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Il Legame Sociale tra
Psicoanalisti Atti del Convegno del 2 febbraio 2002 Milano, Palazzo delle Stelline |
TRACCE DI
COMUNITÀ CREOLIZZATE DA IDENTITÀ CONTINENTALI A IDENTITÀ ARCIPELAGICHE (pp. 145-167) |
a cura di Maria Vittoria Lodovichi e Antonello
Sciacchitano |
Mi dispiace che lei voglia erigere una barriera tra sé e le altre belve del serraglio congressuale. È difficile praticare la psicoanalisi isolati, si tratta di un'attività squisitamente sociale. Certo sarebbe molto più bello se ruggissimo e urlassimo tutti in un bel coro ritmato, invece di ringhiare ognuno nel proprio angolino. Lei sa quanto apprezzi la sua simpatia verso la mia persona, ma ora dovrebbe trasferirne un pochino anche sugli altri. Non ne deriverebbe che un bene per la causa". (Freud a Groddeck, 1924) Se noi, psicoanalisti, siamo ben piazzati per
conoscere il potere delle parole, questa non è una
buona ragione per farlo valere nel senso
dell'insolubile, né per 'legare pesanti e
insopportabili fardelli per caricarne le spalle
degli uomini', come si esprime la maledizione di
Cristo ai farisei nel testo di san Matteo. (Lacan) |
Il primo atto narrativo di una
cultura, qualunque estensione abbia nello spazio e
nel tempo, è l'epica, la storia degli eroi
civilizzatori, che liberano il territorio dai mostri
chimerici e dai popoli nemici. L'epica costruitsce
al suo interno il mito delle origini, in un insieme
di flash-back: questo mito, presentato come
antecedente, legittima l'epica stessa. Nell'epopea
si esercita il diritto e il dovere di trasformare
una terra in territorio, tracciandone i confini ed
espellendone i barbari estranei. Al mito epico ed
eroico può succedere, come nelle culture scritte, un
sistema di descrizione della realtà che,
incorporando progressivamente o espellendo gli
elementi utili a questo scopo, avvalora il
sentimento del proprio superiore diritto ad
esistere, dal quale deriva la superiorità ideale dei
membri di quella cultura. In qualunque struttura
narrativa, che pare anche la struttura della storia
dei fatti, appena i barbari premono ai confini, la
guerra santa può e deve cominciare. |
Il tuo Cristo è giudeo, la tua automobile giapponese, la tua pizza è italiana, la tua democrazia greca, le tue vacanze turche, i tuoi numeri arabi, la tua scrittura latina, e tu rimproveri al tuo vicino di essere straniero? (La Repubblica, venerdì 1° febbraio 2002) Il poeta martinicano Édouard Glissant scrive che nel nostro tempo, quando elaboriamo qualcosa accade che lo ritroviamo in un'altra parte del mondo, elaborato da qualcuno con il quale non avevamo avuto nessun rapporto. Parlando di luoghi comuni, luoghi in cui un pensiero del mondo conferma un altro pensiero del mondo, Glissant non intende postulare uno spazio di generalizzazione astratta:
Possiamo chiederci da quali luoghi partiamo, e in quali stiamo transitando, perché non c'è scambio, se non riconosciamo che non si può parlare dal nulla. Sappiamo che la psicoanalisi non può trasformare una terra in territorio nel quale risiedere stabilmente, ma non dobbiamo dimenticare che la nostalgia per la patria perduta, sempre mitica e illusoria, nutre la nostra immaginazione. Se credessimo di averla liquidata una volta per tutte dovremmo avere tracotanza sufficiente per considerare come errori infantili dai quali saremmi immuni le vicende dolorose, ridicole, tragiche, che segnano la storia dei raggruppamenti sociali nel movimento psicoanalitico. Possiamo dimenticare il luogo dal quale parliamo nel momento in cui siamo in un'identificazione massiccia - verticale, radicale - con la psicoanalisi, con il maïtre, con un ideale. Se non ricordiamo a sufficienza il nostro fascio di radici ataviche, che si presentano sempre qualcosa di unico, se non impariamo a parlare a partire dal luogo in cui via via ci troviamo, se lo ignoriamo attraverso i meccanismi di identificazione, di qualsiasi genere, non riduciamo il rischio di proiettare nella psicoanalisi o in uno psicoanalista, vivo o morto, dentro o fuori di noi, la nostra identità-radice. Se questo transfert, sciogliendoci in qualche misura dalle identificazioni familiari e con i genitori, è il motore dell'identificazione grazie alla quale desideriamo diventare analisti, e l'ostacolo alla possibilità di riconoscerci come analisti. La nostra identità di radici va elaborata con la psicoanalisi ma non fissata nel gruppo analitico, non come se fosse nata nel gruppo analitico: perché in questo caso si costituisce una nuova famiglia, dalla quale si può uscire solo con nuove rotture, per ricostituire nuove famiglie, ad libitum. Sappiamo solo che questa è una via per avere rotture verso la tragedia o verso l'insignificanza, una via certa, mentre non sappiamo se evitando di percorrerla si avranno meno rotture. Ma coltivare la consapevolezza, sapere, che su una via c'è una voragine, aiuta a non caderci dentro, anche se non c'è certezza sulle vie alternative. Questo sapere da coltivare è il luogo comune della strega, della metapsicologia, nel quale non si può transitare facendo finta di teorizzare, emettendo e incorporando concetti per espellere e cannibalizzare brandelli di identità in forma di parole. Vi si può sostare se si ama cercar di sapere, perché è una forma d'amore che l'elaborazione del lutto non intacca, consentendole anzi di sciogliersi dalle illusioni, come il mito delle origini che fornisce una legittimazione assoluta. Il mito delle origini, legittimando il nostro senso di una superiore purezza, coincide con l'identità radice, contrapposta all'identità rizoma. Édouard Glissant, riprendendo questi termini da Deleuze e Guattari, li rilancia insieme alla coppia corrispondente di identità continentale e identità arcipelagica. La seconda può scaturire solo da quei processi di corpo a corpo imprevedibili e incontrollabili che denomina creolizzazione. Glissant distingue tre tipi di emigrazione: armata, familiare, e nuda. La prima ha come modello Cortés, che trasformando una terra in territorio vi pianta il vessillo della propria superiore civiltà, distruggendo il più possibile quanto altre culture vi avevano fatto crescere. Il secondo tipo di emigrante, seguendo il primo su un territorio già fornito di superiore legittimazione culturale, arriva, come gli italiani negli Stati Uniti, con fotografie e usi domestici, che mantiene per secoli, formando nicchie che incidono solo localmente sulla cultura dominante. L'emigrazione nuda è del nero africano comprato o catturato dai mercanti di schiavi, che viaggia nella stiva di una nave con altri neri che parlano varie lingue locali africane: nessuno di loro ha armi o suppellettili che gli permettano di mantenere una memoria stabile del proprio mito di legittimazione, vigente solo in una piccola comunità senza scrittura. Vomitato nudo in un territorio assolutamente ignoto, senza il tempo né i mezzi per tradurre fedelmente fra il proprio linguaggio e quello dei padroni, senza armi né suppellettili, il terzo tipo di emigrante non può parlare in nome di una cultura legittimata, che ricorda con vaghezza, né in nome della cultura del nuovo territorio, che non lo considera come un proprio membro. É quindi costretto a costruire un linguaggio la cui efficacia comunicativa svincolata dalla legittimazione è tanto ampia da poter diventare comprensibile quasi universalmente, come è accaduto per il jazz. Il meticciato è un rapporto fra culture di cui si possono conoscere le caratteristiche, dagli esiti programmabili, in buona parte prevedibili, o almeno descrivibili a posteriori, mentre la creolizzazione è un processo nel quale alcuni soggetti si trovano a mettere in gioco ciascuno una mancanza di riferimenti a una particolare legittimazione culturale:
Il soggetto che abbandona le
proprie origini per assumere una diversa identità,
come Gauguin quando divenne oceanico, non
poteva attraversare né il godimento né la sofferenza
della creolizzazione, che implica una trasformazione
più radicale.
Interrogandoci sui giochi gattopardeschi che tutelano la nostra compattezza identitaria commettiamo un errore irreparabile se ci consideriamo fuor dal pelago: se in certi momenti possiamo contemplare, guatare l'acqua perigliosa dalla quale siamo appena emersi, sappiamo che la riva, il luogo, nel quale stiamo all'asciutto è nostro solo temporaneamente. In psicoanalisi, per la dimensione infinita della realtà psichica, non può accadere di approdare alla riva della salvezza, neppure con un viaggio al di là del mondo comune come quello di Dante Alighieri. Noi non possiamo aspirare a una stabilità che ricordi la limpida sicurezza del classico, che è la massima espressione dell'identità continentale, a radice unica. Il classico rappresenta un modello espressivo nel quale la lingua e lo stile sono assunti come modelli universali, mentre le culture arcipelagiche, che nascono dal processo di creolizzazione e vi restano abbastanza da esprimersi senza costituirsi come modelli assoluti, hanno espressioni barocche.
Per Glissant il gioco della
creolizzazione, col suo portato di aleatorietà e di
erranza, è facilmente intuibile agli esordi di
qualsiasi cultura, e pertanto potrebbe essere
considerato un modo strutturale del farsi
dell'identità culturale, che solo a posteriori
costituirà il proprio mito delle origini per
rispecchiarsi in un ideale purezza. Il poeta
antillano postula una creolizzazione senza violenza,
ma non riesce a scorgerne alcun esempio.
Il legame fra amanti è
definitivo e irreversibile non per la durata
letterale del loro incontro, non per la
cristallizzazione della sua forma in un matrimonio
né per il sacrificio che la eterna nella perfezione
della morte, ma per ciò che attraverso loro si è
mescolato per sempre, come fango, come humus. Se cessa l'isolamento
narcisistico rispetto ai colleghi, se alle
ideintificazioni verticali e orizzontali subentra la
passione per lo scambio, si trovano e si riconoscono
luoghi comuni, nei quali, proprio perché non sono
esclusivi, è possibile abitare temporaneamente, e
non da soli. Luoghi comuni possono riguardare anche
psicoanalisi e scienza, o psicoanalisi e
letteratura, come nel fenomeno della creolizzazione.
Romanzi come Terra rossa e pioggia scrosciante
favoriscono trasformazioni nell'immaginario
collettivo, come le righe lette a Porto Alegre,
favorendo l'affioramento di ciò che le culture a
radice unica, a vario titolo e in vari gradi
fondamentaliste, devono rimuovere, qualificandolo
come trascurabile o troppo oscuro. Accanto ai tentativi di dare uno statuto finito alla psicoanalisi, come quello psicoterapeutico, ve ne sono che gliene conferiscono uno infinito, come quello che considera il lavoro analitico un lavoro narrativo. E' utile esplorare i luoghi comuni fra psicoanalisi e letteratura perché entrambe hanno in sé l'infinito e il finito, non perché la seconda possa includere la prima. Ed entrambe hanno una relazione con la scienza che viene misconosciuta perché la loro complessità non conviene a concezioni riduttive come quelle che restano tuttora dominanti. In Freud la relazione tra letteratura e scienza comincia con la felicità espressiva e l'intensità narrativa dei suoi casi clinici e continua nei nessi preziosi tra poesia e scienza, tra mito e lavoro analitico, che punteggiano tutti i suoi scritti, e sui quali si potrebbe lavorare ancora molto. Quando Freud parla di costruzioni nell'analisi le esemplifica con una struttura narrativa, che Propp avrebbe classificato con le funzioni X e Rm, danneggiamento e rimozione della sciagura.
Quando la costruzione è inesatta
o sbagliata, essa può funzionare come esca di
falsità per catturare una carpa di verità.
La costruzione narrativa falsa perciò non solo non è
dannosa, ma ha un valore che la rende qualcosa di
diverso da un errore innocuo. Funziona come
un segmento narrativo, un bulbo o un rizoma di
racconto, che la coppia analitica deve abbandonare
per procedere, ma per scartarla l'hanno presa in
considerazione quanto basta per disporre di un primo
contenitore, un'esca di racconto, che permette a un
racconto più vero di affiorare.
Come accade che il filo vitale e
mortale del delirio possa ritessersi nel comune
tessuto del linguaggio, che il fantasma che accentra
la coazione a ripetere rientri in una struttura
narrativa all'interno della quale interagisce con
altri personaggi? Non troviamo una risposta univoca,
ma siamo alle prese con un carattere della
narrazione che riguarda sia il lavoro analitico che
la letteratura. E possiamo osservare cosa fluisce
quando questo accade: una storia, una storia che
tiene, priva di legittimazioni divine o assolute,
con nessuna promessa di salvezza, una storia della
quale nessuno può certificare la verità, che vola
via appena le si impone una legittimazione assoluta.
Una storia che chiama a entrare nel mondo della
parola e del racconto qualcosa che si trovava
separato, isolato, come le cose e le persone che non
hanno diritto di abitare il territorio legittimato,
vecchi e nuovi barbari, che minacciano i confini
dall'esterno o dall'interno. Ci si può avvicinare
poeticamente a un'identità meno narcisistica
seguendo il martinicano Glissant, che descrive
l'identità arcipelagica partendo dalle Antille, dove
il mare, scorrendo fra le terre, favorisce un
immaginario che, nascendo comunque dal viaggio e
dall'erranza, non vuole eternarsi nel poema epico e
nel mito originario, per trasformando la terra in un
territorio nettamente separato dal mare.
Contenitore dell'immaginario di
tutto il mondo, la letteratura struttura la
possibilità di passare dalla condizione privata a
quella pubblica, costituendo un luogo di scambio che
funziona come una terra senza confini, per quanto le
divisioni in generi e in periodi tentino di
dividerla in modo stabile. Fa parte anche del gioco
letterario la spinta a un'identità continentale, a
radice unica, che vuole fare dei luoghi comuni,
abitabili temporaneamente da tutti, territori
legittimati e in guerra fra loro. Ma la felicità
espressiva non può essere costretta nei territori,
perché nel momento in cui viene legata è spinta
verso la sua libertà, di transitare nello scarto fra
significante e significato, di favorire l'emersione
di realtà fino a quel momento prive di nome: perché
abbia nuovamente luogo l'atto poetico che fa
sgorgare una trasformazione, rilanciando il lavoro
della cultura.
Il testo freudiano indica una direzione di ricerca verso qualcosa che riguarda il lavoro poetico come quello analitico, e che rimanda alle diverse strutture dell'immaginario e del simbolico, ben lontano da certe analogie riduttive tra lavoro analitico e letteratura. Si tratta di comprendere l'importanza della fantasia e della struttura narrativa nella trasformazione della cultura, nel Kulturarbeit. Il passaggio alla cultura come patrimonio di storie avviene attraverso il poeta e il mito. Il ruolo della fantasia e del sogno viene evocato, se non invocato, quando in Analisi finita e infinita Freud scrive:
In Analisi finita e infinita
Freud evoca una ripetizione sconfortante, nella
quale il soggetto deve dibattersi nell'inutile
ricerca di un punto fermo. L'angoscia paralizza il
pensiero in un lutto permanente per la perdita della
legittimazione assoluta, o nell'espulsione del lutto
dell'acting suicida o omicida. Quale comunità può
mai essere possibile o desiderabile, se non pone al
centro della sua riflessione l'elaborazione di
questo lutto? Se l'analisi rappresenta la sua
dimensione temporale fra terminabilità e
interminabilità, è sbattuta fra tecniche
psicoterapeutiche e seduzioni ontologiche e mitiche.
Ma se al posto di terminabile e interminabile
compaiono il finito e l'infinito, si ritrova la
possibilità della riflessione sull'estensione del
lavoro analitico, che non si descrive con un termine
ad esclusione dell'altro. Il terminabile e
l'interminabile si escludono a vicenda, mentre
l'infinito non esclude il finito, implicandolo tanto
nel discorso scientifico quanto nella poesia.
I miti, come le fiabe, formano
un arcipelago di isole e di nomi, che si legano e si
sciolgono, e di origini multiple che non si
contraddicono a vicenda: come vantare un'origine che
fornisca una legittimazione assoluta in questa
storia nella quale ogni barocco trova nutrimento?
Il poeta, come l'analista, segue
un desiderio di raccontare e di ascoltare, suo e
degli altri, e ha fiducia nella reciproca
possibilità di comprendersi, su isole su cui si può
sostare, transitando. Abitare l'arcipelago mette il
desiderio di spostarsi su altre isole, di continuare
la migrazione, perché solo il mito dell'origine
divina fornisce l'illusione di bastare a se stessi e
di essere in rapporto con altri che per la stessa
appartenenza sarebbero in sintonia con noi,
stabilmente uguali.
Da allora, racconta Esiodo, non
me ne importò più di alberi e di rocce: la
letteralizzazione della realtà psichica viene
abbandonata come un discorso che può essere incluso
nel canto mitico, nel racconto, nella parola, mentre
non può essere compreso dalla riduzione
concretistica.
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