
il fetore, la consunzione! via, via, via!
puah! puah! datemi un'oncia di zibetto per
profumare la mia immaginazione! (Ivi, p. 936). |
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4. La cenere
e il tempo |
IL PADRE,
L'INCESTO, LA FUGA He's father,
son, and husband mild; I mother,
wife, and yet his child. (Shakespeare) 1. Un giuramento fatale Una diade
perfetta si rompe perché la storia abbia inizio,
perché la parte più giovane, la figlia, possa
gustare il frutto della fecondità che la simbiosi
con la madre rende impossibile. La donna concreta
può sposarsi e restare vergine, gelida come
Turandot che mandava a morte i principi innamorati
di lei perché non sapevano sciogliere i suoi
indovinelli. [1] La donna
che non ha ucciso la propria madre, la donna per
la quale non ha avuto luogo il distacco, non
incontra l'uomo con tutta se stessa, anche se
conosce il piacere del rapporto sessuale e anche
se partorisce figli: nella sua parte più segreta
torna sempre al fantasma materno, al quale deve
dar conto della propria femminilità, e il suo
compagno somiglia in questo gioco allo sposo
infero che rapisce Proserpina. L'incontro è
parziale, come per Proserpina, che passa una parte
dell'anno con lo sposo e una parte con la madre. A livello
intrapsichico la donna vive questo mancato
distacco dal fantasma materno come una
interdizione a esprimere le sue caratteristiche
personali, perché la sottrarrebbero a un'identità
coincidente con quella della madre. Questa
identità ha a che fare con un'esperienza primaria
della madre, e può essere descritta come
narcisismo femminile. La madre chiede e impone
alla figlia di rispecchiarla, e la figlia
accettando questo rispecchiamento si struttura
secondo un'identità modellata su quella di lei.
Ogni forma di narcisismo funziona come una
conferma di sé ottenuta nell'immobilità, come
fuori dal tempo, fissando uno specchio, e tiene il
posto dell'esperienza della propria identità la
cui figura è il viaggio, il movimento che prevede
l'incontro con figure diverse da quelle
originarie, endogamiche. Non esiste una donna che
sia tutta e sempre di fronte a quello specchio, ma
una componente più o meno ampia di ogni donna vi
si trova, almeno in una fase della vita, e molte
madri non se ne staccano mai, educando a loro
volta le figlie a rispecchiarsi in loro.
L'anoressia rappresenta il limite estremo del
legame strettissimo e insopportabile con la madre,
e la portatrice della patologia rifiutando il cibo
tenta di distruggere l'immagine che impone il
rispecchiamento, anche se il successo di questa
distruzione è contemporaneamente la distruzione di
sé, fino alla morte. Abbiamo
ripreso il tema del capitolo precedente perché la
rappresentazione dell'incesto che andiamo ad
analizzare segue alla morte di una madre
bellissima, come quella della fiaba molisana che
ogni giorno interrogava il sole. La storia
della protagonista non si origina da una madre
persecutoria che subentra alla morte o
all'uccisione della madre buona, come nella Gatta
Cennerentola, Aschenputtel e Cendrillon.
Si apre il racconto con una bella morente che fa
giurare al re affranto di non risposarsi più, a
meno che non trovi una donna eguale a lei. La
fiaba esprime questa eguaglianza dicendo che la
nuova sposa deve essere bella quanto lei, o avere
come lei fili d'oro tra i capelli, o il dito della
misura giusta per il suo anello, come successe in
Zuccaccia, una delle Sessanta novelline
popolari montalesi di Gherardo Nerucci
(1880). Questa
fiaba dice che il re non pensava a risposarsi, e
aveva riposto l'anello in una scatolina che da
tanti anni stava in un cassetto. Ma la
principessina un bel giorno trovò l'anello, se lo
infilò al dito, e tutta contenta corse dal padre a
fargli vedere come le andava bene:
Dice il re: "Oh! figliola mia, 'gli è l'anello della tu' poera mamma. E sai, che mi disse quando lei me lo diede? Mi disse, che dovevo pigliare per isposa quella donna d'i' mi' pari, che l'anello gli stessi bene in dito. Dunque, cara figliola, bisogna bene che tu sia la mi' sposa." La ragazza a quel brutto discorso si sentiede tutta rimiscolare; ma il Re gli cominciò a fare delle carezze e a manifestargli delle parole, non più da padre, ma da amante; sicché la ragazza vergognosa e sbigottita la gli scappò a fatica di tra le mane, e diviata se n'andette dalla balia a raccontargli piagnendo quel che gli era successo. Dice la balia: "Nun vi sgomentate, figliola mia; ma, nunistante, badate di nun mettervi 'n contrasto con vostro padre. Date retta a me, ch'i' vi consiglierò a bene. Voi gli avete a promettere di sposarlo, a patto che vi regali un vestito di seta color d'aria e tutto tempestato con le stelle del cielo. Un vestito a questo mo' non si trova nel mondo, e voi allora nun siete più nell'obbligo di mantenergli la promessa" (Nerucci, cit., p. 87). Quando la
madre morendo si è fatta fare una promessa come
questa, ne segue sempre una situazione di incesto.
Per il padre fedele alla sposa morta, la fedeltà è
possibile solo sposando la figlia: ma la sposa
morta, la prima moglie, è la madre stessa: viene
infatti definita come unica e irrinunciabile, al
punto che solo una donna uguale a lei può
prenderne il posto. Possiamo dire che questo padre
vuole sposare la figlia perché crede che sia la
madre stessa, la identifica con lei, e afferma che
in questo modo obbedisce al suo estremo e
inelusibile desiderio. È la somiglianza con la
madre che rende questa protagonista di fiaba
irresistibile per il padre, e osservare questo ci
spinge a riflettere su un aspetto strutturale
dell'incesto: il tempo senza tempo che esso può
creare, come la diade madre-figlia. Al tempo
storico, irreversibile, che i calendari e gli
orologi dividono in segmenti ordinati come una
linea percorribile in una sola direzione,
corrisponde nella vita dell'uomo il passaggio
dalla dipendenza infantile dai genitori alla
maturità nella quale si generano e si crescono
figli, e poi all'invecchiamento. I figli attestano
il passaggio dalla condizione di generato a quella
di generante, di genitore, mentre la loro
crescita, quando raggiungono l'età adatta per
generare a loro volta, marca inevitabilmente
l'inizio di una decadenza fisica, della fase che
ha come sua conclusione la morte. Le generazioni
si succedono nel tempo: il tempo porta al
succedersi delle generazioni. Ma se la
madre si rispecchia nella figlia, e se questo
rispecchiamento di madre in figlia si ripete, la
vita dell'una è la vita dell'altra, e la morte non
esiste. E se il padre non accetta che la figlia
tagli definitivamente il suo legame con lui per
unirsi a un suo coetaneo, può arrestare il corso
del tempo: può illudersi di creare un tempo
ciclico, in cui la madre e la figlia e la sposa
sono confuse in una sola figura.
Anche le
fiabe in cui la principessa rifiuta tutti i
pretendenti presentano un arresto del tempo: il
regno rischia di finire per la mancanza di un
erede. In questo caso il tempo viene fermato dalla
parte giovane, che evita la crescita rifiutando le
nozze, mentre il padre è rappresentato come
addolorato per questo rifiuto. È la vicenda della
gelida Turandot, che pone enigmi ai suoi
pretendenti: se non riusciranno a risolverli sarà
loro tagliata la testa. Il regno senza erede, e la
pena di morte comminata a chi tenta la prova senza
superarla, figurano in altre rappresentazioni
dell'incesto. Prima fra tutti, per la sua
importanza nel senso greco della tragedia e per la
sua centralità nella psicoanalisi, la vicenda di
Edipo. Del suo mito e della sua tragedia, che
esprime il senso della conoscenza e della vita
umana, toccheremo soltanto alcuni punti per porli
in relazione con la fiaba. La città
di Tebe, il reame, è senza re, e un essere
chimerico, la Sfinge, pone un enigma a tutti
quelli che vi si dirigono. Chi non sa rispondere
viene gettato nell'abisso, chi risponde diverrà il
re della città. Pensando
alla complessità del mito e della tragedia, viene
da chiedersi come sia possibile che il punto di
catastrofe, di trasformazione radicale, sia
marcato da un indovinello che anche un bambino può
risolvere: "Qual è l'animale che al mattino
cammina con quattro gambe, a mezzogiorno con due e
alla sera con tre?". Eppure
rispondendo a questo piccolo gioco Edipo libera la
città dalla maledizione della Sfinge, ed è così
che cade nel destino che credeva di fuggire, il
parricidio e l'incesto. La risposta è semplice,
facile per Edipo, ma il mistero è contenuto in
questa stessa semplicità: per rispondere bisogna
abbracciare tutta la vita dell'uomo come arco
della sua luce, come un solo giorno. Lo sguardo
vede lo stesso uomo piccolo nella dipendenza, che
si erge allo zenit nel culmine della sua forza, e
torna a chinarsi verso la terra, verso la sua
tomba. Edipo dopo aver risposto all'enigma della
Sfinge diventa proprio quell'uomo, perché vive
contemporaneamente la condizione di generante e di
generato, di marito e figlio della propria madre,
di padre e fratello dei suoi figli. In un
romanzo latino del III secolo, letto e amato in
Europa fino al secolo XVIII, troviamo qualcosa che
ci può aiutare a capire il problema dell'enigma
tra fiaba e tragedia: Hystoria Apollonii Regis
Tyri, La storia di Apollonio re di Tiro.
C'era una
volta nel regno di Antiochia il re Antioco,
vedovo, la cui figlia era di una bellezza senza
pari, e il padre, mentre si chiedeva a chi
concederla in sposa, se ne innamorò al punto che
le usò violenza, e cominciò a vivere con lei un
legame incestuoso. Per allontanare gli
innumerevoli pretendenti fece questo bando:
l'avrebbe avuta in sposa solo chi fosse riuscito a
risolvere un indovinello, ma a chi avesse tentato
senza successo sarebbe stata tagliata la testa,
proprio come ai pretendenti di Turandot. Ancora
più dell'indovinello della Sfinge, questo enigma
rivela, mentre nasconde, la soluzione. La leggiamo
dal Pericle principe di Tiro, che
Shakespeare trasse da questo romanzo: I am no
viper, yet I feed On mother's
flesh which did me breed. I sought an
husband, in which labour I found that
kindness in a father. He's father,
son, and husband mild; I mother,
wife, and yet his child. (A. I, Sc. 1) [2] L'enigma
è una precisa rappresentazione della relazione
incestuosa: "Mi nutro della carne della madre che
mi ha allevato... egli è padre, figlio e dolce
marito; io sono madre, moglie e pure la sua
bambina". Per
indicare la sua relazione forte con i figli nel
linguaggio comune il genitore, e la madre in
particolare, dice "carne della mia carne":
nell'enigma per descrivere il rapporto incestuoso
è usato un verbo relativo alla sfera orale: "Mi
nutro della carne di mia madre". La figlia si
nutre del padre, di cui la madre si nutriva, e
questa regressione all'oralità richiama l'antica
azione mitica con la quale il Tempo stesso cerca
di arrestare il succedersi delle generazioni e la
perdita di potere che ne consegue: il dio greco
Crono, il cui nome significa tempo,
Saturno per i latini, per non essere spodestato da
uno dei suoi figli li divorava appena nati. Il
mito e le opere letterarie sono rette da una
geometria molto vicina a quella della teoria
psicoanalitica, ed è facile interpretare queste
formulazioni enigmatiche, sia che si faccia
riferimento alle fasi e alle zone erogene in
Freud, sia che si pensi ai fantasmi originari
kleiniani. Il bambino piccolo esprime le sue
ipotesi su come si fanno i bambini unendo senza
problemi di coerenza le zone orali, anali e
genitali; inoltre, anche lasciando da parte le
perversioni, è facile osservare nella sessualità
molte contiguità e scambi tra sfere erogene. Questo
impasto è nominabile come un caos originario dal
quale si enucleano rappresentazioni differenziate,
che permettono di separare, delimitare ed esperire
le diverse sfere erotiche, vitali: ma non scompare
mai completamente, e preme in maniera perturbante
e confusiva nell'adulto, ogni volta che affiorano
nuclei psicotici, destabilizzanti per la vita di
relazione e l'equilibrio personale. Possedere
sessualmente, mangiare, nutrirsi, arrestare lo
scorrere del tempo, mettere in scacco la morte
impedendo la crescita dei figli: questo gioco è
rappresentato dall'enigma che vela e svela la
relazione tra il re Antioco e sua figlia. La
difficoltà nel risolverlo, visto che la soluzione
è chiarissima, indica la difficoltà a
rappresentarsi l'evidenza del tema dell'incesto:
l'enigma esprime a un tempo questo contenuto
cruciale e la sua rimozione. Rivisitare
l'incesto in questa chiave, osservando come
annulli il tempo storico annullando la separazione
fra generazioni, impone di richiamare la
centralità che per Freud ha il tabù dell'incesto:
il divieto e la separazione fra generazioni che ne
consegue rendono possibile la civiltà umana [3]. Abbiamo
osservato che il processo di rimozione, che
attesta l'universalità delle pulsioni incestuose,
è rappresentato in primo luogo da questo
paradosso: che molti pretendenti non riescono a
rispondere all'enigma, nonostante l'enigma
descriva a chiare lettere le nozze tra padre e
figlia. Meglio ancora: è appunto per la sua
intollerabile evidenza che la soluzione non può
essere pensata. Ma
possiamo osservare un altro interessante livello
di rimozione, andando a leggere l'enigma nel
romanzo latino del III secolo e nella versione
inglese dell'XI secolo: le nozze incestuose sono
rivelate e svelate con altrettanta chiarezza, ma
c'è qualcosa d'altro. Scelere vereor, I am borne along the crime Materna carne vescor.
I devour my
mother's flesh Quaero
patrem meum, meae
I seek my brother, the husband Matris
virum, uxoris meae
Of my mother, the son of my Filiam, nec
invenio. [4]
Wife. I do not find him. [5] Nel
romanzo antico chi pone l'enigma è il re padre, in
Shakespeare è la figlia, come nella fiaba è
Turandot. Per lo scrittore e per il pubblico
adulto, come per Freud, è probabile che sia più
perturbante assegnare al padre il ruolo più attivo
nell'instaurarsi della relazione incestuosa.
Riteniamo che questo abbia provocato il minor
successo della bellissima versione di Pelle
d'Asino di Perrault rispetto ad altre sue fiabe:
nessuno si aspetta che la Walt Disney ne fornisca
una versione, a meno che non abbandoni la sua
rappresentazione eufemizzata dell'infanzia, che
riscuote tanto successo. Ma anche Shakespeare ha
preferito fornire una versione dell'enigma che
elimina l'ambiguità onirica o delirante espressi
alla fine dell'enigma dalle versioni più antiche:
Cerco il padre mio, di mia / madre lo sposo /
della mia sposa / la figlia, e non trovo...
Cerco mio fratello, il figlio di mia / moglie.
Io non lo trovo.... Prima di
interpretare questi versi antichi desideriamo
fornire un esempio di rimozione per
razionalizzazione. Ben Edwin Perry, nella sua
opera sul romanzo antico (cit., pp. 296
sgg.), trova illogico che il re Antioco ponga ai
pretendenti che desidera allontanare un
indovinello che rivela la relazione incestuosa
mentre la vuole mantenere segreta. Desiderando
spiegare questa incongruità, lo studioso ipotizza
che l'ignoto autore latino abbia inserito un
indovinello qualsiasi, che per caso aveva
sottomano in quel momento, dimenticando la
consequenzialità del suo racconto. Lo
psicoanalista analizza per riconoscere un senso
profondo, difficile da accogliere, proprio dove
appare una lacuna, procedendo in direzione opposta
alla rimozione. Questo consente di procedere nella
comprensione dell'opera letteraria, evitando che
talora ciò che sta sotto gli occhi, il motivo
essenziale dello stesso romanzo, l'enigma
contraddittorio e perturbante dell'incesto, possa
essere liquidato come una casuale svista
dell'anonimo autore antico. È strano che si sia
trascurato il senso della presenza di questa
stessa formulazione dell'enigma nella versione
dell'undicesimo secolo. Un esercizio meno rigido
della rimozione ha evidentemente consentito
all'antico traduttore inglese una comprensione del
testo superiore a quella del nostro contemporaneo
[6]. Si può
osservare il romanzo, o il sogno personale, come
un insieme espressivo, un corpo unico, governato
da una logica analoga a quella che governa il
corpo individuale, che sviluppa anche le malattie
autoimmunitarie, senza alcun riguardo per la
nostra difficoltà logica a comprendere come una
funzione che tutela la vita e la salute si
trasformi in un agente di morte. Se si operasse
secondo quella logica razionalizzante - che
rimuove il senso perturbante attraverso
razionalizzazioni - potremmo anche ipotizzare
un'interpolazione, trovando incongruente che la
Sfinge si sia gettata nell'orrido quando Edipo
risolve il suo enigma. Perché questa insidiosa e
mortifera chimera avrebbe dovuto suicidarsi solo
perché il suo indovinello era risolto? Non poteva
cambiare sentiero e continuare a porlo sulla via
di Sparta, oppure trasformarsi in una delle
innumerevoli divinità sparse nella Grecia antica?
Ma
nessuno trova incongruente il tragico e volontario
volo della Sfinge, quando si immola col suo ordine
enigmatico di fronte all'eroe del pensiero, che ha
osato risolvere semplicemente ciò che non è
semplice. Di questa complessità caotica, in cui è
diffuso il germe del desiderio, della passione,
dell'Eros, le antiche formulazioni danno una
straordinaria rappresentazione. Nel testo latino,
le parole scelere vereor, materna carne vescor
(temo per un delitto, mi nutro della carne
materna), potrebbero essere
pronunciate sia dal padre che dalla figlia, perché
carne materna può essere inteso sia come
figlia per il padre, sia per la figlia, come
padre, sposo/carne della madre. Nel testo inglese,
successivo di sette secoli circa, l'ambiguità
resta nella prima frase, I am borne along the
crime (sono portato/a da un delitto),
mentre è scomparsa dalla seconda: I devour my
mother's flesh (divoro la carne di mia
madre), può essere detto solo dalla figlia.
L'inizio
dell'ultimo periodo deve essere pronunciato in
entrambi i casi dalla figlia: al latino quaero
patrem meum, meae matris virum (cerco
mio padre, lo sposo di mia madre), corrisponde
una versione letterale nell'inglese antico, salvo
che al posto del padre compare il fratello,
sposo della madre: I seek my brother, the
husband of my mother. Ed è a questo punto
che l'incongruenza raggiunge il culmine: in latino
la ricerca della figlia diventa senza soluzione di
continuità la ricerca operata dal padre: uxoris
meae filiam. In inglese quale dei due cerca
il figlio maschio della propria moglie, the
son of my wife? Nel romanzo la
principessa è figlia unica, quindi il padre non
potrebbe cercarlo; e la figlia può cercare il
figlio di sua moglie? Nec
invenio (e non trovo), I do not find him (non lo
trovo).
Impossibile
rientrare nel passato: per quanto entrambe le
polarità della relazione incestuosa agiscano alla
lettera la loro passione, non trovano
l'impossibile oggetto d'amore, che è insieme sposa
e sposo, figlio e figlia, amante, e madre, padre,
fratello, sorella. La sorte della coppia
incestuosa è una splendida rappresentazione della
distruttività che entra in scena infrangendo il
tabù dell'incesto: il re di Antiochia e sua figlia
dopo un certo tempo vengono trovati carbonizzati
nel loro letto, puniti dagli dei con la loro
stessa passione, divorante come il fuoco. [7] Così
oscuro è anche un testo letterario, quando
rappresenta ciò che appartiene alla sfera
perturbante dell'inconscio non colonizzato,
razionalizzato, eufemizzato, dalla coscienza,
com'è oscuro un sogno notturno, e ogni fiaba
quando il suo senso ci sfugge. Ma il loro ordine
segreto, una volta che l'interpretazione abbia
consentito di coglierne il senso, è mirabile, e
solo in quel momento, con la coscienza derivante
dalla ricerca effettuata, possiamo affermare che
la miglior interpretazione di una fiaba, di un
sogno, di un testo letterario, è quella fiaba,
quel sogno, quel romanzo antico [8]. 3.
L'incesto in Pelle d'Asino Abbiamo
già parlato di narcisismo a proposito della
relazione troppo perfetta tra madre e figlia.
Narciso, fissando la propria figura, resta
immobilizzato in un tempo e uno spazio: la
relazione incestuosa, per quanto imprigionante,
implica due figure, di sesso diverso. Per Narciso
la sola uscita dalla prigione dello specchio è nel
dolore insopportabile al quale consegue la morte,
mentre dalla relazione incestuosa la protagonista
della fiaba, il soggetto che deve e vuole
crescere, può fuggire. Mentre
Edipo e il re Antioco vivono la tragedia di questa
vicenda umana essenziale, la fiaba rappresenta un
percorso del quale il motivo dell'incesto è una
parte, ed è seguito da una fuga bellissima della
protagonista, che dopo un tempo di occultamento
nella bruttezza e nello sporco splenderà come un
astro e diventerà regina. Le fiabe
confrontate tra loro ci raccontano che il rifiuto
della vita e del suo tempo storico ha gli stessi
effetti, sia che questo rifiuto sia agito dal
genitore che dalla figlia. La difficoltà che
impedisce di crescere è difficoltà nella relazione
tra genitore e
generato, e in ogni caso la possibilità di
scioglierla sta nel bisogno e nel desiderio di
uscire dalla relazione della parte giovane. Come nel
sogno i personaggi e gli scenari appartengono
tutti al sognatore, del quale mettono in scena
articolazioni e funzioni psichiche, così nella
fiaba antagonisti e protagonisti possono essere
intesi come figure intrapsichiche. Le violenze che
subiamo da figure esterne, concrete, si fissano in
coazioni che arrestano la nostra crescita nella
misura in cui queste figure hanno un corrispettivo
fantasmatico dentro di noi. Il potere di una
personalità sadica non esiste se l'altra persona
non ha in sé componenti masochistiche, rispetto
alle quali personifica un fantasma già esistente.
Il delirio di persecuzione porta le personalità
paranoidi a selezionare nella realtà esterna tutto
ciò che conferma la loro costruzione, fino a
individuare con assoluta certezza elementi
oggettivi che per un osservatore esterno sarebbero
neutri e insignificanti. Oppure si pensi alla
sconfortante tendenza delle persone che escono da
una relazione di coppia fallimentare a ritrovare
un tipo di partner con le stesse caratteristiche
del precedente. Dal punto di vista della realtà
psichica, di cui parlano le fiabe, interno ed
esterno sono condizioni intercambiabili di oggetti
significativi affettivamente. Parliamo di oggetti
psichici il cui campo non è solo quello della
coscienza, che ha la funzione di discriminare tra
soggetto e oggetto, interno ed esterno. Quando
questa separazione è possibile possiamo dire che
la persona ha acquisito il sentimento della vera
realtà[9], e distingue tra sé e
altro da sé abbastanza da cogliere le possibilità
trasformative dell'esperienza. Se la figlia
anoressica potesse distinguere in senso profondo
fra la propria identità e il fantasma materno, non
sarebbe determinata da un rifiuto della madre e
del cibo che cresce come rifiuto del corpo e della
vita. L'enigma
posto dalla Sfinge, e quello analogo del re di
Antiochia, sono tanto difficili da risolvere
perché per farlo occorre accogliere
l'incomprensibile che è in noi. Non è possibile
dare la risposta se la rimozione ha eliminato
dalla coscienza ogni traccia di quel passato in
cui eravamo intrecciati in una relazione
simbiotica con i genitori, non è possibile
rispondere se le barriere tra il generante e il
generato sono così rigide che non è possibile
vedere che nell'arco del suo giorno l'uomo è tre
esseri diversi, e non è mai solo l'uno senza
l'altro. Non è possibile se ciò che determina lo
psichismo non può accettare la morte come ultimo
termine della vicenda umana. Il padre
che vuole sposare la propria figlia vuole essere
sia generante che generato, tentando di fermare il
tempo storico e di vivere un tempo in cui si
illude di mettere in scacco l'invecchiamento e la
morte confondendo i due termini della relazione. Mentre
nel romanzo antico e nella tragedia di Edipo la
relazione incestuosa è consumata letteralmente, la
fiaba di Pelle d'Asino racconta che, un attimo
prima della infrazione del tabù, la figlia si dà
alla fuga. Si rappresenta quindi il motivo
dell'incesto come una vicenda in parte
deletteralizzata, quindi psichizzata. Dal momento
in cui fugge, la principessa avrà ancora molto
lavoro da compiere prima di giungere alle nozze,
ma il suo destino sta a quello della principessa
di Antiochia come un sonno lungo cent'anni sta
alla morte. 4. Cordelia Abbiamo
parlato di un tempo senza tempo, che prende vita
dalla relazione incestuosa col suo rifiuto
dell'avvicendarsi delle generazioni. Vogliamo
osservare ora la stessa condizione in una forma
deletteralizzata, nel senso che non si parla di un
rapporto incestuoso con la figlia, eppure dalla
figlia più giovane il padre esige un amore diverso
da quello che può dargli. Così
cominciano tante fiabe, come Occhi marci di
Nerucci: A' tempi antichi ci fu un Re che aveva tre figliole. Un giorno le chiamò tutt'insieme e disse alla maggiore: "Quanto mi vo' tu bene?". "Quant'al pane", quella gli arrispose. "Allora i' son contento", dice 'l padre. Poi s'arrivolse alla mezzana: "E te quanto mi vo' tu bene?". "Babbo mio, quant'al vino". Fa il padre: "Anco di te i' son contento, perché il vino mi garba e il paragone è giusto. E te, piccina, dimmelo anco te, quanto mi vo' tu bene?". Dice la piccina: "Quant'al sale". "Oh birbona," sbergola il Re: "dunque, tu mi vo' veder distrutto?". E s'incattivì, ché alla figliola, per bone ragioni che lei gli portassi del su' pensieri, non ci fu verso di farlo persuaso e d'abbonirlo. Dice lui: "Sì, tu mi vo' distrutto, perché 'l sale si strugge anco da sé indove si mette. Dunque una figliolaccia come te con meco nun ci pole più stare. Va' via di casa e ti maladico, e vai laddove più ti garba. Ma fuggi via subbito dalla mi' presenzia e ch'i' nun ti rivegga più mai" (cit., p. 106). Come la
protagonista di Zuccaccia questa
principessa disperata va a chiedere consiglio alla
sua balia, visto che la madre, come ci
aspettavamo, è assente, neanche nominata. E per
allontanarsi dal padre fugge in un reame lontano,
coperta da un travestimento repellente che la
occulta e dal quale uscirà in tutto il suo
splendore per sposare il suo principe: lo
svolgimento della vicenda è lo stesso che
analizzeremo nei prossimi capitoli, quasi identico
a quello di Pelle d'Asino. Invece di chiederle di
sposarlo, il re chiede alla figlia più piccola di
risponderle come lui desidera, e non sopporta che
gli voglia bene come al sale perché, dice, il sale
si distrugge anche da sé. Le altre due sorelle
paragonano il padre ai cibi fondamentali, gli
stessi che figurano nel sacrificio della messa,
dicono quindi al padre che lui è il cibo della
loro vita, mentre la più piccola gli richiama la
sua morte: il sale si distrugge anche da sé. Ci
piace considerare l'orrore provocato nel padre da
questa risposta come una conferma di quanto
abbiamo detto dell'incesto: essere al centro
dell'amore della figlia, essere il suo sposo,
permette al padre di respingere il fantasma della
propria morte. Dopo aver
incontrato il suo principe, colui che la
riconoscerà sia nell'oscurità del suo
travestimento che nel suo splendore, la figlia più
piccina si sposa, e al banchetto di nozze
partecipa anche suo padre, che invece non la
riconosce più. La sposa, come si racconta, dispose
che gli venisse servito tutto senza sale, e il re
non riuscì a mangiare, e se ne rammaricò dicendo
che le pietanze erano insopportabilmente sciocche.
"Dunque lei al sale gli vole bene?", addimandò la sposa. Dice lui: "Sicuro, ché insenza sale i' nun so fare io". "Oh! allora, signor padre", scramò la sposa, "perché mi mandò via di casa, quand'i' paragonai il bene ch'i' gli volevo al bene ch'i' voglio al sale?". A queste parole 'mprovvise il padre s'accorgette che era la su' figliola e disse forte: "T'ha ragione! I' feci male dimolto, e ti chieggo perdono, e ti benedisco con tutto il core" (Ivi, pp. 109-110). Attraverso
l'amore del padre la figlia si stacca dalla madre
e impara ad amare l'altro sesso, ma la sua
crescita si chiude nella relazione incestuosa se
il padre si configura per lei come nutrimento. Occhi
marci,
sorella di Cordelia, sa che la relazione col padre
deve essere deletteralizzata, simbolizzata, per
consentire la crescita verso l'eterosessualità
esogamica, le nozze regali. Il finale di questa
fiaba riporta ai suoi confini l'amore per il
padre: essenziale, esso non costituisce però il
cibo di cui può nutrirsi la figlia, che dovrà
trovarlo e prepararlo nel nuovo reame, staccandosi
dalla propria casa, sciogliendo i legami con la
propria famiglia. In questo
motivo fiabesco il simbolo del sale richiama la
funzione paterna come principio di separazione,
discernimento: avere del sale in zucca
significa essere saggi, agire sensatamente;
un cibo può essere sciocco come una
persona; il verbo latino sapio significa
sia aver gusto che esser savio, e
da esso derivano sapere e sapore.
Delle due
sorelle di Occhi Marci la fiaba non parla,
perché rappresentano la parte che smette di
crescere. Questa non è materia di fiaba, perché
non apre un percorso, un movimento dal noto
all'ignoto, dal legame con i genitori alla
costruzione di una nuova realtà affettiva, che
viene conquistata dalla protagonista e dal suo
principe, perché non si trova nella casa
dell'origine. Come
tragedia, non fiaba, verso la morte, non verso il
lieto fine, si svolge lo stesso tema in Re
Lear. Nel primo atto Shakespeare ci presenta
un re che abdica e vuole che le figlie ereditino
in anticipo il suo regno: apparentemente accetta e
favorisce il passaggio di potere alla nuova
generazione. Come il re della fiaba del sale
chiede alle tre figlie quanto lo amano, perché il
loro amore è la ricompensa che esige per il regno
di cui si priva. La prima
figlia dice: Sir, I love
you more than word can wield the matter; Dearer than
eyesight, space, and liberty; Beyond what
can be valued, rich or rare; No less than
life, with grace, health, beauty, honour; As much as
child e'er lov'd, or father found; A love that
makes breath poor and speech unable; Beyond all
manner of so much I love you. (A. I, Sc. 1) [10] Osserviamo
che nella risposta l'amore verso il generato e
l'amore verso il generante sono nominati in quella
identità senza limiti di cui abbiamo parlato come
carattere fondamentale dell'incesto: quanto
può essere amato il figlio, quanto può essere
amato il padre. Quand'è il suo turno, la
figlia mediana dichiara un amore ancora più
grande, perché la sua felicità è solo nell'amore
paterno, e re Lear, soddisfatto, assegna a
ciascuna di loro un terzo del suo regno. La più
piccola, la prediletta Cordelia, non ha nulla da
dire, poi, dietro le insistenze del padre, gli
risponde:
.....................................
Good
my lord, You have
begot me, bred me, lov'd me; I Return those
duties back as are right fit, Obey you,
love you, and most honour you. Why have my
sisters husbands, if they say They love
you all? Haply, when I shall wed, That lord
whose hand must take my plight shall carry Half my love
with him, half my care and duty. Sure I shall
never marry like my sisters, To love my father all. (Ivi)[11]. Re Lear,
deluso da questa risposta, si infuria e ripudia la
figlia più piccola, dividendo fra le due prime
figlie l'ultima parte di regno. Rimasta senza
dote, Cordelia viene rifiutata dal suo pretendente
duca di Borgogna, mentre il re di Francia chiede
la ragione del ripudio. Comprendendo la vicenda,
parla e agisce con una sensibilità corrispondente
a quella di Cordelia, e la sua poesia ci fa
incontrare per la prima volta il principe
sensibile, che ritroveremo nel capitolo 7: Fairest
Cordelia, that art most rich, being poor; Most choice,
forsaken; and most lov'd, despis'd! Thee and thy
virtues here I size upon, Be it lawful
I take up what's cast away. Gods, gods!
'tis strange that from their cold'st neglect My love
should kindle to inflam'd respect. Thy
dow'rless daughter, King, thrown to my chance, Is queen of
us, of ours, and our fair France. Not all the
dukes of wat'rish Can buy this
unpriz'd precious maid of me. Bid
farewell, Cordelia, though unkind; Thou loses
here, a better where to find. (Ivi)[12]. Mentre
abdicando sembra riconoscere la propria vicinanza
alla morte, Lear esige di essere rispecchiato come
assoluto oggetto d'amore. Esigere dalla propria
figlia che dichiari un amore più grande di ogni
cosa bella e profonda della vita, unendo l'amore
per il figlio e l'amore per il padre è una
richiesta incestuosa, anche se l'incesto non è
letteralmente presente. Ed è la richiesta posta
alla figlia da ogni padre che chiede di essere
idealizzato: la fissazione a questa figura paterna
le impedisce di amare veramente un altro uomo. La
donna che resta psicologicamente legata
all'immagine paterna, imprigionata nella relazione
edipica in una forma virtuale di incesto, amerà il
proprio partner a patto che corrisponda a questa
immagine idealizzata, e cercherà di distruggerlo,
sentendosi tradita e delusa, quando sarà costretta
a prendere atto che non potrà mai essere
all'altezza delle sue aspettative. La donna sarà
incapace di perdonargli non tanto le sue mancanze,
quanto il suo essere irrimediabilmente altro dal
padre. Amare un altro uomo non implica solo che la
donna abbia rotto lo specchio che mantiene
l'identità originaria con la madre, ma anche la
sua rinuncia alla bellezza di cui gode nell'amore
edipico. 5. Gli abiti
meravigliosi Nella
fiaba di Zuccaccia, che abbiamo già
introdotto, la principessa pone come condizione
per accettare le nozze che il padre le procuri un
vestito di seta color d'aria e tutto tempestato
con le stelle del cielo. La balia l'ha
consigliata di chiederlo pensando che il dono
fosse impossibile, ma il re innamorato incarica un
servitore di cercarlo in tutto il mondo, a
qualunque costo. In tutte le fiabe in cui viene
formulata questa richiesta, il re la soddisfa: poi
segue la richiesta di un altro abito, e di un
terzo, sempre più belli e difficili da procurare.
Così il
padre di Zuccaccia le dona il vestito color
dell'aria con le stelle del cielo, e poi un abito
di seta color dell'acqua, con tanti pesci d'oro
che ci nuotano dentro, e infine un terzo, tutto
tessuto di campanelline e catenelle d'oro. Nella sua
versione della fiaba Perrault racconta che il re
ordina ai suoi servitori di fare gli abiti
richiesti dall'Infanta: se non riusciranno li
impiccherà tutti. Così le dona un abito del color
dell'aria, bello come il cielo azzurro quando è
circondato da nuvole d'oro, uno che splende come
la luna, e il terzo del colore del sole: ...Il Re innamorato diede via senza rimpianti tutti i diamanti e tutti i rubini della sua corona, con l'ordine di non risparmiare alcuna cosa affinché l'abito fosse più splendente del sole. Infatti, non appena fu portato alla Corte, tutti quelli che lo videro furono costretti a chiudere gli occhi, tanto ne rimasero abbagliati. È da quel tempo che sono venuti in voga gli occhiali verdi e le lenti affumicate. Cosa divenne l'Infanta a tale vista? Non si era mai veduta cosa più bella né più artisticamente lavorata. Ella rimase senza fiato e, col pretesto d'aver male agli occhi, si ritirò in camera sua... (Perrault, cit., p. 5). Perché
l'Infanta e Zuccaccia chiedono al padre innamorato
abiti meravigliosi se vogliono evitare le nozze
con lui? Dato che sono abiti con i quali la loro
bellezza, già straordinaria, si esalta, vestendosi
dell'azzurro del cielo e dello splendore degli
astri, l'amore incestuoso non può che crescere. La figlia
sfida il padre ad arricchire la sua identità,
visto che gli abiti la simbolizzano, fino a fare
di lei più che una principessa bellissima: gli
pone come condizione per sposarlo di dimostrare
che col suo amore può renderla bella come il
cielo, il mare, la luna, le stelle, il sole... E
il padre con la sua regale potenza accetta la
sfida e soddisfa la richiesta. Ma questo non
basta, e la richiesta successiva a quella dei tre
abiti è completamente diversa: l'Infanta, su
consiglio della sua madrina, la fata dei Lillà,
chiede al padre la pelle dell'asino fatato, che
nelle stalle regali riempie ogni notte la lettiera
di monete d'oro. Quando il re senza esitare
sacrifica il suo animale per amore della figlia,
la principessa si copre con la pelle dell'asino e
fugge dalla reggia. Con gli
abiti meravigliosi che la seguono in una cassetta
sotto terra, pronti a tornare in superficie con un
tocco della bacchetta magica, la bella fuggitiva è
avvolta nella pelle dell'asino, che le aderisce
come una nuova identità, rendendola così brutta e
sudicia che nessuno vuol aver a che fare con lei.
Trasformata in Pelle d'Asino la protagonista
troverà finalmente un rifugio come sguattera e
guardiana di pecore e tacchini.
Come Cenerentola avrà un posto in cucina, e tutti
la disprezzeranno, disgustati dal suo aspetto
asinino. Non è con
la sua bellezza che l'Infanta può fuggire, né
tanto meno indossando le vesti che la fanno
risplendere come il firmamento, ricevute dal padre
innamorato, ma avvolta dalla pelle dell'asino: in
altre fiabe la principessa sfugge alle nozze
incestuose trasformandosi in un'orsa, o coperta da
una veste di legno. Ma il travestimento più
repellente, che rimanda alla vecchia Baubò del
mito delle grandi dee e alla vecchia della fiaba
cornice di Basile, è quello della principessa Occhi
marci, che aveva risposto al padre di
volergli bene come al sale. La balia non sa come
fare per salvarle l'onore, dato che la sua
bellezza richiama l'attenzione di tutti i giovani
che incontrano fuggendo: Una sera però, arrivate a una città le du' donne, s'imbatterno in un mortorio e gli dissano che era il funerale d'una vecchia morta a cento anni. Pensa subbito la balia: - "Se mi vendano la pelle di questa vecchia no' siemo salve." - Vanno dunque nella chiesa, e doppo finite le funzioni la balia cerca del becchino e gli domanda, se lui vole vendere la pelle della vecchia. Il becchino in sulle prime 'gli arrispose di no; ma poi, siccome la balia gli profferse cento scudi, lui s'accordò, e con un coltello scorticata per bene tutta la vecchia, la su' pelle la diede alla balia. La balia quand'ebbe avuto in mano la pelle della vecchia col viso, i capelli bianchi, le mane con l'ugne e tutto, la fece conciare e cucitala su del cambrì, mascherò con quella la ragazza, sicché la nun si riconosceva più (Nerucci, cit., p. 107). La
principessa diventa una cosa sola con la pelle che
la nasconde, e quando il principe le chiede la sua
età, risponde di avere centoquindici anni. Lo
stesso principe può scoprire che Occhi marci
è la bellissima sconosciuta che ha ballato con
lui, indossando abiti color del mare e color del
cielo, solo quando comprende che bruttezza e
bellezza compongono la sua identità, come elementi
egualmente importanti del suo complesso cammino di
crescita. L'idealizzazione della donna,
complementare all'idealizzazione dell'uomo,
impedisce l'uscita dal dominio genitoriale, reame
o casa originaria, e l'incontro profondo con
l'altro sesso. Tornando
a re Lear, abbiamo visto l'espressione di questa
idealizzazione in ciò che all'inizio pretende
dalle figlie, e più avanti troviamo l'opposto
complementare di questa idealizzazione, il
disprezzo. Le due figlie maggiori dopo essersi
sposate maltrattano il padre ormai privo di
potere, così come disprezzano i loro mariti: ciò
che muove le loro azioni sono la voracità e
l'invidia, che prosperano all'ombra di ogni
idealizzazione. La
perdita dell'immagine ideale del femminile, per
difendere la quale aveva sacrificato Cordelia, la
figlia più piccola e più amata, provoca in re Lear
il crollo dell'immagine idealizzata di sé, la
perdita irreparabile del suo senso di identità, la
sua pazzia. All'immagine ideale della donna amata,
che è madre, sposa e figlia allo stesso tempo,
subentra il suo opposto complementare. A questo
opposto, che costituisce la condizione in cui la
donna si sente brutta, colpevole, sporca e
inaccettabile, sarà dedicato il prossimo capitolo.
Ma prima leggiamo nelle parole di Lear ormai perso
nella follia l'espressione perfetta di tutto ciò
che l'uomo rifiuta di vedere nella donna, lo
stesso che la donna rimuove narcisisticamente da
se stessa: vi leggiamo ciò che forma l'oscurità
del femminile, inaccettabile perché sconosciuta,
negata, rimossa, eppure irrinunciabile se la
principessa vuole essere regina, come sanno
Cenerentola e Pelle d'Asino. Behold yond
simp'ring dame Whose face
between her forks presaes snow, That minces
virtue and does shake the head To hear of
pleasure's name - The fitchew
nor the soiled horse goes to't With a more
riotous appetite. Down from
the waist they are centaurs, Though women
all above; But to the
girdle do the gods inherit, Beneath is
all the fiends'; There's
hell, there's darkness, there is the sulphurous
pit - Burning,
scalding, stench, consumption. Fie, fie,
fie! pah, pah! Give me an ounce of civet, Good
apothecary, to sweeten my imagination. (A. IV, Sc. 6)[13] LA CENERE E IL TEMPO Ad una sua semplice occhiata, uno specchio si ricopre di chiazze e si guasta; allo stesso modo, se essa guarda una ferita o una piaga, la fa suppurare e impedisce la sua guarigione. Anche il suo fiato, come il suo sguardo, può guastare, corrompere e rendere inservibili molte cose, e così pure il suo tocco. Vedrete, infatti, che se essa maneggia del vino durante il periodo mestruale, questo vino si trasformerà immediatamente, assumendo un dubbio sapore. Persino l'aceto,
da lei maneggiato, svapora e non vale più un soldo;
dicasi così anche del vino in fermentazione, che
perde ogni forza, e dello zibetto, dell'ambra, del
muschio ed altri profumi del genere, che perdono
tutti l'aroma se sono portati da o vengono in
contatto con donne in tali condizioni. Infine, anche
l'oro ed i coralli, insieme a molte pietre preziose,
sbiadiscono e si macchiano come gli specchi di cui
già abbiamo parlato. (Paracelso) 1. Lo specchio oscurato Vassilissa
la bella, la Cenerentola della raccolta russa di
A. N. Afanasjev (Antiche fiabe russe, 1980),
dopo la morte della madre, si trovò con una
matrigna e due sorellastre che, invidiando la sua
bellezza, le ordinavano di fare i lavori più
duri... ...affinché dimagrisse dalla fatica e diventasse nera nera sotto il sole e il vento... (cit., p. 18). La
Cenerentola secentesca, che era al centro
dell'affetto del padre e credeva di aver ottenuto,
rompendo il collo alla prima, una matrigna di cui
sarebbe stata la pupilla, fu oscurata dalle
sorellastre. Anche il padre, che l'amava più dei
suoi stessi occhi, si dimenticò di lei: ...scapeta oie manca craie, venne a termene che se redusse da la cammara a la cocina e da lo vardacchino a lo focolare, da li sfuorge de seta e d'oro a le mappine, da le scettre a li spite, né sulo cagnaie stato, ma nomme perzì, che da Zezolla fu chiamata Gatta Cennerentola (Basile, cit., p. 128) [14]. Occultamento
della bellezza nel colore scuro o nella cenere,
fino alla perdita del nome stesso: Cenerentola,
Pelle d'Asino, Occhi Marci, l'Orsa, come tutte le
loro sorelle di fiaba, sono ribattezzate proprio
da questa condizione di oscurità. Alla rottura
della relazione con la madre, rappresentata dalla
sua morte, o del legame incestuoso col padre,
segue questa condizione di oscurità. La
separazione dal luogo delle origini è violenta, e
in senso intrapsichico si configura come una
rottura brusca, un crimine: nella storia di
Cenerentola si rappresenta la rottura dello
specchio narcisistico che conferiva bellezza alla
figlia purché rinunciasse alla sua crescita
autonoma per modellarsi sulla madre,
riproducendola e rendendola eterna in se stessa.
Questa separazione è rappresentata nel tipo
classico di Cenerentola come morte della madre
buona e dominio della madre persecutoria. Nel tipo
Pelle d'Asino l'identità con la madre bella e
buona non attiva una matrigna persecutoria, ma un
padre che, volendo sposare la figlia in quanto
riproduzione della madre, fermerebbe la sua
crescita nella relazione incestuosa. Non è
possibile un allontanamento indolore di questo
specchio, come non è possibile un superamento
della posizione narcisistica senza la morte di
Narciso. Intendendo questa figura mitica come una
posizione psicologica possiamo cercare di capire
in che modo il suo mito appartiene a tutti, in
gradi e tempi diversi. Consideriamo la posizione
narcisistica in senso lato, come una condizione
dell'essere nella quale l'angoscia per la propria
imperfezione e la propria finitezza sono
scotomizzate, denegate, attraverso una corrente
affettiva concentrata sulla propria immagine,
sulla figura ancora contenuta nella madre, matrice
e specchio di sé. Solo fissarla, e fissarsi allo
stesso tempo, tiene insieme la percezione di sé
che non è un'identità matura. Avere un'identità
non narcisistica, sapere di essere altro dalla
maschera che si indossa, dalla figura che lo
specchio riflette, richiede la catastrofe della
rottura dello specchio. Come
modello di questa confusione originaria tra sé e
altro da sé possiamo prendere la posizione
schizo-paranoide teorizzata da M. Klein[15]. Il lattante secondo
questa teoria passa da uno stato di benessere
assoluto, quando è sazio e accudito, a uno stato
di malessere altrettanto totalizzante, quando ha
fame e non viene preso, compreso, e nutrito dalla
madre. L'angoscia presente nel pianto di un
neonato è tanto intensa quanto la sua beatitudine
se è sazio di latte e di cure. Il passaggio da uno
stato allo stato opposto è discontinuo, non
esistendo ancora nel bambino un ponte di immagini
e parole che gli permettano di transitare anziché
di precipitare tra il paradiso della sazietà e
l'angoscia abbandonica della fame. Il neonato
nell'angoscia somiglia a un primitivo di fronte a
un'eclissi di sole: il mondo intero e lui stesso
stanno precipitando nell'oscurità, moriranno.
Manca la percezione della vita come spazio
diversificato, nel quale si alternano stati
gratificanti e frustranti. Essere gettati con
violenza da un paradiso a un inferno è un modo di
sentirsi che ha la sua matrice nella condizione di
dipendenza dalla madre, quando non si è costituito
un Io che garantisca continuità nel proprio
percepirsi come esistenti. Anche se in maniera
meno assoluta di quanto sembra accadere al
neonato, questa modalità si ripresenta,
caricandosi di antiche angosce mai risolte, in
molti momenti critici dell'esistenza.
L'innamoramento totalizzante, quello in cui il
nostro oggetto d'amore ha il potere di renderci
assolutamente felici, ricambiandoci, o
definitivamente infelici, rifiutandoci, rimette in
scena una relazione analoga a quella col genitore
onnipotente della prima infanzia. Ciò che il
soggetto chiama innamoramento,
dall'esterno è
facilmente osservabile come fissazione, ma
anche il soggetto lo definirà come fissazione
una volta che il suo stato emotivo sarà cambiato,
quando non sarà più innamorato. Vorremmo puntare
l'attenzione su questo paradosso: una persona
adulta precipita, o vola, verso questo stato
totalizzante, si sente pronta a rivoluzionare
tutta la sua vita, purché l'oggetto d'amore
accolga il suo desiderio violento, confermando
quello che il soggetto desidera, mentre avverte il
rifiuto come la peggiore disgrazia che possa
capitare. Solo uno specchio può confermare o
sconfermare chi vogliamo essere: se di fronte a
noi invece dello specchio c'è un'altra persona,
complessa quanto noi, e quanto noi contraddittoria
nelle sue luci e nelle sue ombre, saremo
consapevoli che possiamo giocare in una relazione
secondo i desideri nostri e dell'altro, ma non ci
aspetteremo una definitiva approvazione o una
sconferma altrettanto perentoria del nostro
essere. Finché esiste la possibilità che un fonte
possa rispecchiarci e farci innamorare di noi
stessi attraverso l'immagine riflessa, siamo
vincolati a una struttura di identificazione
primaria con la matrice, la madre originaria, e ne
dobbiamo fare esperienza, fino alle estreme
conseguenze. Prima del compimento di questa
esperienza il nostro modo d'amare è avvolto in un
gioco di impotenza e onnipotenza: ma questo gioco
può inscenarsi in ogni settore della nostra vita,
e impedire la crescita di una capacità generativa,
creativa. Il desiderio dell'altro eguale a me è
una presenza e un'assenza: per questo non c'è
distanza, e mancando il distacco non c'è
avvicinamento, ma annullamento per coincidere,
nella morte. Impotente
a ricevere e dare amore era Narciso, di cui il
mito racconta che molte e molti si innamoravano di
lui: ma il fanciullo bellissimo li disprezzava
tutti al punto di non lasciarsi neanche toccare.
Fino al giorno in cui vide la sua figura riflessa
in uno specchio d'acqua, che secondo una versione
del mito era la sua stessa madre trasformata in
fonte: ne fu preso d'amore tanto che non poté più
staccarsene. Nelle Metamorfosi di Ovidio,
Narciso è tragicamente consapevole di ciò che lo
ha catturato: Iste ego sum! sensi; nec me mea fallit imago: uror amore mei, flammas moveoque feroque! quid faciam? roger, anne rogem? quid deinde rogabo? quod cupio, mecum est: inopem me copia fecit. O utinam a nostro secedere corpore possem! votum in amante
novum: vellem, quod amamus abesset! (L. III, vv. 484-489) [16] Anche
nell'adulto che vive un innamoramento violento
coesistono la consapevolezza del carattere
paradossale del suo stato e l'impossibilità di
smettere di fissare l'oggetto d'amore senza il
quale il proprio essere e la vita stessa si
oscurano, come l'immagine nello specchio. Questa
riflessione su Narciso, breve e parziale, è
necessaria per l'analisi del grande sogno di
Cenerentola perché riteniamo che la fiaba,
considerata nelle sue varianti, racconti di un
superamento del narcisismo rappresentato come
identificazione tra madre e figlia. Il tema
dell'incesto segue al tema dell'identificazione,
articolato in modi diversi nel tipo Pelle d'Asino
e nel tipo classico di Cenerentola, e alla rottura
dell'identificazione primaria con la madre
succedono l'oscurità, lo sporco, la forma animale,
la cenere, che formano il tema di questo capitolo.
Alla fine del nostro lavoro d'analisi, alla fine
della fiaba, vedremo come la morte di Narciso
consenta al soggetto di muoversi verso
l'eterosessualità esogamica rappresentata dalle
nozze regali. Abbiamo
parlato di morte come rottura della relazione
fusionale con la madre, e osserviamo ora come solo
la sofferenza e la morte consentano a Narciso di
staccarsi dal suo specchio. Consapevole di essere
condannato a non unirsi mai al suo oggetto
d'amore, perché la sua immagine non è separata da
lui, Narciso augura agli amanti di essere
separati, perché senza separazione non c'è
incontro possibile, non c'è abbraccio. Pur
comprendendo la propria tragedia, Narciso è
condannato ad amare senza poter abbracciare
nessuno: Dixit et ad
faciem rediit male sanus eandem et lacrimis
turbavit aquas, obscuraque moto reddita forma lacu est. Quam cum vidisset abire, "Quo refugis?
remane nec me, crudelis, amantem desere!"
clamavit "liceas, quod tangere non est, adspicere et misero praebere alimenta furori!" Dumque dolet, summa vestem deduxit ab ora nudaque marmoreis percussit pectora palmis. Pectora traxerunt tenuem percussa ruborem, non aliter quam poma solent, quae candida parte, parte rubent,
aut ut variis solet uva racemis ducere purpureum nondum matura colorem. Quae simul aspexit liquefacta rursus in unda, non tulit ilterius, sed, ut intabescere flavae igne levi cerae
matutinaeque pruinae sole terpente
solent, sic adtenuatus amore liquitur et
tecto paulatim carpitur igni, et neque iam
color est mixto candore rubori nec vigur et
vires et quae modo visa placebant nec corpus remanet, quondam quod amaverat Echo. (L. III, vv. 474-493) [17] Le
lacrime e il sangue, il dolore e la ferita: così
Narciso oscura la sua immagine, e per questo
muore. Il mito racconta che venne trasformato nel
fiore primaverile che porta il suo nome e cresce
vicino alle acque: intendiamo la morte di Narciso
come il cambiamento catastrofico che nella
sofferenza ci spinge fuori dalla fissità del
rispecchiamento. Morte come perdita dell'oggetto
d'amore assoluto, sola garanzia che dava realtà
all'essere: a questa succede l'oscurità
dell'espiazione e del lutto. 2. Lo sporco animale La fiaba,
come il mito, come il sogno, ha un tempo che può
coincidere con quello del racconto storico, ma ha
anche un tempo circolare, metastorico, articolato
secondo richiami simbolici anziché ordinato in una
sequenza cronologica regolare. I simboli e le
vicende che formano la fiaba risuonano gli uni con
gli altri, la scarpetta di vetro con la cenere del
focolare, il dattero dorato con l'ostilità della
matrigna, gli abiti di mare e di cielo con il
pollaio o il porcile. Questo ci costringe in certi
casi ad andare avanti nell'interpretazione,
lasciando da parte delle promettenti analogie, che
ogni simbolo richiama, perché se le seguissimo
troveremmo altre analogie, innumerevoli come i
percorsi di un labirinto, perdendo di vista la
nostra Cenerentola. In altri casi percorrendo un
sentiero di senso, che sembra promettere
un'uscita, un'interpretazione soddisfacente,
dobbiamo invece fermarci, ripiegare sulla strada
già percorsa, perché la valenza simbolica di una
figura ci impone di ritrovare i suoi nessi con
altre figure che avevamo sfiorato. Ogni ricerca
sulla fiaba si muove tra il rischio di
un'interpretazione che sacrifichi alla chiarezza
la complessità labirintica della sua materia,
perdendone il senso, e
quello di uno smarrimento nel labirinto, figura
antica della psiche, che impedisce di uscire, e
quindi di raccontare qualcosa che evochi questo
senso. Abbiamo
concluso il capitolo precedente con le parole di
Re Lear, quando alla sua idealizzazione del
femminile, per la quale aveva disconosciuto e
cacciato Cordelia, che non voleva modellarsi sulle
sue aspettative, subentra il disprezzo per la
donna. Il desiderio erotico nella donna, rimosso
dalla sua rappresentazione idealizzata, ritorna
come istinto animale e come eccesso per Re Lear: "...La puzzola e il
cavallo pasciuto d'erba fresca non ci si buttano
con appetito più sfrenato...". Nella
cultura patriarcale il desiderio della donna viene
considerato come assente - addormentato, congelato
- fino a che l'uomo non lo risveglia: la
sessualità della donna è accettabile come speculum, specchio
della sessualità maschile [18]. La stessa teoria
dell'invidia del pene, cardine della riflessione
freudiana sullo sviluppo della psiche femminile,
indica una concezione della donna come portatrice
di un'assenza - del pene come unico organo di
desiderio - che ne evoca ed esalta la presenza nel
maschio. Riflettiamo sulla distanza abissale di
questa concezione da una relazione vera tra uomo e
donna, come esseri umani portatori di una
diversità complementare, ma parimenti
significativa, pregnante. L'eros
femminile rimosso torna, come ogni oggetto
rimosso, con caratteristiche perturbanti, come
sessualità sfrenata della donna che non si
sottomette ai modelli consensuali. La madre non
meno del padre può educare la figlia a rimuovere
ogni coscienza del suo desiderio, a occultare la
sessualità con schemi di seduzione e di pudore che
hanno successo solo se viene introiettata dalla
figlia una rappresentazione del proprio sesso come
di un'assenza: di una castrazione che ha avuto
successo. Nella secca alternativa tra donna sacra
o donna dissacrata, la scelta viene fatta dalla
figlia modellandosi o non modellandosi sulla
madre, e l'amore paterno le viene dalla
corrispondenza che raggiunge con questo modello. Ma la
fiaba di Cenerentola richiama verità profonde che
poco hanno da spartire con le norme consensuali
che idealizzano una sorta di riproduzione per
clonazione tra madre e figlia, dalla quale
l'apertura al mondo maschile è esclusa, o vissuta
parzialmente, come nel mito delle grandi dee. Le
norme della cultura patriarcale educano il maschio
e la femmina a differenziarsi, ma non a
incontrarsi, e la loro distinzione è sostenuta più
da una posizione prevalentemente omosessuale che
dal loro confronto. Il mondo maschile e quello
femminile restano profondamente lontani,
contrapposti, mentre solo incontrandosi e facendo
esperienza reale l'uno dell'altra possono
riconoscersi e conoscersi nella loro polarità
complementare. Le nozze regali, il lieto fine di
Cenerentola o Pelle d'Asino, rappresentano questo
incontro profondo. Quando la
difficile via del distacco dalle identificazioni
primarie, la rottura dello specchio di Narciso, è
intrapresa, se il soggetto continua a camminare e
a dipanare il suo gomitolo, tra cenere di lutto e
magie che illuminano la sua oscurità, se è pronto
a vivere come una prova tutto ciò che incontra,
conquisterà il tesoro. Solo percorrendo il suo
cammino, affrontando ogni prova che ne fa parte,
anche se non l'ha scelta, semplicemente perché riconosce che è
il suo cammino, potrà sapere che la solitudine e
l'isolamento somigliano a un incantesimo negativo,
e che questo incantesimo finisce quando il cuore
può aprirsi all'incontro con l'altro, diverso dal
padre, diverso dalla madre, colui che, come aveva
compreso Narciso, è staccato da noi: che
l'amante sia staccato dall'amato. L'animalità
di Pelle d'Asino e delle sue sorelle di fiaba è
quella che consente loro di fuggire dalla reggia
paterna, coprendo la loro bellezza idealizzata con
una forma connessa all'istinto: così esse
diventano irriconoscibili anche per il padre, come
Cordelia quando non corrisponde all'immagine
ideale di Re Lear. Nella
fiaba del tipo Pelle d'Asino di Basile la
principessa Preziosa, alla quale il padre ha detto
che quella sera stessa l'avrebbe sposata, chiede
consiglio a una vecchia che la soleva servire
d'argentata, le vendeva cioè il belletto che
conferiva al suo volto una bianco luminoso. Questa
vecchia, che in altre storie è la balia, o una
fata, è una figura materna che risponde a una
richiesta d'aiuto della protagonista, e la
soccorre nella difficoltà: entra in scena con lei
una funzione positiva del materno, che può
rappresentarsi al soggetto solo dopo la morte
della madre, quando l'identificazione primaria si
è spezzata. La vecchia che vende argentata,
il belletto che richiama una luminosità lunare, le
dice: Stà de buon armo, figlia mia, non te desperare, ca a ogne male 'nc'è remmedio, fore ch'a la Morte. Ora siente: comme patreto stasera avenno dell'aseno vo' servire pe stallone e tu miettete sto spruoccolo 'n mocca, perché subeto deventerrai n'orza... (Basile, cit., p. 362)[19]. Preziosa
ringrazia la vecchia, e quando il re padre la
chiama... ...a portare lo quatierno pe saudare li cunte amurose, essa, puostose lo spruoccolo 'n mocca, pigliaie la figura de n'urzo terribele e le ieze 'n contra. Lo quale, atterruto de sta maraveglia s'arravogliaie drinto a li matarazze, da dove manco pe la matina cacciaie la catarozzola (Ivi)[20]. Il re
padre è atterrito dalla figlia che gli va incontro
come orsa: animale che rappresenta il materno con
la sua capacità di nutrire, come la lupa, ma anche
la sua ferocia istintuale. Cerchiamo
ora di esplorare il motivo dell'asino, di cui
indossa la pelle la principessa di Perrault, che
abbiamo scelto come capolista della variante
scopertamente incestuosa di Cenerentola. Asino è l'appellativo già
assegnato da Basile al padre di Preziosa, e
l'animale era sacro al dio Priapo, signore
dell'erezione. Animale umile, disprezzato, e
simbolo della potenza fallica, l'asino lega in sé
una doppia significazione, pienamente espressa nel
romanzo di Apuleio, Le metamorfosi, al
quale Collodi potrebbe essersi ispirato per la
trasformazione di Pinocchio in asino. Quando
Pinocchio torna burattino è pronto per la
riabilitazione che lo farà diventare un vero
bambino, così come Lucio, dopo aver vissuto da
asino, è pronto ad essere iniziato ai misteri
della grande dea, Iside [21]. È probabile che
Perrault fosse maliziosamente consapevole del
significato dell'asino, nella pelle del quale la
sua principessa scompare fino ad assumerne il
nome. La
protagonista si era messa volontariamente l'anello
della madre, e questo indica il suo desiderio di
prenderne il posto: coprirsi con la pelle
dell'asino significa aver riconosciuto il
desiderio del padre e fuggirne. In questo tipo di
fiaba la protagonista diventa da bellissima
bruttissima, repellente e irriconoscibile. La sua
fuga dal reame paterno la porta a bussare alla
porta di una reggia straniera, dove viene accolta
per compassione, e schernita per il suo aspetto
disgustoso. Maria
'd legna, protagonista di una Pelle d'Asino
molisana, sta sempre nel pollaio della reggia, e
lo sporco fa parte della sua persona al punto che
quando le viene chiesto di preparare tacc' e
taccune perché il principe malato vuole
mangiarli cucinati da lei, alla preghiera della
regina di ripulirsi per l'occasione, risponde: Eh, signor Maestà, com' vienn' z' l' magna. E che pozz' fa? Rent' a lu pollaie c' sta la cuzz'chella la pirucchiella... chell' com' vienn' z' l' magna (Gioielli, cit., p. 461). Irriconoscibile
come orsa o nella pelle dell'asino del padre, in
una veste di legno, o nella pelle di una vecchia
morta a cent'anni, occultando la sua bellezza
nella sporcizia di un pollaio o di un porcile, la
principessa vive un'iniziazione di cui solo alla
fine della storia comprenderemo il senso completo.
Per il momento osserviamo che l'aspetto sporco e
repellente le consentono di sottrarsi alle nozze
col padre: il desiderio paterno, fissato alla
donna idealizzata, madre, sposa e figlia, non ha
modo di riconoscerla. Nell'educazione
patriarcale la sessualità spontanea della figlia è
rimossa per la pressione della madre che riproduce
in lei la stessa rimozione che ha agito in se
stessa, come qualcosa di sporco, che la renderebbe
inaccettabile, inadeguata all'ideale maschile.
Modello ideale che chiude la donna in un gioco
narcisistico e costringe l'uomo a rapportarsi con
una figura femminile priva di ombre - la donna
angelo - o solo in ombra - la donna diabolica,
sfrenata. Quando l'istinto, l'ombra rimossa dalla
donna, emerge, è talmente scisso dalla parte
luminosa da impedire un riconoscimento, e fa
precipitare in disprezzo senza appello ciò che
prima era un'ammirazione sconfinata. Ricordiamo le
parole di Re Lear: ....Solo fino alla cintola appartengono
agli dei, la parte di sotto è tutta del demonio, lì
c'è l'inferno, lì c'è l'abisso sulfureo, che brucia,
che scotta, c'è il fetore, la consunzione! via, via,
via! puah! puah! datemi un'oncia di zibetto per
profumare la mia immaginazione! 3. La cenere Pelle
d'Asino vive nella sporcizia ed ha un aspetto
repellente, ma dispone sempre dei suoi abiti
meravigliosi, che viaggiano sottoterra seguendola
nella sua fuga. Anche la principessa trasformata
in orsa, ogni volta che lo vuole, può riprendere
la sua forma umana, semplicemente togliendosi lo
spruoccolo, lo steccolino, dalla bocca. Sporche e
repellenti, Pelle d'Asino e le sue sorelle di
fiaba hanno dal padre innamorato lo splendore
della bellezza femminile e la colpa di aver preso
il posto della madre morta: questo tipo di fiaba
pone l'accento sulla relazione edipica come
matrice del racconto. Anche se è il padre a volere
le nozze incestuose, è nella storia della figlia
che si rappresenta l'oscurità dell'espiazione: la
colpa nella fiaba, come nella psiche, ha poco a
che vedere con la scelta cosciente. Essere in una
relazione incestuosa significa precipitare
comunque nell'ambivalenza che essa implica, in una
bellezza vestita di abiti di cielo, di mare, di
stelle, che ha come polarità inevitabile la pelle
dell'asino. La fiaba è la storia di un soggetto,
come il sogno notturno è un frammento
significativo della vicenda del suo sognatore:
qualunque sia la corrispondenza tra le figure del
sogno e le persone della sua realtà diurna, per
quanti personaggi entrino attivamente in scena,
soccorrevoli o persecutori, conta il gioco al
quale nella rappresentazione onirica essi chiamano
il sognatore, e come il sognatore risponde al loro
richiamo.[22] Nella
fiaba, come nel mito, il soggetto si fa carico di
ogni condizione nella quale si trova implicato,
che l'abbia scelta o meno, come l'eletto di cui
scrive Heinrich Zimmer: Perché nella sfera del sovrumano l'eletto non viene scusato per la sua ignoranza o per le sue buone intenzioni. È giudicato secondo la sua adeguatezza e secondo le sue azioni. E poiché i poteri di quella sfera pervadono percettibilmente ogni cosa della sfera visibile, ogni cosa che l'eletto incontra è, in fin dei conti, una prova. Una dopo l'altra le sue decisioni costituiscono una prova e, ogni volta che fallisce, egli muore o subisce l'equivalente di una morte (Il re e il cadavere. 1993; pp. 134-135). Ma siamo
certi che questo valga solo nella sfera del
sovrumano? Ogni evento che si dà sul nostro
cammino, anche se non lo abbiamo scelto,
costituisce di fatto una prova, e la nostra
libertà di muoverci seguendo i nostri desideri
consiste nella relazione che riusciamo a
instaurare con ciò che troviamo lungo il cammino,
non nella scelta degli eventi. E non è questa la
nostra condizione fondamentale, dato che nessun
essere umano può scegliere quando nascere e quando
morire, da chi nascere e chi generare? La
comprensione profonda di questa nostra realtà, la
più evidente, che lega tutti gli esseri umani, è
un compito impossibile per il nostro pensiero,
fino a che viviamo in una oscillazione schizoide
fra impotenza - nulla dipende da me - e
onnipotenza - tutto dipende da me. Alla posizione
narcisistica questa comprensione succede
drammaticamente, come una morte e un lutto, di cui
l'oscurità di Cenerentola è rappresentazione.
L'identità narcisistica muore, per consentire che
si formi l'identità adulta, esogamica ed
eterosessuale. Mentre
Pelle d'Asino occulta la sua bellezza, di cui
resta sempre e comunque padrona, Cenerentola vive
confinata nel focolare, quasi coperta dalla
sostanza che resta dalla combustione del fuoco. Bruno
Bettelheim osserva che il nome inglese
dell'eroina, Cinderella, deriva dalla
parola cinders, che indica i residui anche
sporchi del fuoco, mentre ashes, come il
tedesco aschen, corrispondente
all'italiano cenere e al francese cendre,
indica la cenere vera e propria, che è il prodotto
pulito di una combustione completa (cit.,
pp. 243-244, nota). Se
osserviamo la parentela tra Cenerentola e Pelle
d'Asino, c'è una connessione tra il tempo della
cenere e il tempo della sporcizia che rende
comunque significativo il termine inglese. Così è
sempre la fiaba: essa vive come terreno, humus
della lingua dalla quale trae forma, e i suoi
elementi, generatori prima che portatori di senso,
si legano secondo molteplici valenze, sempre
feconde, con la lingua stessa.
È vero
però che in Cenerentola alla morte della madre non
segue come in Pelle d'Asino il trionfo edipico
della protagonista, ma la perdita di ogni
attenzione da parte del padre che si risposa e
dimentica la figlia per volgere le sue attenzioni
alle figliastre. Questa condizione non designa un
occultamento ma una perdita della bellezza
femminile: per un certo tempo, la fiaba non dice
quanto, Cenerentola vive nell'oscurità, come una
serva della madre e delle sorelle, senza alcun
mezzo per tornare a brillare come principessa. La
condizione di Cenerentola è una rappresentazione
del lutto che consegue all'uccisione della madre
buona, alla perdita dello specchio della sua
bellezza, al posto del quale subentra il fantasma
negativo complementare, rappresentato dalla
matrigna e dalle sorellastre. Quanto questo tema
sia presente nella vita di ogni giorno non è
dimostrato solo dal successo della storia di
Cenerentola: basta pensare ai vissuti di
esclusione della donna, che si sente trattata
ingiustamente dalla madre, e più ancora da figure
che i modelli consensuali le consentono di
considerare nemiche. L'ostilità di cui queste sono
cariche è nutrita dal fantasma materno
persecutorio: la suocera per la nuora, e la nuora
per la suocera in primo luogo. Nelle fiabe antiche
la stessa funzione persecutoria può essere agita
dalla madre, dalla matrigna, dalla suocera e anche
dalla prima moglie del principe che ama la
protagonista: rappresentano il potere della
rivale.[23] Nelle
fiabe dalle quali la tendenza alla rimozione ha
eliminato i tratti perturbanti questa funzione è
invece giocata solo da una matrigna o da una
suocera strega. Questo corrisponde ai modelli
consensuali, che consentono ad esempio a una donna
di lamentarsi ferocemente della crudeltà della
suocera senza sentirsi in colpa, mentre non
tollerano l'ambivalenza che affiora se fa lo
stesso con la propria madre. Ma non
crediamo che sentirsi vittima di un'altra donna, o
di tutte le donne, corrisponda allo stato di
Cenerentola: perché si attraversi la fase psichica
rappresentata dalla cenere occorre che la bellezza
sia davvero perduta, non che si accusi l'altra -
madre o sostituto materno - di volerla offuscare.
Nella fase dell'accusa la dinamica femminile si
alimenta come un fuoco di competizione e invidia:
il tempo della cenere prevede che tutto questo
materiale si sia consumato, lasciando il posto a
quella polvere non sporca, che è il residuo finale
del processo. In
alchimia la cenere segna una fase della
trasformazione, essenziale come il fuoco nel
processo che tende all'oro alchemico. Nel
Settecento, quando l'Europa intera si appassionava
alle raccolte di fiabe, scriveva Dom Antonio
Pernety: Les Philosophes
Hermétiques disent qu'il ne faut pas mépriser la
cendre, & Morien dit qu'elle est le diadême du
Roi. Il faut entendre ces termes de la matiere
après qu'elle a été en putréfaction; parce
qu'alors elle semble de la cendre &
que de cette cendre doit sortir le soufre
philosophique, qui est le diadême
du Roi (Dictionnaire Mytho-Hermétique,
1758, p. 70) [24].
4. Il tempo Quanto
restò Cenerentola nella cenere del focolare, e
quanto tempo trascorse Pelle d'Asino prima di
manifestarsi nei suoi abiti di mare e di stelle al
principe? Il tempo della mortificazione non è un
tempo storico, ma un tempo rituale, ricorrente,
che crea una sospensione tra due posizioni
diverse: nella nostra fiaba separa e lega
l'identità modellata in senso endogamico, sui
modelli familiari, e l'identità esogamica, nuova,
la più bella, che ascende al trono con le nozze
regali. Per
questo è tanto difficile attraversarlo, perché è
un tempo in cui l'attività visibile all'esterno
manca: il nostro ideale collettivo ci porta a
togliere valore a tutto ciò che, mancando di
visibilità oggettiva, non è quantificabile. La
Cenerentola di Perrault appare quasi masochista, e
questo dipende dal fatto che il ritiro in se
stessi, la mancanza di investimento rivolto
all'esterno, è giudicato una condizione di
inferiorità, di colpevole disagio. Un tempo che è
anche tempo di lutto, evitato ed esorcizzato dai
nostri modelli collettivi, in cui la cenere è
disprezzata, come i rifiuti, gli scarti, in cui il
pensiero della morte è scotomizzato come qualcosa
di inadeguato, sporco. La
depressione può essere considerata la patologia
psichica più diffusa e discussa
nel nostro tempo, e irrompe come l'opposto
rimosso del nostro ideale collettivo: essere
sempre realizzati, capaci di avere successo,
seppellire rapidamente le persone che perdiamo,
come le delusioni e le disillusioni che ci
spingerebbero, se accolte, in un tempo doloroso di
riflessione. Riflettere etimologicamente
significa flettere nuovamente, piegare
all'indietro, come a designare un movimento
del pensiero che piegandosi cerca nel passato,
nelle sue ombre. Nella depressione noi
sperimentiamo il senso di inutilità dell'azione
che spinge in avanti, verso una meta consensuale o
idealizzata: improvvisamente niente ha più senso,
la vita appare un'illusione, un gioco vano al
quale non riusciamo a sottrarci. La malinconia
della depressione è come un'acqua che sommerge
tutte le figure che prima muovevano la nostra
esistenza: quando siamo depressi percepiamo gli
altri, e il nostro stesso io, come privi di base.
Il
sentimento del tempo nella depressione è senza
limiti: mai siamo stati felici, ci eravamo solo
illusi, e mai riusciremo a dare o a ricevere nulla
per cui valga la pena di vivere. Un tempo senza
tempo che sta fra due ritmi diversi della vita:
questo rappresenta la fiaba quando il soggetto
subisce senza reagire, senza agire in risposta, il
dominio di un altro personaggio, come la matrigna
crudele. Nella fiaba questi tempi, che esistono
nella percezione soggettiva, rappresentano
passaggi vitali tra condizioni diverse
dell'essere. Questo
tempo è rappresentato nelle fiabe. Mentre il tempo
nel mito è sempre rituale, nella fiaba è sia
rituale che quotidiano, e corrisponde a un tempo
che psicologicamente è percepito come privo di
senso, un tempo di privazione, di lutto.
Il suo senso non si svela se a un'azione ne
succede immediatamente un'altra, se il soggetto
non accetta come una prova la condizione di non
controllarlo. È un tempo che ha valore proprio per
il suo pregnante stare tra tempi di azione. Questo
tempo rappresentato nella fiaba non può
presentarsi nella tragedia, dove il soggetto corre
inarrestabilmente verso la sua catastrofe
definitiva. Non è neppure nel romanzo, il cui
tempo è sempre del soggetto, anche quando ne
racconta la distruzione. L'eclisse
del soggetto è il tempo della depressione, nel
quale l'altro ostile domina togliendo luce,
desiderio, amore, libertà... Tutto ciò che accende
la vita scompare, finché resta solo cenere. Saper
accettare e vivere questo tempo è un po' come
continuare a vivere nella nebbia o nell'oscurità
senza dibattersi, anche se ogni cosa sembra
scomparsa. Oscurità,
cenere, successiva a un incendio, in un processo
di trasformazione: un'oscurità che compare in ogni
rappresentazione poetica che vuole esprimere la
ricerca della luce, l'incontro con l'altro.
Un'oscurità che risulta dal calore del sole,
analogo del fuoco, è rivendicata dalla sposa nel
Cantico dei Cantici come una condizione da non
disprezzare: Nigra sum sed sicut tabernacula Cedar, sicut pelles Salomonis. Nolite me considerare quod fusca sim, quia decoloravit
me sol. [25] [1]
Vedi la Storia del principe Kalaf e
della principessa della Cina, in Pétis
de la Croix, I mille e un giorno
(1712), vol. I, pp. 150-250. Pétis de la Croix
fu il primo a pubblicare Turandot,
ambientandola in una Cina priva di riferimenti
storici e geografici, seguendo la moda
dell'orientalismo in voga all'inizio del
Settecento. Tra il 1704 e il 1717 erano uscite
Le mille et une nuits di Antoine
Galland, che divennero il best-seller
del Secolo dei Lumi. Anche il paese di Aladino,
nato alla carta stampata per opera di
Antoine Galland, era questa Cina, che va
intesa semplicemente come un lontano reame di
fiaba. Ma nei secoli il nome di maniera lavora
con la stessa procedura metastorica del
registro fiabesco, creando l'ambientazione
cinese della Turandot pucciniana, e
promuovendo, per le contemporanee
rappresentazioni di questo melodramma, scambi
concreti con la Cina per la sceneggiatura e la
regia. E' un bell'esempio di come l'arte, con
la sua illusione, senza pretese di veridicità,
finisca col creare la realtà. [2]
Non sono una vipera, eppure mi nutro /
della carne della madre che mi ha generato. /
Cercai uno sposo, e in questo lavoro / Trovai
quel favore in un padre. / Egli è padre,
figlio, e dolce sposo; / Io sono madre,
figlia, e pure sua bambina. [3]
Vedi Sigmund Freud, Totem e tabù
(1912-13). [4]
Temo per un delitto, / mi nutro della
carne materna. / Cerco il padre mio, di mia /
madre lo sposo / della mia sposa / la figlia,
e non trovo. (cit. da Peter Goolden, The
Old English Apollonius of Tyre,1958; p.
7) [5]
Sono portata da un crimine, / divoro la
carne di mia madre. / Cerco mio fratello, il
marito / di mia madre, il figlio di mia /
moglie. Io non lo trovo.(cit. da Ben Edwin
Perry, The Ancient Romances. A
Literary Historical Account, 1967, p.
296)
[6]
Questa formulazione enigmatica potrebbe
avere la sua matrice nelle Supplici di
Eschilo: "Simile a quegli uccelli che mangiano
carne di uccelli [...] s'è due volte nutrito
della sua propria carne, dapprima versando il
sangue paterno, poi unendosi col sangue
materno". (cit. da J.P. Vernant, Ambiguità
e rovesciamento sulla struttura enigmatica
dell'"Edipo re"; sta in:
Detienne, Il mito, 1989; p. 84). [7]
Il motivo degli amanti incestuosi che
vengono carbonizzati è presente nelle Mille
e una notte (1948, Storia del primo
mendicante nella Storia del facchino
e delle ragazze, vol I, pp. 64 sgg.),
dove subiscono questa pena un fratello e una
sorella. Ricorre anche nella Leggenda
Aurea, dove ad essere carbonizzata è una
madre che, non essendo riuscita a sedurre il
figlio, lo porta in tribunale accusandolo,
come Fedra, di peccati di lussuria. (Jacopo da
Varagine, 1990; vol. I, p. 14) [8]
A proposito dell'enigma vedi anche il
mio saggio Il motivo dell'enigma.
Trasformazioni e costanti del discorso
interiore, 1994. [9]
Wirklichkeitsgefül, usato da
Freud, significa letteralmente sensazione,
senso, sentimento della vera realtà, e
ci pare più poetico ed efficace della
locuzione più comunemente usata, principio
di realtà. Questo principio
viene troppo spesso inteso, o frainteso, in
termini riduzionistici, come contrapposto al
dominio del desiderio e della fantasia
desiderante. Riteniamo che il sentimento
della vera realtà scaturisca da una
trasformazione che tiene conto degli elementi
onirici, fantasmatici, simbolici, quanto dei
rapporti concreti che si articolano secondo
una norma consensuale. Se non c'è sentimento,
non c'è alcuna conoscenza profonda, nemmeno
nell'esperienza concreta. [10]
Signore, io vi amo più di quanto
possano riuscire ad esprimere le parole: v'ho
più caro della vista, dello spazio, della
libertà; vi amo al di sopra di tutto ciò che
può essere stimato ricco e raro; non meno
della vita, quando è unita alla grazia, alla
salute, alla bellezza, all'onore; vi amo
quanto figliolo amò mai padre, o padre si vide
amato; di un amore, il quale rende povero il
fiato e impotente la parola; io vi amo al di
là di tutti questi modi così alti di amare. (Tutte
le opere, a cura di Mario Praz, 1989, p.
904) [11]
Mio buon signore, voi mi avete
generato, allevato, voluto bene: io vi
corrispondo, da parte mia, con quei doveri che
sono giustamente convenienti; cioè vi
obbedisco, vi amo, e vi onoro del mio meglio.
Perché hanno marito le mie sorelle, se dicono
che tutto il loro amore è per voi?
Probabilmente, quando un giorno mi sposerò,
l'uomo che riceverà dalla mia mano il pegno
della mia fede, porterà con sé metà dell'amor
mio, metà delle mie cure e dei miei doveri:
certo, io non mi mariterò mai come le mie
sorelle, per dedicare tutto intero l'amor mio
a mio padre. (Ivi) [12]
Bellissima Cordelia, che sei ancora più
ricca perché sei povera, più eletta perché
abbandonata, più amata perché disprezzata, io
mi impossesso, qui, di te e delle tue virtù:
io, mi sia lecito, raccolgo ciò che vien
gettato via. Dèi, dèi! è strano che alla
gelida noncuranza di costoro, l'amor mio
dovesse accendersi, fino a divampare in
venerazione. Re, la tua figliola senza dote,
gettata nelle mie braccia dalla ventura, è
regina nostra, dei nostri sudditi, della
nostra bella Francia: tutti i duchi di
Borgogna non potranno ricomperare da me questa
preziosa fanciulla disprezzata. Cordelia, di'
addio a costoro, per quanto snaturati: tu
perdi questo luogo, per trovarne uno migliore.
(Ivi, p. 906) [13]
Guardate quella signora là, che sorride
scioccamente, che ha una
faccia, la quale vi farebbe credere, che fra
le sue gambe ci stesse di casa la neve, che fa
la santarellina, scuote il capo scandalizzata
a sentir pronunciare il nome del piacere;
ebbene, la puzzola e il cavallo pasciuto
d'erba fresca non ci si buttano con appetito
più sfrenato. Dalla vita in giù esse sono dei
centauri, sebbene nella parte superiore esse
siano donne; solo fino alla cintola
appartengono agli dei, la parte di sotto è
tutta del demonio, lì c'è l' inferno, lì c'è
l'abisso sulfureo, che brucia, che scotta, c'è
il fetore, la consunzione! via, via, via!
puah! puah! datemi un'oncia di zibetto per
profumare la mia immaginazione! (Ivi, p. 936). [14]
...Perdici oggi manca domani, finì che
si ridusse dalla camera alla cucina e dal
baldacchino al focolare, dai lussi di seta e
d'oro agli stracci, dagli scettri agli spiedi
e non soltanto cambiò stato ma persino nome e
da Zezolla fu chiamata Gatta Cenerentola (Ivi,
p. 129). [15]
Vedi: Melanie Klein, Invidia e
gratitudine, 1969; vedi anche: Franco
Fornari, La vita affettiva originaria del
bambino, 1963. [16]
Io sono te, me n'accorgo: l'immagine
mia non m'inganna. / Io di me brucio d'amore
ed accendo la fiamma che m'arde. / E che farò?
Debbo chiedere o esser richiesto? E che cosa /
poi chiederò? Quel che voglio è con me: la
soverchia ricchezza / m'impoverisce. Potessi
staccarmi dal corpo! Or un voto / nuovo farò
per gli amanti: vorrei che mi stesse lontano /
quel che vagheggio (Le Metamorfosi,
cit., vol. I, p. 127). [17]
Disse, e tornò forsennato alla solita
faccia riflessa / e, intorbidando col pianto
dirotto lo specchio dell'acqua, / pel
movimento dell'onde divenne l'immagine scura.
/ Come s'accorse che il volto evaniva, gridò:
"Dove fuggi? / resta, crudele; non abbandonare
chi t'ama. Deh lascia, / lascia che guardi
l'aspetto, poiché non ti posso toccare! /
Porgimi tu l'alimento per questa infelice
follia!" / Mentre così si doleva, si aperse la
tunica in alto / e si batté nudo il petto con
ambo le candide palme. / Alla percossa il suo
seno si tinse di rosso leggero, / come le mele
che bianche da un lato, dall'altro son rosse /
e come l'uva non anche matura nel grappolo
vaio. / Come ciò vide nell'acqua, che limpida
s'era rifatta, / più non sofferse lo strazio;
ma come si scioglie la bionda / cera alla
debole fiamma del fuoco o la brina al mattino
/ quando la scaldano i raggi del sole, così
dall'amore / vinto si strugge Narciso consunto
da lenta passione. / Con l'incarnato del volto
perdette le forze e il vigore, / e de' bei
pregi, di che si compiacque, l'immagine sparve
/ né gli restò pur il corpo che fu
dilettissimo ad Eco (Ivi, pp. 127-129). [18]
Vedi, in particolare per il suo valore
storico, Luce Irigaray, Speculum. L'altra
donna (1974). [19]
Stai di buonumore, figlia mia, non
disperarti, perché per ogni male c'è rimedio,
fuorché per la Morte. Ora ascoltami: quando
tuo padre, che è un asino, stasera vorrà fare
da stallone tu infilati questo bastoncino in
bocca, immediatamente diventerai un'orsa e
fuggirai via... (Ivi, p. 363). [20]
...per farsi portare il quaderno su cui
saldare i conti dell'amore, lei, messo il
bastocino in bocca, si trasformò in un orso
terribile e gli andò incontro. Lui,
terrorizzato da questo prodigio, si arrotolò
dentro i materassi da dove non tirò fuori la
testa neanche la mattina (Ivi). [21]
Tra i numerosi punti di contatto tra
l'asino-Pinocchio e l'asino-Lucio, il nome
dell'amico del burattino che lo convince a
recarsi nel Paese dei Balocchi e viene
trasformato come lui in asino: Lucignolo.
Il ciuchino-Pinocchio è costretto a esibirsi
in un cerchio saltando nel cerchio, mentre il
protagonista di fugge
da un anfiteatro dove sarebbe costretto a
esibire con una donna corrotta e delinquente
tutta la sua potenza asinina, dopo l'incontro
erotico e grottesco con una nobile matrona.
Vedi: Apuleio, Le Metamorfosi; in: Il
romanzo antico greco e latino, 1981; pp.
1274-1275. [22]
Bertrand d'Astorg, analizzando la vita
e le opere di Mary Wollstonecraft Shelley,
celebre per la sua creatura,
"Frankestein", evidenzia il senso di colpa
nato nella figlia dalla dichiarazione d'amore
del padre, anche se l'incesto non è stato
consumato, e cita queste parole della
scrittrice.: Io sola sulla terra ero
depositaria del terribile segreto. Potevo
dirlo ai venti e alle lande deserte, ma tra
i miei simili, non avrei mai dovuto, né con
sguardi né con parole, dar credito alla più
piccola congettura sulla terribile realtà.[
...] Nella mia anima c'era quello che nessun
silenzio può rendere sufficientemente
oscuro. ... Dovevo ritrarmi dallo sguardo
degli uomini per timore che potessero
leggere nei miei occhi vitrei la colpa di
mio padre. (Bertrand D'Astorg, Letteratura
e incesto in Occidente, 1990; p. 79).
[23]
Fra i numerosi esempi possibili, ne
indichiamo due in cui le persecuzioni più
crudeli, fino al tentato omicidio, non sono
come di solito perpetrate da matrigne né da
suocere streghe: la prima moglie del re della
fiaba di Basile Sole, Luna e Talia
(cit., pp. 944 sgg) vuole bruciare la
protagonista, mentre nella fiaba La bella
Ostessina di Gherardo Nerucci (cit., pp.
45 sgg.) è
la madre stessa a tentare di uccidere
ferocemente la figlia, quando la crede rivale
in amore. Chi sia interessato potrà
trovarne altri nelle raccolte di Giovan
Francesco Straparola e Vittorio Imbriani
(citt.). [24]
I Filosofi Ermetici dicono che non
bisogna disprezzare la cenere,
e Morien dice
che essa è
il diadema del Re. Bisogna
capire questi termini della materia dopo che è stata in
putrefazione; perché
è allora che appare la cenere ed è da
questa cenere che deve uscire lo zolfo
filosofico, che è
il diadema del Re. (Corsivo nel testo) [25]
Sono nera ma bella, figlie di
Gerusalemme, / come il cedro dei tabernacoli,
come le tende di Salomone. / Non giudicatemi
perché sono scura, / perché è il sole che mi
ha cambiato colore (Cantico dei Cantici,
1973; p. 10). |
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5. Dattero mio dorato |
DATTERO MIO DORATO Sapete qual è il percorso più breve fra due punti? No, non è la linea retta: è il sogno. (Bineux, Rosalyn
et le lions) 1. Golio de quarcosa L'appagamento di un desiderio dovrebbe di certo recar piacere ma, ci si chiede, a chi? Naturalmente, a colui che prova il desiderio. Sappiamo però che il sognatore intrattiene coi propri desideri un rapporto del tutto speciale. Li rigetta, li censura, in breve non li vuole (Sigmund Freud, L'interpretazione dei sogni, 1899, p. 530, nota). Con
queste parole Freud introduce la piccola storia di
una coppia povera alla quale appare una fata
pronta a esaudire tre desideri. Allora la moglie,
sentendo un buon profumo di salcicce arrostite,
esclama: "Ah! se potessi averne un paio!". Appena
vede le salcicce fumanti nel piatto della moglie,
il marito grida: "Ti si attaccassero al naso!". In
un batter d'occhio anche questo desiderio è
esaudito. I due coniugi si mettono a discutere se
sia meglio usare il terzo desiderio per ottenere
immense ricchezze, o per far tornare normale il
naso della donna. Infine decidono per la seconda
richiesta: la fata scompare e loro restano poveri
come prima. La
storiella presenta la magia come funzione del
soggetto: essa si manifesta spesso nelle fiabe,
così come nella vita quotidiana sono frequenti le
potenzialità creative. Ma in entrambi i casi la
trasformazione si dà, si rappresenta, solo se il
soggetto sa esprimere un desiderio. Non basta
il bisogno ad attivarla, altrimenti la Cenerentola
di Perrault sarebbe stata visitata dalla fata
madrina all'inizio della sua penosa condizione
servile. Invece ha passato tanto tempo umiliata
nella cenere, senza chiedere né ricevere alcun
aiuto, e quando le sorellastre tutte agghindate
sono uscite per andare al ballo del re si mette a
piangere. Col pianto esprime una mancanza, e la
fata madrina può aiutarla a esprimere il suo
desiderio: La sua madrina, venutala a trovare, la vide in un mare di lacrime e le domandò cos'avesse: - Io vorrei... vorrei... Piangeva così forte che non poteva continuare. La madrina, che era una fata, le disse: - Vorresti andare al ballo, non è vero? - Ahimè, sì, - disse Cenerentola con un sospiro. (Perrault, cit., p. 19) Pur nella
passività venata di masochismo che la
caratterizza, Cendrillon non beneficia
della magia se non quando il pianto sgorgando la
apre al desiderio.[1] Può anche
capitare che la protagonista disponga dell'oggetto
magico e lo usi solo in un momento particolare,
quello del massimo bisogno, come accade a una
principessa nel Cunto de li cunti (Basile,
cit., pp. 910-921). Dopo essersi impastata un
marito di suo gusto, con la pasta di mandorle e
l'acqua di rose, Betta se lo vede rubare nel bel
mezzo della festa di matrimonio. Vagando per il
mondo senza sapere dove andare a cercarlo, capita
da una buona vecchia, alla quale racconta la sua
storia. La donna: ...N'avette tanta compassione che le 'mezzaie tre parole: la primma, tricche varlacche ca la casa chiova; la seconna, anola tranola, pizze fontanola, la terza, tafar'e tammurro, pizze 'ngongole e cemmino, decennole che le iesse decenno a tiempo de lo chiù granne abbesuogno, ca ne cacciaria gran beneficio (Ivi, p. 914) [2]. Formule
magiche da pronunciare nel tempo del più
grande bisogno, che Betta userà quando avrà
ritrovato il suo sposo smemorato con una regina
ladra. Solo in un percorso verso il termine del
proprio desiderio o del proprio bisogno si riceve
in dono un oggetto magico, e lo si usa nel momento
culminante della storia, quando agire, imprimere
un cambiamento al panorama in cui ci si trova, è
decisivo, impossibile, e irrinunciabile. La
permanenza nella cenere, o nello sporco, in una
condizione degradata, deprimente, è caratterizzata
da un'assenza di desiderio. Finché l'elaborazione
del lutto non è compiuta, nessun desiderio si
rappresenta, e nessuna magia viene in soccorso del
soggetto. Nella Gatta
Cennerentola troviamo una finissima
rappresentazione di questo rapporto fra desiderio
e magia. Il giorno del matrimonio fra suo padre e
la maestra di cucito: ...mentre stavano li zite 'n tresca , affacciatese Zezolla a no gaifo de la casa soia, volata na palommella sopra no muro, le disse: "Quanno te vene golio de quarcosa, mannal'addemannare a la palomma de le fate a l'isola de Sardegna, ca l'averrai subeto (Ivi, p. 126) [3]. Per tanto
tempo Cenerentola penerà nel degrado, senza
chiedere aiuto alla colomba delle fate. La
fiaba non ci descrive il suo lamento, né la sua
ribellione, né un solo tentativo di cambiare
qualcosa. Fino a che un tempo indefinito di
tristezza, lunghissimo perché non si vede come
possa finire, non riceve una battuta nuova. Accade
qualcosa per cui il soggetto dal patire e dal
subire passa all'agire, e l'agire è chiedere
qualcosa, o mandare a chiedere qualcosa,
verso una terra lontana, dove vive la fata che era
pronta fin dall'inizio ad ascoltarla, a realizzare
subito i suoi desideri. Si
ricorre alla magia quando si pronuncia il
desiderio, quando la rappresentazione del
desiderio giunge alla coscienza: prima di quel
momento non è il caso di pronunciare parole
magiche, né di farlo sapere alla colomba delle
fate, perché non è ancora venuto golio de
quarcosa, voglia di qualcosa. 2. La bambola e la fata Una
bambina gioca con la sua bambola: la accarezza, la
copre, la spoglia, o la maltratta e la lascia da
parte. Nella relazione con la bambola la bambina
rappresenta la sua relazione con la madre: se ha
introiettato una figura materna positiva, la
bambina nutre e accudisce amorevolmente la sua
bambola preferita. Le donne che soffrono di
anoressia e bulimia di solito non ricordano di
aver giocato con piacere con una bambola. Una
giovane donna mi ha raccontato che la sola bambola
per la quale aveva qualche interesse era per metà
blu, con i capelli verdi, e lei la picchiava e la
gettava per terra. Nelle
fiabe la protagonista riceve in dono bambola alla
morte della madre. Come se all'eclissarsi della
figura originariamente onnipotente, alla sua
morte, potesse corrispondere l'ascesa del simbolo
materno, in una sequenza che prevede prima una
perdita e successivamente un'acquisizione. Vassilissa
la bella, la Cenerentola russa, riceve la bambola
con queste parole: - Ascolta piccola Vassilissa! ricorda e adempi le mie ultime parole. Io muoio, e insieme alla materna benedizione ti lascio questa bambola; tienila sempre vicina a te e non mostrarla a nessuno; e se ti capiterà qualche malanno, dalle da mangiare e chiedile consiglio. Essa mangerà e ti dirà come tirarti fuori dai pasticci (Afanasjev, cit., p. 18). Non
mostrarla a nessuno, dice la madre,
affidando a Vassilissa il compito di custodire in
segreto il suo simbolo, educandola a proteggere la vita che può curare
nella sua intimità nascosta. La
bambola è un simbolo della potenza femminile,
della capacità della donna di nutrire e far
crescere dentro di sé qualcosa di invisibile. Nella
fiaba russa Vassilissa la bella dopo la morte
della madre viene perseguitata dalla matrigna e
dalla sorellastra, che per farla morire la mandano
dalla baba-yaga. Questa è allo stesso tempo fata e
strega, figura dell'ambivalenza materna, che come
una dea-madre arcaica può dare doni e salvezza, ma
anche la morte. Per affrontarla Vassilissa può
contare sull'aiuto della bambola, del simbolo
materno che non dimentica di nutrire, e quando la
baba-yaga le impone un compito impossibile, pena
la morte, ricorre a lei: ...Pose dinanzi alla bambolina i resti della cena della vecchia, pianse e disse: "Toh, bambolina, mangia di cuore, e porgi orecchio al mio dolore! la baba-yaga m'ha dato un lavoro pesante, e minaccia di mangiarmi se non l'eseguo tutto; aiutami!". La bambola rispose: "Non temere bella Vassilissa! cena, prega, e mettiti a dormire; la notte porta consiglio!" (Ivi, p. 22) Nel primo
capitolo abbiamo incontrato Adamantina, che dopo
la morte della madre dà tutto quello che possiede
per una bambola, la poavola, e la cura
come fanno le bambine, le fanciullette,
ungendole il pancino e vestendola per la notte,
durante la quale la tiene accanto a sé. La poavola,
come la bambolina di Vassilissa, compare alla
morte della madre: perdere la figura materna
primaria precede l'acquisizione di questo simbolo
del femminile col quale la protagonista da povera
e disperata diviene ricca e potente. Nelle fiabe
che presentano questa relazione iniziale con la
bambola il superamento della miseria o del rischio
di soccombere a un femminile persecutorio precede
un movimento narrativo diverso, attraverso il
quale si perverrà all'unione regale. Nella
fiaba di Cenerentola il simbolo della potenza
femminile, di far crescere in segreto, diventa
accessibile attraverso una mediazione paterna. Il
filo della relazione con la madre buona va
intrecciato con il filo dell'amore col padre: da
questo intreccio viene il simbolo che porterà la
protagonista non solo al superamento della miseria
e del rischio di soccombere alla persecuzione
della matrigna, ma alle nozze regali. La
trasformazione nella crescita del femminile si
verifica quando la protagonista entra in relazione
con la madre e con il padre, legati in un unico
oggetto simbolico. Alla
bambola di Vassilissa e di Adamantina, corrisponde
in Cenerentola la fata, anch'essa rappresentazione
del materno soccorrevole, positivo. Abbiamo visto
come in Perrault la fata madrina compaia quando
Cenerentola piange: la nostra eroina soffre perché
non può partecipare al ballo durante il quale il
principe si sceglierà una sposa, mentre Vassilissa
e Adamantina devono liberarsi dalla miseria o
dalla persecuzione. Le fiabe
raccontano come il simbolo della madre buona basti
a vincere la persecuzione della matrigna o la
miseria: è superato il rischio di morire di
stenti, come tanto tempo fa, come oggi. E
raccontano come per incontrare e sposare il
principe occorra anche altro, qualcosa che
richiede la presenza della figura paterna. 3. Il ramo e la rosa Ricordiamo
che Pelle d'Asino aveva avuto dal padre vesti
splendenti come il sole e la luna, color del mare
con i pesci ricamati che nuotavano, o di una seta
tanto sottile che si potevano riporre in un guscio
di noce. Vestita dall'amore del padre, accolto e
respinto con la richiesta dei doni, la principessa
aveva raggiunto il massimo splendore, per fuggire
subito dopo coperta dalla pelle dell'asino,
repellente come la passione incestuosa. Mentre
l'incesto è il tema centrale nelle storie di Pelle
d'Asino, nel tipo Cenerentola è in
primo piano la lotta con la madre. Ma anche
l'eroina della cenere è molto amata dal padre
all'inizio della storia, e nell'assassinio della
prima matrigna si parla di una figlia che pretende
una centralità assoluta nel gioco familiare degli
affetti. La
marginalità e l'oscurità della vita di Cenerentola
designano la sua perdita di entrambe le figure
genitoriali positive: con la morte della madre la
sua figura negativa perseguita la protagonista,
mentre il padre si lega alla matrigna tanto da
amare le figliastre dimenticando la figlia. A questo
punto della storia, come raccontano sia Basile che i Grimm, il
padre deve partire per i suoi affari, e chiede
alle figliastre che dono vogliono da lui: ...E chi le cercaie vestite da sforgiare, chi galantarie pe la capo, chi cuonce pe la faccia, chi iocarielle pe passare lo tiempo e chi na cosa e chi n'autra. Ped utemo, quase pe delieggio, disse a la figlia: "E tu, che vorrisse?". Ed essa: "Nient'autro, se non che me raccomanne a la palomma de le fate, decennole che me manneno quarcosa; e si te lo scuorde non puozze ire né 'nanze né arreto. Tiene a mente chello che te dico: arma toia, maneca toia" (Basile, cit., p. 128)[4]. Il dono
paterno è un rametto, un seme o un uccellino, e
compare anche quando si narra di una figlia non
trascurata dal padre, come nella fiaba Grattula
Beddattula di Pitrè e Calvino, o nell'Uccellin
Verdeliò di Vittorio Imbriani. Quando
finalmente tocca a lei chiedere un dono, la
protagonista si differenzia dalle sorelle, che
desiderano ornamenti per confermare ed arricchire letteralmente
l'identità esteriore. La
Cenerentola di Calvino disse al padre: - Io voglio che vossignoria mi porti un bel ramo di datteri in un vaso d'argento. E se non me lo porta, che il bastimento non possa più andare né avanti né indietro. - Ah, sciagurata, - le dissero le sorelle, - ma non sai che puoi mandare a tuo padre un incantesimo? (cit., vol. II, p. 512) Il ramo
di dattero della versione mediterranea diventa un
rametto nella versione dei Grimm, e Aschenputtel
lo chiede quando finalmente tocca a lei: Babbo, il primo rametto che vi urta il cappello sulla via del ritorno (cit., ivi, p. 94). Le
Cenerentole tendono la mano a una loro parente
fiabesca: la Bella, che proprio a causa di
questo dono conoscerà la bestia. Per
cogliere la rosa che gli ha chiesto la più piccina
il padre entra nel giardino, e in questo modo sarà
costretto dalla bestia a condurgli la figlia.
Consideriamo questa fiaba diversa dal nostro tipo
perché la condizione degradata è del maschile
anziché del femminile, ma possiamo osservare che
la richiesta di questo dono al padre apre il
contatto con un reame sconosciuto, e determina
l'incontro tra i personaggi che alla fine
diventeranno re e regina. Una rosa,
un rametto, un uccellino e un dattero da far
crescere, sono i doni del padre. Il termine latino
virga designa il virgulto, il germoglio, il
bastone o la bacchetta magica. In Italiano verga
è sia il bastone sia il fallo. La Gatta
Cennerentola sa come obbligare il padre
separato da lei, il padre che l'ha dimenticata,
quando chiude il suo discorso dicendo che senza
soddisfare la sua richiesta non potrà più andare né
avanti né indietro. Nella
versione di Calvino le sorelle rimproverano Nina
per questo pericoloso incantesimo, ma né lei né il
padre se ne curano. Il contenuto manifesto di
questo passaggio - non poter più andare né
avanti né indietro - allude alla stessa area
simbolica: se il padre non aiuterà la figlia ad
accedere al simbolo del maschile, lui stesso
perderà simbolicamente la potenza virile. Il
movimento del vascello del padre ricorda l'atto
sessuale, e insieme il gioco della vita, il
viaggio di andata e di ritorno tra il proprio
reame e un'isola lontana, tra una figlia bambina e
una donna, tra una figlia adorata e una figlia
trascurata. Aschenputtel pianta il rametto donato
dal padre sulla tomba della madre e lo annaffia
con le sue lacrime: cresce un alberello di
nocciolo sul quale va a posarsi un uccellino
bianco. I significati, anche linguistici,
dell'uccello vanno dalla denominazione volgare del
genitale maschile alla colomba dello Spirito
Santo. E la Cenerentola di Vittorio Imbriani,
anziché un ramo chiede al padre: "Vo' m'avete a comperare un uccellin Verdeliò." - [Le sue sorelle dissero:] "La sciocca! Non si sa che gli abbia a che fare dell'uccellino! Invece di ordinarsi un bel vestito, un bello scialle, si piglia l'uccello chi sa per farne che!" (cit., p. 151). Mentre le
sorelle andranno al ballo abbellendosi con
i doni che hanno chiesto, segni esteriori della
femminilità, Cenerentola, in qualunque parte del
mondo si racconti la sua storia, ancora vestita di
stracci ricorre all'albero di dattero o al
nocciolo, o chiama l'uccellin Verdeliò:
grazie al simbolo della relazione d'amore con la
figura paterna chiede e ottiene vesti di
meraviglioso splendore. Questa bellezza di origine
segreta è insieme segno e simbolo della
femminilità intimamente cresciuta, come una luna
che si alza, finito il tempo della sua oscurità. 4. Dattolo mio 'naurato Il padre
non ama più la figlia: nel linguaggio delle fiabe
si rappresenta il distacco dal padre, che non dà
più amore. La morte della madre designa la perdita
della figura originaria di identificazione, ed è
il passaggio nel lutto che precede l'acquisizione
della nuova identità. Per ottenerla la figlia deve
passare attraverso la perdita dell'attaccamento
infantile alla figura paterna come oggetto di
desiderio: il padre non ama più la figlia
significa allo stesso tempo che la figlia non ama
più il padre. Dal lutto Cenerentola esce con la
sua richiesta al padre, e il padre, aiutandola a
ottenere quel simbolo del maschile che solo lui
può procurare alla figlia, consente la
trasformazione. Nella
tragedia di re Lear si racconta della mancanza di
questo passaggio, e la situazione di impotenza e
di follia del re corrisponde al non poter andare
né avanti né indietro del padre di Cenerentola.
Trasformazione, crescita, significa avvicendamento
delle generazioni: è la condizione opposta
all'incesto, nel quale sono confusi il generante e
il generato, al punto che nessun personaggio può
andare né avanti né indietro. Se non
fosse per l'incantesimo che gli ha fatto
Cenerentola, il padre non le procurerebbe il suo
dono: Iette lo prencepe, fece li fatte suoie 'n Sardegna pe cose necessarie a lo stato suio, accattaie quanto l'avevano cercato le figliastre e Zezolla le scie de mente; ma, 'nmarcatose 'ncoppa a no vasciello e facenno vela, non fu possibele mai che la nave se arrassasse da lo puorto e pareva che fosse 'mpedecata de la remmora. Lo patrone de lo vasciello, ch'era quase desperato, se pose, pe stracco, a dormire e vedde 'n suonno na fata, che le disse: "Sai perché non potite scazzellare la nave da lo puorto? perché lo prencepe che vene con vui ha mancato de promessa a la figlia, allecordannose de tutte fora che de lo sango propio". Se sceta lo patrone, conta lo suonno a lo prencepe, lo quale, confuso de lo mancamiento c'aveva fatto, ieze a la grotta de le fate, e, arrecommannatole la figlia, disse che le mannassero quarcosa. E ecco escette fora de la spelonca na bella giovane, che vedive no confalone, la quale le disse ca rengraziava la figlia de la bona memoria e che se gaudesse ped ammore suio: cossì decenno le dette no dattolo, na zappa, no secchietiello d'oro e na tovaglia de seta, dicenno che l'uno era pe pastenare e l'autra pe coltevare la chianta. Lo prencepe maravigliato de sto presiento se lecenziaie da la fata a la vota de lo paiese suio e, dato a tutte le figliastre quanto avevano desiderato, deze finalmente a la figlia lo duono che le faceva la fata (Basile, cit., pp. 128-130)[5]. La madre
deve dire alla figlia: tu sei come me terra
fertile, e da questo dipende la sua capacità
di nutrire, simbolizzata nelle nostre fiabe dalla
relazione con la bambolina. Dopo aver stabilito la
sua identità con la madre, dicendo: io sono
terra come te, la figlia ha bisogno del dono
del padre, che deve dirle: riceverai un seme
come il mio. La differenza tra un legame
imprigionante, articolato in una relazione di tipo
narcisistico con le figure genitoriali, e una
acquisizione di identità che spinga alla crescita,
alla trasformazione nell'esperienza, è nel come:
la madre non deve dire: io sono te, terra;
il padre non deve dire: ti dono il mio seme.
La chiave della crescita è nella comprensione
della metafora: come. Come la madre, non
la stessa cosa della madre, come dal padre, non
dal padre. Le fiabe
raccontano di tante crescite possibili, e le loro
parole danno nome agli ostacoli e alle soluzioni
che si incontrano lungo il cammino. La magia nelle
fiabe è la possibilità di dar nome, di
rappresentare secondo un codice comunicabile a
tutti, le esperienze di trasformazione che portano
a una sufficiente maturità affettiva. La
ricchezza dei simboli che contengono attesta la
potenza della metafora: il simbolo è una metafora
di ordine prezioso, non riducibile ad allegoria.
Risiede nella natura potente e misteriosa della
metafora la corrispondenza del linguaggio verbale
con le leggi del sogno e dell'immaginario. La
magia, che rappresenta nelle fiabe un passaggio di
trasformazione tenendo conto delle sue radici
inconsce, non è una fuga dal linguaggio della
coscienza, né l'allontanamento dal significato
condivisibile. Come la metafora nel linguaggio,
essa vale nelle fiabe come un ponte,
indispensabile perché il cammino psicologico del
soggetto con i suoi desideri non si interrompa, ed
è dotata della pregnanza simbolica che sta alla
base del potere di significazione dello stesso
linguaggio verbale. Una fata
colomba si rallegra del suo ricordo e le invia un
dono da coltivare, un padre va lontano a prenderle
questo dono e glielo porta: la Gatta
Cennerentola ora ritrova nel segreto del
suo cuore entrambe le figure genitoriali positive,
trasformazione simbolica delle figure onnipotenti
e totalizzanti dell'infanzia. Come lei è pronta
all'incontro col principe Aschenputtel:
lei ha una piantina di nocciolo, donata dal padre,
cresciuta col suo pianto sulla tomba della madre.
Uscita
dal lutto col desiderio di ottenere il dono
paterno, ora che l'ha fra le mani Cenerentola, al
colmo della gioia, non ha bisogno di istruzioni
per decidere cosa farne: ... Co na preiezza che non capeva drinto la pella, pastenaie lo dattolo a na bella testa, lo zappoleiava, adacquava e co la tovaglia de seta matino e sera l'asciucava, tanto ch 'n quattro juorne cresciuto quanto è la statura de na femmena ne scette fora na fata, dicennole: "Che desidere?". Alla quale respose Zezolla che desiderava quarche vota de scire fora de casa, né voleva che le sore lo sapessero. Leprecaie la fata: "Ogne vota che t'è gusto, vieni a la testa e dì: Dattolo mio 'naurato, co la zappetella d'oro t'aggio zappato, co no secchietiello d'oro t'aggio adacquato, co la tovaglia de seta t'aggio asciuttato; spoglia a te e vieste a me! " (Ivi) [6] 5. Il senso e i legami Un
bambino di sei anni fa il suo primo disegno: un
serpente boa che sta digerendo un elefante. Ma gli
adulti dicono che non è altro che un cappello. Il
bambino continua a chiedere agli adulti che
incontra cosa vedono nel disegno, e siccome
rispondono sempre: "un cappello", non parla con
nessuno di loro ...né di serpenti boa, né di
foreste vergini, né di stelle... [7], che sono nei luoghi dei
suoi sogni. Nessuno di loro lo aiuta a trovare per
il suo mondo interiore un linguaggio metaforico e
simbolico. Il
bambino ormai cresciuto si mette allora al livello
degli adulti, che finalmente si compiacciono della
sua ragionevolezza. Fino a che, essendo vissuto ...solo,
senza nessuno con cui parlare veramente... [8], si trova nel deserto
per un guasto del suo aereo: incontra un bambino
che viene dalle stelle, e che di fronte al suo
vecchio disegno vede finalmente il boa che ha
ingoiato l'elefante. E incontrando questo bambino
che viene dallo spazio indefinito, un po' perduto
come ogni bambino i cui disegni non vengono mai
riconosciuti, Antoine De Saint-Exupéry parla
veramente, creando Le petit prince (1943).
Il bambino è il solo a capire il bambino, in un
gioco di volo, di stelle e di deserto: una
comprensione irragionevole per l'adulto
rigidamente legato alla logica della coscienza, ma
la sola capace di rompere la solitudine. La
coscienza di ogni essere umano forse comincia con
uno scacco simile a quello narrato da
Saint-Exupéry, al quale si può rispondere cercando
di essere ragionevoli, credendo che non esista una
comprensione autentica, o facendo della propria
vita una ricerca di questo senso. È le
renard, la volpe, a trasmettere al bambino
il segreto del senso, la cui mancanza provoca
tanta solitudine. Ricordiamo
che il piccolo principe sul suo minuscolo pianeta
ha una rosa, che crede unica nell'universo e cura
con costanza, come le Cenerentole curano il seme
di dattero o il rametto di nocciolo. Quando,
durante il viaggio, capita in un giardino pieno di
rose, tutte somiglianti alla sua rosa, il piccolo
principe prova un grande dispiacere, e pensa che
la sua rosa si lascerebbe morire se scoprisse ciò
che lui ha scoperto: è un fiore comune. La
delusione a proposito dell'unicità del fiore
curato e amato è immediatamente seguita dallo
sconforto per la propria identità, e all'orgoglio
per il suo pianeta subentra nel piccolo principe
questo pensiero: Je me croyais
riche d'une fleur unique, et je ne possède qu'une
rose ordinaire. [...] ...ça ne fait pas de moi un
bien grande prince... (Ivi, p. 87) [9]. Piange
disteso sull'erba, perché si è oscurata l'identità
che si rispecchiava nella bellezza oggettivamente
unica della sua rosa. Proprio allora arriva la
volpe, che si ferma un po' lontana da lui: - Qui es-tu?
dit le petit prince. Tu es bien joli... - Je suis un
renard, dit le renard. - Viens jouer
avec moi, lui proposa le petit prince. Je suis
tellement triste... - Je ne puis
pas jouer avec toi, dit le renard. Je ne suis pas
apprivoisé. - Ah! pardon,
fit le petit prince. Mais, après
réflexion, il ajouta: - Qu'est-ce qui signifie "apprivoisier"? (Ivi, p. 88) [10]. Una
cosa troppo dimenticata, gli dirà poco dopo la
volpe, addomesticare significa "creare dei
legami". Una verità antica e profonda, che
come un tesoro sepolto può restare inaccessibile
dentro di noi: il suo senso risuona allo stesso
modo in ogni storia che presenta una crescita
profonda. In un cammino psicoanalitico importa
comprendere cosa ci impedisce di accedere a questo
senso, e trovare le risorse interiori per superare
la ferita del proprio disegno non compreso. Ma
torniamo alla volpe. Al piccolo principe che vuole
andare a trovare degli amici, propone di
addomesticarla, e quando lui lamenta che non ha
tempo, perché deve procedere nella sua ricerca e
imparare molte cose, dice: On ne connaît
que les choses que l'on apprivoise, dit le renard.
Les hommes n'ont plus le temps de rien connaître.
Ils achètent des choses toutes faite chez les
marchands. Mais comme il n'existe point de
marchands d'amis, les hommes n'ont plus d'amis. Si
tu veux un ami, apprivoise-moi! - Que faut-il faire? dit le
petit prince. - Il faut être très patient, répondit le renard. Tu t'assoiras d'abord un peu loin de moi, comme ça, dans l'herbe. Je te regarderai du coin de l'oeil et tu ne diras rien. La langage est la source du malantendus. Mais, chaque jour, tu pourras t'asseoir un peu plus prés... (Ivi, p. 91)[11]. Giorno
dopo giorno: il tempo nella creazione dei legami è
un alleato indispensabile, e va compreso come
realtà altra rispetto al desiderio assoluto, che
porta gli uomini a comprare le cose già fatte
dai mercanti. Certo non si possiede né si
controlla nulla addomesticando e lasciandosi
addomesticare, né si evita il dolore: alla fine il
piccolo principe deve partire, e chiede alla volpe
se piangerà. Quando gli risponde di sì, esclama
che allora non ha guadagnato nulla facendosi
addomesticare da lui. Ma la volpe sa e racconta
cosa ha guadagnato: il colore del grano. Prima di
farsi addomesticare dal piccolo principe i campi
di grano non avevano alcun valore per lei, mentre
ora le spighe mature le ricorderanno il colore dei
suoi capelli. E prima di dire addio al suo amico,
la volpe gli svela il suo segreto: - Il est tres
simple: on ne voit pas qu'avec le coeur.
L'essentiel est invisible pour les yeux. - L'essentiel
est invisible pour les yeux, répéta le petit
prince, afin de se souvenir. - C'est le
temps que tu as perdu pour ta rose qui fait ta
rose si important. - Ce le temps
que j'ai perdu pour ma rose... fit le petit
prince, afin de se souvenir. - Les hommes
ont oublié cette vérité, dit le renard. Mais tu ne
dois pas l'oublier. Tu deviens responsable pour
toujours de ce que tu as apprivoisé. Tu es
responsable pour ta rose... - Je suis
responsable pour ma rose... répéta le petit
prince, afin de se souvenir (Ivi, p. 93) [12]. Questo
momento resta un mistero mai sfiorato per molte
persone, e la sua sostanza è analoga a quella del
tesoro di ogni percorso iniziatico. La
psicoanalisi esplora il movimento interiore
rappresentato dalle fiabe accostando posizioni e
stati della psiche a
questo momento di grazia, perché esso è la meta di
ogni cammino umano, consentendo
quell'apprendimento rappresentato dall'incontro
tra la volpe e il piccolo principe che Wilfred R.
Bion definisce apprendere dall'esperienza
(1962). Del
viaggio fiabesco o iniziatico l'analisi ha la
sospensione del tempo: quando inizia un percorso
analitico è impossibile dire quanto durerà, e
anche dare assicurazioni sul risultato del
percorso stesso. Ma il viaggio nasce per conoscere
la psiche e affrontare una sofferenza altrimenti
elusa, mai ascoltata, ed è aperto a chiunque,
indipendentemente dal suo grado di cultura, dalla
sua appartenenza a una razza o a un ceto sociale.
Esso non ha come meta diventare membri di una
sorta di società segreta, perché la meta è il
percorso stesso: conoscersi. Usando i temi del Piccolo
principe, possiamo dire che ognuno deve
comprendere il suo primo disegno, perché continua
a proporlo in quella forma, e cosa può fare se
vuole essere compreso. La coppia al lavoro in
analisi potrebbe somigliare al piccolo principe
con la volpe, in un gioco reciproco di
addomesticamento, di costruzione del legame
affettivo, nel quale però il linguaggio non è la
fonte dei malintesi, ma lo strumento per crescere,
dando nome alle cose, come al dolore, alla
solitudine, all'amicizia. Chi i rivolge
all'analisi dovrebbe scoprire il suo bisogno di
non essere isolato, e forse iniziare un'analisi ne
costituisce una prima testimonianza. Se comprende
questo, può imparare ad ascoltare la volpe quando
gli si avvicina, e poi addomesticare ciò che
sceglie, vale a dire prendersi cura della sua
propria vita. Il linguaggio è fonte di malintesi
quando esclude la delicatezza di cui abbiamo
bisogno per incontrarci, quando dimentichiamo che
le nostre somiglianze e le nostre diversità sono
bellissime ma ritrose, quando entriamo in uno
spazio intimo con passi da colonizzatori, incapaci
di sederci a una certa distanza e di guardarci con
la coda dell'occhio. Il
linguaggio poetico di Saint-Exupéry non è fonte di
malintesi, ma definisce tali le parole degli
uomini. Linguaggio assurdo o incomprensibile per i
bambini, come per Pinocchio, linguaggio che porta
alla fine dell'infanzia, come alla conclusione del
libro. Alla fine
la partenza del piccolo principe avviene per il
morso di un serpente: Il hésita
encore un peu, puis il se releva. Il fit un pas.
Moi je ne pouvais pas bouger. Il n'y eut rien
qu'un éclair jaune près de sa cheville. Il demeura
un istant immobile. Il ne cria pas. Il tomba
doucement comme tombe un arbre. Ça ne fit même pas
de bruit, à cause du sable (Ivi, p. 107) [13]. Questo
bambino che si accascia senza far rumore sulla
sabbia ci ricorda l'ultima immagine di un altro
grande libro, il più letto dai bambini e ai
bambini in tutto il mondo: le spoglie di Pinocchio
ormai senza vita, accasciate sulla seggiola,
mentre accanto a Geppetto un bravo bambino normale
ha preso il suo posto. Se consideriamo questi due
finali, poeticamente altissimi, un nutrimento per
i bambini, che li incoraggi a essere se stessi pur
diventando adulti, dobbiamo affermare sconfortati
con Salman Rushdie che "...se esiste un terzo
principio, si chiama infanzia. Ma muore; o meglio,
viene assassinato" (I figli della mezzanotte,
1984, p. 172). Sperando
che il terzo principio possa ricorrere in
appello, e vivere, cerchiamo nelle fiabe come si
rappresenta da secoli un cammino che può portare
gli esseri umani a comprendere la realtà dei loro
sogni, a conoscere col cuore, non rinunciando a
guardare con gli occhi, ma imparando pazientemente
che gli occhi e il cuore sono in conflitto tra
loro solo se servono componenti scisse della
personalità. Quando un bambino gioisce ascoltando
una fiaba antica, di cui il narratore, genitore o
insegnante, comprende il valore, avendo
riconosciuto a quale tesoro intimo può guidare,
possiamo pensare che il suo linguaggio ne viene delicatamente
arricchito, che almeno per quella volta il bambino
non è stato assassinato. Dopo aver
ascoltato Li sette palommielle di
Giambattista Basile[14], i bambini di una prima
media mi chiesero se c'è la morale della
favola. Rimandai a loro la domanda, e un
bambino scrisse: Secondo me, questa favola ha una morale e forse è una tra i più importanti che ci può far capire una di queste fiabe. Il morale della favola, è una cosa che ti fa capire la realtà o cosa bisogna fare in certi casi e secondo me il morale di questa fiaba è "di non perdersi mai di speranza" infatti, se i fratelli di Nina si fossero persi di speranza e non avrebbero detto niente, di come si poteva risolvere il problema di non essere più colombini, ma uomini essi sarebbero per sempre rimasti colombini. Non c'è
cammino possibile senza la fiducia che un
possibile cammino esista. Un filo può bastare, per
uscire dalla condizione di angoscia che ciascuno
sperimenta nella vita, un filo di magia che
intendiamo come rappresentazione di quella grazia
interiore alla quale scegliamo di legarci, pur
ignorando dove e come arriveremo, semplicemente
tendendo alla nostra meta irrinunciabile. Nelle
fiabe russe accade che il principe Ivan non sappia
più come trovare la sua strada, e che un uomo
vecchissimo gli dia un gomitolo con queste parole:
"Quando arriverai al limitare del bosco, lancia il
gomitolo, e segui la via che ti indicherà". I bambini
ascoltano seguendo il filo della fiaba, e se sono
invitati a dare il loro parere su una lacuna nella
narrazione o su come vada inteso un passaggio,
rivelano una ricchezza che sorprende l'adulto
abituato a considerarli meno profondi o
intelligenti di se stesso. Raccontavo un giorno
una fiaba di Straparola (cit., vol. I, pp.
127-137) la cui protagonista, Biancabella, subiva
tragiche peripezie, tra le quali il taglio delle
mani. Mentre a un certo punto della storia si
diceva che aspettava un bambino, alla fine non se
ne faceva menzione. I bambini notarono la lacuna,
e li invitai a colmarla. Alcuni di loro scrissero
come la povera Biancabella avesse abortito fra
tante sciagure, altri come il bambino fosse morto
di stenti, altri come si fosse salvato e fosse
presente nel finale felice. Nell'incontro
successivo lessi in classe tutti questi finali, e
chiesi loro di scrivere quale avrebbero scelto a
quel punto per colmare la lacuna. Un bambino che
aveva optato la prima volta per l'aborto causato
dai patimenti di Biancabella, dopo aver sentito i
racconti dei suoi compagni scrisse: Per me è importante quello del figlio che e nato ed sia un bambino con occhi neri, capelli neri robusto, che sia un bel bambino di nome Lorenzo e che quando sia grande sia un bel principe fidanzato con Chiara principessa di Firenze Io ho scelto questa parte perchè‚ a Biancabella sono successe molte cose dispiacevoli allora con bel figlio possa ritrovare tutta la felicita. [15] Questo
bambino, un po' robusto, si chiamava Lorenzo, e Chiara era il nome
della sua compagna di scuola preferita. La
capacità dei bambini di esprimere e condividere
con l'adulto, cercando le parole per farlo, la
loro ricchezza, scaturisce ogni volta che
l'adulto, di fronte al disegno del bambino che gli
chiede che cosa sia, lo aiuta a trovare il nome, o
la storia, che ne esprime il senso. Mio
nipote, quando aveva quattro anni, mi raccontava
dei suoi sottomarini, con i quali andava a vedere
i pesci degli abissi, e poteva anche entrare nella
sabbia in fondo al mare. Descriveva questi suoi
sottomarini con dovizia di particolari, erano di
tutti i colori, avevano arredi preziosissimi...
Quando gli chiedevo se potevo partecipare anch'io
a una delle sue meravigliose crociere, mi
rispondeva sempre che non potevo andarci, perché
non c'era nessuna stanza col mio nome. Si
divertiva a farmi dispetto, e io lo deliziavo
rammaricandomi, finché un giorno gli dissi: "Beh,
se tu non mi ci porti, pazienza, vorrà dire che
andrà sul sottomarino del mio amico". Allora fece
un'espressione smarrita e rassegnata, dicendo:
"Eh... lui ce l'ha per davvero, che va sotto
l'acqua?". "Certo", gli risposi, e mentre temeva
che avessi decretato la fine della sua potenza
fantastica, esercitando contro di lui il diritto
della persona adulta, continuai: "certo che va
sott'acqua, come i tuoi, no?". La sua gioia per
questa soluzione fu tale che tutta la flotta dei
sottomarini ne fu abbellita fino a diventare d'oro
puro, e pur interdicendomene la visita, me ne ha
proseguito a lungo il racconto. A quattro
anni il bambino rivela una piena comprensione
della differenza tra la realtà oggettiva e la
realtà della sua immaginazione. È compito
dell'adulto aiutarlo a trovare un linguaggio che
gli consenta di seguire il filo del suo desiderio
e della sua esperienza muovendosi su diversi piani
di rappresentazione. Desidero
portare infine l'esempio di un'insegnante che
svolge questo compito [16]. Per un mese aveva
lavorato con la sua classe quinta elementare sulla
poesia e la metafora, partendo dal film Il
postino di Massimo Troisi (1994). Una
mattina, parlando in senso scientifico del vento,
aveva spiegato che il vento non è una realtà, una
veraa e propria cosa, ma l'effetto di spostamenti
d'aria dovuti al calore o a eventi meccanici.
Quando più tardi la classe è tornata a occuparsi
di poesia, una bambina ha pensato bene di scrivere
del vento, della metafora e della sua realtà
poetica. La sua poesia ci insegna a comprendere le
fiabe: Il vento si muove lentamente. Passa sopra il mare e lo ascolta raccontare. Passa accanto al sole e lo sente chiacchierare. Passa sopra la luna e la ode sospirare. Continua a viaggiare e le fiabe raccolte lo cavalcano gridando. Entra in una casa e le storie vanno nella bocca di una madre. Le racconta al bambino che ride nella culla. Quando da
un'antica fiaba che rinarriamo scaturisce la fiaba
nuova di un bambino, quando le sue parole formano
una figura piena di poetica intuizione del valore
dell'esperienza e del sentimento, penso che
potremmo perfino cercare di metterci in
comunicazione con Antoine De Saint-Exupéry,
scomparso mentre volava, anche lui come il piccolo
principe senza far rumore, e rispondere
all'appello col quale chiude il suo capolavoro: Alor soyez gentils! Ne me laissez pas tellement triste: écrivez moi vite qu'il est revenu... (Ivi, p. 111)[17]. [1]
A proposito dell'oggetto magico e della
sua funzione complessa nella fiaba, vedi anche
il mio saggio Aladino e la lampada
meravigliosa. Viaggio psicoanalitico,
1993. [2]
...Ne ebbe tanta compassione che le
insegnò tre formulette: la prima, tricche
varlacche ca la casa chiova; la seconda,
anola tranola, pizze fontanola, la
terza, tafar'e tammurro, pizze 'ngongole e
cemmino, raccomandandole di dirle quando
ne avesse avuto un gran bisogno, perché ne
avrebbe tratto un gran bene (Ivi, p. 915). [3]
...Mentre gli sposi stavano a trescare
tra loro, Zezolla, si affacciò a un terrazzino
di casa sua e una colombella, volata su un
muro, le disse: "Quando ti viene voglia di
qualcosa mandala a chiedere alla colomba delle
fate nell'isola di Sardegna, subito l'avrai"
(Ivi, p. 127). [4]
...E chi chiese vestiti da esibire, chi
ornamenti per la testa, chi belletti per la
faccia, chi giochini per passare il tempo e
chi una cosa e chi un'altra. Alla fine, quasi
per scherno, disse alla figlia: "E tu cosa
vorresti?". E lei: "Nient'altro se non che mi
raccomandi alla colomba delle fate chiedendole
di mandarmi qualcosa; e se te ne scordi possa
tu non andare più né avanti né indietro.
Ricordati quello che ti ho detto: arma tua e
mano tua" (Ivi, p. 129). [5]
Il principe partì, fece i suoi affari
in Sardegna, comprò quello che le figliastre
gli avevano chiesto e si dimenticò di Zezolla;
ma, quando si fu imbarcato su un vascello e
stava per far vela, la nave non riuscì a
staccarsi dal porto e sembrava che fosse
frenata dalla remora. Il padrone del vascello,
che era quasi disperato, si mise, stanco, a
dormire e vide in sogno una fata che gli
disse: "Sai perché non potete staccare la nave
dal porto? perché il principe che è a bordo
non ha mantenuto una promessa fatta alla
figlia e si è ricordato di tutte tranne di
quella che è del suo sangue". Il padrone si
svegliò, raccontò il sogno al principe che,
confuso per la sua mancanza, andò nella grotta
delle fate e, dopo avergli raccomandato la
figlia, chiese che le mandassero qualcosa. Ed ecco che uscì
fuori dalla spelonca una bella ragazza -
sembrava un gonfalone - che gli disse che
ringraziava la figlia del buon ricordo e che
se la godesse per amor suo: così gli diede un
dattero, una zappa, un secchiello d'oro e una
tovaglia di seta, dicendo che l'uno era per
seminare e le altre cose per coltivare la
pianta. Il principe, meravigliato di questi
doni si congedò dalla fata alla volta del suo
paese e, dato a tutte le figliastre quello che
avevano chiesto, diede finalmente alla figlia
il dono che le aveva mandato la fata. (Ivi,
pp. 129-131) [6]
E lei, con un'allegria che non la
faceva stare nella pelle, piantò il dattero in
un bel vaso, lo zappettava, lo annaffiava e
con la tovaglia di seta l'asciugava mattina e
sera, tanto che in quattro giorni, cresciuto
della misura d'una femmina, ne uscì fuori una
fata dicendo: "Cosa desideri?". Zezolla le
ripose che desiderava uscire qualche volta da
casa, ma non voleva che le sorelle lo
sapessero. La fata replicò: "Ogni volta che ti
fa piacere, vieni al vaso e dì: Dattero
mio dorato, / con la zappetta d'oro t'ho
zappato, / con il secchiello d'oro t'ho
bagnato, / con la tovaglia di seta t'ho
asciugato, / spoglia te e vesti me. (Ivi) [7] "Alors je ne lui
parlais ni de serpents boas, ni de forêts
vierges, ni d'étoiles. Je me mettais à sa
portée. Je lui parlais de bridge, de golf, de
politique et de cravates. Et la grande
personne était bien contente de connaître un
homme aussi raisonnable" (Ivi, p. 39). [Allora non gli
parlavo né di serpenti boa, né di foreste
vergini, né di stelle. Mi mettevo alla sua
altezza. Gli parlavo di Bridge, di golf, di
politica e di cravatte. E la persona grande
era proprio contenta di conoscere un uomo così
assennato.] [8] J'ai ainsi vécu
seul, sans personne avec qui parler
véritablement,... (Ivi, p. 40). [9]
Mi credevo ricco di un fiore unico, e
non possiedo che una comune rosa. [...]
...questo non fa di me un principe davvero
grande. [10]
"Chi sei?" disse il piccolo principe.
"Sei così carina...". "Sono una volpe", disse
la volpe. "Vieni a giocare con me", le propose
il piccolo principe. "Sono così triste...".
"Non posso giocare con te", disse la volpe.
"Non sono addomesticata". "Ah! scusa", fece il
piccolo principe. Ma, dopo una riflessione,
aggiunse: "Che cosa vuol dire
'addomesticare'?". [11]
"Si conoscono solo le cose che si
addomesticano", disse la volpe. "Gli uomini
non hanno più il tempo per conoscere nulla.
Comprano cose già fatte dai mercanti. Ma
siccome non esistono affatto mercanti di
amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu
vuoi un amico, addomesticami!". "Che si deve
fare?" disse il piccolo principe. "Bisogna
essere molto pazienti, rispose la volpe.
All'inizio ti metterai a sedere un po' lontano
da me, così, nell'erba. Io ti guarderò con la
coda dell'occhio e tu non dirai nulla. Il
linguaggio è la fonte dei malintesi. Ma ogni
giorno potrai metterti a sedere un po' più
vicino... [12]
"E' molto semplice: non si vede bene
che col cuore. L'essenziale è invisibile agli
occhi". "L'essenziale è invisibile per gli
occhi", ripetè il piccolo principe, per
ricordarsene. "E' il tempo che tu hai perso
per la tua rosa che rende la tua rosa così
importante". "E' il tempo che ho perso per la
mia rosa..." fece il piccolo principe, per
ricordarsene. "Gli uomini hanno dimenticato
questa verità", disse la volpe. "Ma tu non te
la devi dimenticare. Tu diventi responsabile
per sempre di ciò che hai addomesticato. Tu
sei responsabile della tua rosa...". "Io sono
responsabile della mia rosa...", ripetè il
piccolo principe per ricordarsene. [13]
Esitò ancora un poco, poi si alzò. Fece
un passo. Io non potevo muovermi. Non ci fu che un
lampo giallo vicino alla sua caviglia. Rimase
immobile per un istante. Non gridò. Cadde
dolcemente come cade un albero. Non fece
rumore, per via della sabbia. [14]
Basile, pp. 788-811; ho letto la fiaba
nella mia trascrizione (cit., pp. 35-46). [15]
Ho riportato questi esempi dei bambini
in altri contesti, sia saggi che conferenze.
Chi ama il lavoro con i bambini comprenderà
che non si tratta, come potrebbe sembrare, di
mancanza di fantasia o di scarsità di
materiali significativi. E' che un loro
scritto, bello di per sé e ancora più
significativo per chi scrive, anche per il
contesto nel quale lo ha ricevuto, si fa amare
come una poesia, che diventa la "nostra"
poesia, e non ci si stanca mai di ricordarla. [16]
L'insegnante, Maura Landucci, ha
condotto questa esperienza nella scuola
elementare statale Don Minzoni, a Firenze,
nell'anno scolastico 1995-96. La ringrazio per
avermela comunicata, e per la bellissima
poesia che, conoscendo questa ricerca sulla
fiaba, ha messo a mia disposizione. [17]
Siate gentili! Non lasciatemi così
tanto triste: scrivetemi presto che è
tornato... |
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6. La fuggitiva | LA FUGGITIVA Ma il dito
grosso non entrava e la scarpa era troppo piccolina;
allora la madre le porse un coltello e disse: -
Tagliati il dito; quando sei regina, non hai più
bisogno di andare a piedi. 1. La fuggitiva Ciò che
è sotto i nostri occhi è la cosa più difficile
da vedere, troppo vicina, come la punta del naso.
Per questo è arduo procedere nell'analisi di
Cenerentola, che non è solo la fiaba più diffusa
in tutto il mondo, ma anche la più presente nelle
nostre espressioni quotidiane, come quando una
ragazzina, che i genitori sollecitano a rientrare
presto, esclama: Ma non dovrò mica tornare a
mezzanotte, come Cenerentola! Penso che
questa popolarità di Cenerentola abbia a che fare
con un desiderio profondo che non è facile
tradurre in parole, e che nella fiaba trova
meravigliose figure. C'è una storia del femminile
in Cenerentola che va oltre le ideologie correnti
e quelle passate, accennando alla possibilità di
una crescita ancora oggi difficile da decrivere
con parole diverse da quelle della fiaba. Tutte le
Cenerentole, varie e variegate, a un certo punto
fuggono eclissandosi, dopo aver brillato con
l'incanto della luna, simbolo per eccellenza del
femminile, che esercita il proprio influsso sui
fluidi della generazione, sulla crescita delle
piante e sul movimento del mare. Nella
versione più celebre, quella di Perrault e Disney,
andiamo a vedere Cenerentola che sta salendo,
finalmente bellissima, sul cocchio che era stato
una zucca, con i lacchè e i topini che poco prima
abitavano un angolo del giardino. ...La madrina le raccomandò sopra ogni
cosa di non lasciar passare la mezzanotte,
avvertendola che se lei fosse rimasta al ballo anche
un momento di più, la sua berlina sarebbe
ridiventata una zucca, i cavalli sorcetti, i suoi
lacchè lucertole, e i vecchi vestiti avrebbero preso
l'aspetto di prima. Ella promise alla madrina che
sarebbe venuta via dal ballo prima di mezzanotte. E
partì, non stando più in sé dalla gioia (Perrault,
cit., p. 20). Mezzanotte
è il limite in cui due giorni si danno il cambio,
dove la fine dell'uno e il principio dell'altro
creano una cesura immaginaria: in questa cesura
può manifestarsi la magia. Per Cendrillon
coincide con il punto di catastrofe, di
trasformazione radicale, del suo aspetto, nel
quale l'incantesimo che l'ha preparata per il
ballo svanisce. Il
principe appena la vede la sceglie e balla solo
con lei: ma alle undici e tre quarti Cendrillon
gli fa un inchino e se torna a casa nei suoi abiti
laceri, per poi alzarsi ad aprire alle due
sorelle, di ritorno dalla festa, come se non si
fosse mossa di casa. La sera dopo il suo piacere
di ballare col principe le fa dimenticare il
limite del suo incantesimo, e fugge quando già
rintocca la mezzanotte: nella fuga precipitosa
perde una scarpetta di vetro, e il principe che la
insegue la raccoglie. Attraverso la fuga, presente
in tutte le versioni di Cenerentola, il principe
viene in possesso della scarpetta, che riconosce
come mezzo per trovare la bella fuggitiva. Cendrillon
deve abbandonare il ballo per ordine della
fata madrina: senza accettare questo limite il
principe la vedrebbe nei suoi abiti laceri. Ma se
andiamo a leggere quasi tutte le altre versioni,
nelle quali gli abiti meravigliosi vengono dal
dattero della Gatta Cennerentola o
dall'uccellino bianco che vive sull'alberello di
nocciolo di Aschenputtel, scopriamo che
niente e nessuno impongono a Cenerentola di
fuggire: lascia il ballo, o la passeggiata dove
incontra il re che se ne innamora a prima vista,
senza che ci siano un'ora o un numero di volte
prestabilite per farlo. La bella fuggitiva, che
ritorna al luogo del suo lutto, della sua
invisibilità, alla sua cenere, ripete per un
numero rituale di volte questo percorso simbolico,
sia che glielo ordini la fata madrina, sia che lo
scelga autonomamente. Certo è che Cenerentola,
nella versione più celebre, non decidendo quando e
come sparire e comparire, si può avvicinare a
un'ideale moralistico di bambina perfetta, che
deve all'arrendevolezza e all'obbedienza quasi
masochistica tutta la sua fortuna. Già Perrault,
sottraendole l'iniziativa della fuga, doveva
averci pensato, se la alla fine della fiaba
scriveva: Gran bella cosa avere del talento, Nobil sangue, coraggio, chiaro discernimento E gli altri doni che dispensa il cielo. Ma a nulla serviranno, se a metterli in valore Non ci sarà lo zelo Di Padrini e Madrine di buon cuore. (Cit., p. 24) Cercheremo
di capire se ci sia una maggiore pregnanza di
senso dove Cenerentola, dopo aver curato la fonte
materna e quella paterna della propria magia, ne
dispone pienamente, secondo il suo ritmo lunare, e
come questa alternanza possa suggerire un'intima
verità della natura femminile nell'incontro col
principe. 2. Né l'ascia del
padre... Quando Aschenputtel
va per la prima volta al ballo indossando l'abito
meraviglioso donato dall'uccellino bianco che sta
sull'albero di nocciolo cresciuto con le sue
lacrime, il principe balla con lei sola. Mentre
nessun ordine esterno limita il suo tempo alla
festa, lei decide di tornare a casa, e il principe
la accompagna. Per non fargli scoprire dove abita,
questa Cenerentola gli sfugge balzando nella
colombaia, e il principe resta lì ad aspettare che
torni il padre, al quale dice come e dove è
scomparsa la bella sconosciuta. Al padre viene il
dubbio che si tratti proprio di sua figlia, e
abbatte la colombaia con un'accetta e un piccone,
ma non la trova, perché ha ripreso le sue vesti
umili e giace fra la cenere del focolare. Con un
abito ancora più bello, Cenerentola il giorno dopo
torna a ballare col principe, poi: La sera ella se ne andò e il principe la seguì per veder dove entrasse; ma ella fuggì d'un balzo nell'orto dietro casa. Là c'era un bell'albero alto da cui pendevano magnifiche pere; ella si arrampicò fra i rami svelta come uno scoiattolo e il principe non sapeva dove fosse sparita. Ma aspettò che arrivasse il padre e gli disse: - La fanciulla forestiera mi è scappata e credo che si sia arrampicata sul pero -. Il padre pensò: "Che sia Cenerentola?" Si fece portar l'ascia e abbatté l'albero, ma sopra non c'era nessuno (Grimm, cit., ivi, p. 97). Analizzando
questo movimento Bettelheim scrive: ...La ripetizione dei suoi interventi al ballo simboleggia l'ambivalenza della ragazzina che vuole impegnarsi personalmente e sessualmente, e nello stesso tempo ha paura di farlo. È un'ambivalenza che si riflette anche nel padre, che si chiede se la bellissima fanciulla sia sua figlia Cenerentola ma non si fida delle proprie impressioni. Il principe, come se riconoscesse di non poter ottenere Cenerentola fintanto che rimane emotivamente legata a suo padre in una relazione edipica, non la insegue personalmente, ma chiede al padre di farlo per lui. Soltanto se il padre indica per primo di essere pronto a liberare la propria figlia dai legami che l'avvincono a lui, essa può vedere con favore il trasferimento del suo amore eterosessuale dal suo oggetto immaturo (il padre) al suo oggetto maturo: il suo futuro marito. Il gesto del padre che demolisce i nascondigli di Cenerentola - sfasciando la piccionaia e abbattendo il pero - mostra che è pronto a passarla al principe. Ma i suoi sforzi non hanno il risultato desiderato. A un livello completamente diverso, la piccionaia e il pero rappresentano gli oggetti magici che finora hanno sorretto Cenerentola. Il primo è la dimora dei servizievoli uccelli che fecero la cernita delle lenticchie per Cenerentola: sostituti dell'uccello bianco sull'albero che le procurò i suoi begli abiti, nonché le fatali scarpette. E il pero ci ricorda l'altro albero che era cresciuto sulla tomba della madre. Cenerentola non deve più credere in oggetti magici e affidarsi al loro aiuto se vuol vivere bene nel mondo della realtà. Il padre sembra capirlo, e quindi abbatte i suoi nascondigli: essa non dovrà più nascondersi in mezzo alla cenere, ma inoltre non dovrà più cercar rifugio dalla realtà in luoghi magici (cit., pp. 253-254). L'interpretazione
non spiega come mai questi sforzi del padre,
alleato del principe, manchino il risultato
desiderato. Ci sembra interessante che l'azione
violenta del padre sia priva di esito, e proprio
per questo approfondiamo l'analisi. Nelle fiabe
non è possibile distinguere il piano delle
rappresentazioni magiche da quello della realtà
quotidiana, pena una torsione eccessiva del loro
senso. Ammettendo che la colombaia e il pero siano
luoghi magici, l'azione del padre munito di ascia
è sicuramente inadeguata a smantellarli: l'effetto
di un incantesimo si dissolve quando il tempo
stabilito è trascorso o per un incantesimo di
segno opposto, non per un'azione violenta. È pur
vero che le armi hanno una funzione simbolica,
basti pensare alla
spada con la quale Ulisse rende inefficaci le arti
magiche della maga Circe sulla sua persona: ma
Ulisse compie i gesti secondo il rito sul quale lo
ha istruito Mercurio, e oltre a questo ha con sé
un'erba magica che lo stesso dio gli ha dato.
Inoltre Circe troverà nella spada, insieme al
limite delle sue arti perturbanti, il simbolo
della potenza maschile: Ulisse diviene da quel
momento il suo amante. L'ascia e
l'accetta, che servono ad abbattere l'albero e la
piccionaia, richiamano piuttosto un tentativo di
domare Cenerentola, di costringerla a manifestarsi
così come il principe e il padre la vogliono,
bella e desiderabile, attraverso una castrazione.
Aschenputtel lascia il principe e il padre
senza risultati perché non è attraverso una
castrazione che può trasformarsi. Il principe
resta ad attenderla perché non comprende ancora il
senso del suo occultamento, e la sua attesa è per
questo vana. Il padre per quanto si dia da fare
non la scopre, pur intuendo che si tratta di lei,
perché Aschenputtel si è già staccata da
lui, quando il suo posto è stato preso dalla
matrigna e dalle sorellastre. Cenerentola ha
ricevuto col rametto di nocciolo il simbolo
dell'amore paterno, e con questo ha compiuto la
trasformazione della sua relazione con lui. L'azione
distruttiva del padre armato prima di accetta e
poi di ascia fa pensare a una rappresentazione
delle nozze in cui la donna da proprietà del padre
diviene, senza soluzione di continuità, proprietà
del marito. La donna così come l'uomo la vuole,
idealizzata nella sua bellezza al ballo, è oggetto
di un passaggio tra uomini, ma questa fiaba, come
un grande sogno collettivo, ci rivela che esiste
una storia più bella. Come la luna
Cenerentola si illumina e si oscura, ed è
sempre la stessa luna, costante e molteplice a un
tempo. I suoi balzi agilissimi sulla piccionaia e
sul pero non possono essere impediti dall'ascia
del padre, che fallisce lo scopo della sua azione:
in questo modo il principe comprende che solo lui
personalmente potrà trovarla per averla come
sposa. La sera
dopo il principe fa cospargere di pece la
scalinata del suo palazzo, e Cenerentola fuggendo
vi lascia attaccata la sua scarpetta sinistra,
tutta d'oro. Nel linguaggio alchemico, analogico
quanto le fiabe ai processi psichici, questa
azione del principe è descrivibile come una fissazione.
Della
quale Dom Pernety scrive: Fixer est proprement changer un sel
volatile en sel fixe, et de maniere qu'il ne
s'évapore, ni se sublime plus. Le volatil ne se fixe
jamais par lui même...[1] (cit., p. 168) Cenerentola
senza il principe non cesserebbe di apparire e
scomparire dal ballo al focolare, avanti e
indietro da una forma ferina o disgustosa a una
bellezza splendente. Il principe dei Grimm ha
compreso che deve fissarla, ma ciò che si
ritrova fra le mani non è ancora la sposa: ha solo
la sua scarpetta. Ciò che calza alla perfezione il
piede, forma con questa parte del corpo un binomio
simbolico della relazione fra uomo e donna, che
nel linguaggio comune si usa per indicare
un'unione ben riuscita. Ha trovato la scarpa
per il suo piede, oppure è proprio la
scarpa per il suo piede, si dice di un uomo
in relazione a una donna, ma anche viceversa. Nel rito
del matrimonio lo scambio degli anelli, che l'uomo
e la donna si infilano reciprocamente al dito
della mano sinistra, corrisponde al gioco della
scarpetta. Se il cerchio dell'anello è simbolo del
contenitore femminile, e il dito del contenuto
maschile, che significa il fatto che entrambi gli
sposi compiano lo stesso gesto? se il piede
simbolizza il fallo, e la scarpetta la vagina
nella quale entra a pennello, come mai sia il
piede che la scarpa sono di Cenerentola? perché
l'atto di riconoscimento da parte del principe
consiste nel far entrare il piede della futura
sposa nella sua stessa scarpa? Il
principe lo sa, agisce secondo questo simbolo,
quando si presenta dal padre di Aschenputtel
e gli dice: - Sarà mia sposa soltanto colei che potrà calzare questa scarpa d'oro - (Grimm, cit., ivi, p. 98). 3. Né il coltello della
madre... All'interno
della fiaba, se sappiamo interpretarla, si rivela
la risposta che cerchiamo. Nella storia dei Grimm
questa interazione è rappresentata in
un'articolazione complessa, che ci aiuta a
comprendere il senso di questo simbolo di
riconoscimento anche nelle versioni più ermetiche.
Così accade analizzando molte versioni della
stessa fiaba, come lavorando su diversi sogni
notturni di una persona: un sogno aiuta a
comprendere il senso ancora oscuro di altri sogni,
per l'intima solidarietà delle loro scansioni e
dei loro simboli. Alla
richiesta del principe non rispose il padre, ma si
fece avanti la matrigna che prese in mano la
scarpa e la portò alle sue figlie: Allora le due sorelle si rallegrarono, perché avevano un bel piedino. La maggiore andò con la scarpa in camera sua e volle provarla davanti a sua madre. Ma il dito grosso non entrava e la scarpa era troppo piccolina; allora la madre le porse un coltello e disse: - Tagliati il dito; quando sei regina, non hai più bisogno di andare a piedi -. La fanciulla si mozzò il dito, serrò il piede nella scarpa, contenne il dolore e andò dal principe. Egli la mise sul cavallo come sua sposa e partì con lei. Ma dovevano passare davanti alla tomba; due colombelle, posate sul cespuglio di nocciolo, gridarono: - Volgiti, guarda: c'è sangue nella scarpa. Strettina è la scarpetta, La vera sposa è ancor nella casetta. Allora egli le guardò il piede e ne vide sgorgare il sangue. Voltò il cavallo, riportò a casa la falsa fidanzata, e disse che non era quella vera... (Ivi, p. 98). È la
volta della seconda sorellastra, alla quale la
madre consiglia di amputarsi il tallone, tanto da
regina non avrà bisogno di camminare: la sequenza
si ripete identica, e il principe riporta anche
lei a casa dalla madre. Prima che
il riconoscimento avvenga, deve rappresentarsi
questo gioco violento tra madre e figlia.
Abbattendo l'albero e la piccionaia con l'ascia il
padre aveva tentato una castrazione come
limitazione del movimento, dei salti e dei balzi
di Cenerentola. Se ci è sembrato che questo
tentativo di castrazione sia significativo perché
corrisponde al passaggio di proprietà della donna
dal padre al marito, che è la forma di matrimonio
più diffusa nelle culture patriarcali, altrettanto
significativa è questa azione della
madre-matrigna. Le sorellastre rappresentano
un'identità femminile formata nel gioco
dell'identificazione proiettiva e del
rispecchiamento narcisistico con la figura
materna. Non sono destinate a diventare regine
perché non hanno attraversato quel percorso
trasformativo che ha portato Cenerentola a
staccarsi sia dalla madre che dal padre come
figure genitoriali onnipotenti dell'infanzia. Le
sorellastre sono replicanti della madre, figure
illusorie di Cenerentola, che tentano di ingannare
il principe. Lo mettono alla prova, o meglio,
Cenerentola come rappresentazione del femminile
che ha attraversato la cenere e lo sporco mette
alla prova il principe attraverso le sorellastre.
La matrigna, figura materna negativa per
Cenerentola, tenta per
due volte di imporre la propria riproduzione come
sposa, attraverso una castrazione che limita la
capacità di movimento, come quella operata dal
padre, ma che riguarda il corpo stesso delle
figlie. Se il
discorso del padre è: io rinuncio al tuo
possesso per farti possedere dal tuo sposo,
senza accettare l'autonomia del tuo movimento,
possiamo verbalizzare così il messaggio della
madre-matrigna: posso farti diventare regina
se rinunci a quella parte del tuo corpo che ti
consente di muoverti da sola. Il messaggio
che la figlia riceve dai genitori nella cultura
patriarcale le dice che potrà sposarsi se
rinuncerà alla sua autonomia di movimento, e se
rispecchia questo aspetto del materno opererà una
dolorosa e irrimediabile autocastrazione. Andrà
sanguinante alle nozze, amputando una parte del
suo piede: sangue mestruale che sgorga nel dolore
della castrazione subita, in un modo collettivo di
pensare la donna come vuoto che l'uomo riempie,
come assenza che permette alla presenza, al fallo
maschile, di esistere. Questo è il senso delle
amputazioni delle sorellastre, che vivono la loro
femminilità come accettazione masochistica della
castrazione, della rinuncia definitiva a
un'autonomia che il corpo renderebbe possibile, ma
che è qualcosa di troppo se si vuole entrare nella
scarpetta e diventare regine. La madre-matrigna di
Cenerentola non è mai regina, non ha il suo regno,
e non può pensare e desiderare che sua figlia lo
abbia. Ricordiamo
la Pelle d'Asino molisana di cui abbiamo parlato
nel secondo capitolo, la cui madre si occulta e
muore perché ha
saputo che partorirà una figlia più bella di lei.
Questa rappresentazione del femminile è
complementare di un maschile che non conosce la
propria potenza generativa, perchè fissato
all'onnipotenza narcisistica del fallo: non cerca
una regina che regni al suo fianco, con la quale
ascendere al trono, ma un opposto che va bene per
lui perché non potendo camminare lo rassicura
sulla sua autonomia, altrimenti minacciata. Il
principe di Cenerentola si è innamorato di una
fuggitiva, di una donna che sa risplendere
levandosi e stendendosi nuovamente nella cenere:
di un femminile la cui identità va oltre rispetto
alle idealizzazioni materne e paterne. Il principe
si trasforma per amore di Cenerentola, in un gioco
di sogno che è ben rappresentato nell'ultima
versione della fiaba, quella del film Pretty
Woman (regia di G. Marshall, 1990). Nella
scena finale il principe-Richard Gere sale a
prendere Cenerentola-Julia Roberts dalla scala
antincendio, come sulla torre di un antico
castello, e le dice: "Alla fine lui salva lei, e
poi che accade?". La prostituta
riconosciuta come principessa risponde: "Che dopo
lei salva lui!" A questo
proposito è opportuno andare a vedere
l'interpretazione di Bruno Bettelheim, che
utilizza la teoria freudiana secondo la quale la
personalità della donna si costruisce intorno
all'angoscia di castrazione e all'invidia del
pene, anche se Freud poneva alla sua concezione
della crescita femminile un punto interrogativo,
auspicando una riflessione analitica della donna
stessa sui suoi propri misteri[2]. Ci interessa mettere in
rilievo come gli elementi di questa teoria,
puntualmente riscontrati nella fiaba, entrino in
contraddizione, come se il senso del discorso
sfuggisse all'interprete quasi senza che egli se
ne rendesse conto. Questo
motivo viene definito come uno stranissimo
incidente, una contorta idea delle
sorellastre, che sono: ...donne terribili e false, e non si arrestano davanti a nulla pur di defraudare Cenerentola, che desidera conseguire la felicità unicamente in virtù della propria autentica individualità. [...] Ma il particolare è così straordinariamente crudo e crudele che deve essere stato inventato per qualche motivo specifico, anche se probabilmente inconscio. Le automutilazioni sono rari nelle fiabe, in contrasto con le mutilazioni inflitte da altri, che sono tutt'altro che rare come punizione o per qualche altro motivo. Quando Cenerentola fu ideata, il comune stereotipo contrapponeva alla grossa taglia del maschio l'esilità della femmina, e la piccolezza dei piedi di Cenerentola si propone di sottolineare la sua femminilità. Le sorellastre hanno piedi così grossi che non entrano nella pantofola, e questo le rende più mascoline di Cenerentola, e quindi meno desiderabili. Disperando di poter avere il principe, le sorellastre non esitano di fronte a nulla che possa trasformarle in donne affascinanti. Il tentativo delle sorellastre d'ingannare il principe automutilandosi viene scoperto quando si nota che stanno sanguinando. Esse hanno cercato di rendersi più femminili tagliandosi via una parte del loro corpo; la perdita del sangue ne è una conseguenza. Esse operano un'autocastrazione simbolica per dimostrare la propria femminilità; il sangue dove è stata operata questa autocastrazione può essere un'altra dimostrazione della loro femminilità, dato che può rappresentare la mestruazione. Che l'automutilazione o la mutilazione da parte della madre rappresenti o meno un simbolo inconscio della castrazione, dell'eliminazione di un pene immaginario, che la perdita di sangue costituisca o meno un simbolo della mestruazione, la storia dice che gli sforzi delle sorelle falliscono. Gli uccelli rivelano l'emorragia, la quale dimostra che nessuna delle sorellastre è la sposa giusta. Cenerentola è la sposa vergine; a livello inconscio, la ragazza che non ha ancora le mestruazioni è più evidentemente verginale di una che le ha già. E la ragazza che permette che la propria perdita di sangue sia vista - come le sorellastre coi loro piedi sanguinanti non possono esimersi dal fare - è non solo grossolana ma anche, indubbiamente, meno verginale di una che non sanguina. A quanto pare, quindi, questo episodio, a un altro livello di comprensione inconscia, pone la verginità di Cenerentola in contrasto con la sua assenza nelle sorellastre (cit, pp. 257-258). Osserviamo
come il lavoro di analisi, che interpreta
l'amputazione come castrazione e come causa del
sangue mestruale, non proceda nella comprensione
di questo sogno collettivo. La descrizione del
contenuto latente viene forzata verso una
concezione del femminile che lega la verginità,
come condizione che rende la donna altamente
desiderabile, alla sua mancanza di mestruazioni, o
almeno al loro perfetto occultamento. Crediamo
invece che la cenere nella quale cresce la nostra
eroina, che corrisponde alla condizione sporca o
ferina delle varianti di Pelle d'Asino, implichi
una scelta della donna di rappresentarsi in
termini diversi dall'idealizzazione patriarcale,
che le impongono di nascondere il suo sangue.
L'identità che Cenerentola acquisisce prevede che
non scotomizzi la sua parte considerata sporca:
materia disprezzata ma essenziale alla vita. Nelle
storie bibliche la donna con le mestruazioni è
impura, deve occultare il suo sangue, e non è
difficile comprendere il significato di questa
condizione tabù, che nella tradizione popolare la
fa astenere dal lavorare il pane, del quale
impedirebbe la lievitazione, e dal toccare le
piante, che appassirebbero per il suo potere
negativo. Non è certo la relazione tra il sangue e
la vita che nutre di sé a renderla impura, ma il
nesso con la castrazione: il flusso di sangue
attesta in senso fantasmatico che ha subito la
castrazione. L'orrore fobico della cultura
patriarcale, e di tanti uomini contemporanei, per
questo sangue, è relativo all'angoscia di
castrazione. La donna come portatrice di un sesso
costituito sulla privazione e l'assenza del fallo,
come se il sesso femminile non esistesse di per
sé, ricorda all'uomo il rischio di subire la
stessa sorte. La
rappresentazione della donna come castrata è ben
riconoscibile nella teoria secondo la quale la sua
funzione nella riproduzione sarebbe stata quella
della terra nella crescita della pianta: il seme
maschile, come il seme di grano, veniva interrato
nel grembo della donna, che lo faceva crescere col
suo nutrimento. Il medico e naturalista
rinascimentale Paracelso riteneva che il bambino
fosse contenuto nello sperma come ogni pianta nel
suo seme, tanto che se un uomo avesse fecondato un
animale, ne sarebbe indubitabilmente nato
un essere umano. Accorgendosi
che i figli somigliavano anche alle madri,
pensarono che la donna potesse influire sul
bambino che cresceva dal seme con la sua
immaginazione. Condizionata dagli astri che
influiscono con più forza sulle femmine che sui
maschi, questa incontrollabile disposizione
immaginativa della donna avrebbe determinato fra
l'altro la nascita di ogni genere di esseri
mostruosi. Ma
Paracelso attribuiva un potere spermatico, cioè
generativo, anche al
sangue mestruale, grazie al quale la donna da sola
può generare un mostro, il basilisco: ...temibile sopra ogni altro, perché può uccidere un uomo con un solo sguardo. Esso possiede un veleno più velenoso di ogni veleno, a cui nessun altro può essere paragonato in tutto il mondo. Tale veleno agisce misteriosamente nei suoi occhi, e deve essere considerato non dissimile da quello della donna mestruata, anch'essa portatrice nello sguardo di un tossico occulto. Ad una sua semplice occhiata, uno specchio si ricopre di chiazze e si guasta; allo stesso modo, se essa guarda una ferita o una piaga, la fa suppurare e impedisce la sua guarigione. Anche il suo fiato, come il suo sguardo, può guastare, corrompere e rendere inservibili molte cose, e così pure il suo tocco. Vedrete, infatti, che se essa maneggia del vino durante il periodo mestruale, questo vino si trasformerà immediatamente, assumendo un dubbio sapore. Persino l'aceto, da lei maneggiato, svapora e non vale più un soldo; dicasi così anche del vino in fermentazione, che perde ogni forza, e dello zibetto, dell'ambra, del muschio ed altri profumi del genere, che perdono tutti l'aroma se sono portati da o vengono in contatto con donne in tali condizioni. Infine, anche l'oro ed i coralli, insieme a molte pietre preziose, sbiadiscono e si macchiano come gli specchi di cui già abbiamo parlato. [...] Il basilisco nasce e cresce nella somma impurità della donna, vale a dire dal mestruo e dal sangue spermatico. Se quest'ultimo è racchiuso in un recipiente di vetro e si decompone dentro una vescica di cavallo, da tale putredine nascerà un basilisco (Paracelso, sta in: Aa.Vv., In forma di parole, 1983; pp. 156-158). Ricordiamo
Re Lear, che chiedeva un'oncia di zibetto per
profumare la sua immaginazione, dopo aver
descritto la lussuria e l'orrore della parte bassa
della donna. Diciamo anche che prima di trovare
assurdo Paracelso dobbiamo riflettere su quanto la
concezione patriarcale della donna, da lui
espressa come una verità scientifica, abbia
giocato, e continui a giocare una parte importante
nella cultura. Essendo
poi un alchimista, come tutti gli scienziati del
suo tempo, Paracelso aveva anche una
rappresentazione del femminile come polarità
essenziale e complementare del maschile nella
trasformazione delle sostanze verso la creazione
del lapis, della pietra filosofale. Nell'opus,
nel lavoro alchemico, la donna poteva affiancare
l'uomo, costituendo con lui la coppia degli
adepti, soror e frater. Né mancano
splendide rappresentazioni del femminile nella
religione e nella letteratura: purché non
sanguinino per le mestruazioni, purché siano prive
di un desiderio erotico autonomo, purché aiutino
il maschio a rimuovere la sua propria angoscia di
castrazione. La donna
bella è la donna idealizzata, la parte superiore
per Re Lear, e questa idealizzazione aiuta a
contenere il fantasma di castrazione in una coppia
dove il piede intatto, il fallo, l'autonomia di
movimento, è del maschio perché non è della
femmina, o, viceversa, la femmina deve castrarsi
perché il maschio ce l'abbia. Il sogno
collettivo di Cenerentola si rinnova continuamente
in innumerevoli versioni proprio perché
rappresenta qualcosa di lontano dalla capacità di
pensare e teorizzare una donna completa, un
femminile che trae la sua ricchezza dalla sua
molteplicità, dal suo fecondo desiderio lunare di
muoversi tra splendore e oscurità, tra la bellezza
della festa e la cenere del focolare o lo sporco
del pollaio. 4. Né il tino
sotterraneo.... Mentre si
analizza una fiaba, alla memoria del ricercatore
si presentano, via via tenui, o forti, non
soltanto le varianti di cui conosce l'esistenza,
ma anche motivi di fiabe diverse, il cui senso è
richiamato dal motivo, analogo, che si sta
interpretando. Si potrebbe descrivere questo gioco
labirintico, croce e delizia di chiunque si occupi
di fiabe, con una figura geometrica: sia una fiaba
un insieme, i cui punti a, b, c, d, sono
le sue figure, i simboli, i movimenti
trasformativi. Si possono allora definire le
varianti come insiemi analoghi, contenenti i punti
a1, b1, c1, d1, oppure a2, b2, c2, d2,
e così via. Ma altri insiemi-fiaba, i cui punti
dotati di senso sono diversi, possono contenerne
uno analogo all'insieme-variante indagato, come se
i punti costitutivi fossero a, f, g, h. Il
ricercatore ha chiaro il senso di quell'analogia,
e come in un labirinto la luce favorisce la scelta
di un percorso, l'intuizione del senso fa nascere
in lui il desiderio di muoversi in quella
direzione. Ma se l'oggetto d'indagine diventa la
fiaba a, f, g, h, dopo un certo percorso
si presenterà alla memoria una meravigliosa fiaba
a, f, i, d, e la natura errabonda del
ricercatore di fiabe lo porterebbe a procedere
verso il senso di questa fiaba, in un processo
affascinante di cui però gli sarà impossibile
disegnare la mappa. Come la ricerca è una sorta di
erranza tra giochi di senso, alcuni illusori, e
nessuno definitivo, è anche il paziente disegno di
una mappa, che descriva per quanto è possibile il
viaggio, e che altri possano utilizzare per
viaggiare a loro volta. La natura labirintica
delle fiabe è la stessa dei sogni, e di ogni
realtà psichica: compito del ricercatore è restare
in equilibrio tra la vaghezza necessaria per
rispettare la natura variegata e metamorfica del
suo oggetto e il rigore che consente di descrivere
un'immagine, una carta topologica che, per quanto
approssimativa, favorisca il viaggio. Un libro
di analisi delle fiabe è anche una storia del
ricercatore. Se evocherà la bellezza delle
meraviglie visitate, la sua esistenza sarà
assicurata, ma se aiuterà altri a desiderare di
visitare il labirinto scintillante delle fiabe, il
libro avrà un senso. Si può dire che
la scelta di analizzare una fiaba, e di
questa alcune varianti, e di accostarvi
rappresentazioni mitiche, letterarie, quotidiane,
risponde solo a questa ricerca di bellezza e di
senso: solo una cosa è certa, che descrivere i
risultati di un'indagine condotta in un campo come
i sogni collettivi, come le fiabe, è al massimo un
approssimarsi. Questa chiave è utile per
avvicinarsi alla costruzione teorica della
psicoanalisi, a partire da Freud: una conoscenza
scientifica perché rigorosa, ma in continuo
movimento. Se così non fosse la teoria avrebbe una
natura troppo diversa dall'oggetto che tenta di
descrivere: la realtà psichica, della quale la
fiaba offre una piccola rappresentazione. Il
movimento che desidero accostare al tema della
castrazione della donna operata
nell'identificazione proiettiva con la madre
appartiene a una fiaba, molto diffusa, in cui una
sorella bella e una brutta hanno una madre, o una
matrigna, che ama la brutta e odia la bella. Per
farlo devo ricordare il secondo capitolo di questo
saggio, e in particolare la versione della Pelle
d'asino molisana in cui una donna bellissima
chiede ogni mattina al sole che passa davanti al
suo balcone chi è la più bella del mondo, per
sapere che è proprio lei. Quando rimane incinta il
sole le dice che la più bella del mondo ora è la
figlia che ha in seno: abbiamo visto nel dolore
della donna, che si chiude in una stanza e muore
dando alla luce la figlia, una rappresentazione
della fissità narcisistica presente nella
relazione madre-figlia. Le madri-matrigne di fiaba
che perseguitano le figlie belle, tentando di
promuovere le brutte, totalmente identificate con
loro e docili ai loro comandi, sono la parte della
donna che per non invecchiare immobilizza madre e
figlia in un reciproco rispecchiamento:
una
figlia più bella, o una figlia che diventa regina
nonostante la sua diversità dalla madre,
rappresenta la vita che si rinnova. La posizione
narcisistica nega la morte, insieme alla morte
nega il tempo, e con il tempo la vita, che implica
l'avvicendarsi delle generazioni. Nessuna capacità
generativa è nella posizione di Narciso: la morte
di queste diadi femminili è la condizione per la
crescita della donna, come la morte di Narciso è
la condizione perché sulla riva dello specchio
nasca il suo fiore di primavera. L'autocastrazione
indotta dalla matrigna di Aschenputtel
esprime una modalità di rispecchiamento tra madre
e figlia: il sangue mestruale come sporcizia
femminile da occultare tra donne è un patto
omosessuale che Cenerentola rifiuta. La
bella Caterina oppure La Novella de' Gatti raccolta da Gherardo
Nerucci (cit., pp. 35-42) è una bellissima
versione della fiaba che vogliamo accostare a
quella di Cenerentola. Caterina è perseguitata in
ogni modo, ma la sua bellezza non fa che
aumentare, e allora la madre la manda al castello
delle fate e del Gatto Mammone, dove spera che
morirà. In questo luogo di magia ambivalente, che
ci ricorda la casa della baba-yaga dove abbiamo
seguito Vassilissa la bella, la Cenerentola russa,
Caterina aiuta i gattini a fare le faccende in
cucina, e scegliendo solo doni modesti ottiene
giielli, vesti meravigliose, e una stella in
fronte. Vedendola tornare così splendente, la
madre manda anche la brutta nel reame della magia,
ma con la sua pretesa di ottenere tutto la
poveretta si ritrova più brutta di prima e con una
coda di ciuco in mezzo alla fronte. Dopo un po' di
tempo dalla casa delle due sorelle passa il
principe, che vedendo la bella Caterina se ne
innamora. La chiede in sposa, ma quando va a
prenderla la madre gli fa salire in carrozza la
brutta, che ha ricoperto di veli, dopo averle
rasato la coda di ciuco. Come il
suo pari di Aschenputtel, il principe se
la porterebbe via, se non fosse per un confuso
miagolio che sembra venire da sottoterra. Sono i
gattini del castello delle fate che lo mettono in
guardia: Mau maurino! La Bella è nel tino, La Brutta è in carrozza, E 'l re se la porta. (Ivi, p. 42) Il
principe solleva i veli e compare la bruttezza
della falsa sposa, con un bel pezzo di coda
asinina ricresciuto nel frattempo: allora va a
liberare la bella Caterina dal tino, dalla cantina
sotterranea, dal luogo senza luce dove la madre
l'aveva rinchiusa. Al suo posto fa rinchiudere la
madre e la brutta, sulle quali fa colare tanto
olio bollente che finiscono cotte. Subiscono la
stessa pena che volevano infliggere alla bella
Caterina, imprigionate sottoterra, rinchiuse nella
terra madre, come non nate: è il motivo della
reinfetazione, e richiama la fiaba molisana, con
quel chiudersi in una stanza oscura della donna
gravida, destinata a essere superata in bellezza
dalla figlia. Sorte anche peggiore di quella che
tocca alle sorellastre di Cenerentola, che si sono
tagliate un pezzo di piede, come più crudele è il
tentativo di reinfetazione per il quale Caterina
rischia di perdere insieme al principe la vita.
Crediamo che il tema della reinfetazione sia utile
anche per comprendere il sonno nella bara di
Biancaneve e il sonno senza tempo, cent'anni, di
Rosaspina: sono imprigionate in un grembo
mortifero, che causa un sonno simile alla morte,
dall'ostilità materna, tra invidia e narcisismo
che impediscono la crescita, che fermano il tempo
della trasformazione in una condizione priva di
luce. Occorre un principe che porga orecchio agli
miagolii sotterranei dei gattini, che ascolti le
colombine sul nocciolo di Aschenputtel, ci
vuole un principe che ami la bellezza della donna
senza fuggire di fronte all'aura malefica che
l'avvolge. Il maschile libera la donna da questo
sonno, purché si tratti di un principe sensibile:
che ascolti le voci e guardi le immagini seguendo
il proprio desiderio[3]. 5. O bianco viso... Ci sono
fiabe che non si raccontano mai, e per quanto
siano pubblicate sono invisibili: tra queste
vogliamo ricordarne una bellissima, che per più
motivi richiama le nostre storie. Basile (cit.,
pp. 500-517) racconta che una volta nacque una
principessa, e il re suo padre interrogò gli
astrologhi, che le predissero, come a Rosaspina,
un destino di morte a causa di un oggetto
pungente, un osso. Il padre allora fece chiudere
la figlia in una torre con l'ordine che nessun
osso potesse esservi portato. La principessa
crebbe con le cameriere e le dame di compagnia,
finché un giorno passò sotto la torre un principe,
di nome Cecio, si innamorarono a prima vista, e
Renza trovò la via della fuga scavando il muro con
l'osso che un cane aveva portato nella torre
proprio quel giorno. Renza e
Cecio restarono insieme fino a quando un
messaggero annunciò al principe che sua madre era
molto malata e voleva rivederlo almeno una volta.
Dopo averle assicurato che sarebbe tornato
prestissimo a prenderla, Cecio lasciò Renza, che
si disperò e decise di seguirlo: si travestì da
monaco e lo raggiunse incappucciata. Riconosciamo
il tema del travestimento, e vediamo cosa succede
in questa storia: ...le disse: "Buono trovato gentilommo mio!" E Cecio le respose: "Buono venuto patreciello mio!" da dove se vene? e dove site abbiato?". E Renza respose: Vengo da parte dove sempre 'n chianto stace na donna, e dice, "O ianco viso deh, chi me t'ha levato da lo canto?" (Ivi, cit., p. 506) [4] Il
principe trova bellissimi questi versi, e tiene
tanto alla compagnia del fraticello che gli chiede
di accompagnarsi a lui. E così giungono alla
reggia, dove però la madre di Cecio, che non è
affatto malata, gli ha trovato una sposa.
Riconosciamo la madre-suocera, che come la
madre-matrigna vuole impedire l'unione tra i
protagonisti: in tante fiabe, a volte con un bacio
incantato, fa dimenticare al figlio la bella che
fiduciosa sta ad aspettare che torni. Renza non si
allontana mai da Cecio, e lui le chiede di
continuo di ripetere i versi, che sono come una
carezza per il suo cuore. Durante il banchetto
seguito alle nozze con la rivale Renza prova tanto
dolore che va a sfogarsi nel giardino della
reggia, dove nessuno può sentirla piangere. Alla
fine, Cecio la vuole persino nella camera nuziale,
e mentre Renza è nel suo lettuccio le chiede di
dire ancora la sua poesia. A quel punto la sposa
gli fa presente che era venuta per un'altra
musica, e per accontentarla Cecio: ..le dette no vaso cossì forte che sse sentie no miglio lo schiasso, tanto che lo rommore de le lavra loro fu truono a lo pietto de Renza, la quale appe tanto dolore che, curze tutte li spirite a dare soccurzo a lo core, fecero comm'a chillo: lo sopierchio rompe lo copierchio, pocca fu tale e tanto lo concurzo de lo sango, che affocatola stese li piede (Ivi, p. 512)[5]. Dopo aver
compiuto i suoi doveri coniugali, il principe
Cecio chiese voleva risentire O ianco viso,
ma nessuno rispose. Allora si alzò e andò a scuotere
il suo compagno di viaggio: sentendo che era
freddo fece portare delle candele e gli tolse il
cappuccio dal viso. Quando riconobbe la sua
principessa maledisse il destino e si unì a lei
nella morte, trafiggendosi il petto. I
genitori li seppellirono insieme, e sulla tomba
scrissero la loro storia, che ancora possiamo
raccontare. Questi
amanti sfortunati come Giulietta e Romeo ci
aiutano a comprendere che la differenza che
consente ai principi e alle principesse di
raggiungere la meta delle nozze regali, e a noi di
sognare il loro finale felice, non sono le voci e
gli avvertimenti magici, ma la loro disposizione
ad ascoltarli. Lo miagolii sotterraneo della Bella
Caterina, o il cinguettio delle colombine di
Aschenputtel non sono di per sé più
efficaci delle parole di Renza. Sarebbe
interessante approfondire l'analisi di questo
racconto, i motivi di
un viaggio che non porta, come si crede accada
sempre nelle fiabe, al finale felice: per il
momento ci accontentiamo di osservare che il
principe ascolta senza sentire, mentre la
principessa, senza farsi riconoscere, canta la sua
canzone struggente. [1]
Fissare è precisamente
trasformare un sale volatile in un sale fisso,
e in modo che non evapori, né si sublimi più.
Il volatile non si fissa mai da
solo... [2]
"Se volete saperne di più sulla
femminilità, interrogate la vostra esperienza,
o rivolgetevi ai poeti, oppure attendete che
la scienza possa darvi ragguagli meglio
approfonditi e più coerenti" (Freud, Introduzione
alla psicoanalisi. Nuove lezioni,
1932, p. 241). [3]
Si trova nel mito greco, per trovare
l'antica parentela tra il sonno e la morte.
Come racconta Esiodo (Teogonia, vv. 123-125), Morte e
Sonno erano fratelli, avendo come unico
genitore la Notte, sorella del Buio
sotterraneo (Erebo); la Notte e il Buio poi
avevano come unico genitore il Caos, divinità
primigenia. Ci preme notare che la permanenza
in un lungo e penoso sonno uguale alla morte,
che è privazione di parola e di nutrimento,
che noi riferiamo alla reinfetazione, come
ritorno a una condizione di non nati, è la
punizione per ogni dio che infranga il
giuramento più sacro, sulle acque infere di
Stige: "Resta senza respiro per un anno
intero, / e non gli si avvicina mai nutrimento
di nettare / e di ambrosia, resta a giacere in
un letto così, / senza fiato e senza voce,
avvolto da un cattivo letargo" (ivi, vv.
795-798). Il giuramento sulle acque di Stige
(Gelo) è il vincolo che limita il potere degli
dei olimpici, incluso Zeus, ed è la condizione
stessa dell'ordine che con loro ha origine. [4] ...gli
disse: "Ben trovato, gentiluomo mio". E Cecio
le rispose: "Ben venuto, monachino mio! da
dove vieni? e dove vai?". E Renza rispose: Vengo
da un posto deve sempre in pianto / c'è una
ragazza e dice: "O bianco viso, / deh, chi
m'ha tolto te da qui accanto?" (Basile,
p. 507). [5] ...Le diede un bacio
così forte che se ne sentì il frastuono a un
miglio, tanto che il rumore delle loro labbra
fu un tuono per il petto di Renza, che ne ebbe
tanto dolore che, corso tutto il sangue per
portar soccorso al cuore fece come dice quel
detto: il di più rompe il coperchio,
perché fu tale e tanto il suo afflusso che la
soffocò e le stese i piedi (Ivi, p. 513). |
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7. Il principe sensibile |
IL PRINCIPE SENSIBILE "Aggio na figlia, ma guarda sempre lo focolaro, ped essere desgraziata e da poco e non è merdevole de sedere dove magnate vui". Disse lo re: "Chesta sia 'n capo de lista, ca l'aggio da caro" (Basile) 1. Né per bellezza né
per abbigliatura... Il
processo di rimozione che la fiaba subisce dal
momento in cui si è cominciato a dedicarla ai
bambini è descrivibile come rimozione del bambino
stesso. Scrivendo storie per lui gli adulti hanno
preferito rassicurarsi sulla sua innocenza:
la psicoanalisi, con il suo bambino freudianamente
perverso e polimorfo, si muova in modo
radicalmente diverso. Se uno psicoanalista parla
dell'infanzia, descrive una condizione umana che
non ha nulla a che vedere con visioni rassicuranti
o consolatorie. Quando l'adulto pensa al bambino
come a un essere privo di aggressività, di
pulsioni erotiche e di angoscia, è preso da un
mito delle origini analogo a quello del paradiso
terrestre che avrebbe preceduto la nostra caduta
in questo mondo, dove siamo segnati da un destino
cinico e baro. Ma riconoscere
il dramma e le perturbanti paure
dell'essere umano che cresce non è solo la perdita
di un'illusione. Attraverso l'esercizio della
conoscenza, il pensiero procede non ritraendosi
moralisticamente, e smette di eufemizzare e
imbellettare ciò che non gli piace vedere. Insieme
al conflitto, alla via dolorosa, alla prova, c'è
la luce improvvisa, la trasformazione profonda, la
ricchezza del tesoro. Come nelle fiabe, se si
fugge alla vista del drago, non si può accedere al
tesoro, se si scotomizzano angoscia e paura, non
si accede al sentimento della realtà e alla
ricchezza creativa. L'analisi
di Cenerentola ci fa scoprire che la rimozione
dello sporco, o dell'uccisione della matrigna,
come nella versione di Perrault e Disney, implica
la perdita di valori simbolici e di percorsi
narrativi, preziosi. Oltre alla cura della pianta,
o del seme, che simbolizza la capacità di nutrire
e far crescere qualcosa di piccolo, la cui potenza
è nascosta, si può perdere, ad esempio, il numero
rituale delle trasformazioni di Cenerentola da
brutta a bella e viceversa, che da tre diventano
due in Perrault. Abbiamo
osservato che Cendrillon è
privata della sua autonomia di scelta nel
manifestarsi al principe splendente e di tornare a
nascondersi nella cenere. Ma la rappresentazione
del principe impallidisce forse più della sua. Come la
fata madrina, figura materna legata alla
protagonista, rappresenta una parte di
Cenerentola, i servitori del re, che per ordine
suo vanno a fare la prova della scarpetta, sono
aspetti del re stesso. Simbolicamente
è il principe che attraverso loro va a cercarla
nella cenere, ma perde spessore psicologico e
ricchezza espressiva con questa semplificazione.
Il principe, ci racconta Perrault, passò il resto
della festa a contemplare la scarpetta di vetro, e
da questo si capì che era proprio innamorato. ...Pochi giorni dopo, il figlio del Re fece proclamare a suon di tromba ch'egli avrebbe sposato colei a cui la scarpina avesse calzato perfettamente al piede. Si cominciò a provarla alle principesse, poi alle duchesse, e a tutte le dame della corte, ma fu tempo perso. La portarono anche dalle due sorelle, che fecero tutto il possibile per farsi entrare al piede quella scarpa, ma non vi riuscirono. Cenerentola, che le guardava, e riconobbe la sua scarpetta, disse come per scherzo: - Vediamo un po' se alle volte non mi stesse bene! Le sorelle si misero a ridere e a canzonarla. Il gentiluomo che era incaricato di provare la scarpa, aveva guardato attentamente Cenerentola e, avendola trovata molto bella, disse che la cosa era giustissima e lui aveva ricevuto ordine di provarla a tutte le ragazze. Fece sedere Cenerentola, e accostando la scarpetta al piedino di lei vide ch'esso vi entrava senza fatica e la calzava come un guanto. Lo stupore delle due sorelle fu grande, ma si fece ancor più grande quando Cenerentola tirò fuori di tasca la seconda scarpetta e se la misse al piede. A questo punto arrivò la madrina che, dopo aver toccato con la bacchetta i vestiti di Cenerentola, li fece diventare ancora più sfarzosi di tutti gli altri. Fu qui che le due sorelle riconobbero in lei la bella signora veduta al ballo. Si gettarono ai suoi piedi e le chiesero perdono di tutti i maltrattamenti che le avevano fatto subire. Cenerentola le fece alzare e disse, abbracciandole, che le perdonava di tutto cuore e le pregava di volerle sempre bene. Poi, vestita com'era, fu condotta dal giovane principe. Egli la trovò più bella che mai, e pochi giorni dopo la sposò (cit., pp. 22-23). Non c'è
alcuna relazione diretta tra il principe e Cendrillon
nella sua oscurità: perfino i servitori la vedono subito bella
anche se le manca l'abito fatato, e se pensiamo al
film di Disney, Cenerentola sembra vestita da uno
stilista anche quando è in soffitta. Riteniamo che
in questa versione il motivo dello sporco e della
cenere, il lato oscuro di Cenerentola, sia molto
attenuato: il principe non la vede mai brutta o
sporca di cenere, non trasforma il suo amore per
l'immagine bella, per la figura femminile
idealizzata, in un amore che comprende anche la
parte brutta della futura sposa. Non
limitandosi alle principesse e alle dame, la
ricerca in Perrault mantiene questo motivo, ma
tanto lieve che di sporco difficile da accettare
non rimane che una traccia quasi invisibile. Non a
caso l'ultima versione della fiaba, famosa perché
significativa, raccontata dal film Pretty
woman, recupera con piena coerenza simbolica
la condizione degradata: il principe-Richard Gere
è un ricchissimo uomo d'affari, mentre
Cenerentola-Julia Roberts è una prostituta. Questo
principe americano può averla solo chiedendole di
sposarlo, quindi riconoscendo la sua compiuta
bellezza, e andando a cercarla nella casa dei
quartieri bassi dove lei ha vissuto da prostituta.
Di questa versione cinematografica possiamo dire
che è una vera e propria Cenerentola, ricca come
quelle antiche, anche se più breve: inizia con il
ballo, cioè quando il principe da una strada
povera la porta nel proprio reame, l'albergo
lussuoso. Il motivo degli abiti meravigliosi è
estesamente trattato, grazie anche al prodigarsi
di un anziano signore: Cenerentola-Pretty woman
è aiutata da una figura maschile, come Aschenputtel
dall'uccellino[1]. Per
parlare del lavoro psicologico del maschile che
consente a Cenerentola di compiere la sua
crescita, vedremo in Basile una prova della
scarpetta condotta dai servi, dove però il motivo
dello sporco e della bruttezza, opposti alla
splendente bellezza della fanciulla incontrata dal
principe, ha ben altro spazio che nella fiaba di
Perrault. Andiamo prima a ritrovare la Cenerentola
fiorentina di Vittorio Imbriani, che, come
sappiamo, non aveva né una matrigna né delle
sorellastre che la perseguitavano. Le sue sorelle
avevano anzi cercato di dissuaderla dal chiedere
in dono al padre l'Uccellin Verdeliò,
consigliandola di farsi portare, come loro, un
vestito, uno scialle, o un bel cappello. Se
dall'analisi di Aschenputtel abbiamo
compreso che la crescita del femminile non ha
nulla a che fare con l'autocastrazione indotta
dalla madre, possiamo riconoscere nell'Uccellin
Verdeliò il simbolo della funzione maschile,
dono del padre, e la capacità di dirigersi
autonomamente. Quando il
re di questa storia le invita alle sue feste da
ballo, le sorelle indossando gli abiti chiesti in
dono le dicono: "Vedi tu, Cenerentola, se ti avevi ordinato un bel vestito? Stasera s'ha a fare di andare alla festa di ballo." - Dice: - "Non me ne importa nulla! Andate pure, io non ci vengo" - Eccoti la sera, quando gli è l'ora, si preparano tutte per bene, tutte pettinate, dicendo alla Cenerentola: - "Vien via, ti si accomoderà anche te." - "Eh, io non voglio venire, andate voi, io non voglio venire." - "Ma" - dice suo padre - "andiamo, andiamo! Vestitevi e venite via, lasciatela stare." - Quando le sono andate via, la va dall'uccellino: - "Oh Uccellin Verdeliò, fammi più bella ch'io non so'." - La vien tutta vestita di verdemare e tutta brillanti che a guardarla si accecava (Imbriani, cit., pp. 151-152). Fin dalla
prima sera, vedendo la bellissima sconosciuta alla
sua festa, il re ordina a due servitori di tenersi
pronti a seguirla. Appena Cenerentola se ne va, le
si mettono dietro, ma lei sparge dietro di sé due
sacchetti di monete che l'Uccellin Verdeliò le
ha dato insieme agli abiti per la festa. Per
raccogliere il danaro i servitori si fermano e
perdono di vista Cenerentola, che rincasa e chiede
al suo aiutante: "O Uccellin Verdeliò, fammi più brutta ch'io non so'." - La vien così brutta, orrenda tutta, tutta cenere, bisognava vedere in che modo! (Ivi, pp. 152-153). Notiamo
l'opposizione enfatizzata tra bellezza e
bruttezza, e torniamo dal re con i servitori: ...Non avevano il coraggio di presentarsi a Sua Maestà, stavano lontani. Li chiama: - O come è andata?" - Si buttano a' piedi: - "Così e così!... Ci ha buttati tanti quattrini!..." - "Vili! che non siete altro" - dice. - "Avevi paura di non essere ricompensati?" - dice. - "Ahn? bene!" - dice - "domani sera, pena la morte se voi non istate attenti." (Ivi, p. 153) Le monete
d'oro fanno parte della ricchezza magica di
Cenerentola, ma hanno anche un valore oggettivo,
concreto. Essendosi fermati per questo valore
oggettivo i servitori hanno perduto lo splendore
simbolico di Cenerentola, che il re vuole
scoprire. La sera dopo i servitori sono decisi a
non lasciarsi distrarre dalle monete, ma
Cenerentola questa volta ha ricevuto dall'Uccellin
Verdeliò due sacchetti di rena: mentre fugge la
butta negli occhi dei servitori, che restano
accecati e la perdono di nuovo. Venghiamo a Maestà che sta aspettando i servitori perché gli dicano dove sta di casa. Invece gnene riportan tutti ciechi, perchè s'ebbero a fare accompagnare, gua'! - "Briccona!" - dice. - "Questa signora o l'è quarche fata o dove avere quarche fata che la protegge." (Ivi, p. 154) La sera
dopo rifiuta per la terza volta l'invito delle
sorelle: Quando le sono ite via, la Cenerentola va dall'uccellino: - "Uccellin Verdeliò, fammi più bella ch'io non so'." - La viene tutta del colore del cielo, proprio dell'aria del cielo; tutte le comete, le stelle, la luna nel vestito, e il sole in mezzo alla fronte. Entra nella festa: chi la poteva guardare! solamente pel sole, gua', bassavan gli occhi, accecavan tutti (Ivi, p. 155). Forse è
questa la metafora più luminosa, nella sua grazia
popolare, della bellezza di Cenerentola, ricca
com'è di simboli astrali che la portano tutta
nella luce: il re balla con lei, anche se non può
guardarla perché è abbagliato dal suo splendore,
al quale evidentemente è sensibile.
La sua
capacità di comprendere il valore di Cenerentola è
già rappresentata dal doppio registro con cui l'ha
definita dopo l'accecamento dei servitori, come briccona,
e come fata, o favorita dalle fate. Grazie a
questa forma di intelligenza psicologica, non
rimprovera i servitori, ma ordina loro di
prepararsi a inseguirla a cavallo. Questa volta
Cenerentola non ha ricevuto dall'Uccellin Verdeliò
nulla per fermarli: fugge più lesta che può, ma le
cade una pianella, che i servitori raccolgono e
portano al re, insieme all'indirizzo della bella
sconosciuta. Quando
torna dal suo aiutante perché la faccia ritornare
brutta, l'uccellino per un po' non le risponde,
poi dice: " Briccona! bisognerebbe che non ti facessi divenire più brutta, ma..." - e la fa divenire brutta e poi gli dice: - "Ora e che vuoi fa'? Tu siei scoperta." - La si mette a piangere, piangeva proprio (Ivi). Perché
l'uccellino la rimprovera, e perché Cenerentola ha
paura di essere scoperta? Prima di esporre la
nostra ipotesi, seguiamo i servitori, che il
giorno dopo bussano alla sua casa per la prova
della pianella: "Cosa mi comandano?" - gli dice il padre, gua', a questi servitori. - "Quante figlie avete voi?" - Dice: - "Due." - "Bene, fatecele vedere." - Ecco il padre le fa venire di qua. - "Mettetevi a sedere" - dicono a una di quelle. Gli provano la pianella, cheh! la ci entrava dieci volte. Quest'altra si mette a sedere; gli era piccola. - "Ma ditemi, galantomo, non avete altre figlie voi? Badate a dire la verità, veh! Perchè Maestà lo vole: pena la morte!" - "Signori, ce n'è un'altra, ma non lo dico neppure. Gli è tutta nella cenere, nel carbone, se vedeste! Io non la chiamo nemmen figliola per vergogna." - "Noi non siamo venuti né per bellezza né per abbigliatura: si vol vedere la ragazza!" - Eccoti, le sorelle chiamano: - "Ce-ne-reen-to-la!" - ma urla, urla! Ma lei non rispondeva. Dopo un pezzo: - "Che v'è egli?" - la risponde. - "Bisogna che tu venga giù! c'è de' signori che ti vogliono vedere" - "Io non vo' venire, io." - "Ma bisogna che tu venga, ti pare?" - dice. - "Sì, ditegli che or'ora vengo." - La và dall'uccellino: - "Ah Uccellin Verdeliò, fammi più bella ch'io non so'." - La vien vestita come l'ultima sera, col sole, con la luna e con le stelle, e l'aveva per dippiù tutte catene d'oro, ma grosse! messe così. Dice l'uccellino: - "Portami via, sai? mettimi in seno, via, sai?" - Si mette l'uccellino in seno e principia a scender le scale. - "La sentono?" - dice il padre - " la sentono? La si strascica la catena del cammino. Si figurino che orrenda cosa che sarà quella!" - Eccoti quelli, quando è l'ultimo scalo, la veggono apparire. - "Ah!" - riconoscono la signora dell'altra sera (Ivi, pp. 156-157). Se c'era
bisogno di un'altra figura del sogno collettivo di
Cenerentola per capire che nella sua crescita la
componente maschile, paterna, è essenziale, in
contrapposizione all'autocastrazione come rinuncia
all'autonomia, l'Uccellin Verdeliò ce l'ha
fornita. Cenerentola
piange quando si accorge di essere stata scoperta
perché teme di dover rinunciare alla libertà di
movimento di cui è debitrice all'uccellino chiesto
e avuto in dono dal padre, al posto degli abiti e
degli ornamenti comuni. Allo stesso modo
l'Uccellin Verdeliò le dice che si meriterebbe di
essere lasciata vestita bene: nell'identità
splendente facilmente amata e riconosciuta, ma che
non le consentirebbe di essere desiderata anche
nel suo aspetto degradato. Cenerentola
è un sogno antico e attualissimo, di una crescita
femminile complessa e difficile da attuarsi: certo
rarissima nella letteratura o nell'opera lirica,
dove le eroine più affascinanti e autonome devono
morire, come Carmen o Violetta. Ci sembra che la
donna intera, come del resto l'uomo intero, siano
tutt'altro che comuni, non solo nella vita di
tutti i giorni, ma anche nel pensiero. 2. 'Na 'nfanzia Anche il
re di Basile faceva seguire Cenerentola da un
servitore, quando lasciava la passeggiata per
scomparire di sua iniziativa. Durante il primo
inseguimento questo servitore si fermò a
raccogliere le monete d'oro che lei aveva gettato
dietro di sé; la seconda volta, pur essendo stato
redarguito dal re, non riuscì a resistere alla
vista di una bella manciata di pietre preziose. In
entrambi i casi l'inseguitore si lascia accecare
dal valore corrente, letterale, che fa parte della
ricchezza magica di Cenerentola. Allora il re gli
comanda di non perderla di vista, qualunque cosa
gli faccia cadere davanti: "Pe l'arma de li muorte mieie, ca si tu non truove chessa, te faccio na 'ntosa e te darraggio tante cauce 'n culo quante haie pile a ssa varva" (cit., p. 132)[2] Se il
servitore, che rappresenta una funzione del re, è
determinato a non lasciarsi abbagliare, a non
confondere il valore della bella sconosciuta con
una ricchezza comune, Cenerentola, come nella
fiaba dell'Uccellin Verdeliò, non ha più nulla per
distrarlo: Essa, vedenno che sempre l'era a le coste, disse: "Tocca, cocchiero", e ecco se mese la carrozza a correre de tanta furia e fu cossì granne la corzeta che le cascaie no chianiello, che non se poteva vedere la chiù pentata cosa. Lo servetore, che non potte iognere la carrozza che volava, auzaie lo chianiello da terra e lo portaie a lo re, dicennole quanto l'era socceduto. Lo quale, pigliatolo 'n mano, disse: "Se lo pedamiento è cossì bello, che sarrà la casa? o bello canneliero, dove è stata la cannela che me strude! o trepete de la bella caudara, dove volle la vita! o belle suvare attaccate a la lenza d'Ammore, co la quale ha pescato chest'arma! ecco, v'abbraccio e ve stregno, e si non pozzo arrevare a la chianta, adoro le radeche, e si non pozzo avere li capitielle, vaso le vase! già fustevo cippo de no ianco pede, mo site tagliole de no nigro core; pe vui era auta no parmo e miezzo de chiù chi tiranneia sta vita, mentre ve guardo e ve possedo" (Ivi, pp. 132-134) [3] Dopo aver
contemplato con tanto amore la rinomata calzatura,
il re, certo che esistesse una sola donna alla
quale la scarpa sarebbe andata a pennello, e che
la sua grazia e la sua magia non avessero nulla a
che vedere con la sua condizione, invita tutte
le femmene de la terra a un banchetto. Della
terra forse significa del suo reame,
ma ci piace pensare che proietti la ricerca della
bella fuggitiva nel mondo intero, senza confini. Venute le femmene tutte, e nobele e 'gnobele e ricche e pezziente e vecchie e figliole e belle e brutte e buono pettenato, lo re, fatto lo profizzio, provaie lo chianiello ad una ped una a tutte le convitate, pe vedere a chi iesse a capillo ed assestato, tanto che potesse canoscere da la forma de lo chianiello chello che ieva cercanno; ma, non trovanno pede che 'nce iesse a sesto, s'appe a desperare. Tuttavia, fatto stare zitto ogn'uno, disse: "Tornate craie a fare n'atra vorta penetenzia co mico; ma, se mi volite bene, non lasciate nessuna femmena a casa, e sia chi voglia". Disse lo prencepe: "Aggio na figlia, ma guarda sempre lo focolaro, ped essere desgraziata e da poco e non è merdevole de sedere dove magnate vui". Disse lo re: "Chesta sia 'n capo de lista, ca l'aggio da caro". Cossì partettero e lo iuorno appriesso tornaro tutte e, 'nsiemme con le filie de Carmosina venne Zezolla, la quale, subeto che fu vista da lo re, l'ebbe na 'nfanzia de chella che desiderava, tuttavota semmolaie. Ma fornuto de sbattere, se venne a la prova de lo chianiello; ma non tanto priesto s'accostaie a lo pede de Zezolla, che se lanzaie da se stisso a lo pede de chella cuccupinto d'Ammore, comme lo fierro corre a la calamita. La quale cosa vista da lo re, corze a farele soppressa de le braccia e, fattola sedere sotto lo vardacchino, le mese la corona 'n testa, commannanno a tutte che le facessero 'ncrinate e leverenzie, comme a regina loro (Ivi, pp. 134-136)[4]. Non solo
questo re cerca la sua sposa in tutto il mondo,
senza limiti di condizione sociale o di età, ma
vuole e desidera, ha caro, che proprio la
più disprezzata dal padre, indegna di mangiare
alla sua tavola, sia la prima della lista delle
invitate. Il
principe azzurro, eterno ideale maschile e oggetto
di desiderio delle donne, corrisponde a un ideale
femminile altrettanto irreale. Cenerentola per
compiere la sua crescita, non compresa a questo
punto, com'è giusto, né dal padre né dalla madre,
tende al principe o al re sensibile: che
la riconosca nella sua inadeguatezza di cenere,
parte integrante della sua natura quanto lo
splendore. Il re vedendo Cenerentola-Zezolla ha 'na
'nfanzia, un'impressione, un'intuizione,
alla quale corrisponde la splendida prova, che fa
personalmente: come il ferro va alla calamita, la
scarpa corre a calzare il suo piede. E anche
noi analizzando tante Cenerentole abbiamo avuto 'na
'nfanzia a proposito della scarpa e del
piede. Il lettore più attento avrà osservato che
nella versione di Vittorio Imbriani, quando le due
sorelle provavano la pianella, un piede risultava
troppo grosso, un altro troppo piccolo. Quanto
alla Gatta Cennerentola, non si fa mai
riferimento alle dimensioni della scarpa, bensì
alla sua perfetta corrispondenza col piede. Così è
nella maggior parte delle versioni esistenti: come
mai ha prevalso quella di una scarpa
straordinariamente piccolina, tanto che
nessun'altra donna poteva infilarci il piede? [5] Possiamo
ricordare che in Cina veniva attribuito un grande
valore alla piccolezza del piede femminile, al
punto che per limitarne le dimensioni si ricorreva
a metodi che talora pregiudicavano una corretta
ambulazione. Ci viene in mente la matrigna di Aschenputtel
che spinge le figlie ad amputarsi il tallone o
l'alluce sinistro: dice che quando saranno regine
non avranno bisogno di camminare a piedi. Se
riconosciamo la castrazione in questo motivo,
possiamo pensare che l'apprezzamento per il piede
piccolino, e la relativa minuscola scarpetta,
abbia origine dalla comprensione inconscia del suo
valore fallico, e dell'autonomia di movimento che
rappresenta. Si può
riconoscere alla donna una componente maschile, ma
si auspica che sia il più possibile piccola,
rendendola tale con l'educazione, o stringendole i
piedi con vere e proprie fasciature. Consideriamo
però che il piede corrisponde alla scarpa come il
fallo alla vagina, e interpretiamo la prova della
pianella, o del chianiello, né piccolo né
grande, ma giusto, come una rappresentazione del
rapporto perfettamente equilibrato tra la
componente maschile e quella femminile nella donna
stessa. Rapporto che deve essere ben compreso dal
re, presente in lui come in Cenerentola, se non ha
dubbi sulla possibilità di trovare la sua sposa
solo attraverso la scarpetta. Abbiamo
già ricordato il rito che presenta lo stesso
simbolismo, e che può essere interpretato allo
stesso modo: quello nuziale dello scambio degli
anelli. Come la scarpa sta al piede, l'anello sta
al dito, e sia lo sposo che la sposa fanno lo
stesso gesto, di infilare un anello della misura
giusta al dito dell'altro: la donna, il femminile,
contenitore, è anche contenuto, per sé e per lo
sposo, e l'uomo, il maschile, contenuto, è anche
contenitore, per sé e per la sposa. Difficile
comprendere in profondità la fiaba di Cenerentola,
che ha nella prova della scarpetta la sua chiave
di volta, senza riconoscere il gioco degli opposti
complementari di cui Carl Gustav Jung ha
riconosciuto il profondo valore psicologico. In un
gioco simbolico che il lettore interessato può
riconoscere nei riti nuziali di tante religioni
come nelle fiabe: ma ancora difficile da
comprendere razionalmente, e anche da descrivere
psicologicamente senza far ricorso a immagini
poetiche e simboliche, come quelle che abbiamo
presentato. 3. Tutt' li nom' so' di
Dio Da molto
non tornavamo a Pelle d'Asino, che ha in comune
con Cenerentola sia la trasformazione da
bellissima a bruttissima, sia il tema del
riconoscimento: che richiede l'entrata in campo di
un principe sensibile. Ce ne
offre un bell'esempio, fra tanti, la versione
molisana Tacc' taccun' d' Maria d' legna,
già ricordata, nella quale si racconta di una
fanciulla che per fuggire le nozze incestuose finì
a servire nel pollaio di una reggia. Si chiamava
Maria, ma quando glielo chiesero disse di
chiamarsi Tacc' taccun' d' Maria d' legna.
Sporca da far pietà, al mattino portava al
principe le uova fresche, e un giorno, mentre si
puliva le scarpe, questo principe disse: - Stasera vaglie da balle. - Facett' chesta: - Pecchè nen m' c' puort' pur' a me? - Ma vavatten'! Addonda a ra i, brutta zuzzosa. - E r' mena la spazzola appriess'. Chesta z' piglia la spazzola e z' la porta (Gioielli, cit., p. 458). Il
mattino dopo il principe si stava lavando i denti,
e alla richiesta di Maria, di portarla al ballo,
le tirò dietro lo spazzolino, mentre il terzo
giorno fu la volta dell'orologio: Tacc'
taccun' d' Maria d' legna si prese anche
questi due oggetti, e la sera si preparò per il
ballo. Non disponeva di abiti magici, ma appena si
lavò divenne bellissima. Quando la vide arrivare
il principe ballò solo con lei, e non sapendo chi
fosse le chiese come si chiamava. Maria d'
Legna non rispose, ma poi: Prima de la mezzanott' ... ricett': - Mi chiam' "Spazzolappress' " - e z' n' scappatt'. (Ivi, p. 459) Il
mattino dopo, quando andò a portargli le uova
fresche, il principe le raccontò della sconosciuta
che gli piaceva tanto, e del suo strano nome, e a
sera Maria andò al ballo ancora più bella. Disse
che il suo nome era Spazzolinoappresso e
fuggì. Per la
seconda volta il principe raccontò cos'era
successo al ballo, e Maria, sentendo lo strano
nome della sconosciuta, osservò: ...Tutt' li nom' so' di Dio - Ricett' quist': - Ma ch' t' mangie tu, il giorno? - - Eh... che m' magn'? M' magn' l' tacc' taccun', l' tacc' taccun'. - - E come t' l' magn'? - ric' - Rent' a ru pollaie c'è spuorch' - - Eh... signor Maestà, a l' tacc' taccun' c' sta la pirucchiella, la munn'zella, la cuzz'chella ... com' vienn' m' l' magn' - ricett' (Ivi, pp. 459-460). Recatasi
per la terza volta al ballo, alla domanda del
principe Maria rispose di chiamarsi Ur'loggeappriess',
e fuggì di nuovo, lasciandolo così disperato che
il giorno dopo dovette mettersi a letto. Alla
regina madre disse che voleva l' tacc' taccun'
d' Maria d' legna, e per quanto lei cercasse
di dissuaderlo, facendogli osservare in quale
sporcizia viveva la ragazza, non ci riuscì. Allora
la regina andò al pollaio, chiese a Maria 'd
legna di preparare la pasta per suo figlio,
e le raccomandò di ripulirsi bene prima di
cominciare. Ma Maria d' legna disse: - Eh, signor Maestà, com' vienn' z' l'
magna. E ch' pozz' fa? Rent' a lu pollaie c' sta la
cuzz'chella la pirucchiella... chell' com' vienn' z'
l' magn' (Ivi, p. 461). In questa
fiaba, tutta giocata sul tema della condizione
sporca, degradata, nella quale vive la
protagonista, vediamo che la regina madre, pur
provando disgusto, asseconda la volontà del
figlio. Maria 'd legna è disposta a
palesare la sua identità solo se l'accettazione
dello sporco avverrà senza limiti e senza riserve.
Per tre volte preparerà le tacconelle,
mettendo uno dopo l'altro sotto la pasta la
spazzola, lo spazzolino e l'orologio, tutto ciò
che il principe le ha tirato dietro in segno di
disprezzo. La Pelle d'Asino molisana dice
che tutti i nomi sono di Dio, ogni volta che il
principe osservava la stranezza dei nomi della
bella sconosciuta: così
indica al principe che il senso, il valore del
nome, della parola, va cercato anche, o
soprattutto, dove sembra assente. Osserviamo
inoltre che lei stessa dice di chiamarsi come la
pasta, tacc' taccun', chiesta dal
principe: e lui finalmente mangia di gusto, senza
badare allo sporco di pirucchiella,
munn'zella, cuzz'chella, nel quale si
preparano, come la sua amata. Il
principe può seguire la traccia della sconosciuta,
i suoi strani nomi, che sono tutti nomi di Dio,
perché accetta il collegamento tra il suo amore,
per la bella, e il suo disprezzo, per la serva
pidocchiosa del pollaio. Il principe sensibile
opera una trasformazione perché accostando
bellezza e bruttezza, desiderio e sporcizia, cerca
la donna là dove ha bisogno di essere trovata:
fuori dall'idealizzazione che la vorrebbe separata
dalla sua storia complessa, dalla maturazione
dolorosa e dal lutto legati all'amore incestuoso del padre, e
per il padre. Desiderandola veramente, il principe
dovrà riconoscere la sua bontà, la bontà di Tacc'
taccun' d' Maria d' legna, tra i
pidocchietti e le sostanze maleodoranti del
pollaio. Dopo aver
mangiato il secondo piatto di tacconelle,
nel quale ha ritrovato lo spazzolino, il principe
sembra aver chiara l'identità della sua amata: Ru iuorn' appriess' nen chiammava cchiù: "voglie 'l tacc' taccun d' Maria d' legna", ma: - Mamma voglie Maria d' legna! Mamma voglie Maria d' legna! - Allora la mma iett' ... tutta cosa, - Ma ch' tè succiess? - - Mamma i' voglie Maria d' legna. Voglie gl'atre tacc' taccun'. Va'! Va'! Vacc'l' a dic'! - (Ivi). Così
mangia per la terza volta 'l tacc' taccun d'
Maria d' legna, sotto alle quali trova
l'orologio che le aveva tirato appresso: a questo
punto la richiesta che rivolge alla madre è
inequivocabile: - Mamma voglie prota Maria d' legna! m' l'ara ì a piglia! Voglie Maria d' legna! (Ivi). Bisogna
sapere che la nostra eroina si fa vedere tutta
sporca, ma quando è da sola nel pollaio si tiene
in ordine e pulita: così la scopre la regina
madre, guardandola dal buco della serratura.
Costretta a uscire bella e pulita come si trova,
Maria chiede pietà alla regina e le racconta tutta
la sua storia: la regina non solo la comprende, ma
è ben contenta di farle sposare il figlio, che,
come dice, è sciut' pazz', è impazzito per
lei. La madre
di Maria d'legna, in punto di morte, aveva
chiesto al marito di renderla eterna sposando una
donna identica a lei: al rispecchiamento
narcisistico della madre nella figlia, e della
figlia nella madre, è succeduto il desiderio
incestuoso, e l'oscuramento della bellezza. Il
recupero della bellezza richiede una figura
materna disposta ad accettare che il proprio
figlio sia nutrito da una serva repellente, che
prepara il cibo tra pidocchi e la sporcizia del
pollaio. Il
principe che sposa Spazzolappress', o Maria
d'legna che dir si voglia, ha superato la
fissazione a un'immagine ideale della donna, come
la regina madre non disdegna di far preparare la
pasta nel pollaio. 4. Il bacio dell'orsa Il motivo
del cibo come veicolo simbolico di riconoscimento
tra il principe e la protagonista non ancora
scoperta è in moltissime versioni di Pelle
d'Asino, ma l'interazione fra il principe e
la regina madre nella fiaba molisana ci sembra
profondamente e felicemente apparentata con l'Orza,
un Cunto del capolavoro secentesco
(Basile, cit., pp. 356-369). I motivi e le
felicissime soluzioni narrative del Cunto de
li cunti sono sparsi in ogni raccolta
dell'Italia meridionale, come se in ogni chiesa,
per quanto piccola e semplice, fosse riconoscibile
in un capitello, in una statua, o in una colonna,
l'impronta della meravigliosa cattedrale elevata
in quell'area culturale. Questa
Pelle d'Asino, la principessa Preziosa, per
sfuggire al padre si era trasformata in orsa e si
era rifugiata in un bosco, dove viveva con le
bestie feroci. Quando un principe cacciatore la
vide, dapprima si spaventò, ma poi si accorse che
si lasciava addomesticare, e chiamandola con tanti
vezzeggiativi la portò al suo palazzo. La fece
accomodare nel suo giardino e ordinò ai servitori
che la curassero come facevano con lui stesso. La
trasformazione di Preziosa era reversibile: era
diventata orsa mettendosi uno steccolino in bocca,
e se voleva tornare fanciulla bastava che se lo
togliesse. Un giorno il principe si affacciò alla
finestra per vedere la sua orsa, e vide invece la
principessa, che credendo di essere sola voleva
acconciarsi i capelli: si precipitò per le scale,
ma Preziosa si era già ritrasformata in animale.
Il povero principe si ammalò, e non faceva altro
che dire: Orza mia, orza mia! La regina
madre pensò che l'orsa gli avesse fatto del male,
e ordinò ai servitori di ucciderla, ma siccome
tutti nella reggia erano affezionati all'animale,
disobbedirono alla regina, e la riportarono nel
bosco dove il principe l'aveva trovata. Quando
gli arrivò questa notizia, il principe montò a
cavallo come impazzito, andò nel bosco a
ritrovarla, la riportò nella reggia, e, presala da
parte, le disse: O bello muorzo de re, che staie 'ncaforchiato drinto sta pella! o cannella d'ammore, che staie 'nchiusa drinto sta lanterna pelosa! a che fine fareme sti gatte-felippe, pe vedereme sparpatiare e iremenne de pilo 'm pilo? io moro allancato, speruto ed allocignato pe ssa bellezza e tu ne vide li testemonie apparente, ca io so' arredutto 'n tierzo comm'a vino cuotto, ca n'aggio si no l'uosso e la pella, ca la freve me s'è cosuta a filo doppio co ste vene. Perzò auza la tela de sso cuoiero fetuso e famme vedere l'apparato de sse bellizze, leva leva le frunne da coppa sso sportone e famme pigliare na vista de ssi belle frutte; auza sto sportiero e fà trasire st'uocchie a bedere la pompa de le meraviglie! chi a puosto a na carcere tessuta de pile n'opera cossì liscia? chi ha serrato drinto no scrigno de cuoiero cossì bello tesoro? famme vedere sso mostro de grazie e pigliate 'm pagamiento tutte le voglie mie, bene mio, ca lo grasso de ss'orza pò schitto remmediare a l'attrazione de nierve ch'io tengo (Basile, cit., pp. 364- 366)[6]. Cosa
manca a Preziosa per lasciare il suo carcere
di peli? abbiamo detto che il principe
sensibile deve riconoscere che la bella e
la brutta sono la stessa persona, ma non basta: il
principe deve amare la bella nella brutta, e la
brutta nella bella. Nell'accorata preghiera
l'animale è disprezzato, mentre la principessa è
amata: la trasformazione del femminile non è
ancora avvenuta, perché il maschile se ne
rappresenta le due polarità come contrapposte, e
come vuole la parte bella con tutto se stesso,
vuole la distruzione della parte animale. Il
valore psicologico di questa rappresentazione è
sublime: non basta riconoscere il luogo ferino, o
sporco, in cui si nasconde la donna amata, occorre
amare quel luogo insieme a lei. Il
silenzio dell'orsa fa aggravare la malattia del
principe, e i medici lo danno ormai per spacciato.
Allora entra in scena la regina madre, parente
stretta di quella che abbiamo incontrato nella
versione molisana, e sollecita il figlio a
chiederle qualunque cosa: il principe vuole che
venga nella sua camera l'orsa, e che si prenda
cura di lui. La regina madre personifica una
funzione materna positiva, opposta alla regina
madre della protagonista, che aveva imposto al
marito, morendo, la propria bellezza come ideale.
Al posto del narcisismo della madre dell'inizio
della storia abbiamo una figura materna che
accetta di far nutrire il figlio da una sporca
serva o da un'animale feroce. Non c'è più il padre
che pretende di legare a sé la figlia come se
fosse la madre, la sua sposa, ma c'è una madre che
amando il figlio lascia che sia curato da un
animale feroce, come nella versione molisana
chiedeva per lui il cibo preparato nel pollaio. La mamma, si be' le parze no spreposeto che l'orza avesse da fare lo cuoco e lo cammariero e dubetaie ce lo figlio frenetecasse, puro, pe contentarelo, la fece venire. La quale, arrivato a lo lietto de lo prencepe, auzaie la granfa e toccaie lo puzo de lo malato, che fece scorreiere la regina, penzanno ad ora ad ora che l'avesse a sciccare lo naso. Ma, lo prencepe decenno a l'orza: "Chiappino mio, non me vuoie cocinare e dare a magnare e covernare?", essa vasciai la capo mostranno d'azzettare lo partito. Pe la quale cosa la mamma fece venire na mano de galline e allomare lo fuoco a no focolaro drinto a la stessa cammara e mettere acqua a bollere e l'orza, dato de mano a na gallina, scaudatola la spennaie destramente e, sbrentatola, parte ne 'mpizzaie a no spito e parte ne fece no bello 'ngrattinato, che lo prencepe, che non ne poteva scennere lo zuccaro, se ne leccaie le deieta, e comme appe fornuto de cannariare, le deze a bevere co tanta grazia che la regina la voze vasare 'n fronte. Fatto chesso, e sciso lo prencepe a fare la preta paragone de lo iodizio de li miedece, l'orza fece subito lo lietto e, corza a lo giardino, cogliette na bona mappata de rose e shiure de cetrangolo e 'nce le sparpogliaie pe coppa, tanto che la regina disse che st'orza valeva no tresoro, e c'aveva no cantaro de ragione lo figlio de volerele bene. Ma lo prencepe, vedenno sti belle servizie, ionze esca a lo fuoco e se primma se conzomava a dramme mo se strodeva a rotola e disse a la regina: "Mamma, 'gnora mia, si no dongo no vaso a st'orza, m'esce lo shiato!". La regina, che lo vedeva ashevolire, disse: "Vasalo, vasa, bell'anemale mio, non me lo vedere speruto sto povero figlio!". Ed accostatose l'orza, lo prencepe pigliatola a pezzechille non se saziava de vasarela e, mentre stevano musso a musso, non saccio comme scappaie lo spruoccolo de vocca a Preziosa e restaie fra le braccia de lo prencepe la chiù bella cosa de lo munno. Lo quale, stregnennola co le tenaglie ammorose de le braccia, le disse: " 'Ncappaste sciurolo, non me scappe chiù senza ragione veduta!" (Basile, cit., pp. 366- 368) [7]. 5. Narciso e il cortese
cavaliere Il
percorso trasformativo di Cenerentola e Pelle
d'Asino coi loro principi sensibili è il gioco
della vita stessa, che si ricrea nell'incontro fra
esseri diversi. Va percorsa la separazione dai
genitori, e l'emancipazione dai modelli collettivi
che rappresentano, in una sorta di accettazione
vertiginosa, catastrofica, della propria verità
intima. Proprio quando la separazione è massima,
come nella cenere o nella pelle animale, una nuova
unione diventa possibile, proprio quando
l'accettazione della diversità, fino a quel punto
impensabile, dell'altro e dell'altra, ha luogo,
contenitore e contenuto, maschile e femminile, si
legano. La completezza è possibile quando
l'incompletezza è radicalmente accettata. Figura
essenziale del rifiuto dell'incompletezza è
Narciso, che torniamo a cercare in Ovidio, insieme
alla sua innamorata Eco. Dal principio della sua
favola la ninfa Eco non parlava per sé:
intratteneva con i suoi discorsi Giunone per
tenerla lontana dai convegni amorosi di Giove
padre. Quando Giunone scopre il suo inganno, come
una madre-matrigna la punisce, radicalizzando e
rendendo tragico proprio il suo discorrere non per
se stessa: Eco è condannata a ripetere solo le
ultime parole dei discorsi degli altri. Potrebbe
essere l'amante ideale per Narciso, perché può
echeggiarlo, non essendo che un riflesso della
voce degli altri. Quando
Eco segue i suoi passi, Narciso parla: ..."Ecquis
adest?", et "Adest!" responderat Echo. Hic stupet,
utque aciem partes dimittit in omnes, voce "Veni!"
magna clamat: vocat illa vocantem. Respicit et
rursus nullo veniente: "Quid" inquit "me fugis?" et
totidem, quot dixit, verba recepit. Perstat et
alternae deceptus imagine vocis "Huc coëamus!"
ait, nullique libentius umquam responsura sono
"Coëamus!" rettulit Echo et verbis favet
ipsa suis egressaque silva ibat, ut iniceret sperato bracchia collo. Ille fugit
fugiensque manus complexibus aufert: "Ante" ait "emoriar, quam sit tibi copia nostri!" Rettulit illa nihil nisi: "Sit copia nostri!" (L. III, vv. 380-391)[8] Narciso
propone l'unione a Eco attratto dalla sua natura
di specchio, e la respinge quando vede il suo
corpo, la sua realtà da fuggire in quanto alterità
irriducibile. Morire piuttosto che essere un
tuo possesso, ma copia nostri,
significherebbe alla lettera ricchezza di me.
Difficile
non ripensare a questo proposito alla teoria
kleiniana sull'invidia del seno, che distrugge la
possibilità di una relazione creativa, attaccando
il proprio sé come l'altro da sé. Narciso
escludendo l'amore verso l'altro può illudersi di
mantenere il pieno possesso di se stesso:
aborrisce Eco quando la vede oltre a sentirne la
voce che ripete le sue parole, fugge dalla realtà
corporea della ninfa. L'indovino
Tiresia, consultato alla sua nascita, aveva detto
che Narciso avrebbe vissuto fino a che non avesse
visto se stesso. Nel narcisismo l'innamoramento
segna una catastrofe: si desidera misconoscendo
l'alterità di chi si ama, ci si chiude alle sue
parole diverse. Mentre crediamo di conferirgli
bellezza, lo perdiamo di vista, idealizzandolo non
possiamo riconoscerlo. Tante volte la realtà degli
amanti si dissolve, la relazione muore nel dolore,
proprio perché si ripete la tragedia di Eco e
Narciso: la diversità dell'altro dal modello
ideale che prima avevamo creduto di vedere o
sentire, o la nostra diversità dal modello di cui
eravamo portatori, è avvertita come un tradimento,
e non resta alcuna possibilità d'incontro. Oppure,
se la relazione si chiude per un motivo che si
considera oggettivo ed esterno ad essa, si può
restare con la propria parte più viva a fissare
l'immagine ideale e perduta, nell'illusione di un
rispecchiamento, che permane solo a condizione che
la realtà dell'altro, la sua diversità, il suo
corpo, non si manifesti più. Narciso
si innamorerà perdutamente della propria figura
rispecchiata da una fonte, che, secondo una
versione ellenistica del mito, è la madre stessa
trasformata in specchio d'acqua. L'incorporeità,
la natura illusoria, il riflesso rimandato da
quest'acqua materna, il sé perduto, è identico a
sé, speculare come le parole di Eco. Ma mentre Eco
poteva comparire come altro da sé, l'immagine
nell'acqua non è altro che riflesso: troppo amata
per potersene distaccare, è troppo labile per
poter essere toccata. Narciso contemplandola
dimentica anzitutto il proprio corpo, perché non
mangia più, e si consuma nel dolore, come la ninfa
aborrita. Infatti
Eco, dopo essere stata respinta e disprezzata da
Narciso, si era rifugiata nella solitudine, a
consumarsi d'amore, fino a distruggere il corpo
che ha impedito l'unione. Si è assottigliata e ha
perso consistenza, in una sorta di anoressia
mitica, fino a che, svanendo nell'aria, resta solo
come voce, che ancora ripete fra i monti le nostre
parole. Eterna, come Narciso è eterno nel fiore
che cresce col suo nome vicino alle acque. Prima di
morire Narciso comprende che la copia, la
ricchezza, il possesso di sé, va donata e perduta
per poterla trovare: il possesso implica la
perdita della ricchezza, il dono la fa trovare,
perché ogni trasformazione profonda, nella realtà
psichica come nella fiaba, deve una parte
essenziale a qualcosa che sfiora il segreto di
grazia della vita. La
distanza tra gli amanti, di cui Narciso comprende
il valore, non è pensabile se non ha avuto luogo
la separazione dalle figure genitoriali:
elaborando questa rottura, questo lutto, il
soggetto può procedere verso la propria autonomia,
e verso il desiderio dell'altro. Quod cupio, mecum est: inopem me copia fecit. O utinam a nostro secedere corpore possem! votum in amante
novum: vellem, quod amamus abesset! (cit.)[9] Tornando
a Cenerentola possiamo ora dire che le sue nozze
regali, il lieto fine della fiaba, rappresentano
la meta di un percorso di trasformazione
complesso, un patrimonio di esperienza profonda
raramente accessibile nella vita di una sola
persona. L'attaccamento
alle figure parentali determina un gioco
endogamico degli affetti, che si ripete nella
ricerca dell'altro: l'oggetto d'amore è
indispensabile alla nostra vita come per Narciso
la sua propria immagine. Nell'innamoramento
la più grande disperazione per l'amante non è la
lontananza o la perdita dell'amato, ma
l'incertezza sul proprio essere. All'altro, come
al riflesso di Narciso, è conferito un arbitrio
che nessuna persona reale può esercitare: si
supplica l'amato di accogliere e confermare la
ricchezza e la verità del proprio sentimento, che
coincide con il nostro essere. Accogliendo,
rispecchiando, la nostra bellezza, confermando la
realtà e la legittimità del nostro desiderio, darà
senso definitivo alla vita, rifiutandoci ci
condannerà a morire. Ricordiamo
le parole di una struggente canzone di Pier Paolo
Pasolini: Ch'io possa essere dannato se non ti amo e il mondo non esiste se non è vero. [10] Il
desiderio struggente non è rivolto al possesso
dell'amato, somigliando piuttosto a un vortice
tragico intorno al fondamento del proprio amore:
se non si conferma la verità del proprio
sentimento, è il mondo intero a perdere la sua
realtà. Per
questo Amleto può rinunciare ad Ofelia, ma non a
chiederle la stessa conferma: Doubt thou
the stars are fire; Doubt that
the sun doth move; Doubt truth
to be a liar; But never
doubt I love.[11] (A. II, Sc. 2) Il
desiderio dell'unione con l'altro è qualcosa che
non ha il suo centro nella conferma del proprio
essere: la bruttezza, la condizione servile, la
sporcizia di Cenerentola o di Pelle d'Asino, i
loro occultamenti, sfidano il principe sensibile a
staccarsi dalla contemplazione della bellissima
immagine di cui si è innamorato al ballo. La bella
che vuole essere trovata nel pollaio, o nella
forma di orsa, o nella cenere, è distante da Eco
quanto il principe sensibile è distante da
Narciso. Staccarsi dalla bellezza come luogo di
rispecchiamento significa rinunciare alla conferma
della propria identità, del senso stesso del
proprio essere, mantenuta nel riflesso dell'altro.
C'è una
storia della bruttezza femminile che desideriamo
ricordare ora[12], in cui si narra che una
volta Re Artù vide un cervo e lo inseguì. Lo
raggiunse e lo uccise, ma, mentre lo scuoiava, fu
sorpreso da un grande cavaliere sconosciuto, che
voleva ucciderlo: il re protestò che in quel
momento lui era vestito solo di verde. Allora il
possente cavaliere, che era tutto armato, gli
concesse un anno di tempo, scaduto il quale
avrebbe dovuto tornare da lui, con lo stesso
vestito verde. Re Artù avrebbe avuto salva la vita
solo se avesse trovato la risposta giusta per
questa domanda: "Qual è quella cosa che una donna
desidera di più al mondo?". Il re
tornò tristemente dai suoi e si confidò solo con
Galvano, che era il più bello e cortese fra i
cavalieri di Camelot. Galvano gli propose di
partire entrambi, viaggiando in direzioni diverse
e chiedendo a tutti quelli che avrebbero
incontrato lungo il camini la risposta all'enigma.
Così fecero, e allo scadere dell'anno si
ritrovarono: ciascuno di loro aveva un libro pieno
di risposte, e con queste re Artù si avviò
all'appuntamento col cavaliere sconosciuto. Quando
fu nella foresta il re incontrò una donna
bruttissima, madama Raganella, che suonando il
liuto cavalcava allegramente, montando un
palafreno dalla ricca sella. La donna bruttissima
disse al re che nei suoi libri non c'era la
risposta che poteva salvargli la vita: lei la
sapeva, ma l'avrebbe rivelata solo se Galvano
avesse acconsentito a sposarla. Allora re Artù
portò la richiesta a Galvano, che per amore del
suo re accettò cortesemente di sposare madama
Raganella. E lei
diede la risposta tanto desiderata:"Noi donne
desideriamo, sopra ogni altra cosa, avere sugli
uomini sovranità". Il
cavaliere che voleva uccidere re Artù si infuriò,
e disse che quella risposta non potevano averla
saputa che da sua sorella, che era per l'appunto
la donna repellente, ma dovette lasciare libero il
re, che fece ritorno a Camelot con Galvano e la
sua bruttissima fidanzata. Madama Raganella
pretese un matrimonio solenne, e durante il
banchetto di nozze mangiò a quattro palmenti,
mentre dame e cavalieri piangevano per la triste
sorte di Galvano. La prima
notte di nozze, siccome il bel cavaliere le girava
le spalle, madama Raganella gli chiese di onorare
il talamo nuziale almeno con un bacio. Galvano
rispose che avrebbe fatto di più, e quando
l'abbracciò sentì una pelle vellutata, e capelli
lisci come la seta, mentre si aspettava qualcosa
di ispido e rivoltante. Allora accese una torcia e
ai suoi occhi apparve la creatura più bella del
mondo. Al mattino madama Raganella gli chiese di
scegliere: voleva che fosse bella di giorno o di
notte? Galvano ci pensò a lungo, e poi disse che
lasciava a lei la scelta. Allora madama Raganella
lo benedisse e gli svelò che sarebbe stata sempre
bella, perché proprio così l'aveva liberata da un
incantesimo. Quando al
mattino re Artù andò a vedere se Galvano era
sempre vivo, il cavaliere gli disse che non aveva
nessuna intenzione di uscire dalla camera nuziale,
e gli mostrò la splendida sposa accanto al fuoco.
Il
desiderio della donna, di esercitare la propria
sovranità non solo su se stessa, ma anche
sull'uomo, è la verità che salva il re e che
nessuno, né uomo né donna, riesce a dire. Solo il
perfetto cavaliere, il principe sensibile, la
accetta, e ottiene la sposa più bella lasciandola
libera. Cortesemente rinuncia al potere di
regolare la femminile alternanza tra oscurità e
splendore. [1]
Al movimento della protagonista dallo
sporco o dall'oscurità, significate dalla
condizione di prostituta, a quello di regina -
cioè moglie legittima - corrisponde il
movimento del protagonista - ricchissimo uomo d'affari,
principe contemporaneo - verso la
riconciliazione con la figura paterna: alla
fine agisce eticamente e si assume
responsabilità verso gli altri: diventare re.
Il riferimento alla nostra fiaba è esplicito
nel film, quando Cenerentola/Julia Roberts
chiede all'amica se conosca anche una sola
persona che sia mai riuscita a lasciare
felicemente la condizione di prostituta.
L'amica, dopo averci pensato, risponde, con
un'espressione volgare che allude alla sua
invidiabile fortuna, che la sola è stata
Cenerentola. [2] Per l'anima dei miei
morti, se tu non me la trovi, ti
faccio una battuta e ti do tanti calci nel
culo quanti peli hai nella barba (Ivi, p.
133). [3] "Lei, vedendo che
gli stava sempre alle costole, disse: "Sferza
cocchiere", ed ecco che la carrozza si mise a
correre di tutta furia, e la corsa fu così
rapida che le cadde una scarpetta, ed era
difficile vedere una cosuccia più carina. Il
servo, che non era riuscito a raggiungere la
carrozza che volava, raccolse la scarpetta da
terra e la portò al re, raccontandogli quello
che era capitato. E lui, presa in mano la
scarpetta, disse: "Se le fondamenta sono così
carine, cosa mai sarà la casa? o bel
candeliere, dove è stata la candela che mi
consuma! o treppiede della bella caldaia dove
bolle la mia vita! o bei sugheri attaccati
alla lenza d'Amore, con la quale hai pescato
quest'anima! ecco, vi abbraccio e vi stringo
e, se non posso arrivare alla pianta, adoro le
radici e se non posso avere i capitelli bacio
le basi! già siete stati cippi di un bianco
piede e ora siete tagliole di un cuore nero;
per mezzo vostro era alta un palmo e mezzo di
più quella che tiranneggia la mia vita e per
mezzo vostro cresce altrettanto di dolcezza
questa vita, mentre vi guardo e vi posseggo"
(Ivi, pp. 133-135). Si
può considerare questo brano come un vertice
della letteratura. Nel genere fiaba
l'espressività più efficace, nella scrittura
colta come nel dettato popolare, coincide con
la massima ricchezza simbolica: si osservi
come la fuga barocca di metafore sia allo
stesso tempo vertiginosa in senso letterario e
psicologico. La traduzione letterale vale come
strumento d'accesso al testo di Basile, che è
lo Shakespeare delle fiabe, anche per l'uso
dei registri diversi, dal tragico al comico,
dal lirico al grottesco.
[4] Arrivarono tutte le
femmine, nobili e ignobili e ricche e
miserabili e vecchie e bambine e belle e
brutte, e, dopo che ebbero ben pettinato, il
re, fatto il prosit, provò la
scarpetta ad una ad una a tutte le invitate,
per vedere a chi andasse a capello e a
pennello, in modo che potesse riconoscere
dalla forma della scarpetta quello che andava
cercando; ma, non trovando piede che ci
andasse bene, stava a disperarsi. Tuttavia,
dopo aver fatto fare silenzio a tutti, disse:
"Tornate domani a fare un'altra penitenza con
me; ma, se mi volete bene, non lasciate
nessuna femmina a casa, sia chiunque sia.
Disse il principe: "Ho una figlia, ma sta
sempre a guardia del focolare, perché è
disgraziata e da poco e non merita di sedere
dove mangiate voi". Disse il re: "Questa sia
la prima della lista, perché così mi piace".
Così si congedarono e il giorno dopo tornarono
tutti, e, con le figlie di Carmosina venne
Zezolla, e il re, appena la vide, ebbe come
l'impressione che fosse quella che desiderava
tuttavia fece finta di nulla. Ma, quando
ebbero finito di battere i denti, arrivò la
prova della scarpetta, che non s'era neppure
accostata al piede di Zezolla che si lanciò da
sola al piede di quell'ovetto dipinto d'Amore,
come il ferro corre verso la calamita. Il re,
visto questo, corse a prenderla nella morsa
delle braccia e, fattala sedere sotto il
baldacchino, le mise la corona in testa,
comandando a tutte che le facessero inchini e
riverenze, come alla loro regina (Ivi, pp.
135-137). [5] Lo
chianiello della Gatta Cennerentola,
come annota Michele Rak (Basile, cit., p. 138)
era una calzatura di sughero che si calzava
sopra alla scarpa, e aveva tacchi molto alti:
si noti che però nello stesso testo viene
tradotta con scarpetta. Purtroppo
anche nella mia versione per bambini (cit., p.
28) ho tradotto chianiello con scarpetta,
influenzata dalla versione più celebre, che
pone la chiave del riconoscimento nella
straordinaria piccolezza del piede. Non avevo
ancora riflettuto sulla simbologia
scarpa-piede. [6] O bel boccone di re,
che stai rintanato in questa pelle! o candela
d'amore, che stai chiusa in questa lanterna
pelosa! perché farmi questi cucù-setè,
per vedermi consumare e andarmene pelo dopo
pelo? io muoio affamato, consumato e stremato
per questa bellezza e tu ne vedi le prove
evidenti, perché io sono ridotto a un terzo
come il vino bollito, non ho altro che l'osso
e la pelle, la febbre si è cucita con filo
doppio su queste vene. Perciò alza la tela di
questo cuoio puzzolente e fammi vedere
l'apparato delle tue bellezze, togli togli le
fronde da questa cesta e fammi guardare questi
bei frutti; alza questa cortina e fai passare
gli occhi a vedere la pompa delle meraviglie!
chi ha messo in un carcere di peli un'opera
così liscia? chi ha chiuso in uno scrigno di
cuoio un tesoro così bello? fammi vedere
questo mostro di grazia e prenditi in
pagamento tutti i miei desideri, bene mio,
perché soltanto il grasso di quest'orsa può
essere un rimedio per i miei nervi rattrappiti
(Ivi, pp. 365-367) [7]
La mamma, anche se le sembrò uno
sproposito che l'orsa dovesse fare da cuoco e
da cameriere e se sospettò che il figlio
stesse farneticando, tuttavia, per
accontentarlo, la fece portare. E lei,
arrivata al letto del principe, alzò la zampa
e toccò il polso del malato e fece spaventare
la regina, convinta che da un momento
all'altro gli avrebbe strappato il naso. Ma, quando il
principe disse all'orsa: "Chiappino mio, vuoi
cucinare per me e darmi da mangiare e
prenderti cura di me?", lei abbassò la testa
indicando che gli stava bene. Per questo la
mamma fece portare un poco di galline e
accendere il fuoco in un camino nella stessa
camera e mettere a bollire l'acqua e l'orsa,
presa una gallina, la scottò, la spennò
abilmente e, dopo averla fatta a pezzi, parte
ne ficcò in uno spiedo e parte ne fece un bel
gratinato e il principe, che non riusciva a
mandar giù lo zucchero, finì per leccarsi
anche le dita e, quando ebbe finito
d'ingoiare, gli diede da bere con tanta grazia
che la regina volle baciarla in fronte. Fatto questo, mentre
il principe faceva un poco di roba per gli
esami dei medici, l'orsa fece subito il letto
e, corsa in giardino, colse un bel mazzo di
rose e di fiori di cedro e li sparpagliò là
sopra, tanto che la regina disse che
quest'orsa valeva un tesoro e che il figlio
aveva un vaso da notte di ragione a volerle
bene. Ma il principe,
vedendo questi bei servizi, aggiunse esca al
fuoco, e se prima si consumava a chili ora si
sbriciolava a quintali e disse alla regina:
"Mamma, signora mia, se non do un bacio a
quest'orsa mi scappa via il fiato!". La
regina, che lo vedeva venir meno, disse:
"Bacialo, bacia, bella bestia mia, non me lo
far vedere distrutto questo povero figlio!". E l'orsa si accostò e
il principe la prese e non si saziava di
sbaciucchiarla e,
mentre stavano muso a muso, non so come il
bastoncino cadde di bocca a Preziosa e tra le
braccia del principe restò la più bella cosina
del mondo. E lui, stringendola con le tenaglie
amorose delle braccia, le disse: "Ci sei
caduto scoiattolo, non mi scappi più senza
ragion veduta!". (Ivi, pp. 367-369). [8]
"Chi c'è qui presente?" - "Presente"
rispose la ninfa. / Egli stupisce e girando lo
sguardo da tutte le parti / "Vieni!" gridò con
gran voce; e la ninfa chiamò lui che chiama. /
Guarda di nuovo, né alcuno venendo, "Perché mi
t'involi?" / disse; e la ninfa ogni volta
ripete le voci di lui. / Egli si ferma e,
deluso dal suono di quell'altra voce, grida
"Qui uniamoci!" - "Uniamoci!" pronta
rispondegli l'altra. / Né mai avrebbe risposto
più lieta a qualunque altra voce. Le sue
parole seconda ed, uscita dal bosco, correva /
per abbracciare quel collo desiato. Ma fugge
Narciso / e, nel fuggire, le strappa le
braccia all'amplesso e "Ch'io muoia! / prima
che io sia di te!" Ma soltanto rispose la
ninfa: / "Ch'io sia di te!" (Le Metamorfosi,
cit., vol. I, p. 123). [9]
Cit., a p. 73 [10]
Canzone dal film Cosa sono le
nuvole, regia di P.P. Pasolini; parte di
Capriccio all'italiana (1969). [11]
Dubita che gli astri siano accesi /
dubita che il sole si muova / dubita che la
verità sia bugiarda / ma non dubitare mai che
io ami. [12]
La storia è riportata da Zimmer, cit.,
pp. 108-115. |
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8. L'insostenibile vaghezza del senso |
L'INSOSTENIBILE VAGHEZZA DEL SENSO If this is
magic, let it be an art Lawful as eating.
(Shakesperare) 1. State di buon animo,
messere Il mio
lettore, se è arrivato a questo punto, forse si
sarà appassionato, avrà riconosciuto qualcosa di
suo, avrà dubbi, e si sarà interrogato su quale
sia la sostanza di questo ciclo di grandi sogni di
tutto il mondo intorno a Cenerentola. Non si sogna
ciò che abbiamo chiaro, né ciò che è così lontano
da essere insignificante per la nostra coscienza.
Descrivere
un sogno significa correre un rischio,
scompaginando giudizi sulla realtà, o sulla realtà
psichica, ma non per proporre giudizi più saldi,
né per accrescere la convinzione di possedere
qualche certezza in più. Alla fine del percorso,
che non è compiuto, ma rappresenta piuttosto un
cammino, comune all'autore e al lettore, nel
favoloso paese di Cenerentola e dintorni,
potrebbero essere diminuite le certezze, a
vantaggio di una vaghezza che non assicura niente
di buono. Le fiabe hanno come i sogni notturni un
carattere fluido, mutevole, che in un batter
d'occhio apre orizzonti alla luce, e altrettanto
rapidamente li può chiudere, fino a opprimere il
protagonista, e il lettore, sotto una cappa
minacciosa come una prigione senza porte né
finestre. La natura
della fiaba è tale che chi pretenda di trarne
certezze si trova presto fuori dal suo reame, in
territori dove non si è né imbruttiti né abbelliti
dai suoi incantesimi. Oppure ci si perde in questa
terra, di simbolo in simbolo, di figura in figura,
illudendosi che si tratti di saggezza iniziatica
mentre si usano nuclei di senso senza cercare di
tradurli nel linguaggio comune, comprensibile a
tutti. Comprendere qualcosa di un sogno, di una
fiaba, comprendere qualcosa della realtà psichica,
anche attraverso un esercizio costante e rigoroso
della psicoanalisi, non significa evitare questi
due rischi: la ricerca può naufragare come una
nave costretta a passare tra Scilla e Cariddi.
Sbattendo da una parte si fornisce una descrizione
corretta, solida, rassicurante e ripetibile, ma
priva della complessa e fluida ricchezza della
materia, mentre sbattendo dall'altra si evoca,
come novelli cantastorie o mistici ermeneuti,
questa ricchezza, senza saperne veramente dire
nulla. Per questo secondo caso, ritengo che
l'evocazione della ricchezza sia appannaggio dei
sogni, delle fiabe, dei miti e dell'arte, e che
dal ricercatore, visto che si propone come tale,
ci si attenda almeno qualche chiarimento. Esiste
anche il rischio di naufragare sia da una parte
che dall'altra: il lavoro fatto sarebbe
inconsistente e inutile. Se il lettore è venuto
con me paziente, fino a questo punto, posso
illudermi che il naufragio non sia stato totale. L'interpretazione
del sogno di Cenerentola, Pelle
d'Asino e Cordelia è terminata, e se
il mio lettore è un po' preoccupato dalla sua
vaghezza, vorrei rassicurarlo con le parole che il
mago Prospero, nella Tempesta di
Shakespeare, dopo aver fatto apparire e dissolvere
figure e scenografie fantastiche che appaiono
vere, dice al suo interlocutore: Be cheerful,
sir. Our revels
now are ended. These our actors, As I
foretold you, were all spirits, and Are melted
into air, into thin air; And, like
the baseless fabric of this vision, The
cloud-capp'd towers, the gorgeous palaces, The solemn
temples, the great globe itself Yea, all
which it inherit, shall dissolve, And, like
this insubstantial pageant faded, Leave not a
rack behind. We are such stuff As dreams
are made on; and our little life Is rounded
with a sleep. (A.IV, Sc. 1) [1]. Anche il
nostro divertimento è finito, Cenerentola, Pelle
d'Asino, Cordelia, Zuccaccia, Bianco Viso, Maria
'd Legna, l'Orsa, le loro scarpe, gli abiti di
cielo e di mare, le streghe, le Grandi Dee,
Narciso, Madama Ranocchia e i principi sensibili,
che in questo viaggio si sono avvicinati fino a
dare nome a passioni, intrighi, conflitti,
disillusioni e speranze della nostra vita di ogni
giorno, e di ogni notte, possono rientrare in un
magazzino della nostra memoria, come i loro libri
nello scaffale. Tutte figure di fantasia, che
possono apparire reali come gli spiriti sull'isola
del mago Prospero, ma che sono destinate a
dissolversi, a spandersi nell'aria, nell'aria
sottile. La struttura di questa visione non
è fondata, è baseless, senza base,
e non c'è nulla che possa essere soppesato,
misurato, catalogato e ritrovato come gli oggetti
che appaiono concreti. Ma attraverso il magistero
della parola di Shakespeare, il lettore che si è
appena tranquillizzato sulla stabilità, la
certezza della sua realtà oggettiva, la perde di
colpo, se sa ascoltare, e definitivamente: gli
spiriti e i sogni e le fiabe si dissolvono in un
batter d'occhio, ma, anche se con tempi diversi,
si dissolvono in maniera altrettanto radicale le
torri, le cui cime toccano le nubi, i sontuosi
palazzi, i solenni templi, lo stesso immenso
globo, e tutto ciò che esso contiene. Lo stesso
inesorabile gioco fra tempo e illusione si
manifesta a una fanciulla di fiaba, i cui sette
fratelli erano diventati sette colombini. Basile
ci racconta che per farli tornare umani viaggiò
fino alla casa del Tempo, compiendo un cammino tra
i più belli e ricchi del paese delle fiabe. Un
vecchio pellegrino, al quale la protagonista
aveva curato amorevolmente il bernoccolo causato
dal tiro di un gatto mammone, le dice: Ora siente buono, bella figlia mia senza
peccato, agge da sapere qualemente cosa 'ncoppa la
cimma de la montagna trovarrai no scassone de casa,
che non s'allecorda quanno fu favrecata: le mura
songo sesete, le pedamente fracete, le porte
carolate, li mobele stantive e 'nsomma ogni cosa
conzomata e destrutta: da ccà vide colonne rotte, da
llà statue spezzate, non essennocene autro sano che
n'arma sopra la porta quartiata, dove 'nce vedarrai
no serpe che se mozeca la coda, no ciervo, no cuorvo
e na fenice. Comme sì trasuta drinto vedarrai pe
terra lime sorde, serre, fauce e potature e ciento e
ciento caudarelle di cennere, co li nomme scritte,
come arvarelle de speziale, dove se leggeno:
Corinto, Sagunto, Cartagene, Troia e mille
autre città iute all'acito, le quale conserva pe
memoria de le 'mprese soie (Basile, cit., pp. 800-
802) [2]. La
polvere delle città sta in piccoli contenitori, e
si riconosce solo dall'etichetta simile a quella
dei vasi del farmacista, non avendo maggiore
consistenza di quella delle figure di fiaba. La
chiave del gioco la tiene il Tempo alato, che
intacca, rode e divora ogni cosa, persino,
racconta Basile, la calce dei muri di casa sua:
solo lo stemma, il simbolo, resta inalterato. Al
lettore che abbia lasciato risuonare nel suo cuore
e nella sua mente le parole di Shakespeare,
vorremmo dire che la stabilità, che non è nemmeno
negli oggetti che per anni o secoli abbiamo potuto
misurare e pesare credendo di pervenire alla
certezza, potrebbe trovarsi proprio in quei nuclei
vivi di senso umanissimo che la fiaba e il mito
continuano a rappresentare, nei libri, nella
storia, nei sogni. Così Roger Caillois, che è tra
i pochi ad aver viaggiato nelle fiabe senza
naufragare tra Scilla e Cariddi, cita e commenta
il poeta Ronsard: Il poeta che profetizzava: Neptune quelquefois de blés sera couvert, / la matière demeure et la forme se perd[3], s'ingannava. In realtà, la materia evapora e il modello persiste (Ricorrenze nascoste, 1978, p. 61). 2. Una
favola che non significa nulla Teatro e
realtà, illusioni e certezze, sogno, incubo e
risvegli: torniamo a Shakespeare, ancora a uno dei
suoi passi più citati, per trovare una descrizione
perfetta della tragedia e dell'annientamento che
ogni uomo, anche se non ha le parole per
descriverla, sperimenta nei momenti di
disperazione, almeno nella sua intimità con se
stesso. Siamo alla fine del Macbeth,
quando al re viene annunciato che la regina è
morta suicida; così parla Macbeth: She should
have died hereafter; There would
have been a time for such a word. To-morrow,
and to-morrow, and to-morrow, Creeps in
this petty pace from day to day To the last
syllable of recorded time, And all our
yesterday have lighted fools The way to
dusty death. Out, out, brief candle! Life's but a
walking shadow, a poor player, That struts
and frets his hour upon the stage, And then is
heard no more; it is a tale Told by an
idiot, full of sound and fury, Signifying
nothing (Atto V, Sc.
5)[4]. La
vita è una favola: l'affermazione è dello
stesso ordine di quella che conclude il discorso
di Prospero: noi siamo della stessa sostanza
di cui sono fatti i sogni. Ho fatto
entrare Shakespeare in questo libro, fin dal
titolo, grazie all'assoluta libertà di cui può
godere ogni lettore, di appropriarsi a suo modo di
qualunque cosa sia stata scritta e perciò affidata
al successivo gioco della lettura e della
scrittura. Che non la esaurisce né la imprigiona,
né può, se non apparentemente, travisarla o
avvilirla, perché la forza viene alle parole
dall'indomabile potenza del desiderio, che si
lascia legare soltanto nei versi e nelle vicende
ricche di senso. Resta potente e indomabile,
perché, pur fissato in una forma, la dilata e la
rende sottile come un incantesimo, per
diffondersi, oltre che per dissolversi, nell'aria,
nell'aria sottile. In grazia di quale
attitudine, ricchezza, bisogno umano questo può
accadere? Prima di
tentare di descrivere dove mi trovo per la mia
ricerca originata da questa domanda, devo dire
qualcosa di Macbeth, che ha creduto negli spiriti,
creature dell'illusione che possono apparire
assolutamente reali. Al ritorno da una battaglia
vittoriosa, a buon diritto certo di ricevere premi
e onori dal suo re, Macbeth incontra tre streghe,
che lo salutano con un titolo che non ha mai
avuto, e gli predicono che diverrà re lui stesso.
Quando gli viene comunicato che il vecchio re gli
ha conferito proprio il titolo col quale lo hanno
salutato le streghe, insieme a Lady Macbeth si
chiede se debba prestar fede anche alla seconda
parte della profezia, e come sia possibile che
avvenga. Spinto dalla sua ambizione e dalla sua
sposa, Macbeth agisce perché questo destino si
attui, per fare della realtà il campo del suo
sogno: fa assassinare il re suo ospite e prende il
potere. Più che di sogno si tratta di delirio,
perché mentre chiamiamo sogno qualcosa che vive
entro limiti che non coincidono mai con quelli
della realtà del giorno, che condividiamo con gli
altri, che sono segnati dalla norma, dalla legge,
dal linguaggio comune, possiamo chiamare delirio
la sovrapposizione a questa realtà di un piano
fantastico, che ha una tale presa adesiva da
confondersi totalmente con essa. Le parole di
Macbeth che abbiamo citato rappresentano il
panorama del soggetto quando la fusione tra
delirio e realtà è avvenuta, e l'azione
conseguente si è data senza limiti. A
proposito della realtà degli spiriti e delle loro
previsioni, ricordiamo che Macbeth, dopo aver
ucciso il suo re, e tutti coloro che si
frappongono alla realizzazione del suo potere, è
perseguitato dai fantasmi, e torna a visitare le
streghe. Gli spiriti che esse evocano gli dicono
che nessun uomo partorito da donna potrà mai
sconfiggerlo, e che il suo regno durerà fino a che
la foresta di Birnam non salirà al suo castello. Alla fine
l'esercito che viene a combatterlo sale come un
bosco semovente, perché ogni soldato avanza
schermandosi con un grosso ramo degli alberi di
Birnam. Macbeth non può più svegliarsi dal suo
delirio, che attribuisce al demonio: I pull in
resolution, and begin To doubt th'
equivocation of the fiend That lies
like truth. (Ivi) [5] Poi,
quando il suo avversario gli rivela di non essere
stato partorito da donna, perché è stato estratto
anzitempo con un taglio da sua madre, prima di
affrontarlo in duello e morire, esclama: And be this
juggling fiends no more believ'd That palter
with us in a double sense, That keep
the word of promise to our ear, And break it
to our hope! (Ivi) [6] Ciò che
Macbeth non ha capito, e che neppure di fronte
alla morte capisce, è che i demoni non sono fuori
di lui. Macbeth non comprende la natura simbolica
delle parole, e la sua tragedia è preceduta e
causata dall'incomprensione per la natura
finzionale del linguaggio. Finzione viene dal latino fingere,
a sua volta dal nome fingulus, che
significa vasaio. Dare forma al vaso che
senza l'attività umana non esiste, alla materia
che si lascia plasmare e cuocere per trasformarsi
in un contenitore utile agli uomini è un'opera
analoga alla formazione del linguaggio, che
articola alcuni suoni secondo regole condivise. La
confusione tra la cosa e la lingua, tra la propria
tensione verso un oggetto e la natura della
relazione che ne può nascere, porta a non
considerare, insieme alle regole del linguaggio,
che svela e cela, il cui senso non è univoco né
definitivo, le regole che gli uomini hanno
stabilito e che mantengono per vivere insieme.
Nessuna profezia, nessuna promessa, nessuna
formula magica, vale indipendentemente dal
contesto in cui viene offerta, ricevuta, usata.
Confondere il prodotto, la forma manifesta della
formula o della poesia, con la realtà, o con la
verità assoluta, significa dimenticare che
dipendono dalle relazioni che gli uomini sono
riusciti a costruire fra loro, trasformandosi
quotidianamente nell'ambito di queste stesse
relazioni. 3.
Storie false che sembrano vere Arte e artificiale
hanno la stessa matrice, anche se il secondo
termine ha oggi un'accezione negativa, che lo
contrappone a naturale: ma la cultura, le
leggi dell'uomo, i suoi racconti e le sue parole,
senza l'opera dell'uomo non esistono. Scrive Roger
Caillois: Ecco dunque dove sta l'essenza dell'arte. Un'avventura sulla quale, fino all'ultimo, regna un'incertezza pericolosa e salutare. Da questa singolare ipoteca sono esenti la linfa e l'ingranaggio, che si assomigliano nella stessa certezza dei loro prodotti e nella stessa cecità della loro operazione (Babele, 1948, p. 70). Il campo
dell'uomo è la sua cultura, nella quale si muove
in rapporto con la sua stessa vita interiore, e
con gli altri uomini, sia suoi contemporanei, che
passati e futuri. La cultura, che si trasmette e
si trasforma quotidianamente attraverso il
linguaggio, può essere immaginata come
un'estensione illimitata dell'addestramento che
l'animale riceve dal genitore e che trasmette ai
suoi piccoli; essa lega tutti gli uomini con un
vincolo forte come quello che tiene insieme una
famiglia di animali, ma si ramifica in una
complessità infinita.
Vi sono storie che hanno un significato, e quindi
un valore, per tanti secoli e sotto tutti i cieli,
in forme diverse eppure strettamente apparentate.
Abbiamo scelto di analizzare Cenerentola, che
viene narrata da oltre mille anni, in tutto il
mondo, ma vi sono innumerevoli fiabe e miti
egualmente pregnanti. In greco
mìthos significava sia parola che racconto,
e il racconto, nelle sue innumerevoli forme, è la
casa della parola. Il greco Esiodo, ottocento anni
prima di Cristo, ci ha raccontato nella Teogonia
delle prime generazioni degli dei. Nel suo testo,
mitico per eccellenza, ci è dato osservare l'unità
di racconto e parola: la nascita delle divinità
Terra (Gaia), Cielo (Urano), Notte e Oceano, è
l'origine delle realtà fisiche che personificano,
e allo stesso tempo dei nomi che le designano da
allora, rimasti in vigore, in molti casi, fino al
nostro tempo. Esiodo si presenta a noi come un
pastore, intento alla cura del suo gregge, che le
Muse richiamano al loro servizio, offrendogli il
canto: questo è allo stesso tempo il dono della
poesia e del suo contenuto, le storie da celebrare
con il canto. Le Muse sono figlie della dea
Memoria (Mnemosine) e del sovrano degli dei
olimpici, Zeus, che ha fissato limiti e domini per
gli dei e per gli uomini. I limiti di cui Zeus è
fondatore e tutore rappresentano la legge, il
principio che mantiene la continuità nella vita
degli esseri umani, che per i greci era necessario
per la stabilità degli stessi dei olimpici. Quando le
nove Muse, che sono la personificazione di tutte
le arti, si rivolgono a Esiodo, cominciano con
queste parole: poimeneV agrauloi, kak' elegcea,
gastereV oion, idmen yeudea polla legein etumoisin
omoia, idmen d', eut' eqelwmen, alhqea
ghrusasqai (vv. 26-28)[7] Le Muse
definiscono la condizione di Esiodo come limitata
e chiusa nella sua corporeità, nient'altro che
ventre: rappresentazione di un senso della
vita che si considera solo materia, insieme
oggettivo di dati, di eventi misurabili e
descrivibili come pecore da vendere o erba da
tagliare. A questa definizione dell'essere umano,
cieco e limitato nella sua convinzione che si
possa parlare senza fare i conti con la natura
finzionale del linguaggio, segue immediatamente
l'affermazione delle Muse, che come tutta l'arte
significano proprio questa natura finzionale, che
si gioca nella parola, nel racconto, nel simbolo.
Chi garantisce a Esiodo che le nove fanciulle gli
racconteranno storie vere, visto che loro stesse
lo hanno avvertito che anche quando raccontano
storie false le fanno apparire vere? Non è per la
certezza sulla verità della storia che Esiodo si
disinteressa da quel momento di tutto quello che
non è poesia, mito, canto: è perché le Muse gli
hanno donato la comprensione della natura del
linguaggio. Chi
credesse che la cosa, posta in questi termini da
quasi duemila anni, sia chiara, farebbe un errore
tale da impedirgli la comprensione non solo delle
storie, ma del senso stesso della vita umana. Ciò
che vale è il gioco degli affetti tra gli uomini,
che proprio mediante il carattere finzionale del
linguaggio possono rappresentare la loro realtà
intima e quella degli altri, costruendo relazioni
e apprendendo dall'esperienza. Tra la sua natura
personale, unica e irrepetibile, e i suoi legami
con gli altri, l'uomo
può crescere solo se rafforza la prima arricchendo
allo stesso tempo le articolazioni con questi
legami. Scrive Wilhelm von Humboldt: ...Lottando profondamente nel suo intimo
per tendere verso quell'unità e totalità, l'uomo
vorrebbe trascendere i limiti della sua
individualità, ma poiché, simile al gigante che solo
riceve la sua forza dal contatto con la madre terra,
ha la sua potenza soltanto in essa, è costretto ad
accrescere proprio la sua individualità in questa
superiore lotta. Qui, in modo davvero meraviglioso,
gli viene ora in aiuto il linguaggio, che unisce
anche quando isola e che, nella veste della più
individuale espressione, racchiude la possibilità di
universale intelligenza. Il singolo, dove, quando e
come vive, è un frammento staccato di tutta la sua
stirpe, e il linguaggio dimostra e mantiene questo
eterno nesso che guida il destino del singolo e la
storia del mondo (Über die Verschiedenbeiten des
menschlichen Sprachbaues, cit. da Ernst
Cassirer, Filosofia delle forme simboliche,
1923; vol. I, p. 118). Il
racconto è la casa del linguaggio, e le fiabe e i
miti, fra queste case, sono le più resistenti nel
tempo e le più abitate sotto ogni cielo. Come il
sogno notturno è indispensabile, col suo gioco
solo in apparenza arbitrario, al nostro equilibrio
psichico, così il racconto collettivo, quello nel
quale ogni essere umano può rispecchiarsi, per
arricchire la sua consapevolezza di sé, di ciò che
vale nella sua intimità, mantiene una trama
profonda che consente di rappresentare, con la
massima chiarezza possibile, i bisogni e i
desideri che accomunano tutti gli esseri umani.
Studiarli significa lavorare per comprendere la
cultura dell'uomo, che è la sua specifica natura[8]. Da
pastore Esiodo ignorava di aver a che fare con
simboli, credendo che la sua pancia e le sue
pecore fossero la sola vera realtà, ma le Muse gli
impongono di seguirle, e gli conferiscono il dono
più bello, loro che hanno lingue sciolte, e parole
dolci come il miele. Imposizione e dono, il mito,
come parola e come racconto, rendono
meravigliosamente e irrimediabilmente incerta la
comunicazione tra uomini. Leggiamo ancora von
Humboldt: Gli uomini s'intendono fra loro non per il fatto che si scambino realmente i simboli delle cose, e neppure per il fatto che si determinino l'un l'altro nel produrre esattamente e perfettamente lo stesso concetto, ma per il fatto che reciprocamente toccano l'uno nell'altro lo stesso anello della catena delle loro rappresentazioni sensibili e delle loro produzioni concettuali, battono gli stessi tasti del loro strumento spirituale, e in conseguenza di ciò scaturiscono allora in ciascuno concetti corrispondenti, ma che non sono gli stessi. ...Se ...in questa maniera vengono toccati l'anello della catena, il tasto dello strumento, vibra allora tutto il complesso, e ciò che scaturisce dall'anima come concetto si trova in accordo con tutto quello che circonda il singolo anello fino alla più remota lontananza (Ivi, p. 122).
........(vv. 96-113) [9] 4. Far credito alla storia
dove sembra impossibile La gioia
e la disperazione, lo stallo e la trasformazione,
riconoscersi o perdersi, l'incantesimo che fa
diventare belli o brutti, non dipendono dalla
natura illusoria del linguaggio, che Macbeth
attribuiva ai demoni e alle streghe. La
trasformazione si manifesta in una trama che
sembra la stessa di una storia alla quale manca il
lieto fine, come abbiamo visto nel capitolo VI,
quando i protagonisti della fiaba di Bianco
viso, anziché salire al trono e vivere per
sempre felici e contenti, sono accomunati dalla
morte prematura e violenta. Noi non
sappiamo nulla delle ragioni segrete di questa
trama, tranne un punto che riguarda la posizione
del soggetto: i protagonisti delle fiabe a lieto
fine sono sempre pronti ad ascoltare, a chiedere
aiuto, a offrirlo, a unirsi a qualcuno in un
tratto del loro cammino. Questo fa una differenza
essenziale, e appare come una disponibilità a
giocare il proprio desiderio fino in fondo, che si
articola e si intreccia con tutti gli elementi, di
qualunque segno, che si presentano lungo la via.
Le fanciulle delle fiabe non sono buone in senso
moralistico: c'è la Bella Caterina di Nerucci, che
vedendo i gattini maldestri nella cucina delle
fate si mette a fare le faccende per loro, ma c'è
anche la Cenerentola di Basile che rompe l'osso
del collo alla matrigna. La Bella Caterina nella
sua disperazione viene interrogata da un vecchio
lungo la via, e gli narra la sua pena: quando il
vecchio le chiede di pettinarla lei lo fa con
cura, e quando lui le chiede cosa gli ha trovato
fra i capelli, che sono pieni di pidocchi, lei
risponde che ha visto oro e perle. "E
oro e perle avrai", le annuncia il vecchio,
che da bisognoso diventa aiutante (cit., p. 40).
Ma con la stessa leggerezza, per avere il sangue
necessario a completare l'unguento che potrà salvare dalla
morte il suo principe, una fanciulla di Basile non
esita a dare una bastonata alla volpe parlante che
l'ha accompagnata per praticarle un bel salasso.
Non comprende la fiaba chi legge in senso
moralistico lo stile d'azione dei suoi
protagonisti, guidati da un senso nella storia che
si comprende solo riconoscendone i simboli. E i
simboli sono articolazioni indispensabili della
realtà psichica, non sostegni della morale, che
compete solo alla coscienza. I
protagonisti delle fiabe quando hanno una pianta
la coltivano, se devono servire lo fanno senza
lamentarsi, sanno rinunciare a un tesoro
inestimabile appena emerso da una caverna
sotterranea senza esitare, e se è necessario
uccidono l'animale parlante che li accompagna.
Essi rappresentano l'azione che si dà seguendo il
proprio desiderio, ma questa azione è
caratterizzata da bordi sfrangiati, aperti al
contatto con tutto ciò che si presenta, che
comparendo nel racconto riguarda il soggetto. La
loro traiettoria è diretta verso la meta, ma si
struttura secondo continue deviazioni, percorsi
imprevedibili, spirali, labirinti. Essi scelgono
un sentiero come il fratello più piccolo di una
fiaba antica, seguendo il canto dell' usignolo, o
come il principe Ivan, che abbiamo già ricordato,
che lanciò un gomitolo e ne seguì il filo. Dubitare
della veridicità di ciò che vediamo e
comprendiamo, vacillare nel momento stesso in cui
sentiamo di pervenire a una certezza, mantenerci
fedeli a una persona o a una ricerca ascoltando la
voce che a tratti ci dice che non ne vale la pena,
convincente come le ingannevoli voci delle
streghe: questo caratterizza la posizione del
soggetto che si trasforma nell'esperienza. Solo in
questo percorso il soggetto sperimenta e
arricchisce il Wirklichkeitsgefül, il sentimento
della verità, di cui parla Freud, di regola
ricordato nella nostra lingua come senso della
realtà. Il sentimento della verità è una
posizione del soggetto il cui desiderio ha i bordi
aperti come quello dei protagonisti di fiaba, del
soggetto la cui esperienza della propria
soggettività cresce come la ricchezza delle sue
relazioni con gli altri. Il senso di realtà spesso
è equivocato con la convinzione di conoscere,
ormai, la vera realtà, perché non ci si illude più
sulla sua capacità di eludere e mettere in scacco
il desiderio. Mentre il sentimento della verità
non può che essere nella volontaria e involontaria
trasformazione del soggetto che apprende
dall'esperienza. Andiamo a
trovare in Shakespeare le parole per descrivere
poeticamente questo concetto, che richiama
l'incertezza, la vaghezza del senso della parola e
del racconto, ma non la attribuisce al demone
ingannatore. Nel Pericle principe di Tiro,
di cui abbiamo parlato nel capitolo III a
proposito dell'incesto, il protagonista affida
alle acque la bara della giovane sposa morta di
parto, e consegna la figlia neonata a una coppia
amica in una città di mare. Dopo quindici anni
torna a prenderla, ma i genitori ai quali l'ha
affidata piangendo gli mostrano la sua tomba.
Allora Pericle giura che vivrà per sempre nel
lutto, senza più radersi, né lavarsi, né vestirsi
d'altro che di sacco. Sua figlia Marina in realtà
è stata rapita dai pirati e venduta al tenutario
del bordello di Mitilene: grazie alla sua
straordinaria capacità di raccontare la storia
della propria vita, gli aspiranti clienti si
impietosiscono, e le danno del denaro senza farla
prostituire. In un giorno di festa approda a
Mitilene la nave di Pericle, che giace sul letto
in una tenda. Il governatore della città manda da
lui Marina perché lo distolga dalla disperazione
con i suoi racconti pieni di grazia, e quando lei
gli dice che la storia della propria vita è forse
ancora più dolorosa di quella di lui, Pericle la
prega di raccontarla, e Marina esprime la sua
esitazione: If I should
tell my history, it would seem like lies,
disdain'd in the reporting (A. V, Sc. 1)[10]. Marina
non poteva avere la stessa fiducia delle Muse
nell'arte del racconto, ma il padre le dice:
I will believe
thee, And make my
senses credit thy relation To points
that seem impossible; for thou lookest like one I
lov'd indeed (Ivi) [11]. Pericle,
che ha pianto sulla sua tomba, non potrebbe
credere al suo racconto, ma vuole darle darà
credito proprio dove i suoi sensi lo
troveranno impossibile, invece di giudicarlo una
storia falsa. Marina somiglia alla madre, la sposa
che Pericle ha composto nella bara: è il suo
desiderio per quell'amore che, riconosciuto, gli
consente di affrontare l'insostenibile vaghezza
del senso. Mano a
mano che Marina narra la sua vita, Pericle
comincia a credere che si tratti di sua figlia, ma
la differenza tra ciò che ha creduto vero e reale
fino a quel punto e le parole di lei è tale che,
come temendo di subire un inganno insopportabile,
a un certo punto esclama:
O, stop
there a little! [Aside] This
is the rarest dream that e'er dull sleep Did mock sad
fools withal. This cannot be: My
daughter's buried. - Well, where were you bred? I'll hear
you more, to th' bottom of your story, And never
interrupt you (Ivi)[12]. Un
racconto a cui prestare credito proprio dove
sembra impossibile, da ascoltare senza
interromperlo fino alla fine: questa è la
condizione di tolleranza della vaghezza del senso
che sola permette la trasformazione. Così i nostri
sogni notturni si presentano insensati, come se
demoni o dei li mandassero per beffarci o per
soccorrerci, fino a che la nostra coscienza non
smette di combattere il carattere finzionale,
artificiale o artistico, del linguaggio e del
gioco delle figure. La natura artificiale,
incerta, mai definitiva, del linguaggio, è il
carattere della realtà psichica dell'uomo, e del
suo mondo stesso come campo di esperienza e di
conoscenza. Che viene travisata da chi pretende di
descriverla come un ordine assoluto, pesabile e
misurabile in ogni parte. Ma la comprensione di
questa natura è altrettanto impossibile per chi
creda che esista una chiave simbolica, allegorica,
iniziatica, entrando in possesso della quale il
mistero possa svelarsi. Occorre tollerare la
vaghezza, l'erranza, l'incertezza, ma non
riprodurle, come occorre cercare punti di
chiarezza senza pretendere di fissarli per sempre.
5. Una
magia lecita come mangiare Quando ho
intrapreso lo studio psicoanalitico della fiaba e
del mito, ho seguito, come un filo, l'intuizione
di una verità nel racconto e sul racconto. La mia
meta, fornire una buona descrizione di questa
verità evidente e inafferabile, non si è
allontanata, ma io non mi sono avvicinata, pur
camminando, e quello che ho scritto è
semplicemente la descrizione di qualche tratto del
mio errare. Ha richiamato dell'attenzione, ma mi
piacerebbe che avesse suscitato in qualche
lettore, per le risonanze imprevedibili del
linguaggio, il desiderio di mettersi in cammino
per conto proprio. Concludendo
questo saggio, non posso fare a meno di esprimere,
scusandomi per la loro approssimazione, qualche
parola sulla meta, sull'intuizione che traccia il
sentiero della mia ricerca. C'è nelle
fiabe una geometria rigorosa, possibile da
evocare, da commentare senza tradirla, ma
impossibile da descrivere. Mi è
parso di trovare in certe nuove teorizzazioni
delle scienze dure, come nella teoria
delle catastrofi del matematico René Thom, dei
modelli di descrizione preziosi, ma che non posso
utilizzare, non essendo il caso di affrontare le
difficoltà e le aporie di questa ricerca con temi
e concetti embricati a terreni di lavoro, come la
matematica, sui quali non so muovere un passo. Ma
è qualcosa che secondo me René Thom ha in mente,
ad esempio quando annota: ...La geometria euclidea classica si può considerare come una magia: al prezzo di una distorsione minima delle apparenze (il punto senza estensione, la retta senza spessore...), il linguaggio puramente formale della geometria descrive adeguatamente la realtà spaziale. In questo senso, si potrebbe dire che la geometria è una magia che ha successo. Mi piacerebbe enunciare la reciproca: ogni magia, nella misura in cui ha successo, non è necessariamente una geometria? (René Thom, Stabilità strutturale e morfogenesi, 1972, p. 15, nota 4) Ho
tentato diverse volte, con risultati sempre
deludenti, di contribuire a questo enunciato a
proposito della magia della fiaba, accostando
certi elementi della teoria delle catastrofi con
le azioni della fiaba, partendo dalle funzioni
della morfologia rivisitate con le teorie
psicoanalitiche[13]. Nell'ambito di scienze
che fino a pochi decenni fa operavano fidando di
dare descrizioni certe di fenomeni ripetibili e
misurabili, sono entrati oggetti così complessi,
come i quanti o gli infiniti, che impongono
teorizzazioni nuove, e un nuovo linguaggio, che
consenta l'elaborazione di nuovi modelli. Le
discipline che si avvalgono del linguaggio comune
a tutti, e non hanno, né possono avere, un lessico
specialistico noto solo ai ricercatori, e
condiviso da tutti loro, possono descrivere
oggetti complessi, come la realtà psichica, ma non
riescono a fondare un'epistemologia grazie alla
quale sia possibile costruire un linguaggio
specialistico che consenta loro di intendersi su
qualcosa senza equivoci, di trovarsi d'accordo e
di dissentire senza che ogni ulteriore
teorizzazione implichi un'apparente distruzione e
ricostruzione dell'edificio. Occorrerebbe
il concorso di molti ricercatori per sperare di
procedere verso un'epistemologia rigorosa, che
però non implichi un linguaggio specialistico
privo della vaghezza del linguaggio verbale comune
a tutti: ammesso che ne sia mai esistito uno, se
non nell'autorevole e autoritaria affermazione di
certi scienziati, questo lessico non avrebbe
infatti alcuna probabilità di far avanzare la
comprensione di oggetti complessi come la fiaba o
il mito, che intendiamo come riflessi
dell'infinita e vitale complessità della realtà
psichica. Ciò che
si dovrebbe tentare di descrivere sono le costanti
che in questa complessità è possibile cogliere:
riuscire a dar conto della ragione rigorosa che
rende possibile far diagnosi interpretando un
sogno o un lapsus, la cui descrizione può
risultare arida o apparire romanzesca, o
addirittura una mistificazione. Descrivere come
una geometria della mente, certo a più di tre o
quattro dimensioni, come le costanti di
un'equilibrio psichico e della sua perdita, come
normalità e patologia siano pensabili secondo la
diversa disposizione e proporzione delle stesse
figure. Descrivere come una minima variazione
permetta in certi momenti a un essere umano di
riprendere il suo cammino esprimendo la sua
unicità, o lo abbatta, chiudendolo nella follia. Per ora
le descrizioni migliori restano l'arte del
racconto e della poesia. Come Pericle principe di
Tiro non poteva credere alle sue orecchie, il re
del Racconto d'inverno non può credere ai
suoi occhi, quando, certo che la moglie è morta da
molto tempo, e ammirandone una statua, la vede
animarsi. Così esprime il desiderio che marca la
sospensione della differenza tra inanimato e
animato, tra morto e vivo, quel confine tra
possibile e impossibile che costituisce
l'insopportabile vaghezza nell'esperienza di ogni
uomo: If this is
magic, let it be an art Lawful as
eating (A. V, Sc.
3) [14]. Nella
realtà psichica, rappresentata dai sogni notturni,
dalle fiabe e dai miti, possiamo riconoscere
questa potenza, apparentemente magica, della
trasformazione. Ciò accade nell'esperienza di
diagnosi e cura dello psicoanalista, e se
descrivere come accade è difficile, non per questo
è consentito rinunciarvi. Anche se non potesse mai
portare a una descrizione che renda conto in
maniera chiara e soddisfacente del processo al
quale è dedicata, si potrebbe ricordare René Thom
quando alla fine della sua opera che non vince la
vaghezza scrive: Una gran parte delle mie affermazioni riguardano pura speculazione; si potrà senza dubbio tacciarle di fantasticherie... Accetto tale qualifica; la fantasticheria non è forse la catastrofe virtuale con cui si inizia la conoscenza? Nel momento in cui tanti studiosi calcolano, in qualche parte del mondo, non è auspicabile che qualcuno, che lo può, sogni? (Thom, 1972, cit., pp. 366-367) Chi pensa
o sente che questa potenza opera secondo leggi
geometriche, anche se non sa ancora descriverle,
trova nella variegata costanza delle fiabe e dei
miti una terra promettente. Anche quando
coltivandola non si ottiene il frutto sperato, il
raccolto non delude, e la vista è sublime. Si vola
nel tempo e nello spazio, come nella propria
intimità, per comprendere quanto sia vasta, ampia
e articolata la realtà di ogni essere umano. Il
volo è permesso perché le regole del gioco qui
possono modificarsi come nel sogno, obbedendo a
una costanza segreta. Torniamo
al tema del libro, a Cenerentola come figura della
crescita femminile, che si dilata, si rappresenta
in mille e una forma, e si sottrae al pensiero
dell'uomo come della donna, perché incarnando e
significando la vita che fugge, si occulta, e
torna a fiorire, impone, perché il pensiero non
arretri terrorizzato, di accogliere la vaghezza
che allude al limite tra notte e giorno, vita e
morte, inconscio e coscienza. Il sole è così
potente e generoso che illumina e scalda persino,
come dice il poema indiano Mahabarata, i
suoi bestemmiatori, ma si perde nella notte: se
non fosse per quella luce lieve della luna che
rischiara le tenebre col suo riflesso. Pensiamo
alla somma dea Iside, che alla morte dello sposo
fratello, Osiride, si traveste e si nasconde nel
lutto, come Cenerentola, la sua piccola e grande
parente di fiaba. Occultandosi si mette in cammino
per ricercare il chiarore del dio Osiride, il
sole, fino a quando non ne ricompone il corpo
smembrato e perduto perché possa rinascere. Le
divinità che attraversano il buio, la notte, la
morte, hanno un'irregolarità misteriosa,
appartengono a un'area figurale dove possiamo
riconoscere Cenerentola, Pelle d'Asino, Cordelia,
con la loro alternanza di bellezza e bruttezza, la
dea Iside che come lei si traveste nel lutto,
Demetra che si occulta avendo perso la figlia,
Kore. Dove possiamo riconoscere divinità maschili
ma non solari, contrassegnate dallo smembramento e
dall'estasi, come Dioniso. O come il dio fabbro
Efesto, zoppicante da entrambi i lati: a lui e ai
Ciclopi ai quali è legato con molteplici parentele
gli dei devono la potenza del fuoco che si accende
nel giorno come nella notte. Il fulmine è l'arma
che consente a Zeus di regnare. Alle divinità che
possono attraversare o abitare le tenebre senza
smarrirsi, proprio grazie al loro movimento non
diretto, ma vago, apparentemente incerto, errante,
come il fabbro Efesto che zoppica da entrambi i
lati, o come Prometeo il cui pensiero procede per
angoli, serpeggiando (ankulomètes), gli uomini
devono la potenza del fuoco, per illuminare le
tenebre e forgiare i metalli. Il lavoro
del fingulus, del vasaio, che finge, dà forma con
arte alla materia, e la modella secondo le
necessità dell'uomo, rappresenta la cultura
stessa, che vince le tenebre che ogni sera
sconfiggono, irrimediabilmente, la luce del sole.
Nella
dimora del Tempo del Cunto de li cunti solo
il simbolo, nello stemma sulla porta, non è
logorato, e la fanciulla quando entra toglie i
contrappesi all'orologio e lo ferma: così il
divoratore di città deve rivelarle come potranno
tornare umani i suoi sette fratelli colombini. Una
gola smisurata come la voracità del Tempo della
fiaba è quella del lupo Fenrir, che in uno
scenario di distruzione apocalittica salirà dalle
tenebre per ingoiare tutto: se lo facesse il mondo
non potrebbe rinascere dalle sue ceneri. Leggiamo
la storia norrena scritta quasi mille anni fa: Il lupo Fenrir giungerà con le fauci spalancate, la mascella superiore puntata contro il cielo e l'inferiore contro la terra, e le spalancherebbe ancor di più se ci fosse spazio bastante. Fuoco gli uscirà dagli occhi e dalle nari. Il lupo ingoierà Odhin, questa sarà la sua morte. Ma subito dopo Vidharr si volgerà e pianterà un piede sulla mascella del lupo - questo piede è calzato di una scarpa il cui materiale è stato raccolto attraverso tutti i tempi: sono i ritagli di cuoio che gli uomini taglian via dalle scarpe per l'alluce e per il tacco, perciò colui che vuol esser d'aiuto agli Asi deve gettar via questi ritagli. Con una mano egli afferra l'altra mascella del lupo e gli lacera le fauci, e questa sarà la morte del lupo (Snorri Sturlusen, Edda, 1975; p. 119). Dopo che
Odino è stato divorato dal lupo si fa avanti un
dio la cui spinta parte dal passo, dal piede, che
trae la sua presa irresistibile dalla calzatura:
gli esseri umani che vogliono aiutare Vidharr a
salvare il mondo non devono riutilizzare i
pezzetti di cuoio che tolgono in corrispondenza
dell'alluce e del tallone. Ciò che gli uomini nel
loro lavoro scartano, rinunciando a riutilizzarlo,
è il mezzo della salvezza di fronte alla gola
smisurata. Freud ha
dato forma alla psicoanalisi analizzando il sogno,
fino a quel punto considerato insignificante, si è
occupato di sintomi come la paralisi isterica, che
la medicina scartava perché non avevano un
fondamento verificabile. Ha scritto sul lapsus,
che nel linguaggio è la parte scartata, avendo
intuito che con i mezzi della scienza che domina
la realtà fissando certezze e ignorando le cose
insopportabilmente vaghe non avrebbe proceduto
nella comprensione e nella cura del dolore dei
suoi pazienti nervosi. Ciò che fino a quel
momento era scartato, inconscio, conteneva il
segreto per una nuova forma di cura. La
psicoanalisi ha descritto in maniera definitiva la
vaghezza del confine tra normalità e patologia.
Una verità presente da tempi lontani, ma solo in
forma iniziatica: gli alchimisti affermavano che
la pietra filosofale, capace di trasformare in oro
tutti i metalli, ha un aspetto vile e comune, e si
trova nello sterco: in stercore invenitur.
La luna è
nella cenere, per chi abbia la pazienza e l'arte
di cercarla. [1] State di buon animo,
messere. I nostri svaghi sono finiti. Questi
nostri attori, come vi ho già detto, erano
tutti degli spiriti, e si sono dissolti in
aria, in aria sottile. Così, come il non
fondato edifizio di questa visione, si
dissolveranno le torri, le cui cime toccano le
nubi, i sontuosi palazzi, i solenni templi, lo
stesso immenso globo e tutto ciò che esso
contiene, e, al pari di questo incorporeo
spettacolo svanito, non lasceranno dietro di
sé la più piccola traccia. Noi siamo della
stessa sostanza di cui sono fatti i sogni, e
la nostra breve vita è circondata da un sonno
(Tutte le opere, cit., p. 1207). [2]
Ora ascolta bene, bella figlia mia
senza peccato, devi sapere che proprio in cima
a quella montagna troverai una casa così
vecchia che non è possibile ricordare quando
fu costruita: le mura sono incrinate, le
fondamenta fradice, le porte tarlate, i mobili
ammuffiti e insomma qualsiasi cosa è consunta
e a pezzi: da qua vedi colonne rotte, da là
statue spezzate, non c'è niente altro di
intero se non uno stemma inquartato sulla
porta, dove vedrai un serpente che si morde la
coda, un cervo, un corvo e una fenice. Appena
entrata vedrai a terra lime sorde, seghe,
falci e falcetti e cento e cento paiolini di
cenere, con sopra scritti i nomi, come
alberelli [ma probabilmente meglio albanelle]
di speziale, dove si legge: Corinto, Sagunto,
Cartagine, Troia e mille altre città andate a
male, che conserva per ricordo delle sue
imprese (Ivi, pp. 801-803). [3]
Nettuno un giorno di biade sarà coperto
/ la materia rimane e la forma si perde. [4] Avrebbe
dovuto
morire più tardi / ci sarebbe stato il tempo
per una parola come questa. / Domani, e
domani, e domani, / striscia a piccoli passi
giorno dopo giorno / fino all'ultima sillaba
del tempo prescritto, / e tutti i nostri ieri
hanno illuminato a dei folli la via / per la
polvere della morte. Spegniti, breve candela!
/ La vita è solo un'ombra che cammina, un
povero attore, / che nella sua ora si
pavoneggia e si agita sulla scena, / e poi non
si sente più; è una favola / narrata da un
idiota, piena di rumore e di furia, / che non
significa nulla. [5]
Io batto nella mia risolutezza, e
comincio / a dubitare degli equivoci del
demonio / che mente come se fosse vero. [6]
Nessuno mai più creda a questi demoni
illusionisti / che ci menano per il naso in un
doppio senso / che mantengono la parola della
promessa al nostro orecchio / e la rompono
alla nostra speranza! [7]
Pastori campagnoli, mala genia, solo
pancia / sappiamo raccontare molte storie
false che sembrano vere / ma sappiamo anche,
quando vogliamo, far sentire le storie vere. [8]
Ritengo che la fiaba rappresenti la
dimensione individuale della psiche, mentre il
mito ne rappresenta la dimensione gruppale.
Nelle fiabe è presente la maturazione
psicologica in relazione alle figure familiari
e la conseguente realizzazione del desiderio
dell'unione felice con una persona dell'altro
sesso, che implica l'uscita dalla situazione
endogamica di partenza. Al centro del mito si
trova invece il gruppo, più vasto della
famiglia, sia clan, tribù o popolo, e ogni
mito riguarda una trasformazione irreversibile
considerata come un passaggio della civiltà,
che caratterizza la storia del soggetto ma
anche quella della sua comunità, intesa spesso
come l'umanità intera. In questa dimensione
gruppale il mito costituisce una figura di
rispecchiamento per il gruppo umano, più o
meno vasto: ma allo stesso tempo questa figura
di rispecchiamento riflette la dimensione
gruppale dell'individuo, il suo essere
strutturato come un gruppo formato dalle sue
figure genitoriali, o dai suoi oggetti interni
buoni e cattivi, dalle parti in crescita
intrecciate a quelle narcisistiche e
conservatrici, ecc. Si veda a questo proposito
W.R. Bion, Esperienze nei gruppi,
1971. [9]
Felice chi è amato dalle Muse: /
dolcemente dalla sua bocca scorre la voce, / e
se qualcuno ha un dolore che gli opprime
l'anima, / e gli dissecca il cuore, appena il
poeta, alunno delle Muse, / canta lo splendore
dei primi uomini e degli dei beati
dell'Olimpo, / si dissolve la sua angoscia,
passa qualunque dolore: / in un istante il
dono delle Muse divine ha allontanato la pena;
/ voi, figlie benedette di Zeus, donatemi il
bellissimo canto, / cantate la gloria della
nascita sacra degli immortali, / generati
dalla Terra e dal Cielo stellato, / narrate
della Notte tenebrosa, di chi nutrì il Mare
salato... [10]
Se narrassi la mia storia, sembrerebbe
/ una bugia, che si disprezza appena è
raccontata. [11]
Ti credo, e costringerò i miei sensi a
credere al tuo racconto anche dove appaia
inverosimile, perché tu somigli a una che
veramente amai (Tutte le opere, cit.,
p. 1110). [12]
Oh, fermatevi un momento. [A parte]
Questo è il sogno più strano con cui il
pesante sonno abbia mai beffato un triste
pazzo; non può essere. Mia figlia è sepolta.
Ebbene, dove foste allevata? Vi starò ancora a
sentire fino al fondo della vostra storia, e
non v'interromperò mai. (Ivi) [13]
René Thom accosta alle catastrofi
elementari, rappresentate da una
funzione e da una figura geometrica,
un'interpretazione spaziale, ossia un
sostantivo, e un'interpretazione temporale, un
verbo, nella sua accezione costruttiva e
distruttiva. Questa doppia connotazione
temporale, o doppia azione, collegata alla
catastrofe come cambiamento di stato, dà conto
dell'ambivalenza che caratterizza l'inconscio,
richiamando insieme gli archetipi junghiani,
con le loro polarità opposte e complementari
(vedi la Tavola delle catastrofi
elementari, in René Thom, Modelli
matematici della morfogenesi, 1980, p.
200-201). Per suggerire qualche possibile
accostamento, si possono osservare, fra le
catastrofi elementari, e le relative
morfologie archetipiche proposte da Thom, la farfalla
e il fungo. La farfalla (centro
organizzatore: V = x6;
dispiegamento universale: V = x6+ux4+vx3+wx2+tx),
ha come sostantivi la tasca e la
squama, e come verbi desquamarsi,
esfoliarsi, per la valenza distruttiva, donare,
ricevere, per la valenza costruttiva.
Non è difficile pensare alla XIV funzione di
Propp, designata dalla lettera Z,
relativa alla fornitura, al conseguimento
del mezzo magico (vedi: Vladimir Ja.
Propp, 1966; p. 49). Il fungo, ombelico
parabolico, (centro organizzatore:
V = x2y + y4;
dispiegamento universale: V = x2y
+ y4 +
wx2 +
ty2 -
ux - vy), ha come sostantivi il getto
(d'acqua), il fungo, la bocca, e come verbi infrangersi,
espellere, forare, tagliare per la
valenza distruttiva, mentre ha legare,
aprire, chiudere (la bocca) per la
valenza cotruttiva. A questa catastrofe
possiamo accostare le due funzioni accoppiate
XXV e XXVI (C e A), relative
alla proposta o imposizione di un compito
difficile, e al suo adempimento (Ivi,
pp. 65-66). [14]
Se questa è magia, vorrei che fosse
un'arte, / lecita come mangiare. |
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Bibliografia |
BIBLIOGRAFIA Avvertenze. Tutte le traduzioni che non recano in
calce alcuna indicazione sono dell'A. I testi dei bambini sono citati con
asoluta fedeltà, e provengono da originali in mio
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