L'educatore deve acquisire una
cultura psicoanalitica,
in assenza della quale l'oggetto della sua
ricerca,
il bambino, rimane un enigma inattingibile.
(Sigmund Freud)
1. La
vaghezza di Longiano
Un
gruppo di insegnanti di scuola dell'obbligo,
prevalentemente di scuola elementare, è con me nel
castello di Longiano, nel giugno 1997. Hanno
ascoltato le conferenze del corso nei due anni
precedenti, e nel settembre 1996 erano presenti
quando nel teatro di Longiano ho raccontato di Re
porco e dei bambini narratori. Tra i
duecentocinquanta insegnanti presenti nel teatro
settecentesco, circa venti hanno seguito il mio
breve seminario, e hanno individuato la
possibilità di continuare a incontrarsi durante
l'anno scolastico per sperimentare... che cosa?
E qui comincia la vaghezza, sia come bellezza,
prima di tutto del luogo in cui ci siamo
incontrati, con la rocca malatestiana, il teatro,
le colline della Romagna, mentre la vaghezza
dell'esperienza potrebbe connotarsi come grazia di
un lavoro nella scuola, ma anche dissolversi come
nebbia. La vaghezza della mia proposta
psicoanalitica nella scuola è da pensare come un
oggetto topologico, una palla o un toro, la cui
superficie può estroflettersi, invaginarsi,
estendersi fino a favorire un principio di dialogo
tra psicoanalisi e istituzione, o contrarsi fino a
un punto, e, quasi senza dimensione, scomparire.
Per fortuna il linguaggio come è preciso è fluido,
e mi soccorre nel momento in cui devo dire
qualcosa di questo lavoro di Longiano.
Certo la vaghezza come bellezza rigermoglia dai
bambini che avendo ascoltato la fiaba la
riscrivono o la disegnano, confortando
l'insegnante che non si è ritratto di fronte
all'incertezza, ai contorni mobili, sfumati, della
proposta psicoanalitica. Allora il principe porco
in Romagna quando incontra una sposa che lascia
che tutto sporco si strofini contro le sue vesti,
e poi lo copre perché non prenda freddo nella
notte, per umanizzarsi si leva la cotica,
come ha scritto un bambino di terza elementare.
E lo splendore dei corpi e delle anime, giovani e
principesche sotto lo sguardo di questi bambini,
come nelle fiabe è tutto nuovo e antico: questo è
il valore che i simboli custodiscono e che sempre
può rifiorire.
2. La
cotica clamorosa
La
storia di Re Porco, che ha dei punti di contatto
con la più celebre fiaba della Bella e della
Bestia, presenta con sapienza e leggerezza il
gioco affettivo senza il quale nessuna unione tra
maschile e femminile è possibile#. Prima di questo
incontro, grazie al quale cadrà per sempre la
romagnola e universale cotica, il
principe che era in tutto un porco aveva sposato
altre due belle fanciulle, che però aveva ucciso
la prima notte di nozze sentendo che volevano
pugnalarlo appena si fosse addormentato. Con la
terza sposa l'incontro d'amore miracolosamente
accade, come del resto senza un po' di magia non
ci si può incontrare e amare, e la nuova forza
dissolve la preoccupazione per l'identità, per
l'abito, mettendo fine alla separazione causata
dalla diversità.
È di un alunno di terza elementare la descrizione
perfetta della dinamica dell'accettazione del
principesuino da parte della terza sposa:
Quando
vide una fanciulla così ma così bella sporco e
puzzolente prese la rincorsa e le girò intorno
lei la fanciulla si chinò e lo grattava e la
regina li disse con la fanciulla ma non lo
metti da parte e le rispose di no, lo baciò e
lo accarezzò. La notte la fanciulla lo tenne
forte, la notte precedente si tolse la pelle
da porco e vienì fuori un giovane bellissimo e
vissero insieme felici e contenti.
Si
noti la scansione temporale, il ritmo della
trasformazione, che il bambino vuol significare
con la parola precedente, che non è nel
suo lessico quotidiano, ma noi comprendiamo bene,
e non abbiamo bisogno di sostituire seguente
a precedente. Ascoltiamo il suo racconto,
certi che imparerà, perché il prima e il dopo
nella fiaba indicano un ritmo possibile, umano,
per procedere dal caos al cosmo, dall'infelicità e
dalla maledizione iniziale, che significa il peso
della condizione umana, al lieto fine più dolce
del miele, che è utopia, speranza, e comunque
segno di un desiderio immortale.
Alle concezioni razionalistiche della realtà, per
le quali le cose sarebbero riducibili a oggetti
misurabili e pesabili, e che rispetto alla mente
sono sistemi conoscitivi più magici della cabala e
dell'astrologia, sfugge irrimediabilmente la fiaba
come tutto il simbolico. Gli sciocchi indicano ai
bambini come separare le figure e i luoghi,
disegnandoli e ritagliandoli per disporli su un
cartellone: gli immaginari da una parte, i reali
dall'altra. Eppure basta che l'insegnante lasci
emergere la sua propria vaghezza, e racconti una
fiaba come questa, e poi chieda ai bambini di
scrivere o disegnare qualcosa, da non valutare, da
non classificare, da non correggere, e almeno uno
nella classe gli rivelerà che sono piuttosto gli
adulti a ignorare la differenza tra ciò che
vediamo e tocchiamo da svegli, nel mondo
dell'esperienza che ci accomuna tutti, e ciò che
si manifesta nel luogo privato del sogno notturno
o della fantasticheria, come nel sogno a occhi
aperti o nell'angoscia. I bambini dichiarano il
loro bisogno di un'area di gioco dove possano
articolare le loro rappresentazioni private,
oniriche, angoscianti, come le loro speranze
migliori, con le parole che imparano dagli adulti,
e ci rassicurano sul fatto che l'esistenza delle
fate non modifica le loro percezioni dei banchi e
delle pareti dell'aula. Noi adulti dovremmo
ammettere che siamo incerti su cosa sia la vera
realtà, o almeno che dubitiamo spesso della sua
stabilità, e della nostra identità stessa: solo
così potremmo consentire ai bambini la
molteplicità dei loro piani di rappresentazione,
di cui hanno un profondo bisogno per crescere.
La bambina che parla ora coglie la relazione tra
ciò che è repellente e ciò che è bellissimo,
proponendoci un contenuto profondo che possiamo
considerare una luce nella notte del culto
dell'immagine idealizzata:
Io
avrei voluto essere Rosabianca perché ha
voluto amare il porco anche se era sporco e
puzzulente, ma alla fine ha avuto il meglio.
A me ha colpito molto quando c'erano le fate
perché fanno gli incantesimi, perché nel mondo
vero la magia non esiste e a me piacerebbe
ancora un mondo dove ci fossero le fate a fare
gli incantesimi.
A
proposito del bisogno di attraversare piani di
rappresentazione fantastici e simbolici, parla
chiaro anche il disegno di una bambina di terza
elementare, dove si vede la scena iniziale, in cui
tre fate fanno ingravidare la regina sterile, ma
il loro incantesimo prevede che il principe
nascerà come un porco. La bambina, di terza
elementare, ci presenta la regina e una sola fata,
entrambe magrissime. Ma sull'abito della regina ci
sono fiori come sulla Primavera di Botticelli,
particolare ricorrente nei disegni, e la fata ha
delle grandi ali, che compensano la sua
femminilità lesa. In alto ha scritto:
E'
il momento che mi è piaciuto di più perché mi
sembra impossibile che la fata possa leggere
nel futuro
La
didascalia ci apre alla comprensione
dell'identificazione, che funziona in una
oscillazione feconda tra possibile e impossibile.
Proiettare la propria istanza di crescita, il
proprio desiderio, sui personaggi delle fiabe è un
processo normale come quello dei francesi che si
sono sentiti vittoriosi come i giocatori di calcio
della loro nazionale: in un gioco di
rappresentazione Rosabianca e Re Porco invitano i
bambini a muoversi con loro, come la squadra che
ha vinto i mondiali invita la Francia, e i bambini
lo accolgono, per donare alle antiche figure le
loro nuovissime parole.
L'accettazione nella fiaba comincia dai genitori:
quando anziché un bambino nasce un porcellino il
re padre vorrebbe buttarlo in mare, ma poi
riflette che per quanto brutto è sempre figlio
suo, e decide di farlo allevare come si deve.
Questo è il primo e indispensabile senso
dell'amore, il solo che quieta: che i genitori
amino il bambino perché è il loro, non perché è
adeguato a un'aspettativa più o meno sensata. Può
anche disattenderla, nascendo con la cotica e le
zanne, ma i genitori sanno che è il loro unico
figlio, e lo amano. Retorica moralistica? no,
verità psicologica, così come sanno bene questi
bambini, che non parlano per dimostrare nessuna
convinzione morale, né psicoanalitica, né
didattica. Riporto le didascalie di alcuni bei
disegni, cominciando da un alunno di seconda
media:
La
principessa fa i complimenti a suo figlio
anche se non è poi così perfetto:
- Sei carino! lo sai?
- Grazie!
È
ancora un maschietto, questa volta di terza
elementare, a disegnare una rappresentazione
gioiosa della relazione tra padre e figlio;
accanto al porcellino, sul quale spicca un
cartello con la scritta MAIALE, c'è il re che lo
accarezza, e nel fumetto dice:
Ciao
ciao bello amore del papà
Il porco saltava in braccio alla sua mamma e
con il suo grugnetto la baciava
Una
bambina delle elementari, dopo aver disegnato il
principe che torna a palazzo dopo essere stato a
rotolarsi nel letamaio, e va dalla madre che siede
sul trono e sorride elegante, scrive:
Il
porco saltava in braccio alla sua mamma e con
il suo grugnetto la baciava
Molti
bambini hanno rappresentato il luogo dove va a
rotolarsi il principe porco, e in due disegni
compaiono delle siringhe. Un bambino oltre alle
siringhe, tra lo sporco preferito dal principe
prima di umanizzarsi, ha raffigurato dei
flaconcini: sono medicine, come psicofarmaci? o
contengono pasticche di quelle in uso nelle notti
del sabato delle quali noi, gli adulti, gli
educatori, non vogliamo capire nulla? con la
pazienza che hanno i bambini quando vogliono farsi
capire dagli adulti ha messo anche un cartello con
la scritta: DROGA. Da questo particolare si
potrebbe partire per comprendere come sia
inadeguata un'educazione che pretende di
convincere i bambini che il mondo che abiteranno
se seguiranno alla lettera le indicazioni degli
adulti sarà bello, giusto, e facile da
comprendere: lo sporco amato dal principe animale
è la consuetudine con gli aspetti oscuri,
magmatici, ambigui, violenti, della nostra natura.
Ignorandoli o negandone l'esistenza non c'è
crescita possibile, perché ci costituiscono
insieme alle aspirazioni più nobili. Il bambino
che ha disegnato un cumulo di spazzatura, rifiuti,
ha trovato una rappresentazione per la droga, di
cui sente spesso parlare: nella fiaba c'è spazio
per raccontarla, in un tessuto narrativo che ne
prevede l'elaborazione. Questo bambino, come tutti
i bambini, anche se non riescono a dircelo, sa in
qualche modo che per crescere avrà bisogno di
qualcosa che gli educatori non gli danno, sente
che la vita può avere il sapore di un'avventura
meravigliosa, ma anche manifestarsi come una
tragedia mortale, per quanto glielo nascondiamo,
illudendolo che andrà tutto bene, come se vivere
la sessualità o elaborare le pulsioni aggressive
potesse essere semplice e non implicare molta
sofferenza. Leggiamo in Freud:
Che
l'educazione odierna nasconda al giovanetto
l'importanza che avrà nella sua vita la
sessualità non è l'unico rimprovero che si
deve rivolgerle. Essa pecca anche nel non
prepararlo alle aggressioni di cui è destinato
a diventare l'oggetto. Introducendo la
gioventù nella vita con un atteggiamento così
sbagliato, l'educazione si comporta come se si
equipaggiassero di vestiti da estate e di
carte dei laghi italiani persone che partono
per una spedizione polare. (1929, Il
disagio nella civiltà; trad. it. Opere,
vol. X, Boringhieri, Torino 1978; p. 620, n. 1)
Per
quanto Freud si facesse ben poche illusioni, forse
non avrebbe immaginato che la nostra impostazione
educativa sarebbe rimasta, settanta anni dopo,
altrettanto ottusa rispetto alla necessità di
offrire ai bambini e ai ragazzi occasioni e
strumenti per comprendere la complessità della
propria mente e per affrontare la drammaticità
dell'esistenza. Ma torniamo ai bambini per
consolarci, osservando quanto, nonostante noi,
riescano ad elaborare: se lo facciamo riusciremo a
rinunciare a concezioni della crescita che
pretendono di misurarla e definirla con sicurezza.
La vaghezza sarà allora sia bellezza che
incertezza, un'incertezza feconda.
Un bambino di quinta elementare disegna una camera
regale che, come tante altre, per i comodini e
l'armadio a quattro stagioni, sembra proprio la
camera di tutti i genitori, e nel lettone è
sdraiata la sposa, che, vestita un po' come una
contadina, invita il principe dicendo nel fumetto:
Amore
mio sdraiati vicino a me
E lui,
che è proprio un porcello, per quanto incoronato,
si alza sulle zampe posteriori e dice:
Puu!
Puu! mia dolcezza
Nel
disegno di un'alunna di seconda media il porco le
svela il suo segreto, col solito fumetto,
manifestando un'altra valenza della coppia
d'opposti animale e umano, sporco e pulito, brutto
e bello:
Io
non sono un porco ma sono un ragazzo educato
L'animalità
nella stessa fiaba viene anche rifiutata, come dal
padre quando sta per buttare al mare il neonato
porcino, perché è davvero repellente. Se pensiamo
al film disneyano in cui la Bestia incontra la
Bella, dobbiamo ammettere che si tratta di un
personaggio poco repellente e per nulla
perturbante. Mentre un bambino di terza elementare
è consapevole della vera difficoltà ad accogliere
questa dimensione, ben presente nelle fiabe
antiche, e racconta a suo modo del principe porco
che andò dalla madre a chiederle di procurargli
una sposa, e appena entrato a palazzo:
...perse
tutto il letame dietro di sé
Con
quella specie di disgustosa incontinenza il
principe animale difficilmente sarebbe riuscito a
sposarsi, e la madre non sembra proprio
incoraggiante:
...la
regina rispose che il porco era stupido e che
nessuno volesse sposarlo perché era sudicio
sporco e puzzolente.
Alla
non accettazione delle prime due spose, che
nascondono un pugnale sotto il cuscino per farlo
fuori, corrisponde la violenza della bestia, che
le trafigge con le zanne. Su questo punto i
bambini mi hanno fornito moltissime
rappresentazioni della possibile equivalenza tra
l'azione di penetrare sessualmente e di uccidere:
le spose giacciono sul lettone a pancia in su,
prima o dopo l'atto violento, con ferite
sanguinanti che per la loro ubicazione, al petto o
nell'area genitale, non lasciano dubbi, come non
lasciano dubbi le braccia aperte e l'abbandono a
volte rappresentato anche sul volto, e in qualche
caso tutt'altro che sofferente. Il porco, grosso e
ghignante, o minuscolo e spaurito, trionfante o
semplicemente soddisfatto, guarda il corpo
femminile che sta per trafiggere o che ha appena
trafitto brandendo un pugnale, una spada, un
oggetto comunque che non lascia dubbi sul suo
significato simbolico.
Così in un disegno il porco, colorato di un bel
rosa acceso, dice nel fumetto:
GRU!
GRU! GRU!
E la sposa si illude di evitarne l'animalità
rivolgendogli contro l'arma nascosta:
ADESSO LO MMAZZO! EH, EH!!!
Oppure,
quando lui si avvicina al solito lettone, gli dice
senza tanti complimenti:
... la regina rispose che il porco era stupido
e che nessuno volesse sposarlo perché era
sudicio sporco e puzzolente.
sei troppo pusolente.
È solo
l'accoglienza della parte animale, raccontano i
bambini come gli antichi narratori, che permette
la trasformazione della violenza sadica e
masochistica in un abbraccio umanizzante. Così la
terza moglie, che non porta il pugnale per
uccidere la bestia, può anche non essere proprio
tranquilla, come racconta una bambina di terza
elementare:
Alla
prima notte lei aveva paura ma quando arrivò
si scrollò di dosso la pelle e venne fuori un
bellissimo fanciulo
Difficile
immaginare un desiderio di tenerezza materna,
proiettato nella futura sposa, più eloquente di
questo, espresso da un bambino della stessa età:
Ma
però quando il porco andava a letto Rosa
bianca lo copriva.
Se il
miracolo dell'incontro accade, l'umanizzazione, la
trasformazione della bestia, viene con magica
facilità, come sanno questi bambini delle
elementari:
...e
così il Porco si levò le pelli lerce e diventò
un bellissimo principe
... alla notte, all'ora dell'ultimo sonno,
Principe Porco si toglieva la cotica
... la sposa Rosabianca rimase sorpresa dalla
belezza del Re Porco e infilandosi sotto le
coperte la Regina Rosabianca lo abbracciò con
amore
Inizialmente
solo la sposa Rosabianca assiste alla
trasformazione, e il principe torna porco al
mattino, fino a che, dopo la nascita di un
bellissimo erede, le sembra giusto invitare il re
e la regina a vedere come il loro figlio sia uno
splendido principe. Guardando un disegno non
riuscivo a capire perché il bambino avesse
rappresentato la coppia genitoriale come ladri che
con due grosse pile dirigevano i coni di luce sul
letto dove dormivano il loro figlio e Rosabianca.
Nella camera c'è fra l'altro un appendiabiti
delizioso, al quale sono appesi, come capita,
jeans, camicie, manti guarniti di ermellino, e le
due principesche corone. Finalmente capii: nella
fiaba letta dall'insegnante si racconta che il re
e la regina accesero le torce e entrarono nella
camera del figlio, e il bambino, conoscendo le
torce solo come pile, le aveva disegnate. Il re e
la regina gioiranno della trasformazione arrivando
in punta di piedi, furtivi come ladri, ma
efficacissimi.
La sostanza non cambia se varia un po' il nome
della protagonista, cosa che capita normalmente
nelle fiabe, e la grazia espressiva non soffre se
la sintassi e l'ortografia sono un po' imperfette:
Rosa
bella disse con la Regina e il Re che Re porco
di notte si togliesse la pelle sporta di
letame e se la togliesse per andare a letto.
Il Re e la Regina con il lumino e andarono a
vedere e videro che la pelle di letame sul
pavimento.
Se
subito correggessimo sporta con sporca,
insieme alla imperfezione se ne andrebbe la
vaghezza che ci consente di fantasticare
un'ipotesi interpretativa: l'animale è un
contenitore di sporco, e quindi la sua pelle è una
sporta di letame, come è sporca di
letame. Così è la fiaba, come ogni narrazione
imperniata sui simboli: pur avendo una forma
definita, che sia un testo stampato o una versione
tramandata in un gruppo, il suo contatto con la
vaghezza è tale che nell'intimità di chi la
racconta e di chi l'ascolta subito attiva questa
vaghezza, favorendo la rinarrazione, le varianti,
gli arricchimenti, e quindi le trasformazioni del
testo.
Il re e la regina al lume delle torce, o delle
pile, trovano la pelle porcina, o cotica, sul
pavimento, e dopo averla fatta distruggere
abdicano e sale al trono re Porco, che regna per
sempre felice con Rosabianca, nella pace e nella
prosperità generale.
Che bellezza diventare re, signori del proprio
spazio e del proprio tempo, vivere una lunga
armonia tra le proprie parti, quelle più umili
rappresentate dal popolo e quelle più alte
rappresentate dai sovrani! lasciando fluire questi
pensieri un bambino ha trovato un nuovo aggettivo,
e così sappiamo che il Porco fu ...un re
virturioso. Anche la folla festante diventa
qualcosa di diverso e molto evocativo nel finale
di questa bambina:
...al
mattino dopo fece sedere sul trono il Principe
che nominò Re Porco davanti alla folla
clamorosa.
[La
parte seguente è inedita]
3.
Note psicoanalitiche per insegnanti
Lavorando
nella scuola mi incontro regolarmente con la
richiesta da parte degli insegnanti e dei genitori
di confermare le loro opinioni sui disagio o sulla
buona salute psichica di qualche bambino. Mi
scontro con un vizio, che fa considerare tutti gli
psico-qualche-cosa come specialisti che forniscono
il loro autorevole avallo a giudizi altrui, o
indicano soluzioni prive di dubbi. Capisco che il
disagio induca angoscia negli educatori, e che per
questo prenda quasi sempre forma una specie di
fuga dalla verità: l'educatore ha imparato a
parlare di carenze affettive ma non sa nulla della
sua propria ambivalenza affettiva. Termini come
questi, di conio psicoanalitico, sono entrati in
ambito educativo, ma vi circolano come monete
false, tanto che si parla oggi di un bambino che
ha carenze affettive per giustificare la sua
marginalità nel processo di apprendimento come
alcuni decenni fa si parlava dell'inferiorità
socio-economica della sua famiglia. Gli insegnanti
credono di manifestare buona volontà se lamentano
la loro impreparazione riguardo al simbolismo
delle fiabe, che i bambini presentano nei disegni,
ma in realtà, se si limitano a questo, dichiarano
semplicemente che non è affar loro comprenderli:
non sono specialisti. Quelli che prendono sul
serio se stessi e i bambini fanno piuttosto
attenzione a come tutti si esprimono con
entusiasmo dopo aver ascoltato la fiaba, in
particolare gli alunni che di solito sono più
svogliati e distratti. Scoprono che avere un buon
livello di linguaggio in relazione alle
classificazioni vigenti a scuola non significa
sapersi esprimere, e vedono bene che la grammatica
formale non coincide con la grammatica dei
sentimenti: ci sono troppi bambini che si
ritraggono dall'apprendimento scolastico perché il
loro modo di esprimersi viene dichiarato
sbagliato, perché ne soffrono come un amante che
alla sua dichiarazione d'amore si senta rispondere
anzitutto con la correzione di una forma verbale.
Trovando uno spazio più adatto nell'ascoltare una
fiaba antica, che parla, come quasi tutti i
bambini sanno, a differenza degli adulti, del
gioco affettivo, proprio i meno bravi disegnano e
scrivono senza risparmiarsi.
Lo sa bene l'insegnante di matematica e scienze di
una scuola media toscana, che durante un incontro
di aggiornamento in cui avevo chiesto se
ricordavano apprendimenti improvvisi e
sorprendenti, mi raccontò di Eratostene.
Voleva spiegare non so cosa sugli angoli, alla
fine di una lezione aveva detto ai suoi alunni di
fare, chi lo volesse, una ricerca su Eratostene, e
siccome l'aveva fatta anche un bambino del gruppo
dei meno bravi, lo aveva invitato ad esporre il
suo lavoro. Lei e tutta la classe erano rimasti
senza parole sentendo l'ampiezza e la precisione
del bambino, che non solo esponeva ampiamente la
storia di Eratostene, che per primo ha scoperto un
certo metodo di misurazione della terra, ma
anticipava quei collegamenti con la geometria già
spiegata in classe che l'insegnante voleva
proporre. Per questo exploit, al quale era seguito
un bel miglioramento nel suo interesse per le
lezioni e nel suo profitto, il bambino era stato
soprannominato Eratostene. È sempre rischioso
ipotizzare il gioco psichico che rende conto di
questi miracoli, ma è giusto comprendere che
spesso consideriamo miracoloso ciò che non
riusciamo a spiegare: la psicoanalisi, a partire
dalla paralisi di Elisabeth von R. curata da
Freud, è una scienza in quanto riesce a dar conto
con chiarezza di trasformazioni negative o
positive che per le altre scienze sono
incomprensibili. Tornando all'insegnante di
Eratostene, dissi agli insegnanti quale poteva
essere l'interpretazione di quel sorprendente
miglioramento nel rendimento del bambino. Nella
pubertà un bambino deve definire i propri genitori
per crescere, in questo caso la possibilità di
misurare con una geniale invenzione la terra
poteva aver significato per il bambino una nuova
possibilità simbolica di conoscere, misurare,
contenere, una madre altrimenti avvertita come
caotica, troppo grande. L'insegnante di scienze
guardandomi come se avessi avuto la palla di
cristallo, disse che il bambino aveva in effetti
problemi di anoressia.
Sull'anoressia mi pongono spesso domande, sia
perché è una patologia molto presente, sia perché
la sua esistenza stessa è paradossale: come si
spiega che un bambino, o, più spesso, una bambina,
una ragazzina, non senta fame? perché? Noi
fuggiamo dalla verità quando ne attribuiamo la
causa alla moda che propone un'ideale di magrezza,
mentre l'ideale estetico è una delle articolazioni
del discorso anoressico, non la sua ragione
profonda. Ed è così tragica la stretta fra l'amore
e l'odio, con la madre, con la vita, con il
proprio stesso corpo, che le buone intenzioni del
nutrimento forzato o dei suggerimenti estetici o
moralistici non hanno nessuna efficacia, e talora
fanno danni.
Chi vuole saperne di psicoanalisi può trovare
facilmente libri e corsi dove cominciare ad
apprendere, come può andare da un analista e
iniziare un percorso di conoscenza di sé: ma nella
questione della scuola sarebbe sufficiente che gli
insegnanti si aprissero alla vaghezza
dell'espressione, che ascoltassero prima di
correggere, che non dividessero la classe, secondo
manie fobico-ossessive al servizio di miopi canoni
socioculturali, la in bravi e non bravi,
dotati e non dotati. Basterebbe che sapessero
qualcosa di psicoanalisi, per capire le fiabe, che
come i sogni sono semplicemente figure veritiere
della psiche o anima, e metterebbero in gioco
questa comprensione quando sono in classe. Allora,
senza nulla togliere all'efficacia
dell'apprendimento, l'aula potrebbe trasformarsi,
apparentemente per una magia, in uno spazio
concreto concesso alla complessità dell'anima, in
un contenitore dove i bambini possono crescere, e
non solo accettare di essere più o meno utilmente
ammaestrati.
Nell'ultimo incontro di Longiano io e gli
insegnanti, che avevano già ampiamente
sperimentato il racconto della fiaba in classe,
procedevamo su toni di questo tipo, auspicando che
il nostro lavoro continuasse, e questo purtroppo
non è stato possibile. Ma so che si sono accorte
della propria capacità di vedere ciò che prima
consideravano insignificante, e forse proprio in
questo momento una di loro sta ascoltando con
gioia l'espressione virturiosa di un
bambino, che applicando le regole dovrebbe rendere
virtuosa prima di averne compreso il
senso.
Gli insegnanti di Longiano portavano a
quell'ultimo incontro la percezione di questa
complessità come di una ricchezza espressiva da
non eludere. Per nutrire la loro nuova attenzione
proposi un piccolo fenomeno quotidiano e comune a
tutti, considerato normale, non perturbante: le
fobie alimentari. Non conosco una sola persona che
mangi tutto, c'è chi seziona la carne nel piatto
per non trovarsi in bocca le parti grasse o
callose, chi non assaggerebbe mai un'ostrica, chi
trova ripugnanti le rane, ci sono coloro che
trovano disgustoso mangiare la trippa, o bere il
latte se non è macchiato dal caffè, c'è chi non
mangia nulla che sia verde: più o meno estesa,
almeno una fobia alimentare è presente in ciascuno
di noi, così come in ogni cultura c'è una
separazione, nell'insieme delle cose
oggettivamente commestibili, tra alimenti leciti,
buoni, e alimenti proibiti, ripugnanti. Non avevo
nessuna intenzione di interpretare il senso di
queste separazioni, mi bastava mostrare che ogni
persona per nutrirsi deve separare dall'insieme
dei cibi considerati buoni almeno una cosa che,
anche se altri la mangiano con piacere, le provoca
una specie di fastidio, di ripugnanza, di
disgusto. Mi limitai a spiegare che il cibo è una
rappresentazione della madre, e per questo abbiamo
bisogno di distinguere, secondo molteplici
criteri, individuali e collettivi, il cibo buono
dal cibo cattivo. Le separazioni meno
giustificabili in senso oggettivo rappresentano la
possibilità di controllare a livello immaginario,
quasi simbolico, un terrore inconscio di mangiare
qualcosa che potrebbe avvelenarci, o qualcosa di
proibito, tabù, come la carne di maiale per i
musulmani e gli ebrei.
Proprio perché appare immotivata alla coscienza,
la fobia nel gioco della mente realizza una
strategia, uno stratagemma, che, con una fatica e
una rinuncia minime, protegge da un'angoscia, come
quella di incorporare qualcosa di pericoloso.
L'oscura consapevolezza di questo senso presente
nelle piccole fobie alimentari fa sì che i
genitori normalmente le rispettino, e spesso
rimangono costanti per tutta la vita. Oppure
scompaiono, o si trasformano, in momenti di
crescita, mentre si trasformano con noi le nostre
strategie per contenere l'angoscia.
A questo piccolo discorso comune sulle fobie seguì
una breve pausa, e un'insegnante di scuola
elementare mi mostrò un libro tutto realizzato dai
suoi bambini: appena lo aprii mi parve così bello
che decisi di dedicare a questo il finale di
quell'ultimo incontro.
Credo che un insegnante degno di questo nome, se
ha occasione di esplorare il panorama concettuale
della psicoanalisi, non sia portata a considerarla
estranea, intravedendo piuttosto la possibilità di
trovarvi nomi utili per descrivere esperienze e
fenomeni che ha già osservato.
Il tunnel sottomarino è un libro pop-up
realizzato da due terze elementari in un anno di
incontri settimanali, e tutti i bambini sono stati
veramente artefici e realizzatori della fiaba.
Sono certa che è così per più motivi: il primo è
che, oltre ai rari grandi poeti, solo i bambini,
purché sia dato loro modo di esprimersi, trovano
soluzioni narrative e figure simboliche ricche,
tanto nuove quanto legate alla tradizione. Il
secondo è che occorre un gruppo al lavoro per
realizzare l'equilibrio e la sapienza psicologica
che caratterizza le fiabe tradizionali, nelle
quali il lieto fine non è una idealizzazione o una
forzatura moralistica, ma il risultato di una
trasformazione e di una crescita che richiede lo
scambio e il confronto fra molti. Che l'insegnante
li abbia seguiti stimolandoli ad esprimersi senza
forzarli moralisticamente si può dedurre anche
dalla rappresentazione degli adulti, che appaiono
decisamente negativi. Quando l'artefice della
trama è adulto, non può rinunciare ad almeno un
personaggio adulto positivo, mentre questi bambini
sembrano mettere il dito nella piaga della nostra
inadeguatezza.
Riporterò ora integralmente il testo del libro.
4. Il
tunnel sottomarino
In un'isola in mezzo
all'oceano sorgeva un castello abitato da un re e
una regina malvagi. Essi, con l'aiuto di un mago,
avevano costruito un tunnel che collegava l'isola
ad un bosco. Nel bosco vivevano degli animali
mostruosi, ma buoni, che erano accuditi da alcuni
gnomi. Il re e la regina catturavano i mostri per
collezionarli e anche per venderli.
Il mago in testa aveva un cappello lungo e blu con
tante stelline. I capelli erano fatti di alghe
verdi e gli occhi erano rossi e rotondi. La barba
era grigia e lunga con delle alghe e dei
pesciolini vivi o morti impigliati. Indossava una
tunica blu e in mano teneva una bacchetta magica
tutta gialla.
La regina si chiamava Anita: era bella, con i
capelli castani legati da una fascia con al centro
un diamante azzurro. Intorno al suo collo
splendeva una collana di perle che le illuminava
il viso in cui brillavano due occhi scuri e
malvagi; indossava un vestito lungo, giallo e
verde. Il re in testa portava una corona d'oro, i
suoi capelli erano castani e contrastavano con una
lunga barba grigia che scendeva fino ad arrivare
alla cintura. I suoi occhi erano azzurri, il naso
lungo e appuntito, la sua bocca non sorrideva mai.
Era cattivo e si sentiva solo.
I mostri erano veramente brutti a guardarli: il
loro muso era di diversi colori, tutto scombinato.
Infatti il naso era al posto dell'occhio, la bocca
al posto dell'altro occhio. Avevano mani lunghe
con unghie grigie, oppure cortissime ed attaccate
al tronco. Il re e la regina avevano un figlio
bello e gentile; poiché egli non era d'accordo col
progetto dei suoi genitori riguardo agli animali
del bosco, essi l'avevano rinchiuso nel castello
della torre da ben 13 anni all'età di 7 anni. Ora
era cresciuto e gli abiti erano diventati troppo
piccoli per lui. Era molto bello e forte; aveva
due splendidi occhi azzurri, la carnagione rosea e
i capelli biondi e ricciuti.
Un giorno il re, dopo avergli portato a mangiare
come di consueto, si dimenticò di chiudere la
porta. Il principe allora uscì dal castello e
passò dal tunnel sotterraneo arrivando nel bosco.
Per sfuggire ai genitori ed al mago che stavano
cercandolo, si rifugiò in un albero cavo e vi
trascorse la notte. Al mattino si svegliò col
canto degli uccelli, si guardò intorno e vide
degli stivali magici grandi e gialli che gli gnomi
avevano portato per aiutarlo.
Li calzò e si sentì invincibile. Decise di
ritornare al castello per liberare i mostri e per
sconfiggere il mago che, con le sue magie, aiutava
il re e la regina nelle loro cattive imprese.
Arrivato al castello superò con un balzo due
terribili piante carnivore che facevano la guardia
alla fine del tunnel. Incontrò il mago che lo
riconobbe subito e che cercò di ucciderlo con una
scarica elettrica. Il principe alzò gli stivali,
la scarica tornò indietro e polverizzò
completamente l'avversario. Entrò nel castello e
con una robusta corda legò i suoi genitori e li
portò nella torre più alta che era stata la sua
prigione per tanti anni.
Prese le chiavi che chiudevano le gabbie dei
mostri e li liberò; attraversò il tunnel riportò
gli animali nel bosco e tutti furono festeggiati
dagli gnomi che cominciarono a ballare e a fare
capriole dalla gioia. Ad un tratto il principe
sentì una vocina che chiedeva aiuto: alzò gli
stivali magici ed un mostro si trasformò in una
bellissima fanciulla dai capelli biondi. Il
principe se ne innamorò, la prese per mano e la
portò al castello, fino alla torre dove aveva
rinchiuso i suoi genitori. Fece capire loro gli
sbagli che avevano commesso ed essi promisero che
non avrebbero fatto più del male a nessuno,
neppure agli animali mostruosi che in realtà
possedevano una qualità meravigliosa: la bontà. Il
re e la regina, dopo la morte del mago cattivo, si
erano come risvegliati da un brutto sogno. Infatti
essi non erano malvagi ed avevano agito sempre
sotto l'influsso del mago dai capelli verdi che
odiava tutte le creature della terra e voleva
diventare il padrone del mondo. Al castello si
celebrarono le nozze fra il principe e la
bellissima fanciulla; furono invitati gli gnomi e
gli animali del bosco che per l'occasione fecero
il bagno nel mare e si presentarono agli sposi con
dei colori brillanti, mai visti prima. Formarono
un grande cerchio dandosi la mano, luminoso e
bello come l'arcobaleno; circondarono il principe
e la principessa e tutti insieme si sollevarono
nel cielo fino a toccare le nuvole. Poi
atterrarono in mezzo a tanta allegria e da quel
giorno vissero tutti felici e contenti.
La mia
lettura psicoanalitica, come quella che avevo
proposto alle insegnanti di Longiano, non tende in
alcun modo a svelare elementi di disagio
individuale: l'uso diagnostico dei disegni o dei
testi deve essere limitato all'ambito del lavoro
analitico, che è possibile solo quando ci sia una
richiesta d'intervento del soggetto. In ambito
educativo la psicoanalisi ha il suo senso più
fecondo se favorisce l'attenzione e l'accoglimento
della ricchezza espressiva, perché sia compresa
l'importanza del gioco affettivo nella crescita
del soggetto come nei processi di apprendimento.
La mia ipotesi di interpretazione ha senso come
esercizio per lo sguardo dell'educatore che
intenda avvalersi della psicoanalisi per ascoltare
e capire i bambini, e si limita ad alcuni degli
oggetti interessanti che il testo presenta.
L'isola in mezzo al mare potrebbe essere intesa
come un nucleo familiare il cui equilibrio è
fondato sulla chiusura. Può permanere a patto di
negare lo scambio con l'esterno, e per farlo la
coppia genitoriale deve farsi guidare dal mago,
una sorta di super-esperto con l'aiuto del quale
costruisce il tunnel sottomarino, la sola via di
scambio con l'altra terra. Ma ciò che è fuori
dall'isola si manifesta come animale e deforme, da
imprigionare o da vendere, e in questa condizione,
che ci ricorda le ideologie del colonialismo e del
razzismo, l'educazione si rappresenta come
imprigionamento. L'ordine degli adulti che si sono
isolati impedisce il riconoscimento del diverso,
dell'estraneo, e quindi anche l'accoglimento della
diversità, della specificità nuova di cui ogni
bambino è portatore. L'istanza particolare del
bambino viene trattata come gli animali deformi,
imprigionata. L'insegnante ci disse che i bambini
discutevano a lungo la scelta dei colori, degli
aggettivi, e in genere di ogni particolare, fino a
che non trovavano una soluzione soddisfacente: la
regina aveva gli occhi scuri e malvagi, il re era
cattivo e si sentiva solo. Questa solitudine di
cui patisce il re è l'unica connotazione umana
positiva della coppia genitoriale, un difetto
nell'ordine rigido rappresentato, che, se non
basta perché il sovrano si opponga al mago, è però
sufficiente a distrarlo: solo grazie al lapsus del
padre il principe può iniziare il suo cammino
verso la liberazione. Si noti che è il re, la
figura paterna, e non la regina, a portare da
mangiare al figlio prigioniero. Anche sulla durata
della prigionia i bambini avevano discusso a
lungo, ma non per perdere tempo, come poteva
sembrare: sette e tredici sono numeri
significativi, ricorrenti nelle storie magiche, e
sommandosi formano un numero tondo, come un'età
completa nella quale la maturità può manifestarsi.
A sette anni poi i bambini entrano appieno nel
gioco istituzionale, e avendo allargato le loro
relazioni affettive dalla famiglia al gruppo
sociale della scuola manifestano pensieri diversi
da quelli limitati al mondo dei genitori.
Nel descrivere il giovane principe i bambini gli
attribuiscono una sola somiglianza con la coppia
genitoriale: gli occhi azzurri come quelli del
padre che lo nutre e che si distrae, liberandolo.
È interessante il particolare degli abiti, che
rappresentano l'identità, che con la crescita gli
è diventata piccola, stretta. L'identità data dai
genitori, rimasta immutata nella prigionia, si
evidenzia come inadeguata sul corpo che comunque è
cresciuto. Il percorso di uscita, attraversò il
tunnel sotterraneo, simbolizza una seconda
nascita, e nascendo come soggetto adulto il
principe può trovare nel bosco una figura positiva
della madre, l'albero cavo, che lo ospita senza
imprigionarlo. Gli gnomi che si prendono cura
degli animali o del mondo sotterraneo, come i
sette nani di Biancaneve, sono figure spesso
soccorrevoli nella tradizione narrativa, capaci di
mediare tra il mondo civilizzato e il mondo
selvaggio. Dopo che la nuova nascita ha reso
fruibile l'albero cavo, rende accessibile una
potenza maschile, quella degli stivali magici, gli
stessi che consentivano di fare sette leghe con un
passo a Pollicino. Trovare scarpe adatte al
proprio piede, che conferiscono sicurezza e
rapidità al movimento, simbolizza anche la
maturità sessuale, aspetto non secondario nella
crescita. Calzando gli stivali magici il principe
si sente invincibile, e quindi in grado di
affrontare e trasformare i fantasmi negativi delle
figure genitoriali. Il mago richiama l'onnipotenza
del controllo, la sapienza antica che si
contrappone al giovane, impegnandolo in un
combattimento vitale. Il giovane principe
diventerà guida del suo mondo affrontando e
abbattendo l'antica guida, con la quale condivide
le prerogative magiche. Grazie agli stivali magici
il principe aveva superato anche le piante
carnivore, che in un disegno sono verdi e hanno
una gigantesca bocca dentata: il soggetto affronta
e vince l'angoscia legata al fantasma divorante
del materno e del femminile in genere. La
rappresentazione del femminile vorace,
reinfetante, fatale, è una figura ineludibile
nella crescita: per fortuna si può trovare un
albero cavo, un re che lascia una via d'uscita, e
poi la potenza vitale e attiva dei piedi ben
calzati.
Il mago riconosce nel principe il proprio
avversario e cerca di ucciderlo con una scarica
che potrebbe ricordarci anche l'elettroshock, ma
qui vale come potenza distruttiva invisibile,
impossibile da combattere se non con la potenza
conferita dagli stivali magici, che il principe
brandisce alzandoli, con un gesto di cui è
difficile contestare il simbolismo sessuale. Ciò
che prima era temuto come letale, il mago come
parte onnipotente della figura paterna, può essere
affrontato quando il soggetto dispone della
propria potenza, e non teme di usarla. Ucciso il
mago, la coppia genitoriale, pur restando
abbastanza malvagia da dover essere imprigionata
al posto del principe nella torre, è affrancata
dall'onnipotenza, ed è quindi possibile che
avvenga una trasformazione.
Ma prima vengono liberati i mostri e gli animali,
e tra questi, nel bosco, una figura femminile
nuova geme, vuole nascere: il principe che è nato
attraversando il tunnel la fa venire alla luce in
forma umana, grazie alla magia di cui dispone.
Nella fiaba la magia imprime alla trasformazione
un ritmo prodigioso, che rappresenta l'effetto
della parola vera nel soggetto. Il principe
costituisce una nuova coppia col femminile
umanizzato, e come da solo aveva distrutto il
mago, con la principessa accanto può trasformare
la coppia genitoriale, che sembra svegliarsi da un
sogno cattivo. Da una parte c'è la gioia degli
abitanti del bosco, dall'altra la promessa del re
e della regina, esautorati, perché la crescita del
nuovo soggetto instaura un nuovo regno. E quando
finalmente promettono che non perseguiteranno più
nemmeno gli esseri mostruosi, la storia dice
chiaramente qual era il pregio delle figure
informi, non ancora umane, che non potevano venire
alla luce, che non avevano accesso alla coscienza:
in realtà possedevano una qualità meravigliosa: la
bontà.
Si esplicita a questo punto anche l'onnipotenza
del mago, quando viene detto che, con i suoi
disumani capelli verdi, e la sua barba dove
impigliava elementi germinali, pesciolini, vivi e
morti, voleva diventare il padrone del mondo, come
tanti antagonisti di storie e film, anche per
adulti.
Con le nozze felici del principe e della
principessa gli abitanti del bosco si immergono
nel mare, in un bagno che vale come un battesimo,
dopo il quale diventano vividi i loro colori. Le
risorse degli esseri fino ad allora esclusi dalla
coscienza sono ora disponibili, e il finale
rappresenta un sogno di creatività gioiosa. Tutti
sono invitati, e formano un cerchio intorno alla
nuova coppia regale, e nella compiuta armonia che
realizzano, con la ricchezza di tutti i colori
dell'iride, è possibile salire in alto, fino a
toccare le nuvole. Per tornare alla terra, al
luogo dell'uomo, che, una volta bonificato, è così
bello da abitare.
5.
Approfondimento
Se la
mia ipotesi interpretativa può indicare in questa
fiaba dei bambini una rappresentazione della loro
difficoltà a crescere e del cattivo lavoro degli
adulti, corriamo il rischio che ha fatto
naufragare l'antipsichiatria, quando, per rendere
dignità umana al paziente schizofrenico, ha
criminalizzato la famiglia, la madre in
prticolare. Immaginare che in un gioco di
relazione da una parte ci siano i buoni e
dall'altra i cattivi è il miglior modo per fuggire
dalla verità: i bambini hanno bisogno di noi come
noi abbiamo bisogno dei bambini. Idealizzandoli
come buoni e innocenti perderemmo ogni possibilità
di comprendere gli strumenti che la psicoanalisi
può offrire agli educatori. Per la psicoanalisi la
fiaba, come il mito, come il sogno notturno, non
rappresenta il soggetto in relazione alle persone
reali della sua vita, come i genitori. Queste
forme espressive, centrate sui valori simbolici,
raccontano la storia del soggetto come
protagonista, attante, che cerca e indaga e
agisce, della sua coscienza, si potrebbe dire, e
delle sue proprie figure intrapsichiche, che
possono richiamare la madre o il padre, e
prenderne le sembianze, ma per significare la
funzione che assolvono all'interno della
personalità. Il bambino attribuisce l'onnipotenza
e il controllo crudele alle figure genitoriali, ma
si tratta di lui, della sua cieca volontà di
dominare gli altri e di asservirli, che è tanto
più presente quanto più soffre per la sua
impotenza, con la quale si scontra
quotidianamente, perché è piccolo, perché è chiuso
fuori dalla camera dei genitori, perché ci sono
troppe cose che non capisce della vita ed è
terribilmente impaziente.
In questo senso quando si parla di funzione
paterna e di funzione materna, non ci si riferisce
né al padre e alla madre concreti, e nemmeno a
connotazioni necessariamente appartenenti a un
sesso anziché all'altro. Un padre che allatta il
neonato col biberon assolve indubbiamente una
funzione materna, come una madre che trasmette al
figlio un vero rispetto per la legge esprime una
funzione paterna.
Non solo quando sta crescendo fisicamente, ma per
tutta la vita l'essere umano deve incontrare e a
volte trasformare il diverso, la bestia, ciò che
si presenta deforme, e se è vero che deve trovare
delle guide e degli esempi, è altrettanto vero che
buona parte del percorso dovrà affrontarla solo,
nella propria intimità.
Se l'isola della nostra fiaba può rappresentare la
famiglia come viene percepita dal soggetto, può
essere interpretata come assetto della coscienza,
secondo una metafora che ricorre in psicoanalisi.
L'isola è dominata dalle figure genitoriali che
l'onnipotenza del bambino stesso, personificata
dal mago, rende ostili e inaccessibili. A causa
della proiezione della sua onnipotenza sui
genitori il bambino si trova imprigionato, e il
cibo che gli viene portato dopo i sette anni non è
il nutrimento primario, che è materno, ma il
nutrimento simbolico, che lo mette in rapporto col
linguaggio comune a tutti, legato alla funzione
paterna.
Gli esseri animaleschi e mostruosi che vivono nel
bosco possono essere compresi come oggetti
creativi che i genitori controllano essendo
adulti, e l'invidia del soggetto glieli fa pensare
come oggetti vitali aggrediti dall'onnipotenza. Ma
come sono temute e aggredite in quanto proprietà
esclusive dei genitori, le creature potenziali del
bosco sono desiderate, perché solo permettendo che
vengano alla luce il controllo onnipotente
cesserà, e al posto della sterilità e dell'assetto
rigido scorrerà la vita. Dalla torre in cui è
prigioniero, il principe domina anche la scena,
proiettando la sua distruttività sui genitori, che
sono comunque re e regina: cattivi, ma belli e
potenti, con i segni della ricchezza simbolica
nell'oro e nelle gemme che indossano. La
solitudine del re padre si rivela a questo punto
come un penoso isolamento della funzione paterna
positiva, la sola che può aprire al mondo. È
questa funzione che fa allentare il
controllo, e la prigione casualmente e
fortunatamente aperta rende possibile la nuova
nascita e la crescita. Il mago dalla barba verde,
apparentato al pescatore che voleva friggere
Pinocchio, va abbandonato per incontrare gli
esseri viventi del bosco, gli elementi creativi di
cui ha bisogno il bambino per crescere. I
mostriciattoli del bosco sono tratti dalla
contemporaneità: nei disegni compaiono, ricordando
nell'insieme i mutanti della fantascienza; c'è fra
gli altri una specie di Incredibile Hulk, un
marziano, e anche un disastrato cantante con la
scritta RAP. Ma per le figure magiche, il cui
intervento è determinante, sia perché si prendono
cura di questi esseri disgraziati, sia perché
attendono il principe per fornirlo dell'oggetto
magico, i bambini hanno preferito gli gnomi, che
appartengono a una tradizione antica. I simboli
più rassicuranti, senza i quali la trasformazione
non avviene, sono quelli che ci legano a un'antica
tradizione, che per ogni essere umano può
rifiorire. Gli gnomi sono fuori dal conflitto con
le figure genitoriali, perché il loro tempo è
diverso da quello degli esseri umani, e perché
sono adulti e bambini allo stesso tempo. Potenti
ma separati dall'uomo, proprio per questo possono
fornirgli un aiuto indispensabile, come i demoni o
le divinità locali, restando sempre ad abitare
l'immaginario e il fantastico, senza mai invadere
lo spazio comune a tutti.
Quando il soggetto supera l'invidia verso la
coppia genitoriale, che lo imprigionava, può
sconfiggere il mago, ovvero rinunciare alla sua
propria onnipotenza, grazie alla potenza vitale
degli stivali delle sette leghe. Al desiderio del
bambino/mago/onnipotente, di dominare il mondo,
subentra il desiderio di regnare come coppia.
Quando questa trasformazione si compie, cosa
abbastanza rara, ci si può alzare fino alle
nuvole, per poi tornare sulla terra e vivere in
armonia, godendo della molteplice e variegata
ricchezza della vita.
Molte altre cose si potrebbero dire su questa
fiaba, e molte altre interpretazioni sarebbero
possibili, ma in nessun caso un'interpretazione
può esaurire il senso di una struttura simbolica,
come la fiaba di magia, come il sogno.
Il mio obiettivo a Longiano è che un messaggio
almeno sia ascoltato e ricordato dall'educatore,
di questi suggeriti dal Tunnel sottomarino: non
servono a crescere storielle edificanti e
moralistiche, dove tutti sono belli e buoni, come
se i problemi e i conflitti dipendessero solo da
equivoci o incomprensioni temporanee. I bambini
sanno, come noi, che la vita è molto difficile, e
come il bosco contiene elementi minacciosi,
mostruosi, mescolati a elementi creativi e ricchi
di colori scintillanti. Il porco è un re virturioso,
ciò che rischia uccide può trasformarsi in amore,
e i genitori che imprigionano sono anche i
genitori che permettono che giunga il tempo per
nascere come adulti.
Ogni bambino andrà comunque nel bosco per
crescere, come ci siamo andati noi, che lo
ricordiamo o no, consapevolmente o
inconsapevolmente. La psicoanalisi non serve né a
evitare il percorso, né a renderlo facile. Ma
saper ascoltare i bambini e rendersi conto di cosa
stanno vivendo può fare la differenza necessaria
perché trovino un albero cavo in cui ripararsi o
perché al momento giusto la porta resti aperta.
Per concludere vorrei copiare la soluzione dei
bambini di Savignano, che hanno attinto alla
tradizione:
Stretta
la foglia, larga è la via
dite la vostra, che ho detto la mia.
Ma al
finale classico mi piace aggiungere una cosa
scritta dal fisiologo J. Von Uexküll, che è stata
ripresa da un altro scienziato, il matematico René
Thom:
Il
meccanismo di qualunque macchina, come un
orologio, è sempre costruito in maniera
centripeta, nel senso che tutte le parti
dell'orologio - sfere, molle, ruote - devono
dapprima esser finite per essere in seguito
montate su un supporto comune.
Al contrario, la crescita di un animale, come
il tritone, è sempre organizzata in maniera
centrifuga a partire dal suo embrione;
dapprima gastrula, si arricchisce poi di nuove
gemme che si evolvono in organi differenziati.
Nei due casi, esiste un piano di costruzione;
nell'orologio, domina un processo centripeto,
nel tritone, un processo centrifugo. Secondo
il piano, le parti si riuniscono in virtù di
principi del tutto opposti. (cit. da René
Thom, 1972, Stabilità strutturale e
morfogenesi; trad. it.: Einaudi, Torino
1980; p. 223)
La
macchina cresce in maniera opposta al vivente: ma
quale dei due modelli di crescita guida i
programmi scolastici e i criteri della didattica?
E la psicoanalisi non è una risorsa per chi crede
che la mente del bambino, come quella dell'adulto,
somigli più a un orologio che a un fiore.
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