Ascoltando la voce narrante delle Mille e una
notte riscopriamo
la potenza del racconto, che riesce a frenare la
violenza.
La
storia cornice delle Mille e una notte racconta che
il sultano Shahriyàr era stato tradito dalla prima
moglie, e la ferita gli bruciava tanto che aveva
pensato di rinunciare al trono delle Indie. Poi,
avendo constatato come nessuno possa essere sicuro
di non subire il tradimento delle donne, nemmeno i
potentissimi demoni, tornò a regnare, deciso però
a non subire più quella disgrazia: per questo
sposava una fanciulla ogni sera, e al mattino la
faceva uccidere. Non essendo riuscito a comandare
sulla donna, adottava con la morte il controllo
estremo, che il potere riserva alla donna quando
non sottomettendosi alle regole rappresenta una
minaccia all'autorità assoluta, ma anche al
dissenziente e all'eretico, che si bruciano sul
rogo come le streghe e come i libri proibiti.
Ognuno può riconoscere in sé il desiderio di
interrompere o annullare il discorso del diverso:
il femminile rappresenta l'altro per eccellenza
nelle culture patriarcali, opposto del maschile
che minaccia la sua illusione di detentore del
potere fallico. Nelle Mille e una notte Shahriyàr
da tempo continuava con la sua crudele soluzione,
finché un giorno la figlia del visir, esecutore
delle crudeli sentenze, chiese al padre angustiato
di condurla in sposa al sultano. Shahrazàd, così
si chiamava la fanciulla, non era pronta a essere
dominata dall'uomo né con le regole del matrimonio
né dietro i morbidi tendaggi di un'alcova, visto
che, come si può leggere in un manoscritto arabo
del XIV secolo:
... Aveva
letto i libri di letteratura, filosofia e
medicina. Conosceva la poesia col cuore, aveva
studiato i resoconti storici, e le erano familiari
i detti degli uomini e le massime dei sapienti e
dei re. Era intelligente, dotta, saggia,
raffinata. (Haddawi,
cit., p. 11; trad. mia)
Il suo
visir cercò di dissuaderla raccontando storie che
dimostravano come ciò che intendeva fare fosse
impossibile, ma lei rispose con storie che
dimostravano il contrario, e poi concluse dicendo:
"Storie
come queste non mi distolgono dal mio proposito.
Se vuoi posso raccontartene altrettante. Per
concludere, se non mi presenti al sultano
Shahriyàr, ci andrò da sola contro la tua volontà
e gli dirò che tu non hai voluto darmi in sposa a
uno come lui, considerando il tuo signore non
all'altezza di una mia pari". Il visir le chiese:
"Devi proprio farlo?" lei rispose: "Sì, devo."
(Ivi)
Il
visir, rispettando il desiderio di sua figlia, che
evidentemente ha educato alla libertà del
pensiero, la presenta a Shahriyàr. Siccome il
sultano delle Indie soffre d'insonnia, verso la
fine della notte Shahrazàd gli propone di
raccontare una storia, e smette di raccontare al
mattino. Il racconto è così appassionante che
Shahriyàr rimanda l'esecuzione alla fine della
storia, e così, notte dopo notte, la narratrice
ottiene la sospensione della condanna a morte.
Se si chiede a chi conosce le Mille e una notte
perché Shahrazàd rischiasse la vita, di solito
risponde che voleva curare il sultano crudele e
infelice, mentre Shahrazàd al padre che ne
chiedeva la ragione aveva risposto:
"Voglio
che tu mi presenti come sposa al sultano
Shahriyar, perché io possa salvare il popolo o
morire come le altre fanciulle." (Ivi)
L'idea
che Shahrazàd volesse salvare il sultano è una
specie di ricordo di copertura, piuttosto diffuso,
attesta quanto sia ampia l'attribuzione alla donna
di un masochismo strutturale, sostenuto in passato
anche in area psicoanalitica. A chi però volesse
considerare Shahrazàd come un'eroina femminista,
sfuggirebbe un fatto molto semplice: il racconto
vive di lei che narra come del sultano che
ascolta, perché l'uno non esiste senza l'altra.
La comprensione della storia cornice delle Mille e
una notte passa per un particolare tanto decisivo
quanto trascurato: di fronte al sultano
terminatore, che ha bisogno di controllare la
donna, Shahrazàd sceglie da sé un limite, quando
decide di narrare verso la fine della notte, e
alle prime luci del giorno si lascia scivolare nel
silenzio.
Shahrazàd rappresenta sia la leggerezza femminile,
che snoda favole incastonate le une nelle altre,
quasi senza fine, sia l'interruzione maschile
esercitata dall'uomo, delimitando da sé il suo
dire, le sue storie, con la cesura più simbolica
dell'immaginario umano: l'opposizione fra oscurità
e luce, metafora dell'identità, della coscienza
che tramonta e sorge ogni giorno, come il sole,
metafora della polarità maschile-femminile,
morte-vita, freddo-caldo, umido-secco... Nella
coppia di opposti, in tutte le sue infinite
metaforizzazioni, si articola l'identità stessa,
la sua permanenza, la sua labilità, la sua
complessità irriducibile.
L'oscurità, l'inconscio, la sospensione del
controllo, del potere, della coscienza, sono
proiettate sulla donna come notte, come morte:
introdotta a caua della colpa di Eva, o portata
fra gli uomini da Pandora, la morte è la
donna-terra che accoglie i cadaveri. Fra morte e
racconto c'è un'intima solidarietà: Shahrazàd, che
sa raccontare per mille e una notte avvincendo il
suo sposo, affrontando il corpo a corpo con la
morte connaturata al potere di Shahriyàr, non
potrebbe vincere, se non avesse dentro di sé il
limite che il sultano non riconosce, ripetendo
l'uccisione della donna per rimuovere il
tradimento, la perdita. Se il detentore del potere
rifiuta il limite della castrazione, esercita un
potere consacrato a Thanatos, e la pulsione di
morte condanna lui e la sua città alla letterale e
ripetuta eliminazione della figura femminile, che
incarna l'anima lieve, sfuggente.
La narratrice non può salvare l'ascoltatore, come
lo scrittore non può salvare il lettore: come il
sultano può decidere, a suo piacimento, di far
soffocare Shahrazàd, così il lettore può chiudere
il libro. Ma lo scrittore sa anche che può
intrattenere e appassionare i lettori, e spera che
il gusto per le storie riapra la porta a Eros, il
grande demone.
Eros e Thanatos, la coppia che nella psicoanalisi
segna la rinuncia a un ideale salvifico, sia
medicalistico, sia spiritualistico, è insieme
sorgente e trama della narrazione. Verso la
vicenda del sultano delle Indie e della figlia del
suo visir, potrebbe avere un debito Boccaccio per
la storia cornice del Decameron. La raccolta si
apre con la cruda descrizione di Firenze sconvolta
dalla peste, e non si tratta solo dell'orrore per
la malattia e la morte di tanti esseri umani, ma
del senso di fragilità dell'ordine e del potere,
come se la legge, scritta e non scritta, si fosse
dissolta:
E in
tanta afflizione e miseria della nostra città era
la reverenda autorità delle leggi, così divine
come umane, quasi caduta e dissoluta tutta, per li
ministri ed esecutori di quelle, li quali, sì come
gli altri uomini, erano tutti o morti o infermi o
sì di famigli rimasti stremi che uficio alcuno non
potean fare; per la qual cosa era a ciascuno
licito quanto a grado gli era d'adoperare. (Decameron,
Prima giornata, Introduzione)
L'accettazione
del limite, della castrazione, come ingresso nel
mondo simbolico, nella cultura umana, è
rappresentata nel racconto proprio da questa morte
che dissolve le illusioni. La perdita di ogni
ideale assoluto lascia spazio a qualcosa di nuovo,
né vero né falso, e vero e falso allo stesso
tempo: il mito, la parola, il racconto. La
certezza di essere detentori di una verità
assoluta fonda il potere e ne causa la rovina, per
il singolo come per la comunità. Al posto della
fede salvifica e dell'ideale eroico di una città
fondata col sangue dell'altro, che chiede sempre
nuovo sangue, si può abitare, per un tempo
limitato, un luogo creato dall'arte stessa della
parola, perché non c'è città senza peste, dato che
crudeltà ed esercizio del potere sono intimamente
connessi.
Come la raccolta delle Mille e una notte sgorga
dal lutto per la morte di tante fanciulle, quella
che apre la letteratura moderna ha il suo
indispensabile sfondo nel lutto per la peste. Il
Decameron lega il senso del narrare alla
dimensione tragica della vita umana, e cominciando
il racconto dalla morte ci suggerisce un ponte con
grandi romanzi contemporanei postcoloniali, come Terra rossa e pioggia
scrosciante di Vikram Chandra . Qui la
funzione di Shahrazàd è svolta da una scimmia
moribonda, reincarnazione di un poeta suicida, che
ottiene tempo per raccontare la sua storia, e
riuscendo a non annoiare il suo pubblico vive
abbastanza da sciogliere il suo karma.
Volgendo lo sguardo al passato, la peste di
Boccaccio ci rimanda a Tebe, dove costringe l'eroe
solutore di enigmi a cercare la verità: Edipo
scopre se stesso come causa del morbo, perché
ignorando la propria identità ha sposato sua madre
dopo aver ucciso il re suo padre. Dalla peste di
Tebe alla peste di Atene, andiamo a incontrare una
sacerdotessa, Diotima di Mantinea, che è riuscita
a sospendere il morbo per dieci anni. Socrate nel
Simposio riferisce di aver appreso da lei quanto
racconta ai suoi discepoli, ed è la sola storia
nei dialoghi di Platone ad essere attribuita a una
donna. Diotima non ha il potere di eliminare la
malattia che è connaturata al potere, ma può
sospenderla, forse per questo è suo il discorso
più bello su Eros, il grande demone.
Se ci chiediamo se possa esistere una città, un
regno, un potere, senza violenza, dobbiamo
osservare che un corpo a corpo tra esseri umani,
siano individui, siano culture, senza violenza,
esiste nell'utopia, o in una fantasia salvifica,
perché come esseri umani, essendo costretti a
entrare nel linguaggio verbale, subiamo lo scarto
tra significante e significato, e solo la
tolleranza, la sopportazione di questo scarto ci
permette di entrare nel campo della parola e del
simbolico. Noi non possiamo aspirare ad altro che
a una sospensione temporanea della violenza, come
quella che accade nel lavoro analitico, nel lavoro
della parola, che forma il luogo della relazione.
Per entrarvi occorre che il soggetto narrante,
come Shahrazàd, si delimiti da sé, che si lasci
scivolare nel silenzio, per permettere all'altro,
al diverso che è interlocutore, come ascoltatore o
lettore, uno spazio per il suo proprio racconto.
Cadute le illusioni di purezza e dominio, si forma
spazio per la consapevolezza che il soggetto e la
coscienza esistono solo nella cultura, nel mondo
simbolico: la funzione del racconto può essere
intesa come funzione etica, sospendendo la
violenza, non pretendendo di eliminarla con
un'altra violenza. Questa forza del racconto, il
segreto di Shahrazàd, deve bastare, come bastò
sospendere la pestilenza a Diotima, esperta della
natura di Eros.
Gli antichi manoscritti delle Mille e una notte
che si sono conservati sospendono i racconti prima
della trecentesima notte, e non hanno finale:
mille e uno era per gli arabi un numero magico,
come millanta nella tradizione popolare toscana.
Solo il successo della raccolta, nell'Europa del
Settecento, indusse gli scrittori europei e arabi
a incrementarla, fino a letteralizzare il numero
magico. E portato letteralmente a mille e una
notte il tempo della narrazione tra maschile e
femminile compaiono anche i finali, nei quali il
sultano perdona Shahrazàd e nella gioia generale
dichiara finita per sempre la sua crudeltà. La
tradizione degli ultimi secoli, come faceva il
sultano, esigono una soluzione definitiva, mentre
la narratrice e la sacerdotessa si accontentavano
di una sospensione: quale delle due tradizioni è
più vicina alla realtà? Non è forse vero che la
vita è la sospensione di una condanna a morte?
Ignorare questa condanna, tentare di evitarla,
implica una tale alleanza con la morte stessa che
la vita viene consegnata a Thanatos in anticipo. L'arte del
racconto non può guarire questa malattia,
che è la condizione umana, ma mitigarla, per
assecondare il flusso della vita.
In una delle sue tante notti, ottocentesche o
trecentesche, Shahrazàd racconta del favoloso
califfo Harun ar-Rashìd, che non riuscendo a
dormire una notte passeggia nel suo palazzo,
guardando nelle stanze delle sue
trecentosessantacinque concubine (Le mille e
una notte, Traduzione a cura di F. Gabrieli,
Einaudi, Torino 1949; rist. nella collana gli
Struzzi, vol. 2; pp. 391-392). Ne incontra una con
la quale vorrebbe trattenersi, ma lei essendo
ebbra chiede al califfo di tornare il giorno dopo,
per darle il tempo di prepararsi. Ma quando il
giorno dopo il grande califfo fa annunciare la sua
visita, lei gli risponde con un messaggio: ‘Il
giorno cancella le parole della notte".
Trovandosi in compagnia di tre poeti, Harun
ar-Rashìd ordina loro di improvvisare una poesia
sulla frase della concubina. I primi due recitano
versi di circostanza, e vengono premiati con una
borsa di danaro, poi toccò ad Abu Nuwàs. Il grande
poeta narra in versi l'incontro notturno, la
promessa della schiava ebbra, e conclude con la
frase di rifiuto rivolta al califfo. Allora Harun
ar-Rashìd ordina che gli si tagli subito la testa,
accusandolo di averlo, ma Abu Nuwàs replica che ha
passato tutta la notte nella propria casa, e
affermando che solo dalla frase finale ha
ricostruito l'evento, cita in sua difesa la sura
dei poeti, dal Corano, per ricordare con la
massima autorità religiosa che la natura del poeta
non può essere valutata col riduttivismo
oggettivante del potere:
Quanto ai
poeti, che i traviati seguono, non vedi tu come
essi, in ogni valle, vadano errando, e discorrono
di ogni cosa come insensati? E come essi dicono
quello che non fanno? (Corano, Sura XXVI)
Vero e
falso sono, fin dall'origine del racconto, parte
dello stesso gioco. Mentre il detentore del
potere, come l'eroe civilizzatore, vantano un
mandato e una rivelazione a vario titolo divina,
unica e assoluta, il poeta cerca il sapore della
verità, che si gusta solo lavorando sia il vero
che il falso. La grandezza del potere del califfo
Harun ar-Rashid, padrone di far tagliare la testa
a chi incrini il suo potere, consiste nella sua
tolleranza per i poeti, che non rientrano, grazie
alla loro erranza, nel gioco del dominio.
Difficile per la concezione eurocentrica
riconoscere la sospensione che è il dono di
Shahrazàd, come di Diotima, come di Boccaccio,
difficile accettare che le Mille e una notte nei
manoscritti fossero solo due o trecento notti di
racconto, resistere alla tentazione di
concretizzare un numero magico, per compiere ciò
che, proprio essendo incompiuto, contorna
l'indicibile dell'esistenza. Arabi o cristiani,
quando abbiamo aumentato fino a mille il numero
delle notti, ci siamo stancati di riportare la
formula che, ripetendosi con poche variazioni,
marca nel racconto la cesura fra buio e luce, e
forse abbiamo perduto il segreto di Shahrazàd,
quando si lascia scivolare nel silenzio...
NOTE
BIBLIOGRAFICHE
The Arabian Nights.
Translated by Husain Haddawy. Based on the text of
the Fourteenth-century Syrian Manuscript edited by
Muhsin Mahdi; W.W. Norton & Company, New York –
London, 1990.
Chandra V. (1995), Terra rossa e
pioggia scrosciante, Instar Libri, Torino
1995.
Sul rapporto tra fiaba,
mito e romanzo postcoloniale, vedi: S.
Albertazzi e A. Gasparini, Il Romanzo
new-global; ETS Edizioni, Pisa 2003.
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