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Il tuo Cristo è giudeo, la tua automobile giapponese,
la tua pizza è italiana, la tua democrazia greca, le
tue vacanze turche, i tuoi numeri arabi, la tua
scrittura latina, e tu rimproveri al tuo vicino di
essere straniero? (La Repubblica, venerdì 1° febbraio
2002)
Il poeta martinicano Édouard
Glissant scrive che nel nostro tempo, quando
elaboriamo qualcosa accade che lo ritroviamo in
un'altra parte del mondo, elaborato da qualcuno con
il quale non avevamo avuto nessun rapporto. Parlando
di luoghi comuni, luoghi in cui un
pensiero del mondo conferma un altro pensiero del
mondo, Glissant non intende postulare uno
spazio di generalizzazione astratta:
Avere una poetica della totalità-mondo significa
legare in maniera rinnovata il luogo, da cui la
poetica e la letteratura provengono, alla
totalità-mondo e viceversa. In altre parole, la
letteratura non è sospesa per aria. Proviene
invece da un luogo. Esiste inevitabilmente un
luogo che produce l'opera letteraria, ed oggi
l'opera letteraria è ancora più legata al luogo,
poiché è attraverso l'opera letteraria che si
mostra la relazione fra questo luogo e la
totalità-mondo. (Édouard Glissant, Introduction à une
poétique du divers; Gallimard, Paris
1996; tr. it.: Poetica
del diverso; Meltemi, Roma 1998;
pp.28-29)
Possiamo chiederci da quali
luoghi partiamo, e in quali stiamo transitando,
perché non c'è scambio, se non riconosciamo che non
si può parlare dal nulla. Sappiamo che la
psicoanalisi non può trasformare una terra in
territorio nel quale risiedere stabilmente, ma non
dobbiamo dimenticare che la nostalgia per la patria
perduta, sempre mitica e illusoria, nutre la nostra
immaginazione. Se credessimo di averla liquidata una
volta per tutte dovremmo avere tracotanza
sufficiente per considerare come errori infantili
dai quali saremmi immuni le vicende dolorose,
ridicole, tragiche, che segnano la storia dei
raggruppamenti sociali nel movimento psicoanalitico.
Possiamo dimenticare il luogo
dal quale parliamo nel momento in cui siamo in
un'identificazione massiccia - verticale, radicale -
con la psicoanalisi, con il maïtre, con un
ideale. Se non ricordiamo a sufficienza il nostro
fascio di radici ataviche, che si presentano sempre
qualcosa di unico, se non impariamo a parlare a
partire dal luogo in cui via via ci troviamo, se lo
ignoriamo attraverso i meccanismi di
identificazione, di qualsiasi genere, non riduciamo
il rischio di proiettare nella psicoanalisi o in uno
psicoanalista, vivo o morto, dentro o fuori di noi,
la nostra identità-radice. Se questo transfert,
sciogliendoci in qualche misura dalle
identificazioni familiari e con i genitori, è il
motore dell'identificazione grazie alla quale
desideriamo diventare analisti, e l'ostacolo alla
possibilità di riconoscerci come analisti. La nostra
identità di radici va elaborata con la psicoanalisi
ma non fissata nel gruppo analitico, non come se
fosse nata nel gruppo analitico: perché in questo
caso si costituisce una nuova famiglia, dalla quale
si può uscire solo con nuove rotture, per
ricostituire nuove famiglie, ad libitum.
Sappiamo solo che questa è una
via per avere rotture verso la tragedia o verso
l'insignificanza, una via certa, mentre non sappiamo
se evitando di percorrerla si avranno meno rotture.
Ma coltivare la consapevolezza, sapere, che su una
via c'è una voragine, aiuta a non caderci dentro,
anche se non c'è certezza sulle vie alternative.
Questo sapere da coltivare è il luogo comune della
strega, della metapsicologia, nel quale non si può
transitare facendo finta di teorizzare, emettendo e
incorporando concetti per espellere e cannibalizzare
brandelli di identità in forma di parole. Vi si può
sostare se si ama cercar di sapere, perché è una
forma d'amore che l'elaborazione del lutto non
intacca, consentendole anzi di sciogliersi dalle
illusioni, come il mito delle origini che fornisce
una legittimazione assoluta.
Il mito delle origini,
legittimando il nostro senso di una superiore
purezza, coincide con l'identità radice,
contrapposta all'identità rizoma. Édouard
Glissant, riprendendo questi termini da Deleuze e
Guattari, li rilancia insieme alla coppia
corrispondente di identità continentale e identità
arcipelagica. La seconda può scaturire solo da
quei processi di corpo a corpo imprevedibili e
incontrollabili che denomina creolizzazione.
Glissant distingue tre tipi di
emigrazione: armata, familiare, e nuda. La prima ha
come modello Cortés, che trasformando una terra in
territorio vi pianta il vessillo della propria
superiore civiltà, distruggendo il più possibile
quanto altre culture vi avevano fatto crescere.
Il secondo tipo di emigrante,
seguendo il primo su un territorio già fornito di
superiore legittimazione culturale, arriva, come gli
italiani negli Stati Uniti, con fotografie e usi
domestici, che mantiene per secoli, formando nicchie
che incidono solo localmente sulla cultura
dominante.
L'emigrazione nuda è del nero
africano comprato o catturato dai mercanti di
schiavi, che viaggia nella stiva di una nave con
altri neri che parlano varie lingue locali africane:
nessuno di loro ha armi o suppellettili che gli
permettano di mantenere una memoria stabile del
proprio mito di legittimazione, vigente solo in una
piccola comunità senza scrittura. Vomitato nudo in
un territorio assolutamente ignoto, senza il tempo
né i mezzi per tradurre fedelmente fra il proprio
linguaggio e quello dei padroni, senza armi né
suppellettili, il terzo tipo di emigrante non può
parlare in nome di una cultura legittimata, che
ricorda con vaghezza, né in nome della cultura del
nuovo territorio, che non lo considera come un
proprio membro. É quindi costretto a costruire un
linguaggio la cui efficacia comunicativa svincolata
dalla legittimazione è tanto ampia da poter
diventare comprensibile quasi universalmente, come è
accaduto per il jazz.
Il meticciato è un rapporto fra
culture di cui si possono conoscere le
caratteristiche, dagli esiti programmabili, in buona
parte prevedibili, o almeno descrivibili a
posteriori, mentre la creolizzazione è un processo
nel quale alcuni soggetti si trovano a mettere in
gioco ciascuno una mancanza di riferimenti a una
particolare legittimazione culturale:
La creolizzazione è il meticciato
con il valore aggiunto dell'imprevisto. Era
assolutamente imprevisto che i pensieri della
traccia orientassero le popolazioni nelle Americhe
verso la creazione di lingue o di forme d'arte
assolutamente inedite.
Questi microclimi culturali e linguistici creati
nelle Americhe dalla creolizzazione sono decisivi,
perché sono i segni di ciò che sta accadendo nel
mondo. E nel mondo si creano micro e macroclimi di
compenetrazione culturale e linguistica. Quando
questa compenetrazione culturale e linguistica è
molto forte, allora i vecchi demoni della purezza e
dell'opposizione al meticciato resistono e accendono
i fuochi infernali che si vedono bruciare la
superficie della terra. (Ivi, pp. 16-17)
Il soggetto che abbandona le
proprie origini per assumere una diversa identità,
come Gauguin quando divenne oceanico, non
poteva attraversare né il godimento né la sofferenza
della creolizzazione, che implica una trasformazione
più radicale.
Mi pare che sia una buona metafora di ciò che accade
a un analista quando rispondendo al disagio nel
proprio gruppo quando lo lascia per un nuovo
raggruppamento che prometta una legittimazione più
solida. Il transito è solo apparente, corrispondendo
al cambiamento del Gattopardo di Tomasi di
Lampedusa: cambiare per mantenere tutto come prima.
Glissant considera diversi dalla creolizzazione
anche fenomeni culturali come quello dei Rasta, che:
..ritrovano un fondamento forte nella mistica rastafarian etiopica,
pur senza lasciare i contorni caraibici. Mentre i
due antillani più generosi o più lucidi cercarono,
ai loro tempi, rispettivamente, Franz Fanon
l'assoluto della rivolta del Terzo Mondo e Aimé
Césaire l'essenziale della negritudine. Il tempo
non era ancora venuto per poter pensare "ciò che
cambia, mentre scambia". (Ivi, p. 27)
Interrogandoci sui giochi
gattopardeschi che tutelano la nostra compattezza
identitaria commettiamo un errore irreparabile se ci
consideriamo fuor dal pelago: se in certi
momenti possiamo contemplare, guatare
l'acqua perigliosa dalla quale siamo appena emersi,
sappiamo che la riva, il luogo, nel quale stiamo
all'asciutto è nostro solo temporaneamente. In
psicoanalisi, per la dimensione infinita della
realtà psichica, non può accadere di approdare alla
riva della salvezza, neppure con un viaggio al di là
del mondo comune come quello di Dante Alighieri. Noi
non possiamo aspirare a una stabilità che ricordi la
limpida sicurezza del classico, che è la massima
espressione dell'identità continentale, a radice
unica. Il classico rappresenta un modello espressivo
nel quale la lingua e lo stile sono assunti come
modelli universali, mentre le culture arcipelagiche,
che nascono dal processo di creolizzazione e vi
restano abbastanza da esprimersi senza costituirsi
come modelli assoluti, hanno espressioni barocche.
Che cos'è il classicismo per una qualunque
cultura e per una qualunque letteratura? È il
momento in cui questa cultura, o questa
letteratura, propone i suoi valori come valori
universali. Il barocco è l'anti-classicismo,
perché il pensiero barocco dice che non esistono
pensieri universali. Ogni valore è un valore
particolare che deve essere messo in relazione con
un altro valore particolare e, conseguentemente,
non c'è alcuna possibilità che uno qualunque di
essi possa legittimamente considerarsi o
presentarsi o imporsi come valore universale; può
imporsi come valore universale attraverso la forza
ma non può imporsi legittimamente come valore
universale. Questo è ciò che dice il pensiero
barocco ed in questo senso ogni creolizzazione è
una forma di barocco all'opera o in azione. (Ivi,
pp. 41-42)
Per Glissant il gioco della
creolizzazione, col suo portato di aleatorietà e di
erranza, è facilmente intuibile agli esordi di
qualsiasi cultura, e pertanto potrebbe essere
considerato un modo strutturale del farsi
dell'identità culturale, che solo a posteriori
costituirà il proprio mito delle origini per
rispecchiarsi in un ideale purezza. Il poeta
antillano postula una creolizzazione senza violenza,
ma non riesce a scorgerne alcun esempio.
l concetto di creolizzazione non riguarda solo
la formazione delle culture, ma ogni soggetto,
perché non solo è vero quanto afferma Salman
Rushdie, che ogni essere umano oggi è migrant,
emigrante, almeno in una fase della sua vita:
ciascuno di noi è stato anche un emigrante nudo, del
terzo tipo.
Ogni essere umano si è trovato in un territorio
sconosciuto senza conoscerne la lingua, venendo alla
luce dalla nave oscura, per quanto confortevole
possa essere, del seno materno. Siamo stati
disponibili a entrare in qualunque cultura,
ignorando ogni gerarchia fra lingue, quando abbiamo
emesso i fonemi e i suoni di tutte le lingue del
mondo, per poi trattenere e utilizzare solo quelli
che i nostri genitori, signori e padroni del
territorio in cui ci siamo trovati, ci hanno
rilanciato come significativi. E ancora, quando
siamo andati a scuola, se la nostra lingua era solo
un dialetto, condizione molto comune in Italia fino
a cinquant'anni fa, siamo stati emigranti umiliati
per la loro pronuncia e il loro lessico, da parte
dei detentori di una lingua più o meno diversa, che
avevano la missione di imporcela come superiore e
più bella.
Possiamo postulare un rapporto fecondo che non
sia un corpo a corpo fra esseri umani, violento o
amoroso? E possiamo pensare a un corpo a corpo le
cui ragioni e i cui esiti non siano per lo più
indescrivibili e imprevedibili?
Fra le più affascinanti e fortunate espressioni
della cultura creolizzata o arcipelagica vediamo i
romanzi postcoloniali, come Terra rossa e
pioggia scrosciante dell'indiano Vikram
Chandra, che insegna negli USA e scrive in inglese.
Il romanzo descrive i giochi dell'unione e dello
scioglimento fra le persone, le culture e le storie
stesse, che appare contaminazione nella prospettiva
narcisistica, mentre in senso generativo è
semplicemente il modo di fluire della vita, come
della parola e del mito, nello spazio e nel tempo.
Un giorno il protagonista del romanzo, che è un
bambino indiano nato per incantesimo, capita nel
quartiere delle prostitute e ascolta una canzone:
Cosa potrebbe essere mia madre
per la tua? Che parentela esiste
tra mio padre e il tuo? E come
ci siamo mai incontrati io e te?
Ma nell'amore
i nostri cuori si sono mescolati,
come terra rossa e pioggia scrosciante:
mai più separabili.
(Vikram Chandra, Red Earth and Pouring Rain,
Faber, London 1995; Terra rossa e pioggia scrosciante,
Instar Libri, Torino 1998; p. 289)
Il legame fra amanti è
definitivo e irreversibile non per la durata
letterale del loro incontro, non per la
cristallizzazione della sua forma in un matrimonio
né per il sacrificio che la eterna nella perfezione
della morte, ma per ciò che attraverso loro si è
mescolato per sempre, come fango, come humus.
Il canto della prostituta è una risposta poetica
al mito della purezza, una risposta di fango e di
humus, che è ciò che possiamo osservare nella vita
quotidiana come nelle relazioni fra culture. Non è
difficile vederlo, perché dappertutto ci sono fango
e humus, mentre è difficile rinunciare alla
schermatura che rende ciechi, inesauribilmente
fornita dall'identità narcisistica. Nella nostra
cultura questo schermo ha prevalentemente la forma
mitica del realismo riduttivistico, che si presenta
come vera descrizione della vera realtà.
Ma appena ci liberiamo da questo mito, non
possiamo vedere che la nostra stessa nascita,
avvenuta per più di mille e un fattore
impadroneggiabili, come qualunque nascita, è magica?
E ancora, come il fango o humus che è l'incontro
di terra rossa e pioggia scrosciante, esiste un vero
corpo a corpo tra esseri umani, e tra culture, come
tra il bambino e i suoi genitori, tra amanti, tra
allievo e maestro, tra amici e nemici, che non sia
creolo, radicalmente imprevedibile?
Quando Glissant non trova esempi di
creolizzazione senza violenza, possiamo aggiungere
che non si trova neppure fecondità del soggetto,
come delle culture e dei racconti, senza violenza,
perché si tratta della comune condizione umana, che
insieme al linguaggio impone uno scarto tra
significante e significato, come limite prescindendo
dal quale non si entra nel campo della parola e del
simbolico.
Il racconto ha in questo processo una pregnanza
morfogenetica straordinaria, perché è la struttura
stessa dell'espressione, nel linguaggio e nella
cultura, in forma di mito e fiaba, di leggenda
medievale o metropolitana, e di romanzo antico e
moderno. Anche la scienza, che volentieri si
contrappone alla favola come ‘vera' descrizione
della ‘vera' realtà, diventa sterile o si volgarizza
se dimentica la sua posizione inevitabilmente
sospesa tra noto e ignoto. Una concezione
considerata indiscutibile fino a un secolo fa, come
la sostanziale coincidenza fra lo spazio e il tempo
delle nostre percezioni e lo spazio e il tempo come
realtà fisiche descrivibili a prescindere da queste,
è a partire da Einstein una specie di favola.
Anche se non possiamo conoscere la natura mitica
della storia che ci contiene, della concezione che
consideriamo scientifica, né del romanzo che è la
nostra vita, possiamo coltivare la consapevolezza
dell'accecamento preteso dal carattere ideale di
ogni cultura che, più o meno ingenuamente, vanta una
legittimazione assoluta.
Rinunciando non a una fede, ma all'illusione della
verità assoluta, avremo tempo per raccontare, e per
descrivere in modo incompleto ma significativo ciò
che accade dentro e fuori di noi. In questo caso non
potremo escludere l'errore, che però sarà
irrilevante, oppure, costituendo parte del
procedimento, inviterà noi stessi e altri a
procedere nella ricerca.
La teorizzazione di Édouard Glissant è corroborante
per la fiducia epistemica, quella ‘pistis' che
occorre, come scrive Antonello Sciacchitano, al
nostro incontro e al nostro ascolto reciproco.
La fiducia è una forma d'amore, perché tollera e ama
qualcosa che per Narciso è terrificante: che dopo lo
scambio, nel fango e nell'humus, non si possa
stabilire cosa è dell'uno e dell'altro. Gli scambi
sono illusori se gli attanti dello scambio
pretendono di definire cosa è proprio e cosa
dell'altro, situazione di contaminazione dal punto
di vista di Narciso. Ma ancora più intollerabile è
che dopo uno scambio nessuno dei due è in grado di
stabilire cosa nella propria realtà,
irreversibilmente trasformata, era dell'altro. Nella
relazione erotica le radici perdono d'importanza,
perché si passa dalla posizione filiale a quella
genitoriale, senza annullare la prima, ma
includendola in un insieme più complesso. Solo la
possibilità di attraversare questa trasformazione
catastrofica, che chiamiamo con Glissant
creolizzazione, rende pensabile il legame sociale,
aprendo luoghi comuni alla passione di sapere.
Se cessa l'isolamento
narcisistico rispetto ai colleghi, se alle
ideintificazioni verticali e orizzontali subentra la
passione per lo scambio, si trovano e si riconoscono
luoghi comuni, nei quali, proprio perché non sono
esclusivi, è possibile abitare temporaneamente, e
non da soli. Luoghi comuni possono riguardare anche
psicoanalisi e scienza, o psicoanalisi e
letteratura, come nel fenomeno della creolizzazione.
Romanzi come Terra rossa e pioggia scrosciante
favoriscono trasformazioni nell'immaginario
collettivo, come le righe lette a Porto Alegre,
favorendo l'affioramento di ciò che le culture a
radice unica, a vario titolo e in vari gradi
fondamentaliste, devono rimuovere, qualificandolo
come trascurabile o troppo oscuro.
A differenza delle culture new-age, che si situano
ai margini delle concezioni dominanti, o in nicchie
isolate, come quella degli emigranti italiani negli
Stati Uniti, la letteratura e la poetica
creolizzate, hanno un luogo comune con la
psicoanalisi perché nascono e restano al centro
della cultura continentale che estende il suo
dominio in tutti i luoghi del mondo. Essa non
rappresenta l'attacco del nuovo che preme ai confini
col suo vigore per sostituirsi al vecchio corrotto,
come i barbari nell‘impero romano. Seguendo,
intenzionalmente o no, Freud, la cultura creolizzata
non nutre alcuna illusione di salvezza, né si accasa
o si esilia nel proclama dell'impossibilità di
salvarsi che è l'estrema illusione del pensiero
ontologico. Essa scioglie il classico e il
manierismo che ne rappresenta l'espressione estrema
aprendo il romanzo al sogno, alla fia ba, al mito,
raccontando storie che, non servendo un principio
dominante, possono essere utilizzate e lavorate da
tutti.
Non si accasano in una stanza separata dalla cultura
dominante, bensì nel cuore stesso di questa, che pur
cercando di considerarle estranee ed espellerle, è
affascinata e vivificata dallo scioglimento che
operano. Nascono e restano nel cuore della cultura
continentale alla quale non possono asservirsi, pena
la loro fine.
Accanto ai tentativi di dare uno
statuto finito alla psicoanalisi, come quello
psicoterapeutico, ve ne sono che gliene conferiscono
uno infinito, come quello che considera il lavoro
analitico un lavoro narrativo. E' utile esplorare i
luoghi comuni fra psicoanalisi e letteratura perché
entrambe hanno in sé l'infinito e il finito, non
perché la seconda possa includere la prima. Ed
entrambe hanno una relazione con la scienza che
viene misconosciuta perché la loro complessità non
conviene a concezioni riduttive come quelle che
restano tuttora dominanti.
In Freud la relazione tra
letteratura e scienza comincia con la felicità
espressiva e l'intensità narrativa dei suoi casi
clinici e continua nei nessi preziosi tra poesia e
scienza, tra mito e lavoro analitico, che
punteggiano tutti i suoi scritti, e sui quali si
potrebbe lavorare ancora molto. Quando Freud parla
di costruzioni nell'analisi le esemplifica con una
struttura narrativa, che Propp avrebbe classificato
con le funzioni X e Rm, danneggiamento
e rimozione della sciagura.
Se nelle presentazioni della tecnica analitica si
sente parlare così poco di "costruzioni", il
motivo è che si parla, invece, di
"interpretazioni" e dei loro effetti. Ma penso che
"costruzione" esprima il concetto nel modo più
appropriato. L'interpretazione si riferisce a ciò
che si fa con un singolo elemento del materiale:
un'idea, un atto mancato o altro. La costruzione,
invece, presenta all'analizzato un pezzo
dimenticato della preistoria personale, qualcosa
come: «Fino all'ennesimo anno della sua vita lei
si considerava l'unico e incontrastato
proprietario di sua madre, finché non arrivò un
secondo figlio e con lui una grave delusione. Per
un po' fu abbandonato da sua madre, che anche in
seguito non si dedicò più esclusivamente a lei. I
suoi sentimenti per sua madre divennero
ambivalenti, suo padre acquisì per lei nuovo
valore (Bedeutung)e
così via". (Freud 1937, Costruzioni in analisi;
traduzione di A. Sciacchitano; valigetta legamesociale)
Quando la costruzione è inesatta
o sbagliata, essa può funzionare come esca di
falsità per catturare una carpa di verità.
La costruzione narrativa falsa perciò non solo non è
dannosa, ma ha un valore che la rende qualcosa di
diverso da un errore innocuo. Funziona come
un segmento narrativo, un bulbo o un rizoma di
racconto, che la coppia analitica deve abbandonare
per procedere, ma per scartarla l'hanno presa in
considerazione quanto basta per disporre di un primo
contenitore, un'esca di racconto, che permette a un
racconto più vero di affiorare.
Per l'analista non credo ci sia interrogazione più
appassionante né più ardua di quella che riguarda la
trasformazione in analisi:
...Non abbiamo mai smesso di interrogarci sui
risvolti di questo dato d'esperienza: perché
accade qualcosa di trasformativo, come spostamento
di rappresentazione, quando l'altro si sente
‘colto', ‘capito', in un particolare punto? In un
suo nesso privato di senso, che solo allora,
quando si è sentito ‘capito' si permette anche di
abbandonare? (S.A. Tilli, Al di là del
principio di guarire; ETS, Pisa 2001; p.
99)
Come accade che il filo vitale e
mortale del delirio possa ritessersi nel comune
tessuto del linguaggio, che il fantasma che accentra
la coazione a ripetere rientri in una struttura
narrativa all'interno della quale interagisce con
altri personaggi? Non troviamo una risposta univoca,
ma siamo alle prese con un carattere della
narrazione che riguarda sia il lavoro analitico che
la letteratura. E possiamo osservare cosa fluisce
quando questo accade: una storia, una storia che
tiene, priva di legittimazioni divine o assolute,
con nessuna promessa di salvezza, una storia della
quale nessuno può certificare la verità, che vola
via appena le si impone una legittimazione assoluta.
Una storia che chiama a entrare nel mondo della
parola e del racconto qualcosa che si trovava
separato, isolato, come le cose e le persone che non
hanno diritto di abitare il territorio legittimato,
vecchi e nuovi barbari, che minacciano i confini
dall'esterno o dall'interno.
Appena si narra una bella storia si ritrova un mondo
appassionante, che permette a Eros di manifestarsi
ambiguo e fecondo, e il racconto è tanto barocco,
ricco e cangiante e imprevedibile, che perfino la
morte, che non perde tempo con Narciso né con Laio,
può mettersi ad ascoltare.
Nel romanzo Terra rossa e pioggia scrosciante
di Vikram Chandra, che portiamo ad esempio dei
frutti della comunità creolizzata, il protagonista è
una vecchia scimmia, che in punto di morte ricorda
che in una vita precedente era stata un uomo. Con la
memoria umana si sveglia il suo amore per la vita, e
la scimmia chiede agli dei che le concedano il tempo
di raccontare quella storia. Tre divinità le
concedono di vivere fino a quando i suoi racconti
siano appassionanti: se metà del suo pubblico darà
segni di noia per più di cinque minuti, dovrà
morire. E allora la scimmia Shahrazàd comincia a
raccontare, mentre gli dei l'ascoltano, anche Yama,
dio della morte, seduto su un invisibile trono di
buio nel quale danza un pulviscolo dorato.
Ci si può avvicinare
poeticamente a un'identità meno narcisistica
seguendo il martinicano Glissant, che descrive
l'identità arcipelagica partendo dalle Antille, dove
il mare, scorrendo fra le terre, favorisce un
immaginario che, nascendo comunque dal viaggio e
dall'erranza, non vuole eternarsi nel poema epico e
nel mito originario, per trasformando la terra in un
territorio nettamente separato dal mare.
Nelle civiltà mediterranee il mare è fra le terre,
che finiscono oltre il mare nostrum:
attraversando le Colonne d'Ercole si precipita fuori
dal mondo come l'Ulisse medievale. Nelle civiltà
continentali, come quelle che succedono alla
conquista dell'America, l'oceano è contrapposto al
territorio, e l'identità continentale si pone come
una struttura identitaria compatta, che guarda al
mare come al passaggio da attraversare per
estendersi, per continuare il dominio attraverso
altre conquiste e altre colonizzazioni. Ricorriamo a
un altro poeta, Fernando Pessoa, per evocare il peso
e il disincanto dell'identità europea:
E toldam-lhe romanticos cabellos
Olhos gregos, lembrando.
Aquelle diz Italia onde é pousado;
Este diz Inglaterra onde, afastado,
A mão sustenta, em que se appoia o rosto.
O Occidente, futuro do passado.
O rosto com que fita é Portugal.
L'Europa giace, sui gomiti poggiando
giace da Oriente a Occidente, fissando,
e le ombreggiano i romantici capelli
gli occhi greci, ricordando.
Il gomito sinistro è rigirato;
il destro è ad angolo disposto.
Il primo dice Italia, ove è posato;
l'altro dice Inghilterra ove, discosto,
regge la mano dove poggia il volto.
Fissa, con sguardo sfingico e fatale,
l'Occidente, futuro del passato.
Lo sguardo con cui fissa è il Portogallo.
(Fernando Pessoa ortonimo, Una sola moltitudine,
vol. II, Adelphi, Milano 1984; p. 140)
Contenitore dell'immaginario di
tutto il mondo, la letteratura struttura la
possibilità di passare dalla condizione privata a
quella pubblica, costituendo un luogo di scambio che
funziona come una terra senza confini, per quanto le
divisioni in generi e in periodi tentino di
dividerla in modo stabile. Fa parte anche del gioco
letterario la spinta a un'identità continentale, a
radice unica, che vuole fare dei luoghi comuni,
abitabili temporaneamente da tutti, territori
legittimati e in guerra fra loro. Ma la felicità
espressiva non può essere costretta nei territori,
perché nel momento in cui viene legata è spinta
verso la sua libertà, di transitare nello scarto fra
significante e significato, di favorire l'emersione
di realtà fino a quel momento prive di nome: perché
abbia nuovamente luogo l'atto poetico che fa
sgorgare una trasformazione, rilanciando il lavoro
della cultura.
Leggendo Freud nella traduzione di Antonello
Sciacchitano ho fatto tesoro di un particolare
passaggio di Psicologia collettiva e analisi
dell'Io, a proposito dell'uccisione del padre.
Si trova nei Supplementi, quando Freud
richiama il mito scientifico dell'orda
primordiale, per localizzare nell'evoluzione
psichica dell'umanità il punto in cui, per il
singolo, si perfeziona il passaggio dalla
psicologia collettiva all'individuale. Dopo
l'uccisione del padre sorge la comunità fraterna
totemica, con lo scopo di serbare ed
espiare il ricordo dell'assassinio.
L'insoddisfazione spinge verso nuovi sviluppi,
che danno luogo a una nuova famiglia, che
non è altro che l'ombra dell'antica, nella
quale molti padri si limitano a vicenda.
A un certo punto il nostalgico senso della
mancanza spinse un singolo a staccarsi dalla massa
e a porsi nel ruolo di padre. Chi ci provò fu il
primo poeta epico, che compì il passo in fantasia.
[...] Il mito è quindi il passo con cui il singolo
esce dalla psicologia collettiva [ed entra
nell'individuale] (Freud 1921; traduzione di A.
Sciacchitano, cit.)
Il testo freudiano indica una
direzione di ricerca verso qualcosa che riguarda il
lavoro poetico come quello analitico, e che rimanda
alle diverse strutture dell'immaginario e del
simbolico, ben lontano da certe analogie riduttive
tra lavoro analitico e letteratura. Si tratta di
comprendere l'importanza della fantasia e della
struttura narrativa nella trasformazione della
cultura, nel Kulturarbeit. Il passaggio alla
cultura come patrimonio di storie avviene attraverso
il poeta e il mito. Il ruolo della fantasia
e del sogno viene evocato, se non invocato, quando
in Analisi finita e infinita Freud scrive:
Occorre dire: "Allora non c'è che la strega". La
strega metapsicologia per la precisione. Senza
speculare metapsicologicamente, senza teorizzare -
stavo per dire fantasticare - non si fa un passo
avanti. (Freud, 1937; tr. cit.)
In Analisi finita e infinita
Freud evoca una ripetizione sconfortante, nella
quale il soggetto deve dibattersi nell'inutile
ricerca di un punto fermo. L'angoscia paralizza il
pensiero in un lutto permanente per la perdita della
legittimazione assoluta, o nell'espulsione del lutto
dell'acting suicida o omicida. Quale comunità può
mai essere possibile o desiderabile, se non pone al
centro della sua riflessione l'elaborazione di
questo lutto?
Per essere tale l'analista attraversa il godimento e
la sofferenza della creolizzazione, è consapevole
che si comincia da una condizione di emigranti nudi,
come ogni essere umano, quando si è espulsi dalla
nave del seno materno. Ma mentre gli esseri umani
cercano di dimenticare quella condizione coprendola
con un origine legittimante, a radice unica,
l'analista non solo deve ricordarla, ma riconoscerla
nelle sue manifestazioni continue, quando ascolta i
sogni notturni, i propri e quelli degli altri, i
lapsus, i sintomi: come potrebbe intenderli senza
tollerare i momenti di nera nudità, che accettando
l'incertezza del linguaggio può nominare cose
rimaste prive di nome fino a quel punto?
L'esperienza del terzo emigrante, che se non si
interroppe troppo presto con l'acquisizione di
un'identità legittimante porta al gioco della
creolizzazione, ha il tono dell'heimlich e
dell'unheimlich, del perturbante, o fascinante,
come traduce Sciacchitano. Intimamente nostra, come
la sensazione di straniamento che proviamo
svegliandoci da un incubo, e irrimediabilmente
estranea, perché mai padroneggiabile, essa si compie
in un batter d'occhio e consente la trasformazione.
Come analisti ascoltiamo persone prevalentemente
nevrotiche, che soffrono perché sono in qualche modo
soffocate da forme di legittimazione atavica, o
psicotiche, che non avendo mai sperimentato
abbastanza la stabilità di un territorio, non
possono risiedervi né uscirne. Né hanno alcuna
possibilità nemmeno di immaginare un arcipelago.
Un altro rischio dal quale occorre stare in guardia
accogliendo la metafora dell'identità arcipelagica
di Glissant è quello di andarci per un soggiorno
temporaneo, come in vacanza ai Caraibi. Visto che il
lavoro epistemologico conviene alla ricerca e alla
teoria psicoanalitica, come mai gli analisti vi si
dedicano per lo più di rado e superficialmente, come
se la possibilità di lavorare in maniera efficace
sui propri concetti fosse un'attività facoltativa?
Ho trovato un'ipotesi di risposta osservando come
Freud, grande epistemologo, ribadisca in certi
passaggi una specie di fede cieca nella scienza del
suo tempo, che pure innovava radicalmente. Per
procedere slacciando i legami con le concezioni
dominanti nella nostra cultura, costitutive quindi
della nostra stessa identità, è necessario mantenere
a livello immaginario qualche ancoraggio, perché non
è immaginabile di strapapre la nostra radice
immaginaria. Non è che un limite, fra i tanti, e
possiamo osservare che aver mantenuto un ancoraggio
alla roccia dura della pulsione non ha
impedito a Freud di rivoluzionare irreversibilmente
la concezione della realtà psichica. Probabilmente
gli psicoanalisti, affermando la loro non
omologabilità a qualunque ordine professionale, la
diversità della loro formazione da qualsiasi
percorso istituzionale, e tollerando, se fanno
questo lavoro, la condizione di emigranti nudi, non
si occupano di epistemologia per lasciare intatta a
livello immaginario l'idea di una scienza che si
occupa di cose concrete e misurabili.
In fondo il nostro tempo ha nella scienza il suo
mito più grande, in una scienza che indica la vera
realtà, la sola possibile, legittimando le
operazioni del potere, dalle campagne di diffusione
di psicofarmaci ai bambini ipercinetici
della scuola materna, alle guerre per rendere sicuri
gli spostamenti in aereo. E mentre come analisti ci
collochiamo decisamente altrove rispetto a questa
scienza, come esseri umani lasciamo intatta
l'illusione immaginaria che qualcuno, da qualche
parte, si occupi di cose concrete, che hanno un vero
peso e una effettiva estensione.
Se perdurasse, la rimozione del lavoro
epistemologico non avrebbe la funzione di limite
della roccia dura in Freud. Essa
costituirebbe una scotomizzazione dei luoghi comuni
tra la psicoanalisi e le scienze contemporanee, che
non hanno nulla a che fare con la scienza
volgarizzata e tecnicizzata. Ne conseguirebbe una
regressione della teoria rispetto alle
rivoluzionarie novità freudiane, verso modalità
mitologizzanti, ontologizzanti, psicomoralizzanti,
che soffocherebbero la psicoanalisi come il sultano
delle Mille e una notte soffocava al mattino la
fanciulla che aveva sposato la sera.
Se l'analisi rappresenta la sua
dimensione temporale fra terminabilità e
interminabilità, è sbattuta fra tecniche
psicoterapeutiche e seduzioni ontologiche e mitiche.
Ma se al posto di terminabile e interminabile
compaiono il finito e l'infinito, si ritrova la
possibilità della riflessione sull'estensione del
lavoro analitico, che non si descrive con un termine
ad esclusione dell'altro. Il terminabile e
l'interminabile si escludono a vicenda, mentre
l'infinito non esclude il finito, implicandolo tanto
nel discorso scientifico quanto nella poesia.
Allo stesso modo il vero e il falso si escludono
nella logica di non contraddizione, mentre nella
realtà psichica e nell'epistemologia hanno uno
spazio comune. Vero e falso possono distinguersi pur
essendo termini dello stesso procedimento, come
nella costruzione analitica che con un'esca di
menzogna può catturare una carpa di verità.
Sulle tracce dell'identità arcipelagica, dove le
terre circondate dal mare suggeriscono transiti, non
territori da colonizzare, da nominare per parlarne
insieme, non da battezzare secondo una delega
divina, transitiamo dall'arcipelago delle Antille di
Glissant alla Grecia antica, quando il Mediterraneo,
non ancora Mare nostrum, ma scorreva fra le isole e
le coste frastagliate. Come possiamo immaginare la
nascita di Venere se non in un arcipelago?
Il Tempo tagliò con la falce affilata il membro
del Cielo, e lo lanciò dalla riva nel mare mai
stanco;
e il mare lo cullò per tanto tempo, e intanto
sgorgava la candida spuma dal membro immortale:
nella spuma si nutriva una vergine, e quando
nacque,
sulle onde il mare la portò agli abitanti di
Citera divina,
e poi a Cipro, che le onde lambiscono intorno;
la dea venerata incantevole emerse dal mare:
dove poggiava i morbidi piedi cresceva l'erba
fiorita;
gli uomini la chiamano Afrodite, perché è nata
dalla candida spuma, e Citerea incoronata di luce,
perché dapprima apparve agli abitanti di Citera,
e Ciprigna, perché nacque a Cipro circondata dal
mare,
e poi la chiamano anche amante-del-membro,
perché ha avuto origine dal membro del Cielo;
appena è nata e ha rivolto lo sguardo agli dei,
Eros è divenuto suo compagno
e Desiderio l'ha seguita, per sempre
(Esiodo, Teogonia,
vv. 188-203; tr. mia)
I miti, come le fiabe, formano
un arcipelago di isole e di nomi, che si legano e si
sciolgono, e di origini multiple che non si
contraddicono a vicenda: come vantare un'origine che
fornisca una legittimazione assoluta in questa
storia nella quale ogni barocco trova nutrimento?
Eros è per Esiodo una divinità primigenia, mentre
per il mito orfico nacque da un uovo d'oro deposto
dal Vento che correva nella Notte. Diotima poi
racconta che Eros nacque da Poros e Penia nel
compleanno di Afrodite: come possiamo cercare una
legittimazione assoluta, se il prezzo è la perdita
del grande demone che congiunge tutte le cose?
Il mito del realismo riduzionista liquida come
primitivo questo arcipelago immaginario di miti e di
origini multiple, e pone se stesso al grado più alto
dell'evoluzione, poggiando sul senso affettivo del
bambino convinto che i genitori si siano incontrati
solo per far nascere lui. Dallo stesso arcipelago si
leva la voce di Eraclito per indicarci un mondo che
è allo stesso tempo armonico e aleatorio:
Rifiuti a caso gettati il bellissimo cosmo
(D124)
Il poeta, come l'analista, segue
un desiderio di raccontare e di ascoltare, suo e
degli altri, e ha fiducia nella reciproca
possibilità di comprendersi, su isole su cui si può
sostare, transitando. Abitare l'arcipelago mette il
desiderio di spostarsi su altre isole, di continuare
la migrazione, perché solo il mito dell'origine
divina fornisce l'illusione di bastare a se stessi e
di essere in rapporto con altri che per la stessa
appartenenza sarebbero in sintonia con noi,
stabilmente uguali.
Chi ne ha bisogno continua a seguire il profeta e il
condottiero che si dichiarano depositari di una
rivelazione a vario titolo divina, provvedendoli
quotidianamente di verità, e predicono salvezza per
i seguaci e perdizione per i miscredenti e gli
oppositori. Nella misura in cui si aderisce a questa
illusione, ci si allontana dallo scienziato e dal
poeta, e il sapore della verità di cui raccontano,
che si gusta solo lavorando sia il vero che il
falso.
Vero e falso sono, fin dall'inizio del racconto,
parte dello stesso gioco, come nella vocazione
poetica di Esiodo, che fino a quando fu chiamato
dalle Muse si occupava di cose concrete:
Mi trovavo a pascolare il gregge ai piedi del
monte Elicona,
quando sentii le voci delle divine fanciulle,
sentii le figlie di Zeus ammantato d'egida
invincibile,
che cominciarono a dire: - Pastori campagnoli,
brutta razza,
solo-pancia, noi sappiamo raccontare storie false
che sembrano vere,
e quando vogliamo sappiamo raccontare storie vere
-
così dissero le figlie del grande Zeus,
lingue-sciolte.
(Cit., vv. 23-29)
Da allora, racconta Esiodo, non
me ne importò più di alberi e di rocce: la
letteralizzazione della realtà psichica viene
abbandonata come un discorso che può essere incluso
nel canto mitico, nel racconto, nella parola, mentre
non può essere compreso dalla riduzione
concretistica.
Il discorso potrebbe continuare all'infinito,
perché l'arcipelago ha tante isole, e come si può
passare dall'arcipelago di Glissant a quello greco,
da questo si approda su una costa frastagliata, e
poi ci si addentra, fino al cuore del continente,
perché accettando il godimento e la sofferenza della
creolizzazione l'identità atavica e le culture
compatte si snodano, come una sfera illusoria che
scollandosi si riveli un toro, all'interno del quale
passa il vento, senza fine.
La passione per la parola - mito significa parola e
discorso e racconto - dissolve la compattezza
illusoria dell'identità narcisistica, ed Eros
fluisce nella mobilità metamorfica dello scambio,
che comprende riconoscimento e distacco, in un
frangersi infinito di onde sulle rive.
Immaginiamo di restare sulle tracce di una comunità
creolizzata, di cui non abbiamo mai visto
realizzazioni estese nello spazio e nel tempo, né
contiamo di vederne. Eppure possiamo testimoniare
del sapore di questa comunità utopica, che transita
nelle relazioni che abbiamo avuto e non vogliamo
dimenticare, in quelle che abbiamo e cerchiamo di
mantenere e nelle nuove che speriamo di non
misconoscere.
La traccia sta alla via come la rivolta al
comando, come il giubilo alla tortura. [...] Non
si segue la traccia per sfociare in percorsi
comodi, la traccia è tesa verso la propria verità
che è quella di esplodere, di sfaldare
completamente la norma seduttrice. [...]
Attacchiamo tutti dentro di noi i frammenti delle
nostre storie offuscate, ma non al fine di
costruire un nuovo modello di umanità da
contrapporre, in modo prevedibile, agli altri
modelli che siamo costretti ad imporci. Ecco la
devianza che non è fuga o rinuncia, ma la nuova
arte di sciogliere il mondo.
La traccia non ripete il viottolo a malapena
segnato su cui si incespica, né il viale ornato
che si chiude su un territorio, sulla grande
proprietà. E' un modo opaco di imparare il ramo e
il vento, essere se stessi derivati dall'altro, il
granello di sabbia nel vero disordine dell'utopia,
l'insondato, l'oscurità dentro la corrente di un
fiume inarrestabile. I paesaggi antillani
ricordano altri paesaggi ed ogni incontro vi
insinua la sua traccia singolare, torrenti e
fiumi, stabilendo correlazioni; corrono fragili e
ostinati, questi bracci di linguaggio che si
interpellano. Colline e pianure degradano in
racconti, frantumano l'inspiegato del mondo. Non
mancate a questo nuovo tema che si sforza, non vi
offendete per i vocaboli insolenti, né per quelli
che avete urlato coperti di troppe terre, di
troppi spazi. Risuonano dell'improbabile e del
rischio che condividiamo. Il pensiero della
traccia promette alleanze al di fuori dei sistemi,
rifiuta il possesso, si apre su questi tempi
frammentati che le umanità di oggi moltiplicano
fra di loro, tra scontri e meraviglie.
Ecco è l'erranza violenta della poesia. (Glissant,
cit., pp. 55-56)
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