INDICE
- PREFAZIONE
- Sogni al bivio, finzioni al crocevia,
Antonio Faeti
- INTRODUZIONE
-
Tutto questo deve bastare
Adalinda Gasparini
- PRIMO
CAPITOLO - Il regno sterile
A. Gasparini - Nati per incantesimo
S. Albertazzi – Bambini di mezzanotte
- SECONDO
CAPITOLO - Attacco al regno
A. Gasparini - Dal cielo, dalla terra, dal mare e
dalle tenebre
S. Albertazzi – Angeli sterminatori
- TERZO
CAPITOLO – Il regno senz'anima
A. Gasparini
– Muta d'accento e di pensier
S. Albertazzi – Una lotta a morte con la morte
- CONCLUSIONE
–
Folgorati
dalla vita
Silvia Albertazzi
- POSTFAZIONE
– Cosa c'è di più assurdo della razionalità ?
Sebastiano A. Tilli
- BIBLIOGRAFIA
È possibile un dialogo
fertile fra letteratura e psicoanalisi?
L’annosa questione, a
cui hanno corrisposto di volta in volta, e a
seconda degli orientamenti teorici, diverse linee
di approccio, è tuttora aperta e controversa.
Tuttavia
l’interessamento della psicoanalisi per la
letteratura, e l’arte in genere, raramente è
riuscito ad andare oltre un’ermeneutica
ripetitiva, come tendenza ad interpretare aspetti
dell’opera (o della personalità dell’autore
stesso) sulla base di simbolismi e categorie di
lettura parziali già precostituiti nella teoria
stessa, cosa che non ha certo contribuito ad
avvicinare le simpatie dei letterati alla
psicoanalisi, accusata di patologizzare l’anelito
creativo.
Eppure, come notava
anche Giorgio Saviane, un letterato o un critico
che oggi ignorasse il contributo della
psicoanalisi farebbe sorridere, come un fisico che
insegnasse senza tener conto di Einstein e della
quantistica.
Allora un dialogo è
forse possibile in una diversa prospettiva, in una
posizione di ascolto reciproco, e, da parte dello
psicoanalista, in una interrogazione del discorso
letterario, più che in una mera applicazione
interpretativa.
Il che non significa
rinunciare al proprio «sapere», ma almeno
sospendere un certo uso «colonizzante» del sapere
in questione.
Ciò comporta appunto un
dialogo. È ciò che avviene in questo denso saggio
sulla letteratura postcoloniale, assunta nella
dizione «new global» non per opportunismi
d’occasione, ma nel senso del dischiudersi di un
campo di parola che rompe la stessa
contrapposizione fra una produzione pretesa
storica e legittimata culturalmente (quella
occidentale, per lo più) e l’opera cosiddetta
ingenua, naif, folkloristica, quando non proprio
«primitiva».
Un saggio originale, ove
il discorso artistico e il suo contrappunto
analitico sembrano suonare in un giusto equilibrio
armonico. E non solo per il fatto, già di per sé
sorprendente, di una stretta collaborazione fra
due autrici di diversa formazione e provenienza:
appunto, letteraria l’una, psicoanalitica l’altra.
INTRODUZIONE
Tutto questo deve bastare
Adalinda
Gasparini
Nel
romanzo di Vikram Chandra, Terra rossa e
pioggia scrosciante, una scimmia in punto di
morte ricorda che in una vita precedente è stata
un essere umano, e trovandosi in una casa indiana
tenta di dirlo, inutilmente, perché dalla sua gola
di scimmia escono solo suoni rauchi. Ma vedendo il
padrone di casa alla macchina da scrivere scopre
rapidamente come usarla, e, pur non conoscendo
l'uso del tasto per le maiuscole, la usa per
placare il terrore dei suoi ospiti:
- non
avere paura di me, sono sanjay, nato in una
rispettabile famiglia brahmana. mi consegnai a
yama nell'anno novecentoundici o, secondo il
calendario inglese, nel milleottocentottantanove
dopo cristo, senza dubbio a causa del cattivo
karman accumulato durante quella vita sono rinato
in queste sembianze e ora sono stato risvegliato
dalla ferita subita. non voglio farti alcun male.
sono solo molto stanco. non sono uno spirito
malvagio. per favore aiutami a tornare nel letto.
(Chandra 1998, 16)
Poco
dopo cade un silenzio assoluto, perché Yama,
terribile dio della morte, verde di pelle e dai
capelli nero giaietto, viene per portarlo con sé:
la scimmia prega gli dei di salvarla dal cappio
inesorabile e carezzevole della morte, e Hanuman,
dio delle scimmie e protettore dei poeti,
accogliendo il suo appello fronteggia Yama:
- È un
poeta che ha chiesto la mia protezione.
- Un facitore di versi burleschi che si appella a
un vecchio abitante degli alberi - disse Yama
sbuffando. - Lèvati dai piedi.
Lo sai chi sono, Yama? - sibilò Hanuman rizzandosi
sulle zampe; all'improvviso torreggiò al di sopra
del Dio, le sue labbra rosse si contrassero fino a
scoprire i denti ingialliti, e i muscoli si tesero
come cavi elettrici sotto la bianca pelliccia.
- Sono Hanuman; io vivo grazie alle voci di uomini
e donne e alle fantasie di bambini; ti sfido.
Sputo sulle tue goffe ironie e le tue meschinità.
(Ivi, 23)
La
scimmia che era Sanjay ha bisogno di un po' di
tempo per raccontare la sua storia, altrimenti il
suo cattivo karman ne provocherà una nuova
reincarnazione in forma animale, ma Yama si oppone
alla richiesta:
- Non
voglio sapere cosa accadde, - replicò Yama, - il
più delle volte c'ero anch'io. Tutti vengono a me.
So come andarono le cose.
- Io non ripeterò la vera versione dei fatti. - mi
affrettai a balbettare. - Mentirò. Costruirò un
sogno finemente colorato, una storia di passione e
gioia, un'enorme menzogna fatta per intrattenere e
istruire e illuminare. (Ivi)
Finalmente
Hanuman e Yama si accordano: la scimmia resterà in
vita, come Shahrazàd, finché racconterà storie
appassionanti. Le batterà alla macchina da
scrivere, e il giovane Abhay le leggerà: se metà
del pubblico, inizialmente composto dagli dei e
dalla famiglia, poi sempre più vasto, fino a
costituire una piccola folla, si annoierà per più
di cinque minuti, la scimmia dovrà morire. Così la
scimmia che era Sanjay passa la notte pensando e
riflettendo alla storia che sta per raccontare:
Poi
rimasi coricato e sveglio, tendendo l'orecchio
agli scricchiolii e al fruscio del vento fra le
piante fuori dalla finestra, volgendo di tanto in
tanto lo sguardo al trono nero nell'angolo, una
lastra di oscurità più scura nell'oscurità; deboli
brillantini di luce vi guizzavano dentro; mi
sforzavo di riandare al passato e riportare alla
luce ricordi convertibili in storie, ma riuscivo a
pensare solo alla ricchezza del mondo, alla sua
verdeggiante profusione: il delizioso profumo che
esala dalla regina della notte quando i suoi fiori
si schiudono lentamente, il gracidio delle rane,
la luce argentata della luna e le ombre
misteriose, lo stormire delle cime degli alberi e
il soffuso diffondersi delle voci, la carezza di
morbide rotondità concrete e rassicuranti,
nell'incavo della mano. Soprattutto pensavo: siamo
fortunati, ed è strano che impariamo a odiare
perfino questo, che dimentichiamo simili doni e
cerchiamo di liberarcene; le lenzuola sono fresche
e lisce sotto di me, e di ciò sono riconoscente;
sì, tutto questo deve bastare, sentire queste cose
e sapere che tutto questo coesiste, la terra con i
suoi mari, il cielo con i suoi soli. (Ivi, 26)
Il
cappio di Yama è carezzevole, e tutto questo può
non bastare, perché la morte ha un carattere
assoluto che le storie vere e false, quelle che
tengono, che non fanno annoiare, non conoscono.
Thanatos, dio greco della morte, è figlio della
Notte e fratello di Ypnos, Sonno e Sogno. La morte
e il racconto hanno una relazione privilegiata,
come il sonno e il racconto: i bambini ascoltano
storie per scivolare dolcemente nel Sonno, come i
genitori leggono un romanzo. Dal Sonno simile alla
Morte, il coma, ci si può svegliare se qualcuno
racconta storie: accadrà alla fine del libro di
Chandra.
Ricchissimi
di scambi sono il sogno e il racconto, che si
intrecciano in un antico discorso sul
favoleggiare, puntando alla pregnanza, agli echi
che si creano, alle voci molteplici che si
riverberano e ne riprendono variandole trame e
figure: quando la morte di Socrate viene rimandata
di un giorno per la festa di Apollo, il filosofo
compone favole alla maniera di Esopo. Ai suoi
allievi spiega che aveva sempre interpretato un
suo sogno ricorrente, che lo incitava a comporre
ed esercitare musica, come un'esortazione a
continuare ciò che già faceva, ‘reputando che la
filosofia fosse musica altissima' (Fedone, IV, a).
Ma questa volta, avendo ricevuto in dono un altro
giorno di vita, Socrate decide di non partire per
il regno dei morti senza aver interpretato in modo
nuovo il suo sogno:
[...]
pensando che il poeta, se vuol esser poeta, ha da
comporre favole e non ragionamenti, e io non ero
un favoleggiatore, ecco perché quelle favole che
avevo più alla mano e che sapevo a memoria, quelle
di Esopo, mi misi a poetare di codeste, le prime
che mi vennero in mente. (Ivi, b)
Per
Socrate e per la scimmia di Chandra il racconto
scaturisce dalla percezione della vita come dono,
sentimento della vita che segnala il passaggio di
Eros nel terreno del linguaggio, e come l'arte è
grazia, che scioglie il soggetto dalla
contrattazione mercificata, sia concretistica, sia
ideologica. Alla scimmia e a Socrate accade di
liberarsi liberando, come agli attanti fiabeschi:
ne parla Italo Calvino introducendo le Fiabe
italiane, rispetto alle quali si è posto come
ultimo anello di una lunga catena di narratori e
raccoglitori appassionati. Le fiabe, scrive
Calvino, sono vere, sono una sorta di mappa
dell'esistenza, un ‘catalogo dei destini' umani
nelle loro diverse condizioni e soprattutto dei
passaggi, della crescita come incessante
trasformazione:
E in
questo sommario disegno tutto: la drastica
divisione dei viventi in re e poveri, ma la loro
parità sostanziale; la persecuzione dell'innocente
e il suo riscatto come termini d'una dialettica
interna ad ogni vita; l'amore incontrato prima di
conoscerlo e poi subito sofferto come bene
perduto; la comune sorte di soggiacere a
incantesimi, cioè d'essere determinato da forze
complesse e sconosciute, e lo sforzo per liberarsi
e autodeterminarsi inteso come un dovere
elementare, insieme a quello di liberare gli
altri, anzi il non potersi liberare da soli, il
liberarsi liberando; la fedeltà a un impegno e la
purezza di cuore come virtù basilari che portano
alla salvezza e al trionfo; la bellezza come segno
di grazia, ma che può essere nascosta sotto
spoglie d'umile bruttezza come un corpo di rana; e
soprattutto la sostanza unitaria del tutto, uomini
bestie piante cose, l'infinita possibilità di
metamorfosi di tutto ciò che esiste. (Calvino
1979, I, 16; corsivo mio)
Favola
o fiaba, dal latino fabula, che come il greco
mythos significa parola e racconto, fino
all'Ottocento designava qualsiasi storia priva di
riscontro oggettivo. Il vescovo Jacopo da
Varagine, e il suo vasto pubblico di credenti dal
XIII secolo in poi non avrebbe mai posto tra le
favole la storia di santa Cristina, chiusa in una
torre da un padre che voleva impedirle di fuggire
non con un principe straniero ma abbracciando la
nuova fede cristiana. Quando di fronte alla sua
ostinazione il padre ordina di straziare il suo
corpo con uncini di ferro, Cristina prende i
brandelli della propria carne e li getta addosso
al padre con disprezzo. Il padre muore e la
persecuzione viene continuata da un certo
Giuliano, il quale:
...comandò
che le fossero gettati addosso due aspidi, due
vipere e due colubri; ma le vipere le si
arrotolarono ai piedi. gli aspidi le circondarono
il seno e i colubri le leccarono il sudore intorno
al collo. Disse qualcuno a un incantatore:
"Serviti delle tue arti per eccitare quelle
bestie!" Ma le bestie si rivoltarono contro
l'incantatore e lo uccisero. Allora Cristina
comandò ai serpenti di andarsene nel deserto, poi
resuscitò il morto. Allora Giuliano ordinò di
strappare le mammelle della fanciulla da cui
sgorgò latte invece di sangue. Infine le fece
tagliare la lingua; ma Cristina per questo non
perse la parola e prendendo un pezzo della sua
lingua la gettò in faccia a Giuliano che fu
percosso in un occhio e subito perdette la vista.
(Jacopo da Varagine, 409-410)
La
parola vera non può essere soffocata, e
l'istituzione che pretende di riuscirci condanna
se stessa: un segmento narrativo del martirio di
Cristina è nella storia di Giordano Bruno, che
durante il suo supplizio avrebbe tagliato con i
denti e gettato sui suoi persecutori la propria
lingua. Si tratta qui di una verità metaforica,
che si diffonde attraverso la storia, e questa
verità ci giunge intatta, anche se ormai non
possiamo considerarla, come fu un tempo, ‘divina'.
Nè ci sembra una verità scientifica, come al suo
tempo e oltre, il potere venefico della donna
mestruata, descritto dallo scienziato
rinascimentale Paracelso:
Ad una
sua semplice occhiata, uno specchio si ricopre di
chiazze e si guasta; allo stesso modo, se essa
guarda una ferita o una piaga, la fa suppurare e
impedisce la sua guarigione. Anche il suo fiato,
come il suo sguardo, può guastare, corrompere e
rendere inservibili molte cose, e così pure il suo
tocco. Vedrete, infatti, che se essa maneggia del
vino durante il periodo mestruale, questo vino si
trasformerà immediatamente, assumendo un dubbio
sapore. (156-157)
È
facile sorridere o indignarsi leggendo Paracelso,
anche quando afferma, in pieno accordo con
Aristotele e tutti gli altri imparziali
ricercatori, che nel liquido spermatico è
presente, minuscolo ma completo, il futuro essere
umano, al quale la donna, come la terra al seme di
grano, fornisce solo il nutrimento. Turba un po'
invece pensare che solo un secolo fa si è
riconosciuto che la donna contribuisce alla nuova
vita non solo con la gestazione e il parto, ma con
il cinquanta per cento del corredo genetico, con
l'ovulazione. Non esiste osservazione svincolata
dai bisogni affettivi, e le affermazioni
scientifiche o religiose hanno sapore di verità, e
possibilità di diffondersi, se corrispondono alla
rappresentazione che il soggetto e la sua cultura
si danno per vivere. La matrice della conoscenza
scientifica, come delle ideologie e dei sistemi
religiosi, è la stessa del delirio e del sogno, e
se ne differenzia solo per il condiviso e costante
confronto con l'esperienza: nel nostro tempo ci
illudiamo che esista un metodo critico sufficiente
a ignorare l'inconscio, la sua tirannia sui
processi cognitivi, la sua natura pulsionale, il
principio economico che domina la realtà psichica.
Come ultimo esempio, tanto piccolo quanto
significativo, di questo primato, possiamo leggere
quanto nei vocabolari contemporanei si dice della
clitoride, come nel Vocabolario Treccani, del
1997:
In
anatomia, organo erettile femminile impari e
mediano, omologo al pene virile, però rudimentale,
situato nell'angolo anteriore della vulva.
(grassetto mio)
Se la
definizione non corrispondesse al bisogno di
sostenere la millenaria rappresentazione della
donna come minus habens, in quanto raffrontata al
meglio fornito modello maschile, si dovrebbe poter
trovare la reciproca, per la quale il pene
potrebbe essere definito come omologo alla
clitoride femminile, però ipertrofico.
In molte lingue una favola può essere una cosa non
vera, o una menzogna, ma anche una realtà
particolarmente bella e felice, per quanto rara:
nella vita di ciascuno si possono dare giorni o
almeno momenti favolosi. Se ci soffermiamo su
questa ambivalenza possiamo osservare che la
favola può funzionare come ponte tra la rara
realizzazione di un desiderio e ciò che essendo
irreale, falso, non può esistere. Su questo ponte
di parole e di strutture narrative transita il
discorso umano che si tende e oscilla tra questi
due poli, grazie al sentimento della vita come
dono, che la scimmia che era Sanjay prova distesa
nelle lenzuola fresche, dove giunge il profumo
della regina della notte, prima del giorno in cui
potrà cominciare a raccontare.
La grande illusione di essere al centro
dell'universo, caduta col sistema copernicano, e
quella di essere in posizione originariamente
differente e privilegiata rispetto al mondo
animale, finita con l'evoluzionismo darwiniano,
hanno costituito secondo Freud due ferite
narcisistiche per la coscienza occidentale. E
Freud stesso si considerava responsabile di aver
inferto la terza ferita, descrivendo l'inconscio,
che il soggetto cosciente non può padroneggiare.
Se il progresso scientifico da Galileo a Darwin è
pensabile come una progressiva sottrazione di
spazi descrittivi della realtà umana alla
religione, nel cosmo e nella natura, con Freud il
soggetto non conquista spazi nuovi, ma perde
l'illusione di dominare la realtà psichica, e con
essa anche la conoscenza oggettiva del mondo
esterno si configura come una continua avventura,
la cui meta non può mai costituire un approdo
certo. Il concetto di pulsione, il primato
dell'affettività sui processi cognitivi,
l'analogia tra i meccanismi paranoici e ossessivi
da una parte e le costruzioni religiose e
ideologiche dall'altra, obbligano l'essere umano,
colto ed equilibrato a piacere, a rinunciare
all'illusione di venire a capo della propria
complessità.
E insieme a questo, si manifesta appieno la
multiforme solidarietà tra i diversi piani della
rappresentazione umana, sogni notturni, racconti
popolari, deliri e costruzioni o interpretazioni
analitiche:
Sono
stato sedotto dall'analogia. Le formazioni
deliranti dei malati mi sembrano equivalenti alle
costruzioni da noi costruite nel trattamento
analitico: tentativi di spiegazione (Erklärung) e
di ricostruzione (Wiederherstellung), che in
condizioni di psicosi non portano ad altro che a
sostituire una parte di realtà, attualmente
rinnegata, con un'altra ugualmente rinnegata tempo
prima. Compito della singola ricerca è di scoprire
gli intimi rapporti tra i materiali,
rispettivamente, del rinnegamento attuale e della
rimozione di un tempo. Come la nostra costruzione
è efficace solo in quanto restituisce un frammento
di biografia andato perso, così anche il delirio
deve la propria straordinaria forza di convinzione
alla parte di verità storica, inserita al posto
della realtà respinta. Pertanto anche la follia
ricadrebbe nella formula enunciata tanto tempo fa
per l'isteria: il malato soffre di ricordi. (Freud
1937; traduzione di A. Sciacchitano; Briefcase
legamesociale)
Seguiamo
un'altra seducente analogia: come il nevrotico e
il folle di Freud, la scimmia che era Sanjay
soffre di ricordi, al punto che chiede e ottiene
un supplemento di vita per liberarsene
liberandoli, sotto forma di racconti, mescolando
vero e falso. Il romanzo di Chandra e lo scritto
di Freud sono separati da quasi sessant'anni: per
meglio dire, quasi dodici lustri legano la scimmia
che era Sanjay all'inventore della psicoanalisi,
in un nastro di parole che lega, affascinante
quanto il cappio di Yama, che separa.
La scimmia che era Sanjay ha dalla sua parte sia
Hanuman che Freud: se lo vuole, può ricordare, e
ricordando accade che Eros si svegli, nella
percezione di delizia del lenzuolo su cui si
giace, del profumo dei fiori della notte, del
sentimento della vita come dono. Yama, o Thanatos,
col suo cappio di seta, è in Freud la condanna
alla ripetizione, il rifiuto di qualunque
possibilità di liberarsi liberando, la ripetizione
di una storia tragica, insopportabile per sé e per
gli altri.
Non si ha conoscenza se non delle rappresentazioni
che ci costruiamo, e che allo stesso tempo ci
costruiscono, formando la realtà psichica, per
quanto possiamo esercitare una ricerca rigorosa.
La metafora costituisce una rappresentazione
particolare, ad alto valore di scambio, che ha
sull'eguaglianza il vantaggio di restare insatura,
come la metonimia, che caratterizza la catena di
senso del sogno notturno e del delirio, svincolato
dallo scambio e dalle relazioni come luoghi
culturali, simbolici.
In questa prospettiva l'indagine sul rapporto tra
sogno e fiaba e letteratura, inaugurato da Freud
con scritti insaturi e fecondi, ha un versante
volto a elucidare i caratteri del rappresentare
stesso attraverso figure e narrazioni collettive,
siano fiabe, miti o romanzi, e un altro versante
che riguarda il contributo psicoanalitico alla
comprensione della struttura del racconto, della
sua storia, della sua fortuna.
Dal momento in cui le fiabe sono state pubblicate,
esse sono state rimosse in una stanza separata:
quella dei bambini, de peccerille, come recita il
titolo de Lo cunto de li cunti di Giambattista
Basile, che per linguaggio e temi non era né è
affatto fruibile da un pubblico infantile. Oppure
le fiabe sono state dedicate alle donne, come Le
mille e una notte, all'inizio del Settecento, fino
a costituire, nel mito romantico e positivistico,
l'espressione orale del popolo, che ha ricevuto la
stessa collocazione dei bambini e delle donne:
tutti minus habentes, rispetto al maschio
occidentale colto, privo di superstizioni e di
illusioni. Oppure plus habentes, in un
rovesciamento complementare che lascia tutto
invariato, quando si acclamano i miti cosmogonici
degli aborigeni australiani come forma di vera
saggezza, in contrapposizione all'aridità della
concezione occidentale. Tutto viene ribaltato o
restaurato, estratto d'improvviso come un coniglio
dal cappello, pur di non riconoscere ciò che lega
ogni realtà umana, e il bambino all'adulto, e
l'uomo alla donna: le differenze sono variazioni
sul tema dell'umano, la sua interrogazione
radicale, il desiderio inappagabile, la sofferenza
e il giubilo, nella loro alternanza
impadroneggiabile. I canti con i progenitori che
creano il mondo per gli aborigeni australiani
rispondono allo stesso bisogno che ci spinge a
credere che la scienza e la tecnica troveranno,
basta volerlo, la soluzione alla malattia,
all'ingiustizia, forse alla morte stessa: il
bisogno di una storia che ci permetta di
continuare a vivere sperando di trovare un senso
nella nostra presenza accanto agli altri. Senza
disporre, a guardar bene, di una certezza maggiore
sulla via da scegliere, nei momenti cruciali della
vita, di quella del principe Ivan, che dopo aver
consultato inutilmente due vecchi saggi per avere
un'indicazione che lo facesse giungere all'estremo
dei reami, dove viveva la bellissima figlia dello
zar serpente, ottenne dal terzo un gomitolo: da
gettare al limite del bosco, da seguire dove si
fosse srotolato. La nostra condizione rispetto
alla conoscenza forse è solo quantitativamente
diversa da quella dei nostri progenitori di fronte
al cielo notturno, che secondo i paleostorici
costituì il primo campo di osservazione
scientifica:
La volta
celeste che vedono è un'illusione, un
inconcepibile guazzabuglio di immagini di oggetti
che esistono ancora e di altri che non esistono
più, senza parlare di quelli che esistono già e
non sono ancora visibili. Il reale del passato
viene quindi a inquinare il reale del presente, e
il reale del presente tarda a mettersi in
evidenza. Il cielo si prende gioco dei sensi e
fuorvia la ragione. (Bouvet, 15)
I
nostri progenitori pensavano quanto noi di saperne
abbastanza per aprire l'avventura della
conoscenza, mescolando in misure riconoscibili
solo a posteriori osservazione e illusione,
percezione e magia, e poi potere, controllo,
piacere, delirio, sogno, costruendo storie, tante
storie, abbastanza feconde da generarne altre,
formandosi e trasformandosi incessantemente. Che
si avvolgono e salgono, fragili e potenti come un
rampicante, intrecciandosi, cercando spazio per
sbocciare insieme. Solo la favola e il sogno lo
possono raccontare, e i romanzi postcoloniali, il
cui andamento ne segue o ne accoglie il senso
variegato e cangiante, nell'oscillazione che è il
rischio di vivere, e di riconoscere la vita come
dono.
TERZO
CAPITOLO
Adalinda
Gasparini. Muta d'accento e di pensier
(Il testo di questo capitolo è
stato presentato il 3 ottobre 2002 a
Spilimbergo - PD - nel
II Convegno AISLI, ed è stato pubblicato in Roots and
Beginnings. Proceedings of the 2nd
Conferenze. AISLI. Atti del II Conv.,
3-6/10/02; Venezia: Cafoscarina 2003. Vedi
anche: A
psychoanalytical Perspective: Muta d'accento
e di pensier)
La donna è mobile, qual piuma al vento: come se tutto il peso
fosse concentrato nella parte anatomica esclusiva
dell'uomo? La stessa levità attesta nella donna
una chance in più, che potrebbe consentirle,
almeno in parte, di sfuggire alla castrazione...
forse allude a questo il proverbiale punto
più del diavolo. Il maschile invidioso
misconosce la ricchezza femminile e la fa
dipendere da un'assenza: mancando di quell'organo
prezioso, così consistente, non avrebbe timore di
perderlo, ricca del nulla che oppone al pieno
fallico di cui sarebbe dotato il maschio.
Ma la
romanza dalla quale viene il nostro tema inscena
un paradosso, dato che a dare la definizione è il
Duca di Mantova, libertino impunito: nell'opera la
mutevole figlia di Rigoletto
porta invece il peso della sua esistenza al punto
di morirne, fedele alla propria scelta, per mano
del padre. Non sorprende che la censura asburgica
abbia insistito tanto per evitare che Verdi
mantenesse al suo posto nella vicenda il Re che si
diverte (Victor Hugo, Le roi s'amuse),
perché l'opera popolare mette in scena il segreto
del potere, anche di quello più legittimo, regale,
incarnato al tempo proprio dall'impero
austro-ungarico. Il potere patriarcale implica il
silenzio della donna, ottenibile sia con la
zavorra della convenzione matrimoniale, sia con i
tendaggi che isolano le amanti nelle alcove. Ciò
che conta è che abbia parola solo quando l'uomo
gliela concede, per poi togliergliela a suo
insindacabile giudizio. È lo stesso dominio che
esercitò Romolo, quando uccise il fratello che,
trovandolo piccino, aveva saltato ridendo il suo
solco per la fondazione della città eterna.
Non
si vuol certo sminuire la sensibilità degli
scrittori, maschi, alla levità aleatoria senza la
quale l'opera d'arte non esiste:
L'evocazione intende essere il
pendant negativo della creazione. Anch'essa afferma
di suscitare il mondo dal nulla. Né con questa né
con quella ha nulla a che fare l'opera d'arte. Essa
non esce dal nulla, ma dal caos. Ma essa non si
strappa dal caos, come il mondo creato
secondo l'idealismo della teoria
dell'emanazione. L'arte non "fa" nulla del caos, non
lo compenetra; e altrettanto poco è in grado (come
fa, invece, l'evocazione magica) di mescere, da
elementi di quel caos, l'apparenza. Ciò è operato
dalla formula. Ma la forma lo incanta - per un
istante - in mondo. Ecco perché nessuna opera d'arte
può sembrare del tutto libera e viva senza diventare
pura apparenza e cessare di essere opera d'arte. La
vita che in essa fluttua deve sembrare irrigidita e
come fissata nell'istante. […] Ciò che impone un
arresto a questa apparenza, fissa il movimento e
interrompe l'armonia, è l'inespresso. Quella vita
costituisce il mistero, questo irrigidimento la
validità dell'opera. (Benjamin,
W., Angelus Novus; Einaudi,
Torino 1976 - Schriften, Frankfurt-am-Main, 1955; tr. it. R.
Solmi; 211-212)
Perché
Benjamin continua accostando l'esercizio dell'arte
al potere sulla parola femminile?
Come l'interruzione mediante una
parola di comando può trarre, dalle tergiversazioni
di una donna, la verità proprio nel punto che le
interrompe, così l'inespresso costringe l'armonia
tremante a fermarsi, ed eterna (con questa
obbiezione) il suo tremito. (ivi, 212)
Sia sulla natura, sia sulla donna, sul bambino
come sull'analfabeta, e sui popoli colonizzati, il
potere consiste anzitutto nella prerogativa
esercitata dallo scienziato, dal maschio, dal
genitore, dall'istruito, dal colonizzatore, di
consentire e interrompere il discorso dell'altro.
Lo stesso gioco accade nelle Mille e
una notte, dove Shahriyàr, sultano delle Indie, è
stato tradito dalla sposa che credeva fedelmente
innamorata, e la sua ferita è così grave e
dolorosa che pensa di rinunciare al trono. Poi,
dopo aver constatato che nessuno, neppure i
potenti demoni, può controllare la donna, decide
di tornare a regnare. La donna è mobile, constata
amareggiato il sultano delle Indie, e siccome
tutto il suo potere e la sua magnificenza non sono
bastati né basteranno a tenerla ferma, per non
correre il rischio di subire altri tradimenti
trova un'estrema interruzione: ogni sera sposa una
vergine e al mattino la fa soffocare dal suo
visir.
Il regno è minacciato di distruzione dal suo
cuore, dal rappresentante del potere, che non
tollera contraddizione e mobilità. Per tre anni
ogni giorno muore una fanciulla, la città è in
lutto, e il visir costernato viene interrogato da
sua figlia, Shahrazàd, che:
...Aveva letto i libri,
le storie, le gesta dei re antichi, e le notizie
dei popoli passati, tanto che si dice avesse
raccolto mille libri di storie attinenti alle
genti antiche, ai re del tempo che fu, e ai poeti.
Costei disse al padre: - Cos'hai che ti vedo
turbato, angustiato e afflitto? C'è pure chi ha
detto a tal proposito:
Di'
a chi sopporta un'angustia: l'angustia non dura.
Come si dilegua
la gioia, così si dileguan gli affanni.
All'udir ciò
dalla figlia, il visir le narrò da capo a fondo
l'accaduto. Ed ella: - Per Dio, padre mio, fammi
sposare questo re. O vivrò, o servirò,
sacrificandomi, da riscatto alle figlie dei
musulmani, e sarò causa della loro salvezza da lui.
(Le mille e una notte, prima
versione integrale dall'arabo diretta da F.
Gabrieli, Einaudi, Torino 1972, 4 voll.; I, 7)
Come
Harun ar-Rashid, favoloso califfo, il terminatore
Shahriyàr soffre di un'insonnia cronica, che
nelle Mille e una notte pare compagna del
potere. Shahrazàd fin dalla prima notte di nozze gli propone
un racconto, nell'ora che precede l'alba, e al
mattino il visir non riceve l'ordine di uccidere
la sua stessa figlia come tutte le altre spose: il
sultano ha sospeso la condanna fino a quando non
saprà la fine della storia. Così, notte dopo
notte, Shahrazàd mantiene il suo alito vitale,
l'accento, il pensiero.
Se chiediamo perché Shahrazàd rischiasse la morte,
molti rispondono che voleva salvare il sultano
dalla sua stessa crudeltà, a riprova
dell'universale attribuzione alla donna di un
masochismo strutturale, sostenuto
in passato anche in area psicoanalitica, che ci
sembra fondata come la sua pretesa mobilità. Né
d'altra parte abbiamo intenzione di considerare
qui Shahrazàd come una femminista ante-litteram,
perché non vogliamo lasciarci sfuggire un fatto
molto semplice: il racconto vive della figlia del
visir come del sultano, e l'uno non esiste senza
l'altra. La comprensione della storia cornice
delle Mille e una notte passa per un particolare
decisivo, che non è rilevabile né da letture
patriarcali-maschiliste né femministe: di fronte
al sultano terminatore Shahrazàd sceglie da sé un
limite, non al proprio pensiero ma all'accento,
al suo racconto, quando decide di narrare solo
un'ora prima dell'alba. Alle prime luci del nuovo
giorno si lascia cadere nel silenzio.
Il modello di ogni narratrice rappresenta sia la
levità femminile, che snoda favole intrecciate e
incastonate le une alle altre, quasi senza fine,
sia l'interruzione maschile, delimitando il suo
dire, le sue storie, con la cesura più simbolica
dell'immaginario umano: l'opposizione tra notte e
giorno, metafora dell'identità, della coscienza
che tramonta e sorge ogni giorno, come il sole,
metafora della polarità maschile-femminile,
morte-vita, freddo-caldo, umido-secco...
Nella coppia maschile-femminile, in tutte le sue
infinite metaforizzazioni, si articola l'identità
stessa, la sua permanenza, la sua labilità, la sua
complessità irriducibile. L'oscurità, l'inconscio,
la sospensione del controllo e della logica della
coscienza, sono personificate dalla donna come
notte, come morte: introdotta a causa della colpa
di Eva, o portata fra gli uomini da Pandora, la
morte è la donna come terra che accoglie i
cadaveri.
Fra morte e racconto c'è un'intima solidarietà.
Shahrazàd,
che sa raccontare per mille e una notte avvincendo
il suo sposo, affronta il corpo a corpo con la
morte connaturata al potere, che Shahriyàr mette
in scena: non potrebbe vincere se non avesse
dentro di sé il limite che il sultano non
riconosce, pensando di sfuggire al confronto con
il tradimento, la perdita. Se il detentore del
potere rifiuta la castrazione, esercita un potere
consacrato a Thanatos, e la pulsione di morte
condanna lui e la sua città alla letterale e
ripetuta eliminazione della figura femminile, che
incarna l'anima lieve, sfuggente. Shahrazàd
racconta dunque, un'ora prima dell'alba, e le sue
storie di demoni, amanti sfortunati, prodigi e
palazzi che sorgono in una sola notte, avvince il
sultano.
La narratrice non può salvare l'ascoltatore, come
lo scrittore non può salvare il lettore: come il
sultano può decidere, a suo piacimento, di far
soffocare Shahrazàd, così il lettore può chiudere il libro. Ma
lo scrittore sa anche che può intrattenerlo,
appassionarlo, e spera che il gusto per le storie
riapra la porta a Eros, il grande demone. Eros
e Thanatos,
la coppia che nella psicoanalisi segna la rinuncia
a un ideale salvifico, sia medicalistico, sia
spiritualistico, è sorgente e trama delle
narrazioni.
Verso le storie del sultano delle Indie e della
figlia del suo visir, che circolava in Europa
dalla conquista musulmana, potrebbe avere un
debito Boccaccio per la storia cornice del Decameron: nella prima raccolta di
racconti moderni l'autore si rivolge al suo
pubblico con parole simili a quelle che Shahrazàd
aveva detto al padre angustiato:
E sì come la
estremità della allegrezza il dolore occupa, così le
miserie da sopravvegnente letizia son terminate.
(Boccaccio, G., Decameron, De
Agostini, Novara 1982, 2 voll. ; I, 17)
Boccaccio apre il Decameron con la grande
distruttrice, e non si tratta solo dell'orrore per
la pestilenza e della pietà per la perdita di
tanti esseri umani, ma dello sgomento di fronte
alla fragilità dell'ordine e del potere, quando la
legge, scritta e non scritta, sembra essersi
dissolta:
E in tanta afflizione e
miseria della nostra città era la reverenda
autorità delle leggi, così divine come umane,
quasi caduta e dissoluta tutta, per li ministri ed
esecutori di quelle, li quali, sì come gli altri
uomini, erano tutti o morti o infermi o sì di
famigli rimasti stremi che uficio alcuno non
potean fare; per la qual cosa era a ciascuno
licito quanto a grado gli era d'adoperare. (Ivi,
19-20)
L'accettazione del
limite, come ingresso nel mondo simbolico, nella
cultura umana, è rappresentata nel racconto
proprio da questa morte che dissolve le illusioni.
La perdita di ogni ideale assoluto lascia spazio a
qualcosa di nuovo, né vero né falso, e vero e
falso allo stesso tempo: il mito, la parola, il
racconto. Al posto della fede salvifica e
dell'ideale eroico di una città fondata col sangue
dell'altro, che chiede sempre nuovo sangue, si può
abitare, per un tempo limitato, un luogo creato
dall'arte stessa della parola, perché non c'è Tebe
senza peste, perché l'empietà e l'esercizio del
potere sono intimamente connessi.
Come l'antica raccolta araba sgorga dal lutto per
la morte di tante fanciulle, quella che apre la
letteratura moderna sgorga dal lutto per la peste.
La peste imperversa anche a Tebe, e per questo
l'eroe solutore di enigmi, Edipo, è costretto a
cercare la verità: le sue nozze regali sono
incestuose e il suo potere viene dal parricidio,
lui stesso è causa del morbo.
Una sacerdotessa, Diotima di Mantinea, riesce a
sospendere la peste ad Atene per dieci anni, ed è
lei a raccontare a Socrate nel Simposio
la storia più bella su Eros, la sola storia
importante nella filosofia greca ad essere narrata
da una donna. Diotima non ha il potere di
eliminare la malattia che è connaturata al potere,
ma può sospenderla: crediamo che per questo sia
suo il discorso più bello su Eros, il grande
demone.
Il regno dove la morte domina è come il regno
sterile, a proposito del quale abbiamo citato
Glissant, quando si interroga sul processo di
creolizzazione, se possa darsi senza violenza
(Glissant, É., Poetica del diverso;
Meltemi, Roma 1998 - Introduction à
une poétique du divers, Paris, 1996; tr. it.
F. Neri; 42. Vedi: S. Albertazzi e A. Gasparini,
cit., pp. 51 sgg.). Un corpo a corpo tra esseri
umani, siano individui, siano culture, senza
violenza, è una fantasia salvifica, perché essendo
costretti, come l'emigrante nudo, a entrare nel
campo del linguaggio, subiamo lo scarto tra
significante e significato, e proprio la
tolleranza, la sopportazione di questo scarto ci
permette di entrare nel campo della parola e del
simbolico. Al massimo è ottenibile una sospensione
temporanea della violenza, come accade nel lavoro
analitico, nel racconto: nel lavoro della parola,
luogo di relazione. Per entrare in questi luoghi,
che hanno a che fare con il complesso fenomeno
descritto da Freud come sublimazione, il soggetto narrante,
come Shahrazàd, si delimita da sé, per lasciare
all'altro, al diverso, ascoltatore o lettore, uno
spazio per il suo proprio racconto. In questo
spazio si coltiva la consapevolezza che, cadute le
illusioni, il soggetto esiste solo nel campo della
cultura, del mondo simbolico, e questo sospende la
violenza, pur senza poterla eliminare. Deve
bastare, come bastò sospendere la pestilenza a
Diotima, esperta della natura di Eros.
La scimmia di Terra rossa e pioggia
scrosciante per evitare di
reincarnarsi in una forma animale ha bisogno di
una sospensione della condanna, e questo è il
tempo del racconto. Deve narrare storie che non
annoino il suo pubblico se vuole vivere, come
Shahrazàd
col sultano: la sospensione è nella possibilità
che si rinnovi una relazione appassionante fra
narratore e ascoltatore. Nel romanzo di Chandra scimmia e uomo devono
narrare insieme, non solo perché Abhay racconta le sue storie
americane ogni volta che la scimmia si ferma, ma
perché la scimmia che era Sanjay ricorda le parole ma non
può articolarle, mancandole gli organi di
fonazione, e così scrive a macchina (Chandra, V., Terra
rossa e pioggia scrosciante, Instar Libri, Torino
1998 -Red Earth and Pouring Rain,
London, 1995; tr. it. A. Nadotti e F. Galuzzi).
Quando
il rapporto gerarchico tra l'uomo e l'animale che
lo imita, come l'uomo imita Dio, cade, il racconto
sgorga. Non c'è gerarchia nell'arte del racconto,
attraverso il quale scimmia ed essere umano, uomo
e donna, colonizzato e colonizzatore, trasformano
il corpo a corpo distruttivo in una relazione
d'amore.
Quando il romanzo è alla
fine, e la scimmia sta per morire, nella folla
degli ascoltatori scoppiano tumulti. Al movimento
di mare, alla comunità arcipelagica che partecipa
al gioco della narrazione, subentra la violenza
prodotta da un'ideologia per la quale deve “esserci una sola idea, una voce, una
cosa, una una una” (ivi, 738), e allora Saira, la
bambina che è stata fin dall'inizio presente nella
storia, lascia la mano della scimmia Sanjay e scende fra la folla
per placare il tumulto, ma una bomba cade dal
cielo. Saira viene colpita ed entra in coma, un
sonno simile alla morte la rende muta, e la
scimmia Sanjay, che aveva deciso di non parlare più,
rompe il silenzio, e col dito tremante traccia una
parola sul polso di Abhay:
-
Aiutala.
- Come?
- Raccontale una storia.
(Ivi, 739)
Abhay sa che i medici
nell'ospedale stanno curando al meglio Saira, e i
genitori la vegliano con sollecitudine, ma sa che
il sonno simile alla morte confina col mistero, e
raccoglie l'eredità della scimmia, la stessa di
Shahrazàd:
Devo essere impazzito, forse mi
arresteranno. [...] Mi darete ascolto? Mi
lapiderete, mi rinchiuderete? Non importa, io devo
raccontare una storia. [...] Racconterò una storia
che crescerà come un loto rampicante, si avvolgerà
su se stessa e si espanderà senza fine, finché
ciascuno di voi entrerà a farne parte, e gli dei
verranno ad ascoltare, finché tutti noi parleremo in
un'armoniosa confusione che contiene il passato,
ogni attimo del presente, e il futuro infinito. E la
grande musica di quel suono primigenio raggiungerà
Saira, che si metterà a sedere sul letto, si
libererà dalle bende e salterà giù con le mani sui
fianchi e ridendo chiederà, cosa succede, eh? Cosa
sono quei musi lunghi, volete fare una partita a
cricket? [...] Giocheremo fino al tramonto, liberi e
spensierati. Poi siederemo in cerchio, in
innumerevoli cerchi, e diremo, dacci la tua
benedizione, Ganesha; resta con noi, amico Hanuman,
e tu Yama, vecchio furfante, puoi stare a sentire,
se credi; e con queste parole ricominceremo tutto
daccapo. (Ivi, 740-741)
Così finisce il romanzo,
con il trionfo della parola che, se non può
eliminare la condanna, la può sospendere. Le Mille e una notte hanno molteplici finali,
ma sono anche senza fine: mille e uno era per gli
arabi un numero magico, come millanta nella
tradizione popolare toscana. Solo la pubblicazione
della raccolta indusse gli scrittori, europei e
arabi, a partire dal XVIII secolo, a completare la
raccolta con materiali ad essa fino a quel punto
estranei, che vanno dalle fiabe di Aladino o Alì
Babà a cicli epici e cavallereschi: così si
realizzò alla lettera il numero magico, mentre i
manoscritti arabi più antichi che abbiamo
contengono racconti per poche centinaia di notti.
Nel finale della prima versione, settecentesca, il
sultano si rivolge così alla sua sposa:
“Riconosco, amabile Shahrazàd,
che sei incomparabile nei tuoi piccoli racconti: da
tanto tempo con essi mi rallegri; hai placato la mia
collera, e io rinuncio di buon grado, a tuo favore,
alla legge crudele che mi ero imposto; ti rimetto
interamente nelle mie grazie, e voglio che tu sia
considerata come la liberatrice di tutte le
fanciulle che dovevano essere immolate al mio giusto
risentimento”. (Galland,
A., Les mille et une nuits,
Garnier-Flammarion, Paris 1965; 3 voll. III,
433; Editio Princeps 1704-1717)
L'ascoltatore ringrazia
la narratrice per aver mitigato la sua crudeltà e
il suo risentimento, abbastanza da non uccidere
più neppure una fanciulla. Nel finale di una delle
edizioni arabe ottocentesche, Shahrazàd chiede al sultano se può
esprimere un desiderio, e al suo assenso si fa
portare i loro tre figli, uno dei quali cammina,
l'altro va carponi, e il terzo prende ancora il
latte dal suo seno:
- Se tu mi uccidi, costoro
rimarranno senza madre e non troveranno una donna
che li allevi come si deve.
Allora il re pianse e stringendosi al petto i
figliuoli disse: - Shahrazàd, per Allàh, io ti avevo
perdonato ancor prima che venissero questi tre
bambini, perché ti ho trovato casta, pura, sincera
ed illibata. (Le mille e una notte,
cit., IV, 615)
Il senso della raccolta,
l'arte del racconto, consiste solo nella
sospensione della condanna a morte, e il suo
annullamento, sia dovuto all'ammirazione per
l'arte della narratrice, sia alla sua maternità, è
una razionalizzazione analoga a quella che ha
fatto incrementare il numero dei racconti fino a
mille, per concretizzare il numero magico che dà
titolo alla raccolta. Il sultano e la tradizione
razionalizzante esigono una soluzione definitiva,
la narratrice e la sacerdotessa si accontentano di
una sospensione: ma cos'altro è la vita se non la
sospensione di una condanna a morte? Ignorare
questa condanna, tentare di evitarla, implica una
tale alleanza con la morte che la vita viene
consegnata a Thanatos con largo anticipo.
L'ideologia salvifica che Sanjay sente nella parola che
lo perseguita dalla poetica di Aristotele, katharòs,
katharòs, katharòs... (Chandra, 404), che
spinge la folla al tumulto per la convinzione che
ci sia una sola verità, sono alla base
dell'identità a radice unica di cui parla Glissant
(cit.). L'arte del racconto non può guarire questa
malattia, che è la condizione umana, ma mitigarla,
perché fluisca la vita.
Mentre nel romanzo realistico il soggetto vince la
morte, con qualche soluzione religiosa o
ideologica, oppure ne è vinto, rappresentando
insieme alla fine dell'illusione la fine della
speranza, nella narrativa fantastica occidentale
ci si colloca, scrittore e lettore, fuori dal
problema della morte, mantenendo la rigida
partizione vero/falso, storia/favola, che
caratterizza la nostra letteratura realistica come
la nostra coscienza, che obbedisce al principio di
non contraddizione. Nei romanzi del nuovo mondo,
come nella fiaba e nel sogno notturno, i generi si
mescolano, si creolizzano: in Terra
rossa e pioggia scrosciante la descrizione fantastica
del trono di Yama è nelle stesse pagine in cui
realisticamente la scimmia non può parlare perché
il suo apparato vocale è inadatto. E alla fine la
piccola Saira è in coma, curata da medici reali,
ma il suo sonno ricorda quello della Bella
Addormentata, e un atto d'amore, come il dono di
un racconto, può sperare di svegliarla. La favola
si intreccia alla vita vera, e il realismo, che
non si accorge della molteplicità di registri
necessaria a rappresentare la realtà umana,
esaurita la sua funzione, sconfina in una sorta di
manierismo a servizio dell'identità continentale.
Come la scimmia lo chiede ad Abhay, possiamo
rivolgere la domanda al lettore: “Conosci
superstizioni più assurde della razionalità?” (Chandra,
156)
Nelle storie del nuovo mondo la morte è un
personaggio, come Yama, oppure è la condizione
nella quale sta per entrare l'io narrante, come in
tanti romanzi di Salman Rushdie. Se il soggetto lavora
prevalentemente per tener lontana la morte,
l'impegno titanico gli impedisce di vivere e
amare. Il controllo aborrisce la mescolanza
imprevedibile dell'amplesso col diverso, dal piano
più letterale a quello più astratto, e porta a una
rigidità che somiglia alla morte.
Neppure il potere può fare a meno delle storie che
sospendono la peste e la condanna a morte, per
questo il sultano delle Indie non uccide la figlia
del suo visir. In una delle tante piccole storie
narrate da Shahrazàd si racconta del grande califfo Harun
ar-Rashìd, che in una delle sue notti insonni
passeggia nel proprio palazzo, dove vivono le
trecentosessantacinque concubine (Le
mille e una notte, cit, II, 391-392). Ne incontra una che gli
piace moltissimo, che però è ebbra, e quando il
califfo l'attira a sé la donna gli chiede di
rimandare l'incontro alla notte dopo. Ma quando il
califfo le fa annunciare la sua visita, lei gli
manda a dire: “Il giorno cancella le parole della
notte” (ivi). Essendo in compagnia di tre poeti,
Harun ar-Rashìd ordina loro di improvvisare una
poesia che contenga quella frase. I primi due
recitano versi di circostanza, e hanno in dono una
borsa di danaro, poi tocca ad Abu Nuwàs, che nella
sua poesia descrive l'incontro notturno, e la
promessa della schiava, fino alla frase con cui
rifiuta il califfo. Allora Harun ar-Rashìd,
accusandolo di averlo spiato nella notte, ordina
che venga punito col taglio della testa: il grande poeta protesta
che ha passato tutta la notte nella propria casa,
può dimostrarlo, e che solo dalla frase ha capito
di cosa doveva essersi trattato. E cita in sua
difesa il Corano, la sura dei
poeti, per ricordare con la massima autorità
religiosa che la natura del poeta non può essere
valutata col riduttivismo oggettivante del potere:
Quanto ai poeti, che i
traviati seguono, non vedi tu come essi, in ogni
valle, vadano errando, e discorrono di ogni cosa
come insensati? E come essi dicono quello che non
fanno? (Corano, Sura XXVI)
Vero e falso sono, fin
dall'origine del racconto, parte dello stesso
gioco. Mentre il detentore del potere, come l'eroe
civilizzatore, vantano un mandato e una
rivelazione a vario titolo divina, unica e
assoluta, il poeta cerca il sapore della verità,
che si gusta solo lavorando sia il vero che il
falso. La grandezza del potere del califfo
consiste sia nella sua decisione, ogni volta che è
necessario, di tagliare la testa di chi incrina il
potere, come Romolo uccide Remo, sia nella sua
tolleranza per i poeti, che non rientrano, grazie
alla loro erranza, nel suo gioco di dominio. Vero
e falso si escludono nella logica di non
contraddizione, mentre nella realtà psichica hanno
uno spazio comune, e possono distinguersi pur
restando termini dello stesso procedimento, come
nella costruzione analitica che con un'esca di
menzogna può catturare una carpa di verità.
I miti, come le fiabe, formano un arcipelago di
isole e di nomi, che si legano e si sciolgono, e
di origini multiple che non si contraddicono a
vicenda: nessuna origine assoluta è possibile per
storie che fioriscono le une con le altre. Il mito
del realismo riduzionista, più o meno benevolo,
liquida come primitivo questo arcipelago
immaginario di miti e di origini multiple, e pone
se stesso al grado più alto dell'evoluzione, come
il bambino convinto che i genitori si siano
incontrati solo per far nascere lui. Rinunciando
all'illusione di una legittimazione assoluta, il
poeta segue un desiderio di raccontare e di
ascoltare, suo e degli altri, e ha fiducia nella
reciproca possibilità di comprendersi, su isole su
cui si può sostare, transitando. Abitare
l'arcipelago mette il desiderio di spostarsi su
altre isole, di continuare la migrazione, perché
solo il mito dell'origine divina fornisce
l'illusione di bastare a se stessi.
Il discorso potrebbe continuare all'infinito,
perché accettando il giubilo e la sofferenza della
creolizzazione l'identità atavica e le culture
compatte si snodano, come una sfera illusoria che
scollandosi si riveli un toro, all'interno del
quale passa il vento, senza fine. Il toro
topologico, un cilindro le cui basi coincidono,
simile a un salvagente o a una ciambella, è una
figura geometrica utile a raffigurare il soggetto
e la realtà psichica. In topologia, le figure,
pensabili come oggetti di una pasta
illimitatamente estensibile e comprimibile, non si
differenziano per le loro dimensioni, ma per il
loro rapporto con lo spazio: una sfera, grande a
piacere, può ridursi per deformazione continua a
un punto, a un cubo, a qualunque figura sia
regolare che irregolare, purché senza buchi. La
sfera è compatta e lo spazio la contorna: può
rappresentare l'identità a radice unica, senza la
quale l'imperativo aristotelico che ossessiona
Sanjay non
avrebbe senso. L'ideale della purezza, senza colpa
o imperfezione, fondato da un'originaria
legittimazione assoluta, o da conseguire seguendo
un ideale salvifico, spinge il soggetto come la
sua cultura a colonizzare incessantemente, sia la
propria realtà psichica, sia i minus
habentes a qualunque titolo, donne,
bambini, analfabeti, primitivi, folli. Pensare la
soggettività come una sfera corrisponde alla
convinzione che il soggetto sia consistente,
compatto, e non muti d'accento e di
pensiero.
Nella concezione psicoanalitica, nella rilettura
lacaniana di Freud in particolare, è invece l'identità, la
condizione stessa dell'uomo come essere di parola,
sottoposto allo scarto tra significato e
significante, a essere strutturalmente un
non-pieno, e il toro col suo buco rappresenta la
mancanza come una dimensione che non può mai
essere colmata. Nessuna deformazione continua può
rendere sfera una ciambella, occorrerebbe
un'operazione discontinua, di incollaggio, per
chiudere il buco centrale, per far corrispondere
il soggetto all'ideale della purezza. Ed è proprio
un lavoro disperato e illusorio di incollaggio, di
rimozione della mancanza costitutiva della
condizione umana, quello delle culture
continentali. Nella nostra cultura, come in certe
forme addomesticate di psicoanalisi, la mancanza
viene proiettata sulla femmina in primo luogo,
secondo un gioco speculare per cui la vanità e la
vacuità femminili esistono per far emergere la
potenza fallica. Il foro come è della donna è del
bambino, dell'analfabeta, del primitivo, e,
soprattutto, del folle. Grazie all'umanità
composta di esseri che non dispongono del potere
fallico, minus habentes - la
minorità, la menomazione, indica la castrazione -
gli altri, colonizzatori, benefattori e salvatori,
eserciti regolari o terroristi, mantengono
l'illusione di possederlo. Votati a Thanatos, costretti a ripetere
atti di fondazione che richiedono tanto più sangue
e vita quanto più è fragile l'illusione alla quale
obbediscono, diramano ordini e costruiscono
definizioni: soffocano la parola come Shahriyàr
uccideva le sue spose al mattino. Le storie
postcoloniali, così intime con fiabe e miti,
dissolvono la compattezza illusoria dell'identità,
ed Eros
fluisce nella mobilità metamorfica dello scambio,
che comprende riconoscimento e distacco, in un
frangersi di onde sulle rive.
Dominare la donna, toglierle parola e vita,
significa far patire a lei morte e castrazione,
nell'illusione di allontanarle da sé: ma soffocare
la donna significa eliminare la passione per la
verità. Si potrebbe dire che la poetica di Édouard
Glissant è dal lato del femminile non meno che da
quello maschile, quando preferisce la traccia alla
via certa, e l'arcipelago al continente:
La traccia sta alla via come la
rivolta al comando, come il giubilo alla tortura.
[...] Non si segue la traccia per sfociare in
percorsi comodi, la traccia è tesa verso la propria
verità che è quella di esplodere, di sfaldare
completamente la norma seduttrice. [...] Attacchiamo
tutti dentro di noi i frammenti delle nostre storie
offuscate, ma non al fine di costruire un nuovo
modello di umanità da contrapporre, in modo
prevedibile, agli altri modelli che siamo costretti
ad imporci. Ecco la devianza che non è fuga o
rinuncia, ma la nuova arte di sciogliere il mondo.
La traccia non ripete il viottolo a malapena segnato
su cui si incespica, né il viale ornato che si
chiude su un territorio, sulla grande proprietà. È
un modo opaco di imparare il ramo e il vento, essere
se stessi derivati dall'altro, il granello di sabbia
nel vero disordine dell'utopia, l'insondato,
l'oscurità dentro la corrente di un fiume
inarrestabile. I paesaggi antillani ricordano altri
paesaggi ed ogni incontro vi insinua la sua traccia
singolare, torrenti e fiumi, stabilendo
correlazioni; corrono fragili e ostinati, questi
bracci di linguaggio che si interpellano. Colline e
pianure degradano in racconti, frantumano
l'inspiegato del mondo. Non mancate a questo nuovo
tema che si sforza, non vi offendete per i vocaboli
insolenti, né per quelli che avete urlato coperti di
troppe terre, di troppi spazi. Risuonano
dell'improbabile e del rischio che condividiamo. Il
pensiero della traccia promette alleanze al di fuori
dei sistemi, rifiuta il possesso, si apre su questi
tempi frammentati che le umanità di oggi
moltiplicano fra di loro, tra scontri e meraviglie.
Ecco è l'erranza violenta della poesia. (Glissant,
cit., 55-56)
Questa erranza, di cui
parla il Corano, non ha nessun
rapporto con la moda new-age, che
sta alla cultura dominante come la letteratura
fantastica sta alla letteratura realistica:
separata, complementare, la lascia intatta,
risiedendo in qualche suo interstizio senza
trasformarla. Pensiamo piuttosto alla natura della
ricerca scientifica, molto vicina all'arte del
racconto, quando non pretende, asservita a
un'ideologia, di dar conto in maniera esaustiva
della 'vera realtà'. Che conosce il limite,
sapendo di poter illuminare solo un intervallo,
appena un segmento del proprio campo di ricerca.
Al termine di Al di là del principio
del piacere, saggio oscuro e fecondo, dove
Eros e
Thanatos
prendono forma come coppia cruciale nella
psicoanalisi, Freud dichiara con umiltà e orgoglio la propria
erranza:
A questo punto sorgono
innumerevoli altri quesiti cui non siamo in grado
attualmente di dare una risposta. Dobbiamo aver
pazienza e attendere che si presentino nuovi
strumenti e nuove occasioni di ricerca. E dobbiamo
esser disposti altresì ad abbandonare una strada che
abbiamo seguito per un certo periodo se essa, a
quanto pare, non porta nulla di buono. Solo quei
credenti che pretendono che la scienza sostituisca
il catechismo a cui hanno rinunciato se la
prenderanno con il ricercatore che sviluppa o
addirittura muta le proprie opinioni. Del resto
possiamo consolarci per i lenti progressi della
nostra conoscenza scientifica con le parole di un
poeta: "Ciò che non si può raggiungere a volo,
occorre raggiungerlo zoppicando ... La Scrittura
dice che zoppicare non è una colpa". (Freud, S., Al di là del principio di piacere; OSF, vol. IX;
Boringhieri, Torino 1977 - Jenseits
des Lustprinzips Frankfurt a. M. 1920; tr. it. A. M.
Marietti e R. Colorni; 248)
Ci piace sottolineare,
giubilando per la traccia di creolizzazione, il
fatto che l'ebreo Freud rimandi alla Scrittura
citando da un makamat di
al-Hariri, testo della tradizione araba.
L'erranza forse è sempre ricerca innamorata,
viaggio che si stacca dall'identità continentale,
luogo dell'origine legittimante, e la sua meta,
che solo le fiabe rappresentano come
raggiungibile, è il proprio oggetto d'amore.
Raggiungibile solo lontano lontano,
in una vicenda di tanto tempo fa,
la possibilità di colmare il vuoto esiste solo in
un oltre inattingibile nella realtà quotidiana: ma
non per questo il sogno e l'immaginario che lo
descrivono smettono di costituirci e trasformarci.
L'oggetto d'amore del finale felice delle fiabe, è
anche la fine della fiaba, la pagina bianca della
narrazione: nessun racconto sgorga dalla pienezza,
neanche se immaginaria.
Ma anche immaginare di raggiungere l'oggetto
d'amore prevede una ricerca lunghissima, le cui
scansioni simboliche hanno un rigore geometrico
simile a quello delle selci, ricorrenze
nascoste (Caillois, R., Ricorrenze
nascoste; Sellerio, Palermo 1986 - Le champ des signes. Rècurrences
dérobées, Paris 1978 ;
tr. it. A. Zanetello), come nella fiaba del
principe dei Tre cedri di Basile
(Basile, G.,
Il Pentamerone ossia la fiaba delle
fiabe; tradotta da B. Croce, prefazione di
I. Calvino,
Laterza, Roma-Bari 1974, 3 voll. - ed. or.
1634-1636),
rinarrata da Carlo Gozzi nell'Amore
delle tre melarance. Questo erede al trono
rifiutava le nozze, al punto che se il povero re,
suo padre, gli ricordava il dovere di assicurare
una discendenza, scappava lontano cento miglia. Ma
un giorno il principe che non voleva una sposa si
tagliò un dito, due gocce di sangue caddero sulla
sua ricotta, e si innamorò tanto di quel gioco di
colori, che decise di partire alla ricerca della
bella bianca come la ricotta e rossa come il
sangue. Dopo aver viaggiato per tutti i paesi
noti, come Tittone passò alle terre sconosciute,
fino all'isola delle Orche, dove ricevette tre
cedri, o tre melarance (Basile, cit., III,
427-434; per l'analisi della fiaba di Tittone,
vedi Il romanzo new-global, cit.,
pp. 81 sgg.). Quando aprì il primo frutto vide
apparire una fanciulla meravigliosa, che gli
chiese da bere, e subito scomparve, e così la
seconda: il principe si disperò, deciso a morire
se avesse fallito anche la terza prova.
E tagliò il terzo cedro
ed uscì una fata, dicendo come le altre due:
“Dammi da bere!”; e il principe, ratto, le porse
l'acqua, ed ecco gli restò in mano una fanciulla
tenera e bianca come una giuncata, con certe
strisce di rosso che pareva un prosciutto
d'Abruzzo o una soppressata di Nola: cosa non
vista mai al mondo, bellezza fuor di misura,
bianco di cui non fu mai maggior bianco, grazia
che era sopragrazia della grazia... (Ivi, 595-596)
La mancanza di Eros che si rappresenta nel
rifiuto delle nozze può assumere una forma assai
più radicale di melanconia, quando una principessa
non ride mai, come quella di Vallepelosa, già
ricordata per la storia cornice del Cunto
di Basile (ivi, I, 3 sgg.; vedi in questo
stesso testo, pp. 41 sgg. e 146 sgg.).
Nel romanzo antico di Apollonio re di Tiro, tradotto in inglese
nell'XI secolo e ripreso da Shakespeare in Pericle
principe di Tiro, il re e la principessa
sua figlia vivono nell'incesto, e l'enigma viene
proposto per tenere lontani i pretendenti, che se
falliscono la prova vengono giustiziati, come i
poveri innamorati di Turandot (cfr. Gasparini, A.,
"Il motivo dell'enigma. Trasformazioni e costanti
del discorso interiore" in AA.VV.,
Rappresentazioni - Studi
psicoanalitici, ETS, Pisa 1994).
Il legame incestuoso tra padre e figlia è
attestato dal fatto che l'uno o l'altro, o
entrambi, tentano di fermare il tempo,
nell'illusione di tenere lontana la morte. Spetta
al racconto sciogliere questo irrigidimento della
vita, perché sia possibile l'incontro tra i
diversi per eccellenza, l'uomo e la donna.
L'anima, il soffio incorporeo, lieve, mobile al
punto che può transitare tra il mondo dei viventi
e il mondo dei morti, non smette di disturbare il
controllo del potere. E se la donna personifica
l'anima, può toccare al suo personaggio sia la
parte di colei che racconta e ottiene tempo di
vita dalla peste e dalla condanna a morte, sia la
parte di colei che condanna a morte, come Turandot, sia quella di chi dorme
un sonno simile alla morte stessa. In questo caso
sarà l'uomo ad animare un racconto imprevisto, a
portare Eros
sulla scena. Nelle fiabe c'è una parità dei sessi
che non concede nulla né al maschilismo né al
femminismo, perché le fiabe devono poco alle
maschere storiche che il femminile e il maschile
assumono, giocando su un piano intrapsichico,
strutturale, per l'umano che, articolandosi in
generi, tende a rappresentarsi.
Consideriamo una fiaba come un sogno, come una
rappresentazione della realtà psichica del
sognatore, o del soggetto collettivo che narra e
ascolta. In questo senso possiamo dire che
Shahriyàr, come uccide le fanciulle, così soffoca
il suo proprio lato sensibile, vibrante. La
principessa di Vallepelosa (cit.), anima
melanconica, non è figura più significativa per la
psicologia della donna che per quella dell'uomo,
rappresentando una funzione ricettiva incantata,
addormentata, che con l'amore che ottiene o sente
può svegliarsi e svegliare l'altro, liberarsi
liberando.
C'è una fiaba di Baasile che racconta di un re,
questo re acchiappò una pulce che lo aveva morso,
e invece di ammazzarla la nutrì con tanta cura che
la pulce diventò enorme: allora la fece scuoiare,
ne ottenne una bella pelle e decise che avrebbe
dato la sua unica figlia in sposa solo a chi
avesse indovinato di che animale era.
Pubblicato dappertutto
questo bando, la gente accorse a torme fin dagli
estremi del mondo, per trovarsi allo scrutinio e
tentare la propria fortuna. E chi diceva ch'era
pelle di gatto mammone, chi di lupo cerviere, chi di
coccodrillo, e chi d'un animale e chi d'un altro.
(Basile, cit.; I, 59-60)
Il motivo
della figlia promessa a chi supererà una prova di
difficile nominazione, variante dell'enigma che
abbiamo già osservato, è nel romanzo australiano
di Murray Bail, Eucalyptus, dove
il padre, vedovo come nelle fiabe, regna
su una proprietà in cui ha piantato una
varietà immensa di eucalipti, e ha una sola
figlia, bellissima (Bail, M., Eucalyptus;
Mondadori, Milano 1999 - Eucalyptus,
London 1998 - tr. it. I. Landolfi). Non sapendo
come controllare la figlia che richiama
corteggiatori da ogni parte del mondo, fa sapere
che concederà la sua mano a chi saprà nominare
tutti i suoi eucalipti. Il compito impossibile e
l'enigma valgono come una sorta di strozzatura
dell'esistenza, attraverso la quale occorre
passare per evitare che la sterilità sia
definitiva. La mancanza dell'unione è sofferta e
voluta: la coppia costituita dal padre e dalla
figlia vuole e non vuole che il tempo trascorra,
che la generatività porti nuove nascite e nuove
morti. Molti falliscono, finché si presenta un
certo Mr Cave, che ha l'età del padre, capace di
nominare con meticolosa calma ogni albero senza un
errore. Durante la prova in cui Mr Cave e il padre
di Ellen appaiono sempre più simili, Ellen
incontra un giovane che partendo dai nomi degli
alberi, che conosce sia in latino che in inglese,
le racconta storie brevi e interrotte, giorno dopo
giorno, apparendo e scomparendo fra gli alberi.
Ellen poi da sola ripensa alle storie, le
ripercorre cercando di capire questo incontro:
Immobile,
Ellen cercava di dare una forma a quelle storie,
cercava di vederle dall'alto seguendo i contorni
della piantagione, come se questo potesse
diventare un disegno segreto.
Molti racconti avevano per protagoniste figlie o
donne in cerca di marito. Una donna trova un uomo, e
poi accade qualcosa che li separa. L'unione non
dura. Certo, notava, esistono più storie di donne
che di uomini. Non c'era bisogno di contarle. Una
figlia in realtà non diventa mai una donna autonoma.
E i padri, nel mondo delle storie, si comportano in
modo severo e inflessibile. Molti dei suoi racconti
ruotavano attorno ai padri, magari a quei padri che
si erano dimenticati delle figlie, il che
introduceva una nota di autentica tristezza. Perché
le raccontava tutto ciò? Le donne, si rese conto a
un certo punto, cercano o aspettano sempre
qualcos'altro, qualcosa di indefinibile, un
sovrappiù, una soluzione che giunga loro
dall'esterno. Quelle donne inseguivano il concetto
di speranza. Sembra che fosse la loro "forma di
obbedienza". Ellen non poteva fare a meno di
rispettarle. Una per una, quelle donne agivano con
una sorta di leggerezza, obbedendo alla loro idea di
fedeltà ai sentimenti. (Bail, cit., 205-206)
La leggerezza della donna
è una forma della sua fedeltà: questa comprensione
maschile accomuna Murray Bail e il suo giovane
protagonista, che sono fra i pochi a non essere
fuggiti terrorizzati di fronte al vaso di Pandora:
il mito racconta che gli uomini, prima estasiati
di fronte alla bellissima creatura, furono presi
da orrore per i crucci, i dolori e la morte usciti
dal suo vaso. Solo chi conosce la vera natura
della mutevolezza femminile, e per questo non cede
mai completamente né alla seduzione né al terrore,
può accorgersi che in fondo al vaso
c'è il dono più grande: la speranza.
Nella fiaba di Basile, dopo tanti pretendenti
che avevano fallito, superò la prova e ottenne la
principessa un orco orrendo, che dopo aver portato
la principessa nella sua casa le portava da
mangiare carne umana, finché sette fratelli dai
poteri magici la liberarono. Nel romanzo la parte
dell'orco tocca a Mr Cave, ma quando supera la
prova Ellen si ammala. Se fossimo in una fiaba, si
direbbe subito che si tratta di una malattia
d'amore, e i medici si dichiarerebbero impotenti a
curarla. Nemmeno nel romanzo qualcuno sa guarire
Ellen, e non basta che provino a raccontarle
storie, perché non sono appassionanti. Quando il
medico provò a raccontare, “...era come se non si
rivolgesse a lei, come se parlasse a se stesso,
così Ellen presto si distrasse” (ivi, 218). Poi
toccò al maestro di scuola, che arrivato in punta
di piedi lesse brani da un libro di storia
britannica: “...quando le chiese se voleva che
continuasse l'indomani, Ellen scosse la testa”
(ivi, 219). Il meticoloso Mr Cave aveva capito che
il suo successo nella nominazione delle piante
bastava per ottenere Ellen dal padre, ma non per
averla, e quindi provò a raccontare la storia di
quando era stato sul punto di sposarsi. Aveva
portato la fidanzata al banco dei pegni perché
scegliesse un anello, ma lei, dopo aver tirato
fuori una manciata fedi nuziali, si era messa a
strillare che voleva un anello diverso da quelli:
“Non capivo che cosa
intendesse. Poi scappò via, lasciandomi lì, con una
manciata di anelli nuziali in mano. È successo quale
anno fa”.
Ellen aveva la bocca aperta e guardava da un'altra
parte.
“Di tutto quel che mi è successo nella vita” Mr Cave
si sfregò le mani “questa è la sola storia che mi
venga in mente”. (Ivi, 221)
Mr Cave nomina le cose come gli alberi,
senza chiamarle in vita, non le accarezza, non sa
cos'è un anello, né una donna, e non conoscendo se
stesso non conosce la potenza del nome. Come gli
aborigeni australiani pensano che il mondo sia
stato creato dagli dei con il canto, così nella
Bibbia è la parola divina a chiamare il mondo ad
esistere. E come il primo atto di Adamo è nominare
gli animali, mentre Eva accanto a lui lo ascolta,
così ogni essere umano è tale nell'articolazione
della parola vera, dando il suo contributo al
lavoro del linguaggio.
Quando
Ellen si avvicina tanto alla morte che sembra la
sua fine, il giovane sconosciuto torna accanto a
lei con la grazia di un principe di fiaba, e la
guarisce rivelandole di aver vinto la prova. Il
realismo si intreccia alla figura fiabesca, perché
il giovane ha vinto la prova dato che ha fornito,
prima ancora del bando, le etichette richieste dal
padre di Ellen per tutti i suoi eucalipti,
etichette di alluminio col nome di ogni albero, in
latino e in inglese, prima ancora che fosse
emanato il bando con la prova impossibile.
In tono molto pratico, e
senza abbassare la voce, le cinse i fianchi: “Non
ho fatto neppure un errore”.
Ellen continuava a non saper cosa dire. Ma ancora
una volta si rendeva conto di come stava bene
insieme a lui. Sentì la forza della sua stretta:
aveva già deciso.
Dovette spiegarle meglio: “A ogni albero ho dato il
nome giusto. Un lavoro difficile, ma non
impossibile. E adesso eccomi qui. Potrei issarti su
una spalla e portarti via con me, tra gli alberi”.
Disse anche altre cose. Si trattava di decidere e
partire insieme. E. confluens. (Ivi, 236)
In Eucalyptus
il senso dei miti cosmogonici degli aborigeni e
della creazione biblica attraverso la parola si
saldano, intrecciandosi alle fiabe, fiorendo in
una giocosa identità aperta al senso del nuovo:
perché l'uomo, perché la donna, perché il padre, e
poi perché la città e il deserto... se fedeltà e
leggerezza sono comprese, si può attingere al dono
dimenticato in fondo al vaso di Pandora.
CONCLUSIONE
Folgorati Dalla Vita
Silvia
Albertazzi
"La
catena dell'umanità [...] è la trasmissione della
parola, e dell'esistenza, di bocca in bocca e poi
di sguardo in sguardo" (Said 1991, 44). Qualsiasi
lettore, autore o critico di letteratura
postcoloniale si trova confrontato con la resa
narrativa di questa asserzione di Said. Anzi, si
potrebbe affermare che non esiste romanzo nelle
cosiddette ‘nuove letterature' in cui non appaia,
in primo piano o anche solo sullo sfondo, almeno
una rappresentazione della "catena dell'umanità",
ovvero del passaggio del testimone – narrativo,
linguistico, ma anche esistenziale e umano – da un
personaggio all'altro, da genitore a figlio/a, da
insegnante a discepolo/a, da moribondo/a (o
addirittura morto/a, fantasma) a vivente, lungo la
scala delle generazioni, oltre la vita e la morte.
Esempio paradigmatico è Il cromosoma Calcutta di
Amitav Ghosh, thriller fantascientifico la cui
azione si svolge su diversi piani cronologici e
spaziali, in differenti secoli e paesi, secondo un
sapiente gioco di intrecci narrativi che solo
sull'ultima pagina - malgrado il lettore ne abbia
forse avuta più volte premonizione nell'arco della
vicenda - si svelano essere determinati dallo
snodarsi della catena dell'umanità, ovvero dal
passaggio di testimone tra morti e vivi, nel
tentativo di acquisire l'immortalità.
C'erano
voci dappertutto, adesso, nella stanza, nella sua
testa, nelle sue orecchie, era come se una folla
di persone fosse in quella stanza con lui. E gli
dicevano: "Siamo con te; non sei solo; ti staremo
vicini".
Si appoggiò allo schienale della sedia e sospirò,
come non sospirava da anni (Ghosh 1996, 285)
Il
personaggio scelto per traghettare la storia di
Ghosh verso l'immortalità, per contagiare, cioè,
gli altri protagonisti con il germe della vita,
accoglie in sé, al termine della vicenda, vite,
desideri, amori ed esperienze di altri, che ad
altri dovrà passare, in una sorta di baratto
incrociato, secondo un contagio che non si può
fermare e che per Ghosh, come è suggerito dal
sospiro finale di Antar, ha valenza decisamente
positiva. Al contrario, in un fortunato romanzo
statunitense uscito nello stesso periodo del
Cromosoma Calcutta, Il miglio verde di Stephen
King, il protagonista, per una sorta di contagio
miracoloso, acquisisce lunghissima vita, ma non
l'immortalità. Anche Paul Edgecombe rivela solo
alla fine della sua lunga storia di essere stato
toccato da un miracolo, usando un'espressione
presa a prestito da quel linguaggio
medico-scientifico che costituisce il registro
dominante della narrazione di Ghosh: "mi inoculò
vita", dice, riferendosi all'uomo che gli ha
donato eccezionale longevità. E precisa, subito
dopo: "mi folgorò di vita, si potrebbe dire" (King
1996, 545). Ma se quel "folgorò", in corsivo nel
testo, può esprimere anche positività nella
traduzione italiana, basta volgersi al testo
originale per fugare ogni ambiguità: "He
electrocuted me with life", si legge in inglese,
con preciso e voluto riferimento
all'electrocution, la morte per scarica elettrica,
cui è condannato il personaggio dotato di poteri
paranormali che infonde vita quasi eterna al
protagonista. Se poi si aggiunge che quest'ultimo,
guardia carceraria, nulla potrà fare per salvarlo
dalla sedia elettrica, pur avendone scoperto
l'innocenza, ci si rende conto di tutta la tragica
ironia implicita nel dono di un'esistenza oltre i
limiti dell'umano. "Verrà anche la mia ora [... ]
afferma Edgecombe, "ma avrò desiderato la morte
molto prima di quando mi troverà." (ivi) e
conclude, con riferimento metaforico al corridoio
su cui si affacciano le celle dei condannati alla
pena capitale, "Tutti noi dobbiamo una morte, non
ci sono eccezioni, lo so, ma certe volte, oddio,
il Miglio Verde è così lungo" (ivi, 547).
Siamo tutti debitori di una morte, tutti
condannati a morte in attesa di esecuzione, tutti
morti in permesso. Eppure, nella narrativa
postcoloniale, l'assunto viene capovolto:
"Ciascuno di noi deve una vita alla morte"
(Rushdie 1984, 42) si legge ne I figli della
mezzanotte. E quella vita è fatta delle emozioni,
delle banalità, delle passioni, delle vittorie e
delle sconfitte che ci passiamo l'un l'altro,
attraverso le storie, attraverso il contagio del
linguaggio, attraverso le parole che trasferiscono
sentimenti, coscienze, gioie e dolori. Così se per
l'occidentale il contagio narrativo è maledizione
– pensiamo all'archetipo dell'invitato a nozze
coleridgiano, costretto suo malgrado a disertare
la festa per ascoltare il vecchio marinaio
dall'occhio scintillante – per il soggetto
postcoloniale è fonte di vita, di immortalità. Del
resto, per l'occidentale "contagio" è un termine
negativo: "contagiare di vita" è una
contraddizione in termini. Il narratore che passa
ad altri il testimone di una storia può
addirittura finire con l'essere assimilato a un
vampiro, come accade in un racconto italiano. In
questo caso, c'è un solo modo per liberarsene:
raccontare la sua storia.
Presto
egli sarà nei vostri sogni, che lo vogliate o no.
[...] ha molta pazienza. Sfrutta i momenti di
debolezza, entra nei tempi morti, nei vuoti
mentali. Non permettetegli di entrare in voi
troppo a lungo. È un vampiro, un particolare
genere di vampiro: il cauchemar, l'incubo
soffocatore.
Raccontate di lui prima che infranga le vostre
ultime resistenze e vi rapisca con i sogni la vita
stessa. Raccontate di lui e sarete liberi, come io
lo sono da ora. Restituito a me stesso. (Manfredi
1988, 194)
Si
racconta, dunque, per liberarsi di un incubo, non
per dividere con altri un sogno. Si passa il
testimone non per portare avanti – e vincere – una
gara a squadre, ma per disfarsi di un elemento di
disturbo. Il passaggio delle parole di bocca in
bocca enfatizza soltanto la situazione di scacco
del soggetto occidentale, la sua crisi. Diverso è,
ovviamente, il discorso per le storie concatenate
degli autori postcoloniali, di cui il già citato
finale di Terra rossa e pioggia scrosciante sembra
essere l'esempio più emblematico: se durante tutta
la lunghissima narrazione del romanzo, Sanjay e
Abhay si sono passati il testimone in una
interminabile staffetta, giunti alla fine della(e)
storia(e) e della vita terrena di Sanjay, essi non
interrompono il racconto, che passa ad altri
narratori, e ad altri ancora: "finché ciascuno di
voi entrerà a farne parte, e gli dei verranno ad
ascoltare, finché tutti noi parleremo in
un'armoniosa confusione [...] e con queste parole
ricominceremo tutto daccapo" (Chandra 1998, 741).
Chi entra a far parte della narrazione non è solo
chi la ascolta o chi la racconta a sua volta ad
altri: anche il lettore ne diviene parte
integrante, fino a parlare in essa e con essa,
realizzando l'assunto di Said secondo cui "nessun
testo è mai finito, poiché le sue possibilità
vengono continuamente estese, da ogni nuovo
lettore" (Said 1991, 157). In questo senso, come
chi ascolta il narratore tradizionale, il lettore,
condividendo una storia, trae forza ed energia
vitale. Lungi dal privarlo delle ultime
resistenze, il racconto gli dà nutrimento;
attraverso il sogno, la vita non gli viene rapita,
ma restituita. Come accade alla vecchia Monimala
in Banana-flower, i sogni instaurano la catena
dell'umanità, alterando lo scorrere del tempo e
ripristinando una durata atavica.
Nei sogni
non sei mai sola, tutte le persone che hai
conosciuto, vive o morte, vengono a parlarti, nei
sogni. Sono tutti così gentili e amichevoli, hanno
tantissimo tempo a disposizione. Non hanno fretta,
non ti fanno fretta [...] Come si fa sopravvivere
a farina di riso tanto a lungo, se non ci sono i
sogni a nutrirti? (Sharma 2001, 132)
La
narrazione, dunque, ha funzione terapeutica: i
sogni aiutano a vivere, prolungano la vita. Questo
"potere di redenzione della scrittura" non è
proclamato solo dagli autori postcoloniali: chi ha
letto il saggio On Writing di Stephen King, per
esempio, sa con quanta passione King affermi il
valore salvifico della narrazione, ovvero
l'importanza, per lo scrittore moderno, di
"recitare la parte di Sheherazade [sic]" (King
2001, 167). È lontana l'idea di una letteratura
che vale solo per se stessa, che non ha altre
finalità che il bello, in ossequio al luogo comune
snobistico dell'arte per l'arte. Come scrive
Brink, non è tanto triste quanto pericoloso "avere
dimenticato questo per tanto tempo" (Brink 1998,
122) perché "Le configurazioni possono essere
intercambiabili, ma i miti persistono [...]
L'universo è fatto di storie; sono loro le
funzioni d'onda della nostra esistenza" (ivi,
378). E allora, viene da domandarsi insieme alla
protagonista de La polvere dei sogni, "Perché
chiedere la verità, qualunque possa essere, se
puoi avere l'immaginazione?" (ivi). Gli stessi
autori occidentali, del resto, da tempo vanno
affermando l'inutilità della ricerca del vero e
del verosimile in narrativa: "non importa che un
storia sia vera o falsa", ha affermato un autore
spagnolo, Antonio Muñoz Molina, "conta solo
saperla raccontare" (Muñoz Molina 1999, 375), e il
newyorkese Paul Auster ha aggiunto: "nessuna
storia è falsa finché una sola persona ci crede"
(Auster 1995, 145). Ma dai narratori postcoloniali
impariamo, inoltre, che proprio dividendo insieme
agli altri l'immaginazione si contribuisce alla
crescita della conoscenza; che un sogno, una volta
raccontato, non è più patrimonio privato (ovvero
ossessione) del sognatore; che, come ha affermato
un altro famoso scrittore spagnolo, Javier Marías,
"le storie non appartengono soltanto a chi le
inventa, ma una volta raccontate appartengono a
chiunque. Si ripetono di bocca in bocca e si
modificano e si deformano, nulla viene raccontato
due volte nella stessa forma né con le stesse
parole" (Marías 1998, 136). Non si tratta, quindi,
di "chiedere la verità", ma di condividere
l'immaginazione, sapendo che, in ultima analisi,
"il mondo dipende dai suoi relatori" (ivi).
E dai relatori postcoloniali dipende un mondo che
noi occidentali ancora non conosciamo – non
conosciamo abbastanza o non conosciamo per niente
– ma che attraverso le loro parole dobbiamo
imparare a immaginare, perché per leggere un
romanzo, una storia, è necessario saperne evocare
il contesto, colmando con la fantasia gli
inevitabili vuoti che da esso ci separano nello
spazio, nel tempo e nell'esperienza. E alla fine,
se ci riusciamo, "impariamo qualcosa sull'umanità
rispondendo ai mondi evocati con le parole nella
cornice narrativa del romanzo: impariamo la
straordinaria diversità delle risposte umane al
nostro mondo e la miriade di punti di intersezione
di quelle varie risposte." (Appiah 2001, 225)
La fiaba non è che un "punto di intersezione"
delle varie risposte al nostro mondo. Non è un
caso che, introducendo Il miglio verde, Stephen
King affermi che, volendo creare in quel romanzo
"un mondo praticamente dal nulla", non conoscendo
molto né del tempo né dei luoghi in cui voleva
ambientare la narrazione, aveva deciso, "per non
soffocare il fragile senso di meraviglia [...]
trovato nella [...] storia" (King 1996, IX), non
di fare ricerche sull'argomento, e di dare alla
vicenda un "sapore non [...] realistico, bensì
favolistico" (ivi). Nella prefazione del 1995 alla
versione in volume dello stesso romanzo,
precedentemente apparso a dispense, così come
nella nota finale del 1996, King confessa
esplicitamente di aver preso a modello Charles
Dickens. Con un tocco di (falsa?) modestia, egli
afferma di non ritenersi il nuovo Dickens e
aggiunge che questa definizione si addice meglio,
probabilmente, a John Irving e Salman Rushdie.
Senza dubbio non si può negare un'apparente aria
di famiglia, soprattutto sul piano delle tematiche
relative al romanzo di formazione, tra il padre di
David Copperfield e l'autore delle Regole della
casa del sidro, dove ai piccoli ospiti
dell'orfanotrofio di St. Claud's vengono lette
pagine dickensiane per favorire il sonno - "storie
di orfani [...] che altro leggere a un orfano?"
(Irving 1985, 35). Ma il nocciolo fortemente
trasgressivo della narrazione di Irving mostra
quanta strada – e quanto tempo – separino i due
scrittori. E se forse per entrambi gli autori, le
regole, sempre stabilite da chi non è chiamato a
metterle in pratica, sono fatte per essere
distrutte, è solo per il contemporaneo americano,
però, che la sostituzione delle regole del cuore a
quelle della convenzione può portare
all'esaltazione della truffa e della menzogna a
fin di bene, all'uso di un canovaccio vittoriano
per narrare una storia che più antivittoriana non
è dato immaginare: abortista, a-religiosa,
anticonvenzionale e dissacratoria. Diverso è il
caso di Rushdie, che da Dickens non eredita tanto
le tematiche quanto la capacità di usare al meglio
il tono favolistico per raccontare vicende
ancorate alla realtà storica. Egli stesso spiega
nelle sue interviste:
Una delle
cose che pensavo, quando iniziai a scrivere, è che
molti dei termini usati in diverse parti del mondo
per descrivere il genere che mi interessava
dicevano sostanzialmente la stessa cosa.
Fabulismo, surrealismo, realismo magico: scrittori
così lontani quanto Calvino, Roth, Márquez o
Kundera dimostravano che il realismo del romanzo
non è una questione di tecnica né di mimesi della
realtà: è una questione di intenti. Se si vuole
catturare il reale, bisogna avere il coraggio di
lasciarsi alle spalle le regole della scrittura
realistica. Il mondo cominciava a non rispondere
più ai criteri della realtà, il mondo in sé
diventava abnorme, e richiedeva allora un'abnorme
scrittura per essere descritto. (Rushdie in
Barillari 2002, 15)
L'abnormalità
della scrittura rushdiana sembra concretizzare
quella che Glissant ha definito "poetica
dell'orale scritto", e che si fonda sulla durata,
l'accumulo, il ritorno e la ripetizione, i ritmi
dell'assonanza e l'oscurità, intesa come "eco del
caos-Mondo" (cfr. Glissant 1997, p. 114). È
veramente quella di Rushdie e degli altri
scrittori postcoloniali "la voce di un mondo in
procinto di crearsi" (Fuentes 1997, 26) che non
soggiace ad alcuna regola precisa, ma mescola
mistero, curiosità, logica e irrazionalità,
testimonianza e magia, com'è delle fiabe e dei
sogni. È al caos-Mondo, al caotico mondo nuovo nel
suo farsi, che danno voce, a ogni latitudine,
Rushdie e compagni, non per mettere ordine nella
confusione di una realtà in gestazione, ma "per
divertirsi con le vertigini, per creare casino,
per goderne, per rimestarlo" (Taibo II 2002, 377),
consapevoli di "essere ben lontano dall'illusione
che quando la vita diventa profondamente
incoerente arrivi il romanzo a metterci una pezza"
(ivi) e al tempo stesso sicuri che "Il romanzo,
come la realtà reale, come le storie che
conosciamo tutti e le storie che ci capitano
sempre, è pieno di parentesi, buchi, ellissi che
ballano saltellando da una parte e dall'altra
senza desiderare concretizzarsi, senza voglia di
spiegarsi." (Ivi)
A proposito dei "romanzi scritti al di sotto del
35° parallelo", Milan Kundera ha parlato di "una
nuova grande cultura romanzesca caratterizzata da
uno straordinario senso del reale cui si
accompagna una fantasia sbrigliata capace di
infrangere tutte le regole della verosimiglianza"
(Kundera 2000, 40). Si tratta, egli ha anche
aggiunto, di romanzi scritti "in un altro modo"
ovvero "varcando la frontiera del verosimile. Non
per evadere dal mondo reale [...] ma per
afferrarlo meglio" (ivi, 60). A ben riflettere,
questo è quanto accade anche nei sogni: si esce
dal reale per capire il reale. È ovvio ricordare a
questo proposito le osservazioni di Saleem Sinai
sulla nascita dell'India indipendente, "una terra
mitica, in un paese che non sarebbe mai esistito
senza gli sforzi di una fenomenale volontà
collettiva – se non in un sogno che tutti
accettavamo di sognare" (Rushdie 1984, 126). Si
potrebbe affermare, senza forzare troppo l'assunto
rushdiano, che tutta la narrativa postcoloniale è
sogno collettivo, un sogno che tutti – autori,
lettori e personaggi – accettiamo di sognare
insieme. In questo senso, i romanzi sin qui
esaminati rendono ragione dei famosissimi versi
shakespeariani:
[...] noi
siamo della stoffa
di cui sono fatti i sogni; e la nostra piccola
vita
è cinta di sonno.
(La tempesta, IV, i, 158-160)
Non a
caso, Prospero pronuncia queste parole nella più
‘raccontata' tra le commedie shakespeariane, in
quella Tempesta in cui il racconto appare attività
compulsiva dei protagonisti, quasi a voler
suggerire che il racconto stesso è sogno, le
storie narrate sono della stessa materia,
impalpabile e volatile, dei sogni. E tuttavia, la
differenza tra il sogno narrato occidentale, da
Shakespeare a Stephen King, e quello del mondo
nuovo, dalle Mille e una notte ai racconti riuniti
all'inizio del terzo millennio dall'australiano
David Malouf sotto il titolo shakesperiano La
materia dei sogni, si gioca tutta intorno a quel
sonno che cinge la "nostra piccola vita": sonno di
morte, solitario, per l'occidentale; sonno
condiviso, o notti di veglia rischiarate dai
racconti magici, per l'Altro. Del resto, mentre
Prospero con la stoffa dei sogni crea
l'immaginario tardo-rinascimentale (e colonizza
quello coloniale, rappresentato da Calibano), lo
scrittore postcoloniale usa il racconto – il sogno
– piuttosto come una moneta di scambio, per
acquistare granelli di immmortalità.
"...
raccontando storie passiamo noi stessi agli
altri", ha affermato Vikram Chandra. "Trasformare
le proprie esperienze in racconti per il piacere
dei lettori è un modo di creare un legame col
pubblico. È un atto di intimità. La cosa strana è
che si crea intimità con degli estranei. Il
rituale della narrazione è lo stesso attraverso le
culture; sedere accanto al fuoco, narrare una
storia è uno dei rituali più antichi, è come
spezzare il pane con qualcuno." (Chandra 2000)
Esiste
un legame profondo tra persone che spezzano il
pane insieme: due che condividono lo stesso pane
"sono uno amico dell'altro anche se non si sono
mai visti prima" (Dorfman 1999, 138). È questo il
mistero dell'intimità con estranei di cui parla
Chandra, ma anche della compartecipazione sociale
che ci lega a sconosciuti in virtù di una sorte
comune, l'essere etimologicamente compagni,
com-pañeros, dei nostri simili. Per lo scrittore
postcoloniale, dividere metaforicamente il pane
narrativo con qualcuno diviene atto politico,
nella consapevolezza della diversità del suo modo
di essere e di raccontare, del suo stesso status
di narratore, rispetto all'occidentale. Quanto
scrive il martinicano Patrick Chamoiseau può
valere per tutti gli autori extraeuropei che
abbiamo incontrato in questo volume:
La mia
parola di Narratore è oscura come la notte in cui
intervengo. Vedo la distanza dal romanziere
occidentale che scrive alla luce del giorno.
L'espressione di quest'ultimo è ufficiale, attesa,
stimata, e percepita come tale; egli riflette i
valori della condizione umana; ci spiega le nostre
anime [...] in una lingua eletta, in una Storia
comune, nella certezza scritta di un territorio.
Quella del Narratore [...] diffonde il suo mandato
nell'oscurità di una differenza d'uomini; non ha
legittimità antica, ma avvolge cosciente e
incosciente nelle grazie liberatrici d'un riso che
non proviene da alcuna terra comune. (Chamoiseau
1997, 171)
Il
lettore occidentale non può che stupirsi di fronte
alla ricchezza della scrittura postcoloniale e
prorompere, come Miranda, in un'esclamazione di
sbalordimento per il "meraviglioso mondo nuovo"
creato dagli autori delle letterature ‘emergenti'.
Tocca al critico il compito pragmatico, forse
politicamente scabroso, ma ideologicamente
irrinunciabile, di ribattere allo stupore del
lettore ricordando, come Prospero a Miranda, che
quel mondo magnifico è nuovo solo per chi lo
guarda da una prospettiva eurocentrica, mentre in
realtà, come ebbe acutamente a rilevare Carlos
Fuentes, scaturisce "dagli antichi confini di
quanto la centralità europea giudicava eccentrico"
(Fuentes 1997, 166).
" 'Tis new to thee", dunque, "È nuovo per te"
(Tempesta, V, i, 185). Per te, hypocrite
lecteur postimperiale – mon semblable,
mon frère.
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