Note presentate il 17 ottobre 2002 nel seminario
permanente di didattica e teoria della clinica
dell'Associazione Psicologia della
Rappresentazione presso Gradiva, Istituto per la
ricerca in Psicoanalisi.
Contributo all'incontro della Comunità
italiana di psicanalisi tenutosi
nell'Istituto, il 27 ottobre 2002, sul tema La
comunità e la parola.
L'aporia
per gli psicoanalisti che si incontrano in
associazioni, e hanno bisogno di regole
formalizzate, per quanto sotto gli occhi di
ciascuno di noi, esaminata tante volte, richiede
una costante attenzione, anche se, essendo
un'aporia, può essere al massimo contornata,
circoscritta, mai penetrata a fondo, risolta. Si
tratta di un'aporia che provoca l'esplosione o
l'implosione dei gruppi psicoanalitici, piccoli o
grandi, potenti o meno potenti. E' un'aporia
strutturale della condizione umana, risolta
temporaneamente grazie alla rimozione. Se le
società non psicoanalitiche, come un tribunale, un
parlamento, il consiglio amministrativo di
un'azienda, una parrocchia, vale a dire una
chiesa, uno stato, e le loro parti, possono e
devono favorire e sostenere la rimozione, gestendo
i vantaggi secondari e ammortizzando gli svantaggi
della alienazione del singolo nell'istituzione, un
gruppo di psicoanalisti, operando per scelta in
direzione opposta alla rimozione, non può
scegliere di illudersi sulla bontà dei processi
all'opera nelle strategie associative esistenti,
ai quali partecipano quando redigono uno statuto e
decidono gli organi che devono informare gli
iscritti, indire le riunioni e riscuotere le quote
associative. D'altra parte ci sembra ingenuo e
infantile pensare che minimizzando le pagine
statutarie, evitando di depositarle dal notaio,
formalizzando il meno possibile gli organi
direttivi e amministrativi, si eviti il danno
derivante dall'aporia che ciascuno di noi ha
patito: la questione, che pesa molto, non ha
dimensioni quantitative, e si ha poco guadagno
riducendola da tonnellate - quelle che zavorrano
le grandi società - a chili, grammi, o
milligrammi. Anche se si maneggiano piccole
quantità strutturate da questa aporia, si hanno
gli stessi rischi di esplosione e implosione: lo
comprendiamo con fastidio quando ci dedichiamo a
paradossali disquisizioni durante i nostri più
tragicomici incontri, siano a Spaziozero o nelle
nostre associazioni locali, piccole a piacere,
ogni volta che un conflitto tra membri ci
costringe a invocare le regole statutarie o a
riformularle.
Determinata dalla incommensurabilità di coscienza
e inconscio, l'aporia è presente nella teoria come
nel lavoro psicoanalitici, e genera con la
psicoanalisi una rivoluzione irreversibile, a
dispetto delle controriforme di area annafreudiana
o junghiana, nel gioco dei concetti di normalità e
anormalità. Vengono indicati come labili i confini
tra le persone normali, membri desiderabili di una
struttura sociale, e le persone anormali, malate
di mente, folli, da curare anche violentemente,
con una reclusione che prendeva la forma delle
mura del manicomio o di quelle degli psicofarmaci.
Per descrivere la nostra aporia partiamo dalla
formula giuridica, che uno psicoanalista potrebbe
anche considerare estranea al suo lavoro,
dell'incapacità di intendere e di volere. Fino a
qualche decennio fa la formula concludeva in
maniera soddisfacente i processi nei quali la
contraddizione fra motivazioni apparenti,
considerate oggettivamente sensate, e motivazioni
inconsce, considerate insensate, era tale da non
consentire una sentenza proporzionata al delitto.
Sembra che gli adolescenti criminali che emergono
come un incubo collettivo ci impongano di non
accontentarci della sistemazione tradizionale
della qualifica di responsabile o irresponsabile,
da punire o da curare, vittima o assassino.
Possiamo osservare che il senso comune, e la legge
che ne rappresenta la teorizzazione più raffinata,
associano l'incapacità di intendere e volere,
quindi la presenza della malattia mentale, che
pone il soggetto fuori da una normale
responsabilità e punibilità, alla debolezza e
all'incoerenza ideative. Ricordo a questo
proposito l'episodio avvenuto in un seminario
sulla malattia mentale negli anni Settanta, in cui
Silvana Caluori per un intero anno accademico
aveva lavorato con gli studenti per far loro
comprendere la complessità della realtà psichica,
la violenza presente nei manicomi, la necessità di
riflettere sulla patologia psichica. Durante
l'ultimo incontro, quando sembrava che gli
studenti avessero appreso un'attitudine alla
riflessione, una studentessa che manteneva il suo
lessico toscano, dove, come in tutti gli idiomi
locali il buon senso comune ha un sapore più
convincente, esclamò: "O professoressa, ma i
grulli... e son grulli!"
La studentessa rifiutava senza infingimento la
ferita narcisistica inferta dalla psicoanalisi,
che toglie all'io l'illusione di essere padrone in
casa propria, e, peggio ancora, l'illusione che
esista un modo di conquistare questo dominio.
Durante una conversazione a Firenze Sciacchitano
osservava come di fronte ai crimini interni alla
famiglia o apparentemente senza ragione non si
voglia comprendere che si tratta di passaggi
all'atto in persone malate di psicosi paranoide.
Mi sono chiesta come mai i media e gli esperti che
li frequentano non ricorrano a questa lettura,
visto che sembrano rispondere a un forte bisogno
di comprendere per contenere l'ansia di fronte
all'incursione del reale che ha aperto una falla
nella rappresentazione culturale di se stessi e
del mondo. Nonostante qualsiasi
psico-qualunque-cosa sappia qualcosa dei
paranoici, della loro possibilità di esprimere
acutezza e coerenza ideativa, le disquisizioni
intorno al possesso di facoltà mentali sufficienti
a far considerare responsabile il colpevole,
quindi in possesso della capacità di intendere e
di volere, non si tratta mai del fenomeno della
psicosi paranoide e del passaggio all'atto che può
trasformare in omicida come in suicida chi ne
soffre.
La rimozione della diagnosi di passaggio all'atto
in una personalità paranoica ha la funzione di
mantenere l'illusione di un confine riconoscibile
dal senso comune tra normalità e follia,
imputabilità o non imputabilità. Sulla difficoltà
della diagnosi di paranoia come difesa identitaria
ha parlato Silvana Caluori nell'aprile scorso,
nella sua conferenza Lo zoccolo di Pan.
Sessualità e psicoanalisi:
E come
può non sentirsi dio onnipotente il serial killer,
il pazzo omicida che spara a caso sui passanti, o
il protagonista di turno dei vari assassinii,
familiari o meno, di cui le cronache e i dibattiti
televisivi non ci risparmiano certo dettagli,
morbosi approfondimenti e tragici "psicodrammi" di
tutti i generi? Come non pensare a un delirio
paranoico alla base di questi gesti?
Appare davvero strano che in tutti i dibattiti che
si sono svolti intorno a questi argomenti non si
sia mai fatto cenno alla paranoia - l'unica volta
che mi è capitato di sentire un'allusione ad essa,
senza peraltro che fosse nominata, è stato di
recente in televisione, quando, a proposito della
giovane matricida-fratricida di Novi Ligure,
veniva detto che in lei erano presenti pensieri
persecutori. Forse il motivo di tale rimozione
potrebbe essere rintracciato nel fatto stesso che
la paranoia è, dal punto di vista della
psicoanalisi, primaria, nel senso che nessuno se
ne può dichiarare immune; come dire che, essendo a
tutti noi così prossima, finiamo con il
misconoscerla, dove, soprattutto, si presenta in
modo così inquietante.
Del resto, l'essere umano fa poco volentieri i
conti col principio di realtà, nel senso che
spesso tutto ciò che si pone come ostacolo al suo
desiderio viene vissuto in modo persecutorio,
perché minaccia il suo stesso senso di integrità
identitaria. Anche per questo motivo, ma non solo,
possiamo definire la paranoia come primaria e
universale, qualitativamente uguale in tutti,
anche se quantitativamente diversamente
articolata.
La
rimozione di questa diagnosi implica la condanna a
non comprendere il senso del crimine stesso, e da
questo dipende il fatto che la condanna
pronunciata nel processo di primo grado,
considerando normalmente imputabile il colpevole,
diventi inapplicabile in appello, perché si
afferma la sua incapacità di intendere e di
volere.
Il paranoico che uccide un familiare agisce per
una sorta di legittima difesa, soggettiva e
immaginaria, che per lui vale come assolutamente
reale. Può programmare il crimine, premeditarlo
lucidamente, ma se afferma che la madre voleva
avvelenarlo come capo di un complotto mondiale
diventa difficile considerarlo in pieno possesso
delle sue facoltà mentali.
Immaginiamo ora che in un caso di questo genere il
giudice sia uno psicoanalista: di fronte al
crimine potrà e dovrà comminare una delle pene
previste dalla legge, ma comprendendo la
condizione dell'imputato non potrà considerarlo
capace di intendere e di volere.
La legge distingue tra coscienza e incoscienza, e
opera come se fra le due condizioni corresse un
discrimine netto. E' possibile immaginare una
legge che non contempli questo discrimine?
Nella storia la distinzione tra legge umana e
divina, tra ciò che è colpa di fronte agli uomini
e di fronte a Dio, ha risolto il problema in
maniera abbastanza soddisfacente per molti secoli.
Pensiamo alla Divina Commedia, dove i papi possono
essere infallibili per la Chiesa mondana e
condannati all'inferno nell'aldilà, dove Guido da
Montefeltro, morto come un sincero penitente, è
all'Inferno, mentre Manfredi, morto sotto
scomunica, andrà in Paradiso.
La perdita della dimensione divina nelle
istituzioni umane carica queste di maggiore
importanza: sono le sole dalle quali gli esseri
umani possono sperare l'applicazione della
giustizia. E i crimini senza ragione, i matricidi
e gli infanticidi, dove siamo incerti fra
l'esecrazione e la compassione verso chi li ha
commessi, segnalano, come un incubo collettivo, la
rimozione di una verità: è ormai così incerto il
confine tra colpevolezza e innocenza, tra vittima
e assassino, e sono tanti i dubbi intorno alla
pena da comminare, che siamo costretti a rimuovere
la verità per non riconoscere la caduta
dell'illusione di una giustizia raggiungibile
nelle istituzioni.
Noi psicoanalisti non abbiamo nessuna difficoltà a
riconoscere tutto questo, anche se dovremmo
interrogarci di più sulla rimozione della
psicoanalisi, proporzionale alla forza
destabilizzante della verità che sono comunemente
scotomizzate. Ma ci troviamo violentemente
condizionati dal problema quando dobbiamo
scegliere le regole, o la mancanza di regole, per
il nostro incontrarci, quando desideriamo farlo
per confrontare le nostre riflessioni sulla
clinica e sulla teoria, per non lasciare alle
società più grandi l'onore e l'onere della
formazione, gli spazi per pubblicare e per
organizzare convegni, e qualunque cosa renda vivo
lo scambio psicoanalitico.
Immaginiamo che una comunità di psicoanalisti, più
o meno regolamentata, abbia come presidente il
didatta X, i cui allievi fanno parte della stessa
associazione. Immaginiamo che consideri il didatta
Y, che opera in un'altra città, come un seduttore
che cerca di portargli via allievi per
incrementare il suo potere. Pensiamo che nello
spazio di parola, come un'assemblea o una tavola
rotonda, X risponda con la sua elaborazione a
quanto Y presenta? non è probabile che, avendolo
interpretato, parli per evitare che i suoi allievi
possano apprezzarlo come possibile maestro,
screditandolo apertamente o dietro le quinte? E se
Y interpreta a sua volta X, considerando la sua
posizione come dovuta a invidia o, peggio, a un
tratto paranoide, potrà attenersi al discorso
manifesto? peggio ancora: sarebbe giusto che X o Y
si comportassero come se non facessero diagnosi?
Se da una parte è scorretto interpretare i
colleghi, dall'altra è insensato non
interpretarli, ammesso che sia possibile.
Se poi Z, allievo di X, manifesta un interesse per
l'elaborazione di Y, il suo maestro potrà
interpretare questo interesse come una tendenza a
tradirlo, con effetti difficili da elucidare.
Questo esempio molto banale penso possa indicare
come, lasciando da parte la disonestà o la
malafede, vi sia in un incontro tra psicoanalisti
qualcosa che mina radicalmente il lavoro di
confronto.
Abbiamo tutti presente per esperienza e per
conoscenza della storia delle associazioni
psicoanalitiche, dal gruppo che si riuniva il
mercoledì a casa di Freud in poi, le tensioni, le
scissioni, le diaspore, che caratterizzano il
movimento psicoanalitico.
Come i bambini consideriamo le regole in funzione
del gioco, mentre le istituzioni pongono le regole
al di sopra del gioco di cui consentono lo
svolgimento. Ma i bambini si preparano a diventare
adulti, e il loro senso di fallimento, se un
conflitto fa sì che il gioco si interrompa e tutti
tornino anticipatamente a casa propria, è mitigato
dal fatto che si ritroveranno il giorno dopo a
giocare, legati dalla vicinanza fisica e dal fatto
che hanno un contenitore comune, costituito dalle
regole degli adulti. Noi psicoanalisti pensiamo di
conoscere le regole e ciò che le può rendere
insussistenti, e anche nell'ipotesi che il nostro
parlare e il nostro agire non siano marcati
dall'immaginario, abbiamo bisogno di regole per
permetterci di giocare insieme, ma non siamo
disposti a seguirle quando il nostro tornaconto
viene meno.
La consapevolezza del transfert, del suo eterno
riproporsi, e della coazione a ripetere come
sclerosi della nostra parola e delle nostre
scelte, sono la croce e la delizia dei nostri
scambi. Se mi interrogo su quel poco che conosco
delle società psicoanalitiche più ampie e stabili,
e di quelle più locali e fluide, dei loro
meccanismi di proliferazione, di irrigidimento, di
decadenza e di emergenza, posso trovare solo
questo senso: questa mobilità che spesso appare
caotica e dispersiva è probabilmente il solo modo
di non rimuovere l'aporia dell'incommensurabilità
fra coscienza e inconscio, che si presenta come
atto quando non può essere rappresentata nel
linguaggio. Se pensiamo a una associazione che
riunisse tutti gli psicoanalisti con regole e
organismi soddisfacenti dovremmo delineare, oggi
come in futuro, una condizione mortifera della
psicoanalisi, che non avrebbe modo di evitare
l'istituzionalizzazione.
Mi sembra che l'aporia renda impossibile
un'associazione soddisfacente e stabile, sia
piccola, sia grande, dallo statuto sia complesso e
depositato dal notaio, sia di poche righe.
Ma non possiamo evitare di confrontarci con
l'aporia tra lavoro psicoanalitico e appartenenza
all'istituzione, dato che viviamo
nell'istituzione, parliamo nell'istituzione, siamo
pagati e paghiamo con soldi istituzionali.
Ingenuamente si potrebbe pensare che la soluzione
meno dannosa sia collocarsi fuori da qualunque
associazione psicoanalitica, oppure operare per lo
scioglimento delle istituzioni psicoanalitiche: ma
si può essere solitari solo perché altri sono
associati, e si può sciogliere qualcosa solo
perché si è costituita.
Se come i bambini consideriamo le regole
funzionali al gioco, e non viceversa, come i
giuristi e i burocrati, come adulti e
psicoanalisti non possiamo accettare il fallimento
delle nostre associazioni senza riflettere, senza
elaborare la sofferenza che ne deriva.
La dominante dell'aporia nella vita associativa
degli psicoanalisti, e negli scambi fra
associazioni diverse, è certamente il transfert
nelle relazioni tra maestri e allievi.
Costituendosi dalla materia pulsionale
dell'inconscio, non è democratico, conosce quindi
solo forme di tipo primario, comunque endogamico.
L'associazione legale presuppone una possibilità
di procedere oltre la condizione endogamica, di
lasciare il mito della razza e della stirpe per
affermare un diritto capace di mitigare la
violenza dell'orda, nelle sue innumerevoli
versioni. Pensiamo di poter fare a meno di cercare
un modo di renderlo possibile fra noi?
La nostra presenza qui, oggi, vale come risposta?
(pp. 167-175)
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