ADALINDA GASPARINI                PSICOANALISI E FAVOLE
Il Legame Sociale tra Psicoanalisti
Atti del Convegno
del 2 febbraio 2002
Milano, Palazzo delle Stelline
TRACCE DI COMUNITÀ CREOLIZZATE
DA IDENTITÀ CONTINENTALI A IDENTIT
À ARCIPELAGICHE (pp. 145-167)

a cura di Maria Vittoria Lodovichi e Antonello Sciacchitano
Pisa: EDIZIONI ETS 2002



Mi dispiace che lei voglia erigere una barriera tra sé e le altre belve del serraglio congressuale. È difficile praticare la psicoanalisi isolati, si tratta di un'attività squisitamente sociale. Certo sarebbe molto più bello se ruggissimo e urlassimo tutti in un bel coro ritmato, invece di ringhiare ognuno nel proprio angolino. Lei sa quanto apprezzi la sua simpatia verso la mia persona, ma ora dovrebbe trasferirne un pochino anche sugli altri. Non ne deriverebbe che un bene per la causa". (Freud a Groddeck, 1924)

Se noi, psicoanalisti, siamo ben piazzati per conoscere il potere delle parole, questa non è una buona ragione per farlo valere nel senso dell'insolubile, né per 'legare pesanti e insopportabili fardelli per caricarne le spalle degli uomini', come si esprime la maledizione di Cristo ai farisei nel testo di san Matteo. (Lacan)

Il primo atto narrativo di una cultura, qualunque estensione abbia nello spazio e nel tempo, è l'epica, la storia degli eroi civilizzatori, che liberano il territorio dai mostri chimerici e dai popoli nemici. L'epica costruitsce al suo interno il mito delle origini, in un insieme di flash-back: questo mito, presentato come antecedente, legittima l'epica stessa. Nell'epopea si esercita il diritto e il dovere di trasformare una terra in territorio, tracciandone i confini ed espellendone i barbari estranei. Al mito epico ed eroico può succedere, come nelle culture scritte, un sistema di descrizione della realtà che, incorporando progressivamente o espellendo gli elementi utili a questo scopo, avvalora il sentimento del proprio superiore diritto ad esistere, dal quale deriva la superiorità ideale dei membri di quella cultura. In qualunque struttura narrativa, che pare anche la struttura della storia dei fatti, appena i barbari premono ai confini, la guerra santa può e deve cominciare.
La verità immaginaria e aleatoria del mito della propria superiorità culturale, che conosciamo come etnocentrismo, si fonda nella convinzione affettiva infantile che la propria centralità percettiva coincida con il centro del mondo. Il sistema geocentrico era una proiezione concretistica dello stesso mito.
Le guerre che si combattono in nome di religioni o ideologie, mostrano come la potenza del mito o della favola delle origini e dell'epica, sola legittimazione possibile per la superiorità di una cultura, siano tanto grandi da dissolvere l'esperienza storica e ogni dato dell'esperienza.
A Porto Alegre la madre di Carlo Giuliani ha letto queste righe, che ha trovato nella camera del figlio:

Il tuo Cristo è giudeo, la tua automobile giapponese, la tua pizza è italiana, la tua democrazia greca, le tue vacanze turche, i tuoi numeri arabi, la tua scrittura latina, e tu rimproveri al tuo vicino di essere straniero? (La Repubblica, venerdì 1° febbraio 2002)

Il poeta martinicano Édouard Glissant scrive che nel nostro tempo, quando elaboriamo qualcosa accade che lo ritroviamo in un'altra parte del mondo, elaborato da qualcuno con il quale non avevamo avuto nessun rapporto. Parlando di luoghi comuni, luoghi in cui un pensiero del mondo conferma un altro pensiero del mondo, Glissant non intende postulare uno spazio di generalizzazione astratta:

Avere una poetica della totalità-mondo significa legare in maniera rinnovata il luogo, da cui la poetica e la letteratura provengono, alla totalità-mondo e viceversa. In altre parole, la letteratura non è sospesa per aria. Proviene invece da un luogo. Esiste inevitabilmente un luogo che produce l'opera letteraria, ed oggi l'opera letteraria è ancora più legata al luogo, poiché è attraverso l'opera letteraria che si mostra la relazione fra questo luogo e la totalità-mondo. (Édouard Glissant, Introduction à une poétique du divers; Gallimard, Paris 1996; tr. it.: Poetica del diverso; Meltemi, Roma 1998; pp.28-29)

Possiamo chiederci da quali luoghi partiamo, e in quali stiamo transitando, perché non c'è scambio, se non riconosciamo che non si può parlare dal nulla. Sappiamo che la psicoanalisi non può trasformare una terra in territorio nel quale risiedere stabilmente, ma non dobbiamo dimenticare che la nostalgia per la patria perduta, sempre mitica e illusoria, nutre la nostra immaginazione. Se credessimo di averla liquidata una volta per tutte dovremmo avere tracotanza sufficiente per considerare come errori infantili dai quali saremmi immuni le vicende dolorose, ridicole, tragiche, che segnano la storia dei raggruppamenti sociali nel movimento psicoanalitico.

Possiamo dimenticare il luogo dal quale parliamo nel momento in cui siamo in un'identificazione massiccia - verticale, radicale - con la psicoanalisi, con il maïtre, con un ideale. Se non ricordiamo a sufficienza il nostro fascio di radici ataviche, che si presentano sempre qualcosa di unico, se non impariamo a parlare a partire dal luogo in cui via via ci troviamo, se lo ignoriamo attraverso i meccanismi di identificazione, di qualsiasi genere, non riduciamo il rischio di proiettare nella psicoanalisi o in uno psicoanalista, vivo o morto, dentro o fuori di noi, la nostra identità-radice. Se questo transfert, sciogliendoci in qualche misura dalle identificazioni familiari e con i genitori, è il motore dell'identificazione grazie alla quale desideriamo diventare analisti, e l'ostacolo alla possibilità di riconoscerci come analisti. La nostra identità di radici va elaborata con la psicoanalisi ma non fissata nel gruppo analitico, non come se fosse nata nel gruppo analitico: perché in questo caso si costituisce una nuova famiglia, dalla quale si può uscire solo con nuove rotture, per ricostituire nuove famiglie, ad libitum.

Sappiamo solo che questa è una via per avere rotture verso la tragedia o verso l'insignificanza, una via certa, mentre non sappiamo se evitando di percorrerla si avranno meno rotture. Ma coltivare la consapevolezza, sapere, che su una via c'è una voragine, aiuta a non caderci dentro, anche se non c'è certezza sulle vie alternative. Questo sapere da coltivare è il luogo comune della strega, della metapsicologia, nel quale non si può transitare facendo finta di teorizzare, emettendo e incorporando concetti per espellere e cannibalizzare brandelli di identità in forma di parole. Vi si può sostare se si ama cercar di sapere, perché è una forma d'amore che l'elaborazione del lutto non intacca, consentendole anzi di sciogliersi dalle illusioni, come il mito delle origini che fornisce una legittimazione assoluta.

Il mito delle origini, legittimando il nostro senso di una superiore purezza, coincide con l'identità radice, contrapposta all'identità rizoma. Édouard Glissant, riprendendo questi termini da Deleuze e Guattari, li rilancia insieme alla coppia corrispondente di identità continentale e identità arcipelagica. La seconda può scaturire solo da quei processi di corpo a corpo imprevedibili e incontrollabili che denomina creolizzazione.

Glissant distingue tre tipi di emigrazione: armata, familiare, e nuda. La prima ha come modello Cortés, che trasformando una terra in territorio vi pianta il vessillo della propria superiore civiltà, distruggendo il più possibile quanto altre culture vi avevano fatto crescere.

Il secondo tipo di emigrante, seguendo il primo su un territorio già fornito di superiore legittimazione culturale, arriva, come gli italiani negli Stati Uniti, con fotografie e usi domestici, che mantiene per secoli, formando nicchie che incidono solo localmente sulla cultura dominante.

L'emigrazione nuda è del nero africano comprato o catturato dai mercanti di schiavi, che viaggia nella stiva di una nave con altri neri che parlano varie lingue locali africane: nessuno di loro ha armi o suppellettili che gli permettano di mantenere una memoria stabile del proprio mito di legittimazione, vigente solo in una piccola comunità senza scrittura. Vomitato nudo in un territorio assolutamente ignoto, senza il tempo né i mezzi per tradurre fedelmente fra il proprio linguaggio e quello dei padroni, senza armi né suppellettili, il terzo tipo di emigrante non può parlare in nome di una cultura legittimata, che ricorda con vaghezza, né in nome della cultura del nuovo territorio, che non lo considera come un proprio membro. É quindi costretto a costruire un linguaggio la cui efficacia comunicativa svincolata dalla legittimazione è tanto ampia da poter diventare comprensibile quasi universalmente, come è accaduto per il jazz.

Il meticciato è un rapporto fra culture di cui si possono conoscere le caratteristiche, dagli esiti programmabili, in buona parte prevedibili, o almeno descrivibili a posteriori, mentre la creolizzazione è un processo nel quale alcuni soggetti si trovano a mettere in gioco ciascuno una mancanza di riferimenti a una particolare legittimazione culturale:

La creolizzazione è il meticciato con il valore aggiunto dell'imprevisto. Era assolutamente imprevisto che i pensieri della traccia orientassero le popolazioni nelle Americhe verso la creazione di lingue o di forme d'arte assolutamente inedite.
Questi microclimi culturali e linguistici creati nelle Americhe dalla creolizzazione sono decisivi, perché sono i segni di ciò che sta accadendo nel mondo. E nel mondo si creano micro e macroclimi di compenetrazione culturale e linguistica. Quando questa compenetrazione culturale e linguistica è molto forte, allora i vecchi demoni della purezza e dell'opposizione al meticciato resistono e accendono i fuochi infernali che si vedono bruciare la superficie della terra. (Ivi, pp. 16-17)

Il soggetto che abbandona le proprie origini per assumere una diversa identità, come Gauguin quando divenne oceanico, non poteva attraversare né il godimento né la sofferenza della creolizzazione, che implica una trasformazione più radicale.
Mi pare che sia una buona metafora di ciò che accade a un analista quando rispondendo al disagio nel proprio gruppo quando lo lascia per un nuovo raggruppamento che prometta una legittimazione più solida. Il transito è solo apparente, corrispondendo al cambiamento del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa: cambiare per mantenere tutto come prima.
Glissant considera diversi dalla creolizzazione anche fenomeni culturali come quello dei Rasta, che:

..ritrovano un fondamento forte nella mistica rastafarian etiopica, pur senza lasciare i contorni caraibici. Mentre i due antillani più generosi o più lucidi cercarono, ai loro tempi, rispettivamente, Franz Fanon l'assoluto della rivolta del Terzo Mondo e Aimé Césaire l'essenziale della negritudine. Il tempo non era ancora venuto per poter pensare "ciò che cambia, mentre scambia". (Ivi, p. 27)

Interrogandoci sui giochi gattopardeschi che tutelano la nostra compattezza identitaria commettiamo un errore irreparabile se ci consideriamo fuor dal pelago: se in certi momenti possiamo contemplare, guatare l'acqua perigliosa dalla quale siamo appena emersi, sappiamo che la riva, il luogo, nel quale stiamo all'asciutto è nostro solo temporaneamente. In psicoanalisi, per la dimensione infinita della realtà psichica, non può accadere di approdare alla riva della salvezza, neppure con un viaggio al di là del mondo comune come quello di Dante Alighieri. Noi non possiamo aspirare a una stabilità che ricordi la limpida sicurezza del classico, che è la massima espressione dell'identità continentale, a radice unica. Il classico rappresenta un modello espressivo nel quale la lingua e lo stile sono assunti come modelli universali, mentre le culture arcipelagiche, che nascono dal processo di creolizzazione e vi restano abbastanza da esprimersi senza costituirsi come modelli assoluti, hanno espressioni barocche.

Che cos'è il classicismo per una qualunque cultura e per una qualunque letteratura? È il momento in cui questa cultura, o questa letteratura, propone i suoi valori come valori universali. Il barocco è l'anti-classicismo, perché il pensiero barocco dice che non esistono pensieri universali. Ogni valore è un valore particolare che deve essere messo in relazione con un altro valore particolare e, conseguentemente, non c'è alcuna possibilità che uno qualunque di essi possa legittimamente considerarsi o presentarsi o imporsi come valore universale; può imporsi come valore universale attraverso la forza ma non può imporsi legittimamente come valore universale. Questo è ciò che dice il pensiero barocco ed in questo senso ogni creolizzazione è una forma di barocco all'opera o in azione. (Ivi, pp. 41-42)

Per Glissant il gioco della creolizzazione, col suo portato di aleatorietà e di erranza, è facilmente intuibile agli esordi di qualsiasi cultura, e pertanto potrebbe essere considerato un modo strutturale del farsi dell'identità culturale, che solo a posteriori costituirà il proprio mito delle origini per rispecchiarsi in un ideale purezza. Il poeta antillano postula una creolizzazione senza violenza, ma non riesce a scorgerne alcun esempio.
l concetto di creolizzazione non riguarda solo la formazione delle culture, ma ogni soggetto, perché non solo è vero quanto afferma Salman Rushdie, che ogni essere umano oggi è migrant, emigrante, almeno in una fase della sua vita: ciascuno di noi è stato anche un emigrante nudo, del terzo tipo.
Ogni essere umano si è trovato in un territorio sconosciuto senza conoscerne la lingua, venendo alla luce dalla nave oscura, per quanto confortevole possa essere, del seno materno. Siamo stati disponibili a entrare in qualunque cultura, ignorando ogni gerarchia fra lingue, quando abbiamo emesso i fonemi e i suoni di tutte le lingue del mondo, per poi trattenere e utilizzare solo quelli che i nostri genitori, signori e padroni del territorio in cui ci siamo trovati, ci hanno rilanciato come significativi. E ancora, quando siamo andati a scuola, se la nostra lingua era solo un dialetto, condizione molto comune in Italia fino a cinquant'anni fa, siamo stati emigranti umiliati per la loro pronuncia e il loro lessico, da parte dei detentori di una lingua più o meno diversa, che avevano la missione di imporcela come superiore e più bella.
Possiamo postulare un rapporto fecondo che non sia un corpo a corpo fra esseri umani, violento o amoroso? E possiamo pensare a un corpo a corpo le cui ragioni e i cui esiti non siano per lo più indescrivibili e imprevedibili?
Fra le più affascinanti e fortunate espressioni della cultura creolizzata o arcipelagica vediamo i romanzi postcoloniali, come Terra rossa e pioggia scrosciante dell'indiano Vikram Chandra, che insegna negli USA e scrive in inglese. Il romanzo descrive i giochi dell'unione e dello scioglimento fra le persone, le culture e le storie stesse, che appare contaminazione nella prospettiva narcisistica, mentre in senso generativo è semplicemente il modo di fluire della vita, come della parola e del mito, nello spazio e nel tempo.
Un giorno il protagonista del romanzo, che è un bambino indiano nato per incantesimo, capita nel quartiere delle prostitute e ascolta una canzone:

Cosa potrebbe essere mia madre
per la tua? Che parentela esiste
tra mio padre e il tuo? E come
ci siamo mai incontrati io e te?
Ma nell'amore
i nostri cuori si sono mescolati,
come terra rossa e pioggia scrosciante:
mai più separabili.
(Vikram Chandra, Red Earth and Pouring Rain, Faber, London 1995; Terra rossa e pioggia scrosciante, Instar Libri, Torino 1998; p. 289)

Il legame fra amanti è definitivo e irreversibile non per la durata letterale del loro incontro, non per la cristallizzazione della sua forma in un matrimonio né per il sacrificio che la eterna nella perfezione della morte, ma per ciò che attraverso loro si è mescolato per sempre, come fango, come humus.
Il canto della prostituta è una risposta poetica al mito della purezza, una risposta di fango e di humus, che è ciò che possiamo osservare nella vita quotidiana come nelle relazioni fra culture. Non è difficile vederlo, perché dappertutto ci sono fango e humus, mentre è difficile rinunciare alla schermatura che rende ciechi, inesauribilmente fornita dall'identità narcisistica. Nella nostra cultura questo schermo ha prevalentemente la forma mitica del realismo riduttivistico, che si presenta come vera descrizione della vera realtà.
Ma appena ci liberiamo da questo mito, non possiamo vedere che la nostra stessa nascita, avvenuta per più di mille e un fattore impadroneggiabili, come qualunque nascita, è magica?
E ancora, come il fango o humus che è l'incontro di terra rossa e pioggia scrosciante, esiste un vero corpo a corpo tra esseri umani, e tra culture, come tra il bambino e i suoi genitori, tra amanti, tra allievo e maestro, tra amici e nemici, che non sia creolo, radicalmente imprevedibile?
Quando Glissant non trova esempi di creolizzazione senza violenza, possiamo aggiungere che non si trova neppure fecondità del soggetto, come delle culture e dei racconti, senza violenza, perché si tratta della comune condizione umana, che insieme al linguaggio impone uno scarto tra significante e significato, come limite prescindendo dal quale non si entra nel campo della parola e del simbolico.
Il racconto ha in questo processo una pregnanza morfogenetica straordinaria, perché è la struttura stessa dell'espressione, nel linguaggio e nella cultura, in forma di mito e fiaba, di leggenda medievale o metropolitana, e di romanzo antico e moderno. Anche la scienza, che volentieri si contrappone alla favola come ‘vera' descrizione della ‘vera' realtà, diventa sterile o si volgarizza se dimentica la sua posizione inevitabilmente sospesa tra noto e ignoto. Una concezione considerata indiscutibile fino a un secolo fa, come la sostanziale coincidenza fra lo spazio e il tempo delle nostre percezioni e lo spazio e il tempo come realtà fisiche descrivibili a prescindere da queste, è a partire da Einstein una specie di favola.
Anche se non possiamo conoscere la natura mitica della storia che ci contiene, della concezione che consideriamo scientifica, né del romanzo che è la nostra vita, possiamo coltivare la consapevolezza dell'accecamento preteso dal carattere ideale di ogni cultura che, più o meno ingenuamente, vanta una legittimazione assoluta.
Rinunciando non a una fede, ma all'illusione della verità assoluta, avremo tempo per raccontare, e per descrivere in modo incompleto ma significativo ciò che accade dentro e fuori di noi. In questo caso non potremo escludere l'errore, che però sarà irrilevante, oppure, costituendo parte del procedimento, inviterà noi stessi e altri a procedere nella ricerca.
La teorizzazione di Édouard Glissant è corroborante per la fiducia epistemica, quella ‘pistis' che occorre, come scrive Antonello Sciacchitano, al nostro incontro e al nostro ascolto reciproco.
La fiducia è una forma d'amore, perché tollera e ama qualcosa che per Narciso è terrificante: che dopo lo scambio, nel fango e nell'humus, non si possa stabilire cosa è dell'uno e dell'altro. Gli scambi sono illusori se gli attanti dello scambio pretendono di definire cosa è proprio e cosa dell'altro, situazione di contaminazione dal punto di vista di Narciso. Ma ancora più intollerabile è che dopo uno scambio nessuno dei due è in grado di stabilire cosa nella propria realtà, irreversibilmente trasformata, era dell'altro. Nella relazione erotica le radici perdono d'importanza, perché si passa dalla posizione filiale a quella genitoriale, senza annullare la prima, ma includendola in un insieme più complesso. Solo la possibilità di attraversare questa trasformazione catastrofica, che chiamiamo con Glissant creolizzazione, rende pensabile il legame sociale, aprendo luoghi comuni alla passione di sapere.

Se cessa l'isolamento narcisistico rispetto ai colleghi, se alle ideintificazioni verticali e orizzontali subentra la passione per lo scambio, si trovano e si riconoscono luoghi comuni, nei quali, proprio perché non sono esclusivi, è possibile abitare temporaneamente, e non da soli. Luoghi comuni possono riguardare anche psicoanalisi e scienza, o psicoanalisi e letteratura, come nel fenomeno della creolizzazione. Romanzi come Terra rossa e pioggia scrosciante favoriscono trasformazioni nell'immaginario collettivo, come le righe lette a Porto Alegre, favorendo l'affioramento di ciò che le culture a radice unica, a vario titolo e in vari gradi fondamentaliste, devono rimuovere, qualificandolo come trascurabile o troppo oscuro.
A differenza delle culture new-age, che si situano ai margini delle concezioni dominanti, o in nicchie isolate, come quella degli emigranti italiani negli Stati Uniti, la letteratura e la poetica creolizzate, hanno un luogo comune con la psicoanalisi perché nascono e restano al centro della cultura continentale che estende il suo dominio in tutti i luoghi del mondo. Essa non rappresenta l'attacco del nuovo che preme ai confini col suo vigore per sostituirsi al vecchio corrotto, come i barbari nell‘impero romano. Seguendo, intenzionalmente o no, Freud, la cultura creolizzata non nutre alcuna illusione di salvezza, né si accasa o si esilia nel proclama dell'impossibilità di salvarsi che è l'estrema illusione del pensiero ontologico. Essa scioglie il classico e il manierismo che ne rappresenta l'espressione estrema aprendo il romanzo al sogno, alla fia ba, al mito, raccontando storie che, non servendo un principio dominante, possono essere utilizzate e lavorate da tutti.
Non si accasano in una stanza separata dalla cultura dominante, bensì nel cuore stesso di questa, che pur cercando di considerarle estranee ed espellerle, è affascinata e vivificata dallo scioglimento che operano. Nascono e restano nel cuore della cultura continentale alla quale non possono asservirsi, pena la loro fine.

Accanto ai tentativi di dare uno statuto finito alla psicoanalisi, come quello psicoterapeutico, ve ne sono che gliene conferiscono uno infinito, come quello che considera il lavoro analitico un lavoro narrativo. E' utile esplorare i luoghi comuni fra psicoanalisi e letteratura perché entrambe hanno in sé l'infinito e il finito, non perché la seconda possa includere la prima. Ed entrambe hanno una relazione con la scienza che viene misconosciuta perché la loro complessità non conviene a concezioni riduttive come quelle che restano tuttora dominanti.

In Freud la relazione tra letteratura e scienza comincia con la felicità espressiva e l'intensità narrativa dei suoi casi clinici e continua nei nessi preziosi tra poesia e scienza, tra mito e lavoro analitico, che punteggiano tutti i suoi scritti, e sui quali si potrebbe lavorare ancora molto. Quando Freud parla di costruzioni nell'analisi le esemplifica con una struttura narrativa, che Propp avrebbe classificato con le funzioni X e Rm, danneggiamento e rimozione della sciagura.

Se nelle presentazioni della tecnica analitica si sente parlare così poco di "costruzioni", il motivo è che si parla, invece, di "interpretazioni" e dei loro effetti. Ma penso che "costruzione" esprima il concetto nel modo più appropriato. L'interpretazione si riferisce a ciò che si fa con un singolo elemento del materiale: un'idea, un atto mancato o altro. La costruzione, invece, presenta all'analizzato un pezzo dimenticato della preistoria personale, qualcosa come: «Fino all'ennesimo anno della sua vita lei si considerava l'unico e incontrastato proprietario di sua madre, finché non arrivò un secondo figlio e con lui una grave delusione. Per un po' fu abbandonato da sua madre, che anche in seguito non si dedicò più esclusivamente a lei. I suoi sentimenti per sua madre divennero ambivalenti, suo padre acquisì per lei nuovo valore (Bedeutung)e così via". (Freud 1937, Costruzioni in analisi; traduzione di A. Sciacchitano; valigetta legamesociale)

Quando la costruzione è inesatta o sbagliata, essa può funzionare come esca di falsità per catturare una carpa di verità. La costruzione narrativa falsa perciò non solo non è dannosa, ma ha un valore che la rende qualcosa di diverso da un errore innocuo. Funziona come un segmento narrativo, un bulbo o un rizoma di racconto, che la coppia analitica deve abbandonare per procedere, ma per scartarla l'hanno presa in considerazione quanto basta per disporre di un primo contenitore, un'esca di racconto, che permette a un racconto più vero di affiorare.
Per l'analista non credo ci sia interrogazione più appassionante né più ardua di quella che riguarda la trasformazione in analisi:

...Non abbiamo mai smesso di interrogarci sui risvolti di questo dato d'esperienza: perché accade qualcosa di trasformativo, come spostamento di rappresentazione, quando l'altro si sente ‘colto', ‘capito', in un particolare punto? In un suo nesso privato di senso, che solo allora, quando si è sentito ‘capito' si permette anche di abbandonare? (S.A. Tilli, Al di là del principio di guarire; ETS, Pisa 2001; p. 99)

Come accade che il filo vitale e mortale del delirio possa ritessersi nel comune tessuto del linguaggio, che il fantasma che accentra la coazione a ripetere rientri in una struttura narrativa all'interno della quale interagisce con altri personaggi? Non troviamo una risposta univoca, ma siamo alle prese con un carattere della narrazione che riguarda sia il lavoro analitico che la letteratura. E possiamo osservare cosa fluisce quando questo accade: una storia, una storia che tiene, priva di legittimazioni divine o assolute, con nessuna promessa di salvezza, una storia della quale nessuno può certificare la verità, che vola via appena le si impone una legittimazione assoluta. Una storia che chiama a entrare nel mondo della parola e del racconto qualcosa che si trovava separato, isolato, come le cose e le persone che non hanno diritto di abitare il territorio legittimato, vecchi e nuovi barbari, che minacciano i confini dall'esterno o dall'interno.
Appena si narra una bella storia si ritrova un mondo appassionante, che permette a Eros di manifestarsi ambiguo e fecondo, e il racconto è tanto barocco, ricco e cangiante e imprevedibile, che perfino la morte, che non perde tempo con Narciso né con Laio, può mettersi ad ascoltare.
Nel romanzo Terra rossa e pioggia scrosciante di Vikram Chandra, che portiamo ad esempio dei frutti della comunità creolizzata, il protagonista è una vecchia scimmia, che in punto di morte ricorda che in una vita precedente era stata un uomo. Con la memoria umana si sveglia il suo amore per la vita, e la scimmia chiede agli dei che le concedano il tempo di raccontare quella storia. Tre divinità le concedono di vivere fino a quando i suoi racconti siano appassionanti: se metà del suo pubblico darà segni di noia per più di cinque minuti, dovrà morire. E allora la scimmia Shahrazàd comincia a raccontare, mentre gli dei l'ascoltano, anche Yama, dio della morte, seduto su un invisibile trono di buio nel quale danza un pulviscolo dorato.

Ci si può avvicinare poeticamente a un'identità meno narcisistica seguendo il martinicano Glissant, che descrive l'identità arcipelagica partendo dalle Antille, dove il mare, scorrendo fra le terre, favorisce un immaginario che, nascendo comunque dal viaggio e dall'erranza, non vuole eternarsi nel poema epico e nel mito originario, per trasformando la terra in un territorio nettamente separato dal mare.
Nelle civiltà mediterranee il mare è fra le terre, che finiscono oltre il mare nostrum: attraversando le Colonne d'Ercole si precipita fuori dal mondo come l'Ulisse medievale. Nelle civiltà continentali, come quelle che succedono alla conquista dell'America, l'oceano è contrapposto al territorio, e l'identità continentale si pone come una struttura identitaria compatta, che guarda al mare come al passaggio da attraversare per estendersi, per continuare il dominio attraverso altre conquiste e altre colonizzazioni. Ricorriamo a un altro poeta, Fernando Pessoa, per evocare il peso e il disincanto dell'identità europea:

E toldam-lhe romanticos cabellos
Olhos gregos, lembrando.
Aquelle diz Italia onde é pousado;
Este diz Inglaterra onde, afastado,
A mão sustenta, em que se appoia o rosto.
O Occidente, futuro do passado.
O rosto com que fita é Portugal.

L'Europa giace, sui gomiti poggiando
giace da Oriente a Occidente, fissando,
e le ombreggiano i romantici capelli
gli occhi greci, ricordando.
Il gomito sinistro è rigirato;
il destro è ad angolo disposto.
Il primo dice Italia, ove è posato;
l'altro dice Inghilterra ove, discosto,
regge la mano dove poggia il volto.
Fissa, con sguardo sfingico e fatale,
l'Occidente, futuro del passato.
Lo sguardo con cui fissa è il Portogallo.
(Fernando Pessoa ortonimo, Una sola moltitudine, vol. II, Adelphi, Milano 1984; p. 140)

Contenitore dell'immaginario di tutto il mondo, la letteratura struttura la possibilità di passare dalla condizione privata a quella pubblica, costituendo un luogo di scambio che funziona come una terra senza confini, per quanto le divisioni in generi e in periodi tentino di dividerla in modo stabile. Fa parte anche del gioco letterario la spinta a un'identità continentale, a radice unica, che vuole fare dei luoghi comuni, abitabili temporaneamente da tutti, territori legittimati e in guerra fra loro. Ma la felicità espressiva non può essere costretta nei territori, perché nel momento in cui viene legata è spinta verso la sua libertà, di transitare nello scarto fra significante e significato, di favorire l'emersione di realtà fino a quel momento prive di nome: perché abbia nuovamente luogo l'atto poetico che fa sgorgare una trasformazione, rilanciando il lavoro della cultura.
Leggendo Freud nella traduzione di Antonello Sciacchitano ho fatto tesoro di un particolare passaggio di Psicologia collettiva e analisi dell'Io, a proposito dell'uccisione del padre. Si trova nei Supplementi, quando Freud richiama il mito scientifico dell'orda primordiale, per localizzare nell'evoluzione psichica dell'umanità il punto in cui, per il singolo, si perfeziona il passaggio dalla psicologia collettiva all'individuale. Dopo l'uccisione del padre sorge la comunità fraterna totemica, con lo scopo di serbare ed espiare il ricordo dell'assassinio. L'insoddisfazione spinge verso nuovi sviluppi, che danno luogo a una nuova famiglia, che non è altro che l'ombra dell'antica, nella quale molti padri si limitano a vicenda.

A un certo punto il nostalgico senso della mancanza spinse un singolo a staccarsi dalla massa e a porsi nel ruolo di padre. Chi ci provò fu il primo poeta epico, che compì il passo in fantasia. [...] Il mito è quindi il passo con cui il singolo esce dalla psicologia collettiva [ed entra nell'individuale] (Freud 1921; traduzione di A. Sciacchitano, cit.)

Il testo freudiano indica una direzione di ricerca verso qualcosa che riguarda il lavoro poetico come quello analitico, e che rimanda alle diverse strutture dell'immaginario e del simbolico, ben lontano da certe analogie riduttive tra lavoro analitico e letteratura. Si tratta di comprendere l'importanza della fantasia e della struttura narrativa nella trasformazione della cultura, nel Kulturarbeit. Il passaggio alla cultura come patrimonio di storie avviene attraverso il poeta e il mito. Il ruolo della fantasia e del sogno viene evocato, se non invocato, quando in Analisi finita e infinita Freud scrive:

Occorre dire: "Allora non c'è che la strega". La strega metapsicologia per la precisione. Senza speculare metapsicologicamente, senza teorizzare - stavo per dire fantasticare - non si fa un passo avanti. (Freud, 1937; tr. cit.)

In Analisi finita e infinita Freud evoca una ripetizione sconfortante, nella quale il soggetto deve dibattersi nell'inutile ricerca di un punto fermo. L'angoscia paralizza il pensiero in un lutto permanente per la perdita della legittimazione assoluta, o nell'espulsione del lutto dell'acting suicida o omicida. Quale comunità può mai essere possibile o desiderabile, se non pone al centro della sua riflessione l'elaborazione di questo lutto?
Per essere tale l'analista attraversa il godimento e la sofferenza della creolizzazione, è consapevole che si comincia da una condizione di emigranti nudi, come ogni essere umano, quando si è espulsi dalla nave del seno materno. Ma mentre gli esseri umani cercano di dimenticare quella condizione coprendola con un origine legittimante, a radice unica, l'analista non solo deve ricordarla, ma riconoscerla nelle sue manifestazioni continue, quando ascolta i sogni notturni, i propri e quelli degli altri, i lapsus, i sintomi: come potrebbe intenderli senza tollerare i momenti di nera nudità, che accettando l'incertezza del linguaggio può nominare cose rimaste prive di nome fino a quel punto?
L'esperienza del terzo emigrante, che se non si interroppe troppo presto con l'acquisizione di un'identità legittimante porta al gioco della creolizzazione, ha il tono dell'heimlich e dell'unheimlich, del perturbante, o fascinante, come traduce Sciacchitano. Intimamente nostra, come la sensazione di straniamento che proviamo svegliandoci da un incubo, e irrimediabilmente estranea, perché mai padroneggiabile, essa si compie in un batter d'occhio e consente la trasformazione.
Come analisti ascoltiamo persone prevalentemente nevrotiche, che soffrono perché sono in qualche modo soffocate da forme di legittimazione atavica, o psicotiche, che non avendo mai sperimentato abbastanza la stabilità di un territorio, non possono risiedervi né uscirne. Né hanno alcuna possibilità nemmeno di immaginare un arcipelago.
Un altro rischio dal quale occorre stare in guardia accogliendo la metafora dell'identità arcipelagica di Glissant è quello di andarci per un soggiorno temporaneo, come in vacanza ai Caraibi. Visto che il lavoro epistemologico conviene alla ricerca e alla teoria psicoanalitica, come mai gli analisti vi si dedicano per lo più di rado e superficialmente, come se la possibilità di lavorare in maniera efficace sui propri concetti fosse un'attività facoltativa? Ho trovato un'ipotesi di risposta osservando come Freud, grande epistemologo, ribadisca in certi passaggi una specie di fede cieca nella scienza del suo tempo, che pure innovava radicalmente. Per procedere slacciando i legami con le concezioni dominanti nella nostra cultura, costitutive quindi della nostra stessa identità, è necessario mantenere a livello immaginario qualche ancoraggio, perché non è immaginabile di strapapre la nostra radice immaginaria. Non è che un limite, fra i tanti, e possiamo osservare che aver mantenuto un ancoraggio alla roccia dura della pulsione non ha impedito a Freud di rivoluzionare irreversibilmente la concezione della realtà psichica. Probabilmente gli psicoanalisti, affermando la loro non omologabilità a qualunque ordine professionale, la diversità della loro formazione da qualsiasi percorso istituzionale, e tollerando, se fanno questo lavoro, la condizione di emigranti nudi, non si occupano di epistemologia per lasciare intatta a livello immaginario l'idea di una scienza che si occupa di cose concrete e misurabili.
In fondo il nostro tempo ha nella scienza il suo mito più grande, in una scienza che indica la vera realtà, la sola possibile, legittimando le operazioni del potere, dalle campagne di diffusione di psicofarmaci ai bambini ipercinetici della scuola materna, alle guerre per rendere sicuri gli spostamenti in aereo. E mentre come analisti ci collochiamo decisamente altrove rispetto a questa scienza, come esseri umani lasciamo intatta l'illusione immaginaria che qualcuno, da qualche parte, si occupi di cose concrete, che hanno un vero peso e una effettiva estensione.
Se perdurasse, la rimozione del lavoro epistemologico non avrebbe la funzione di limite della roccia dura in Freud. Essa costituirebbe una scotomizzazione dei luoghi comuni tra la psicoanalisi e le scienze contemporanee, che non hanno nulla a che fare con la scienza volgarizzata e tecnicizzata. Ne conseguirebbe una regressione della teoria rispetto alle rivoluzionarie novità freudiane, verso modalità mitologizzanti, ontologizzanti, psicomoralizzanti, che soffocherebbero la psicoanalisi come il sultano delle Mille e una notte soffocava al mattino la fanciulla che aveva sposato la sera.

Se l'analisi rappresenta la sua dimensione temporale fra terminabilità e interminabilità, è sbattuta fra tecniche psicoterapeutiche e seduzioni ontologiche e mitiche. Ma se al posto di terminabile e interminabile compaiono il finito e l'infinito, si ritrova la possibilità della riflessione sull'estensione del lavoro analitico, che non si descrive con un termine ad esclusione dell'altro. Il terminabile e l'interminabile si escludono a vicenda, mentre l'infinito non esclude il finito, implicandolo tanto nel discorso scientifico quanto nella poesia.
Allo stesso modo il vero e il falso si escludono nella logica di non contraddizione, mentre nella realtà psichica e nell'epistemologia hanno uno spazio comune. Vero e falso possono distinguersi pur essendo termini dello stesso procedimento, come nella costruzione analitica che con un'esca di menzogna può catturare una carpa di verità.
Sulle tracce dell'identità arcipelagica, dove le terre circondate dal mare suggeriscono transiti, non territori da colonizzare, da nominare per parlarne insieme, non da battezzare secondo una delega divina, transitiamo dall'arcipelago delle Antille di Glissant alla Grecia antica, quando il Mediterraneo, non ancora Mare nostrum, ma scorreva fra le isole e le coste frastagliate. Come possiamo immaginare la nascita di Venere se non in un arcipelago?

Il Tempo tagliò con la falce affilata il membro
del Cielo, e lo lanciò dalla riva nel mare mai stanco;
e il mare lo cullò per tanto tempo, e intanto
sgorgava la candida spuma dal membro immortale:
nella spuma si nutriva una vergine, e quando nacque,
sulle onde il mare la portò agli abitanti di Citera divina,
e poi a Cipro, che le onde lambiscono intorno;
la dea venerata incantevole emerse dal mare:
dove poggiava i morbidi piedi cresceva l'erba fiorita;
gli uomini la chiamano Afrodite, perché è nata
dalla candida spuma, e Citerea incoronata di luce,
perché dapprima apparve agli abitanti di Citera,
e Ciprigna, perché nacque a Cipro circondata dal mare,
e poi la chiamano anche amante-del-membro,
perché ha avuto origine dal membro del Cielo;
appena è nata e ha rivolto lo sguardo agli dei,
Eros è divenuto suo compagno
e Desiderio l'ha seguita, per sempre
(Esiodo, Teogonia, vv. 188-203; tr. mia)

I miti, come le fiabe, formano un arcipelago di isole e di nomi, che si legano e si sciolgono, e di origini multiple che non si contraddicono a vicenda: come vantare un'origine che fornisca una legittimazione assoluta in questa storia nella quale ogni barocco trova nutrimento?
Eros è per Esiodo una divinità primigenia, mentre per il mito orfico nacque da un uovo d'oro deposto dal Vento che correva nella Notte. Diotima poi racconta che Eros nacque da Poros e Penia nel compleanno di Afrodite: come possiamo cercare una legittimazione assoluta, se il prezzo è la perdita del grande demone che congiunge tutte le cose?
Il mito del realismo riduzionista liquida come primitivo questo arcipelago immaginario di miti e di origini multiple, e pone se stesso al grado più alto dell'evoluzione, poggiando sul senso affettivo del bambino convinto che i genitori si siano incontrati solo per far nascere lui. Dallo stesso arcipelago si leva la voce di Eraclito per indicarci un mondo che è allo stesso tempo armonico e aleatorio:

Rifiuti a caso gettati il bellissimo cosmo
(D124)

Il poeta, come l'analista, segue un desiderio di raccontare e di ascoltare, suo e degli altri, e ha fiducia nella reciproca possibilità di comprendersi, su isole su cui si può sostare, transitando. Abitare l'arcipelago mette il desiderio di spostarsi su altre isole, di continuare la migrazione, perché solo il mito dell'origine divina fornisce l'illusione di bastare a se stessi e di essere in rapporto con altri che per la stessa appartenenza sarebbero in sintonia con noi, stabilmente uguali.
Chi ne ha bisogno continua a seguire il profeta e il condottiero che si dichiarano depositari di una rivelazione a vario titolo divina, provvedendoli quotidianamente di verità, e predicono salvezza per i seguaci e perdizione per i miscredenti e gli oppositori. Nella misura in cui si aderisce a questa illusione, ci si allontana dallo scienziato e dal poeta, e il sapore della verità di cui raccontano, che si gusta solo lavorando sia il vero che il falso.
Vero e falso sono, fin dall'inizio del racconto, parte dello stesso gioco, come nella vocazione poetica di Esiodo, che fino a quando fu chiamato dalle Muse si occupava di cose concrete:

Mi trovavo a pascolare il gregge ai piedi del monte Elicona,
quando sentii le voci delle divine fanciulle,
sentii le figlie di Zeus ammantato d'egida invincibile,
che cominciarono a dire: - Pastori campagnoli, brutta razza,
solo-pancia, noi sappiamo raccontare storie false che sembrano vere,
e quando vogliamo sappiamo raccontare storie vere -
così dissero le figlie del grande Zeus, lingue-sciolte.
(Cit., vv. 23-29)

Da allora, racconta Esiodo, non me ne importò più di alberi e di rocce: la letteralizzazione della realtà psichica viene abbandonata come un discorso che può essere incluso nel canto mitico, nel racconto, nella parola, mentre non può essere compreso dalla riduzione concretistica.
Il discorso potrebbe continuare all'infinito, perché l'arcipelago ha tante isole, e come si può passare dall'arcipelago di Glissant a quello greco, da questo si approda su una costa frastagliata, e poi ci si addentra, fino al cuore del continente, perché accettando il godimento e la sofferenza della creolizzazione l'identità atavica e le culture compatte si snodano, come una sfera illusoria che scollandosi si riveli un toro, all'interno del quale passa il vento, senza fine.
La passione per la parola - mito significa parola e discorso e racconto - dissolve la compattezza illusoria dell'identità narcisistica, ed Eros fluisce nella mobilità metamorfica dello scambio, che comprende riconoscimento e distacco, in un frangersi infinito di onde sulle rive.
Immaginiamo di restare sulle tracce di una comunità creolizzata, di cui non abbiamo mai visto realizzazioni estese nello spazio e nel tempo, né contiamo di vederne. Eppure possiamo testimoniare del sapore di questa comunità utopica, che transita nelle relazioni che abbiamo avuto e non vogliamo dimenticare, in quelle che abbiamo e cerchiamo di mantenere e nelle nuove che speriamo di non misconoscere.

La traccia sta alla via come la rivolta al comando, come il giubilo alla tortura. [...] Non si segue la traccia per sfociare in percorsi comodi, la traccia è tesa verso la propria verità che è quella di esplodere, di sfaldare completamente la norma seduttrice. [...] Attacchiamo tutti dentro di noi i frammenti delle nostre storie offuscate, ma non al fine di costruire un nuovo modello di umanità da contrapporre, in modo prevedibile, agli altri modelli che siamo costretti ad imporci. Ecco la devianza che non è fuga o rinuncia, ma la nuova arte di sciogliere il mondo.
La traccia non ripete il viottolo a malapena segnato su cui si incespica, né il viale ornato che si chiude su un territorio, sulla grande proprietà. E' un modo opaco di imparare il ramo e il vento, essere se stessi derivati dall'altro, il granello di sabbia nel vero disordine dell'utopia, l'insondato, l'oscurità dentro la corrente di un fiume inarrestabile. I paesaggi antillani ricordano altri paesaggi ed ogni incontro vi insinua la sua traccia singolare, torrenti e fiumi, stabilendo correlazioni; corrono fragili e ostinati, questi bracci di linguaggio che si interpellano. Colline e pianure degradano in racconti, frantumano l'inspiegato del mondo. Non mancate a questo nuovo tema che si sforza, non vi offendete per i vocaboli insolenti, né per quelli che avete urlato coperti di troppe terre, di troppi spazi. Risuonano dell'improbabile e del rischio che condividiamo. Il pensiero della traccia promette alleanze al di fuori dei sistemi, rifiuta il possesso, si apre su questi tempi frammentati che le umanità di oggi moltiplicano fra di loro, tra scontri e meraviglie.
Ecco è l'erranza violenta della poesia. (Glissant, cit., pp. 55-56)



Penltima revisione 4 novembre 2018
Ultima revisione 3 ottobre 2022