To be published in a Volume on INDIAN DIASPORIC WRITERS, by Pencraft International, New Delhi, India | RACCONTI DI UNA DIASPORA
INTIMA 2008 |
Edited by Prof. A.N. Dwivedi of Allahabad University, INDIA, currently working as a Prof. and Chairman of English Dept, at Taiz University, YEMEN |
La fuga
da se stessi porta alla morte, quando la perdita
della propria patria, nella forma di un amore, di
un'infanzia felice, di un ideale, è talmente
dolorosa da annientare il soggetto. Vikram Chandra
racconta spesso di questo dolore, di come si possa
trasformare in un'esperienza che coinvolge tutto
l'essere che, se sopravvive, contemplando la
propria mancanza si libera da una forza che
dall'interno domina la sua anima, in maniera più
violenta di qualunque dominatore esterno. C'è un
vuoto che attrae l'anima, e se il soggetto non si
lascia inghiottire sente scorrere la vita fuori
dal proprio controllo e dalla propria stessa
immaginazione. Allora il valore della parola non
poggia altro che sul gioco del racconto, e
l'espressione cresce come un rampicante
lussureggiante: l'autore non pretende di dire la
verità,la fa solo sentire. In questo lavoro lo
scrittore è in una posizione che lo psicoanalista
può sentire intimamente vicina alla propria,
perché questa ricerca e questa parola possono
cogliere una possibilità di trasformazione che non
poggia altro che sulla forza intima
dell'espressione. Può essere difficile, per molti di noi,
rinunciare a credere che nell’uomo sia insita
una pulsione che lo spinge a cercare la
perfezione, una pulsione che lo ha elevato fino
all’attuale livello di capacità intellettuale
[spirituale] e di sublimazione etica, e dalla
quale ci si può attendere l’evoluzione da uomo a
superuomo. Solo che io non credo nell’esistenza
di questa pulsione interiore, e non vedo in che
modo si possa far salva questa benefica
illusione. Mi pare che l‘evoluzione del genere
umano fino a questo momento non abbia affatto
bisogno di una spiegazione diversa da quella che
vale per gli animali; quell‘infaticabile impulso
verso un ulteriore perfezionamento che si può
osservare in una minoranza di individui umani
può essere facilmente spiegato come conseguenza
della rimozione pulsionale su cui è fondata la
civiltà in tutto ciò che ha di più valido e
prezioso. La pulsione rimossa non rinuncia
[desiste] mai a cercare il suo pieno
soddisfacimento, che consisterebbe nella
ripetizione di un‘esperienza primaria di
soddisfacimento; tutte le formazioni sostitutive
e reattive, tutte le sublimazioni, non potranno
mai riuscire a sopprimere la sua persistente
tensione, e la differenza fra il piacere del
soddisfacimento agognato e quello effettivamente
ottenuto determina nell‘uomo quell’impulso che
non gli permette di fermarsi in nessuna
posizione raggiunta, ma, secondo le parole del
poeta, "[indomitamente] sempre lo spinge più
avanti". Il cammino a ritroso, che porterebbe a
un soddisfacimento completo, è di regola
ostruito dalle resistenze che mantengono le
rimozioni, e quindi non resta altra alternativa
che quella di procedere nell'unica direzione in
cui si è ancora liberi di svilupparsi, peraltro
senza la prospettiva di poter concludere il
processo e raggiungere la meta. (Freud 1920, pp.
227-228) In
questo brano di Freud, che fa parte del testo che
più di ogni altro radicalizza la novità della
psicoanalisi, si parla di sublimazione.
Sublimazione designa un processo di trasformazione
che rende possibile l'espressione artistica e la
ricerca scientifica. Partiamo da questo brano
perché esso contiene l'inquietudine della ricerca,
come se Freud si sporgesse su un abisso, senza
poterne fare a meno, sperando di non cadervi e di
imparare e raccontare qualcosa di nuovo.
Ricordiamo che secondo Freud i poeti sono i primi
e i migliori psicologi. Ma cosa vuol dire? Perché
gli scritti di Freud sugli artisti e sulle loro
opere contengono anticipazioni di alcune sue
elaborazioni teoriche fondamentali? Perché il
creatore della psicoanalisi, intesa sia come cura
del soggetto sofferente sia come metodo di
indagine della cultura umana, nomina le formazioni
dell'inconscio non con termini medici ma con
figure mitiche, come Edipo e Narciso? Cosa
significa che la sua opera finale, il suo
testamento spirituale, sia dedicata a Mosé, figura
determinante per l'Ebraismo? In questa opera Freud
si chiede la ragione della diaspora,
dell'antisemitismo, da quello più antico alla
persecuzione nazista che lo aveva costretto a
lasciare Vienna per andare a morire in
Inghilterra. Il
respiro delle sue interrogazioni e delle sue
ipotesi attraversa tutta la cultura occidentale, e
non sembra che le grandi culture orientali con le
quali si confronta, come la storia che viviamo, ci
facciano sembrare Freud troppo pessimista sulla
nostra possibilità di guarire dalla violenza con
la quale ci sterminiamo e con la follia che ci fa
rischiare la nostra stessa estinzione come genere
umano. L'orrore
per i campi di sterminio, per i milioni di soldati
morti, per i civili morti sotto i bombardamenti,
si è espresso nel Processo di Norimberga con una
condanna del Nazismo e dei nazisti, trattando la
ferocia razzista tedesca e italiana come un
episodio di follia alieno alla cultura
occidentale, una malattia da estirpare. Come se il
totalitarismo, nelle innumerevoli forme in cui si
è manifestato e continua a manifestarsi nella
storia, non fosse una manifestazione estrema, ma
costante, di qualcosa che appartiene alla nostra
cultura, alla struttura stessa dell'essere umano. Le
tragedie collettive contemporanee, come il
terrorismo fondamentalista e le guerre per imporre
la democrazia, e la nostra incapacità di
ostacolarne la forza distruttiva, non sono diverse
da quelle passate. Si
ripete su scala sempre più ampia, e con frequenza
sempre maggiore, la caduta dell'illusione che si
possa tendere con successo a un equilibrio capace
di proteggere noi e le nostre culture dai bagni di
sangue e dalle atrocità che hanno scandito la
nostra storia. Si può
considerare la Traumdeutung (1900) come
l'atto di nascita della psicoanalisi: forse
possiamo pensare all'essere umano come a un dreaming
animal, prima ancora che come a un political
animal. Nella notte, nell'impotenza che
sperimentiamo nel sonno, mentre il nostro sguardo
scorre su immagini che sono solo nella nostra
mente, muovendo gli occhi come se davanti a noi ci
fosse uno schermo cinematografico, si evidenzia un
lavoro della mente che della realtà mantiene solo
il ricordo, deformato dall'arbitrio delle
formazioni inconsce. Lo stesso lavoro avviene
durante la veglia, solo non è percepibile, tranne
che in fenomeni del resto comuni e quotidiani come
il lapsus. Nel secolo in cui la grande illusione
di pace universale generata dall'Umanesimo e dal
Rinascimento crolla, nel secolo del Barocco, la
sostanza onirica della vita è compiutamente detta
nella letteratura, basti pensare al titolo dello
spagnolo Calderon de la Barca, La vida es sueño, o al
tanto citato discorso di Prospero nella Tempesta:
we are such stuff as dreams are made on.
Possiamo pensare al fondamentalismo contemporaneo,
in tutte le sue forme, come all'espressione
violenta del bisogno di rifondare o di inventare
un'identità culturale che abbia una consistenza
diversa da quella assai unhemlich dei
nostri sogni, analoga al bisogno di rafforzare
un'identità troppo fragile, prossima
all'inconsistenza, nelle persone che si trovano
sulla soglia della psicosi. Cosa
permette di tollerare la percezione e la
comprensione della fragilità della nostra identità
soggettiva e culturale? A
partire da questa domanda riprendiamo la prima che
abbiamo posto, per formulare un'ipotesi: la
comprensione della condizione umana deriva ai
poeti, e agli scienziati come Freud, dalla
capacità di tollerare senza impazzire questa
fragilità? Pensiamo
alla diaspora come a una funzione del gioco
attraverso il quale un'identità si costituisce.
Perché un popolo esista non deve solo raccontarsi
una storia, deve affermare che la storia che
racconta della sua origine, della bontà delle sue
leggi, del suo diritto a occupare un territorio e
costruirvi città, è assolutamente vera. Questa
storia deve occupare il vertice della piramide di
tutte le storie passate, presenti o future. Non
serve fare esempi, ognuno ne può trovare nella
propria cultura e in quelle di cui ha conoscenza.
Non è difficile riconoscere che le grandi storie
che legittimano l'esistenza di un popolo la cui
identità deriva da un evento storico o da una
rivelazione religiosa hanno la stessa struttura
delle fiabe e dei miti, né osservare che la loro
trasformazione in verità assoluta è un processo
violento che esige molte vittime. Ma il bisogno di
vivere col sostegno di una legittimazione
identitaria che garantisca la propria superiorità
su altri esseri umani, il proprio diritto di
sfruttarli, di dominarli, anche di ucciderli e
sterminarli, sembra affermarsi con una forza
rispetto alla quale la descrizione della realtà
mitica e immaginaria di qualsiasi superiorità
collettiva o individuale è tanto debole da
sembrare impotente. Sembra
che la coazione a ripetere, teorizzata da Freud
come Thanatos, opposta e complementare a Eros, la
pulsione che privilegia la vita e la sua
fecondità, si esprima nella totale cecità rispetto
alla storia antica e recente, e nel rifiuto di
riconoscere quello che i nostri mezzi di
informazione ci mostrano: esseri umani simili e
diversi affermano il loro diritto a distruggersi
in nome di opposte legittimazioni divine, ciascuna
delle quali ha lo stesso valore mitico e nessun
valore oggettivo. La loro espressione e il loro
successo dipendono soltanto dalla violenza e dalla
forza che le spinge in avanti. Come possiamo non
scandalizzarci di fronte a un dibattito televisivo
in cui un rappresentante di Israele fa discendere
il diritto del suo stato a combattere contro i
Palestinesi in nome dell'elezione divina, che ha
assegnato loro quella patria, mentre i Palestinesi
negano il diritto all'esistenza dello stato di
Israele come se non ci fosse stata una risoluzione
dell'ONU nel 1948, in base al principio che loro
abitavano su quelle terre? Gli avrei domandato: mi
ucciderai, Rajesh? Ucciderai mia madre e mio padre
perché sono musulmani? Ti prenderai la nostra
terra, dimmelo, dimmelo, gridai. Dimmelo. (Chandra
1997, p. 250) Iqbal
non incontrerà più il suo amante in questa storia,
e non potrà mai porgli la domanda. Cosa ci
permette di amarci o di odiarci, di aiutarci l'un
l'altro a vivere o di ucciderci? Le mitiche verità
che un'organizzazione di potere ha reso e continua
a rendere assolute forniscono ai soggetti una
risposta rassicurante: noi - a differenza degli
altri, gli infedeli - operiamo per il bene e per
la giustizia, e questa opera include
l'eliminazione di chi contrasta la nostra
egemonia. Per
chi non si illude che un mito abbia maggior
fondamento di altri miti, che ci sia un popolo
fornito di diritti maggiori degli altri, la
domanda ha molti echi, e nessuna risposta
risolutiva. Continuare a porla, sostenerne la
lievità insopportabile, significa forse
sperimentare una condizione come quella che Iqbal,
guardando il ritratto dell'amato e perduto Rajesh,
che ha appeso nella sua stanza, sperimenta alla
fine della sua storia: Da solo, guarderò ancora
il quadro nella luce incerta e fioca. Ora vedrò
solo un barlume nell'oscurità, un bianco che esce
dall'ombra. Capirò che Rajesh non è nelle linee,
che il corpo non è nel colore. Ma c'è quel colore
che si muove attraverso il corpo, rang ek
sharir ka. C'è qualcosa che si accende. So
che cos'è. » la mancanza nel mio cuore. (Tr. mia)[1] Le
organizzazioni di potere costruite intorno a un
mito affermato non come racconto fra i racconti,
ma come verità rivelata al di sopra di qualunque
altro racconto umano, coprono la mancanza nel
cuore del soggetto, che è mancanza nel cuore della
sua cultura. I poeti sono i primi e i migliori
psicologi perché vivono sui bordi di questo vuoto
nel cuore, si inebriano di questa assenza di
risposte definitive, piangono il loro esilio da
qualunque sistema di certezza. L'affermazione di
Freud, che i poeti sono i primi e i migliori
psicologi, potrebbe essere riformulata: solo
coloro che tollerano il vuoto che si apre quando
si pone la domanda su cosa sia l'essere umano, il
suo destino, il senso della sua presenza,
comprendono la loro fragilità e quella degli
altri. Freud in questo senso è molto vicino ai
poeti. Lo psicoanalista esercita un mestiere che
lo avvicina ai medici, si prende cura delle
persone che sperano, seduta dopo seduta, di vivere
meglio, allentando il nodo scorsoio della loro
patologia. Mestiere tutt'altro che chiaro e
agevole, di cui qui non si tratta. Quando lo
psicoanalista prende parola fuori dal suo
mestiere, e parla di letteratura, non si prende
cura di nessun paziente, e dice cose che
facilmente si espongono alla critica degli
studiosi di letteratura, che gli rimproverano di fare affermazioni
suggestive e prive di fondamento. Né la sua
posizione cambierebbe se ottenesse una competenza
in campo letterario pari a quella dei critici di
professione. Perché quella che appare come
'incompetenza' indica la sua mancanza di
legittimazione al di fuori del suo studio o degli
spazi dell’associazione psicoanalitica alla quale
appartiene: significa che la sua parola può
alludere alla verità, non affermarla, descriverne
gli echi, non stabilirla. Lo psicoanalista quando
parla di letteratura ha una fornitura come quella
del romanziere o del poeta, non somigliando
affatto al critico o allo storico della
letteratura. Non ha altro che la forza delle sue
parole, che potranno essere feconde, attraenti,
stimolanti, ma inadatte a stabilire una qualsiasi
certezza definitiva. Nel suo saggio testamento, L'Uomo
Mosè e la religione monoteistica (1934-1938),
Freud parla del romanzo storico, per dire che
questa potrebbe essere una qualifica data al suo
lavoro. Esso è privo di qualsiasi valore di
realtà, o, meglio, il suo valore di realtà è
indeterminabile. Ma possiamo pensare che il valore
di realtà del singolo soggetto e delle culture sia
altro che indeterminabile? Ciò
che sfugge alla determinazione assoluta, ciò che
le resta estraneo, è una minaccia, ma allo stesso
tempo ha un sapore di verità di cui il potere
stesso sembra aver bisogno. Il protagonista di Sacred
Games viene alla luce della pagina stampata
nella raccolta di racconti pubblicata dopo il
primo romanzo di Chandra, Terra rossa e
pioggia scrosciante. Nel racconto Kama,
che fa parte della raccolta Amore e
nostalgia a Bombay, l'ispettore
sikh
Sartaj riceve la visita della moglie che vuole il
divorzio per sposare unaltro. L'attrazione che
sentono li porta ad abbracciarsi ancora, e
nell'amplesso Sartaj ritrova la splendida certezza
che derivava dalla loro unione: Le dita sfioravano e
carezzavano recondite pieghe, e dentro la
palpitante concitazione era nascosto il tempo con
le sue mille e una favola, i primi
amoreggiamenti, un gelato di vaniglia mangiato
mentre gocciola dalle dita, e un manifesto perle
Elezioni del Congresso davanti alla finestra di
un ristorante dove hanno litigato, ma lui
non si aggrappò a nessuna, passavano e svanivano,
e lui pure,passava e svaniva, soltanto la sua
lingua ad agitarsi, e le labbra e le dita dentro di lei, poi sentì
crescere il suo grido e capì che si stava mordendo
l'indice destro. (Chandra 1997 p. 143, corsivo nel
testo) One
thousand and one tales, One
Thousand
and one Nights: nel primo romanzo di Chandra
il narratore, la scimmia che era stata un brahmino
convince la morte a rimandare la sua conclusione
con l'arte del racconto. Così anche Shahrazad,
racconto dopo racconto, senza altra risorsa che la
nuda parola, fece rimandare al sultano la sentenza
di morte che aveva pronunciato contro di lei come
contro tutte le sue spose, affinché, morendo al
mattino seguente la prima notte di nozze, non
potessero tradirlo. La certezza di Sartaj, la sua
unione con la moglie Megha, tornano come tales,
favole, storie, e lui non si attacca a nessuna di
queste. La passione torna e si placa senza
fondamento, senza rimpianto. C'è in questo
episodio la tentazione di Sartaj, di ritrovare il
suo orgoglio nel trionfo sul rivale: Quando lo strinse, Sartaj
pensò a quell'altro con cattiveria. Guarda dov'è
lei ora, guarda. Chi è il cornuto, qual è il
marito, e sentì la disperazione in gola, come un
ferro nero e amaro... (Chandra 1997,p. 139) La
gara maschile per il possesso della donna ha perso
le sue coordinate, e il vincitore e il perdente si
scambiano le parti, impedendo di ricostituire
l'identità smarrita. La
certezza della propria posizione nel mondo,
rimandata dalla certezza del possesso della donna,
è infranta. La vecchia storia, le mille e una
storie del passato, rivelano la loro natura
onirica, lasciando al protagonista solo la
mancanza nel cuore. Consideriamo
questa mancanza come lo scacco matto all'identità
che poggia su un qualunque fondamento stabile, e
pensiamo che il romanzo sgorghi sempre e solo da
questa mancanza, la stessa di Iqbal che coglie il
barlume nel buio nel quadro dell'amante perduto. I
personaggi di Vikram Chandra si confrontano sempre
con questo vuoto, sia quelli che cercano di
coprirlo con una qualunque costruzione, sia quelli
ai quali accade di poterlo o doverlo sopportare.
Una mancanza, un vuoto, un nulla che sembra croce
e privilegio del nostro tempo, e che solo i
sostenitori del fondamento assoluto possono
definire dispregiativamente come relativismo
etico, perché ne temono la forza debole. Nel Medio Evo la Cura era
per la Salvezza di sé che solo Dio poteva
graziosamente concedere; nel nostro mondo
secolarizzato – ma non troppo - la Cura
cheveramente ci nobilita è quella per Nulla. E
solo chi si cura di Nulla (a differenza di chi non
si cura di nulla) può fare storia, ovvero vivere
fino in fondo la relatività del tempo: sa che la
sua vita non ha casa né rifugio. Perché per il
singolo autentico, Nulla (alias Essere) è solo
tempo, divenire, fluire. (Sergio Benvenuto 2008,
cap. 8 ctrl) Non
conosciamo alcuna certezza che possa nascere dalla
cura della mancanza, ma sappiamo che su questo
vuoto non può erigersi nessuna forma di
fondamentalismo, nulla che autorizzi l'essere
umano a dominare in qualunque forma i suoi simili.
Chi sperimenta questa mancanza senza saperla o
poterla evitare, chi ne conosce lo spazio e il
tempo, così diversi da quelli comuni, eppure così
vicini al tempo e allo spazio di tutti, non può
dominare gli altri perché è consapevole di non
essere padrone nemmeno di se stesso. Nonostante la
psicoanalisi sia nata dalla scoperta che l'Io non
è padrone in casa propria, il senso etico ed
epistemico della scoperta freudiana sembra oggi
più presente nella grande letteratura che nella
psicoanalisi stessa. Chandra
racconta a partire da questo spaesamento.
Esaminiamo brevemente l'inizio, il dispositivo
narrativo di Terra rossa e pioggia scrosciante.
Il
giovane Abhai è appena tornato dagli Stati Uniti,
e prova un fastidio viscerale per certe abitudini
indiane dei suoi genitori, insegnanti in pensione.
In particolare a sembrargli disgustosa è la
vecchia scimmia che ruba i panni stesi e li
restituisce solo quando la padrona di casagli
offre del cibo di cui è goloso. -Sono anni che vi
terrorizza - notò Abhay. - Dovreste fare qualcosa. -Cerca solo di sbarcare
il lunario, come tutti noi, - ribatté il signor
Misra - e sta invecchiando. Non vedi quanto è
lenta ormai? Lascia perdere. Mangia, piuttosto. Abhay chinò la testa sul
piatto, ma di tanto in tanto la alzava per
osservare il pipal , dove la scimmia
divorava con impegno il suo pane quotidiano. Abhai
non riusciva a scrollarsi di dosso la convinzione
che l'animale, protetto dall'ombra delle frasche,
si godesse il cibo assai più di lui, e che ci
fosse una qualche segreta ironia o un qualche
recondito significato in quel loro involontario
pasto in comune (Chandra
1995, p. 5) Abhay
è preso da una specie di gelosia verso la scimmia,
minus habens ai suoi occhi, infans,
eppure oggetto di tante cure da parte dei
genitori. La scimmia è un usurpatore, come un
fratello minore, e Abhay le attribuisce un
privilegio nella capacità di godere che per lui è
perduto. Abhay si scopre esule dalla sua propria
infanzia, ed estraneo alla sua stessa casa eal suo
paese natale. Cerca di convincere i genitori a
scacciare l'usurpatore inutilmente, anche quando
il minus habens gli ruba qualcosa di suo,
e lui scaglia unapietra contro l'animale: -Mi ha preso i jeans, -
disse Abhay - quel figlio di puttana ha i miei
jeans. -Allora, cosa ti
aspettavi? - gli chiese un po' seccata la Signora
Misra, irritata dall'improvvisa violenza agita
contro un membro della tribù di Hanuman. -L'hai
fatto scappare dalla paura. -Li riporterà? Costano
quaranta dollari. 'No. Probabilmente li
lascerà cadere da qualche parte e si scorderà di
tutto. Hai perso i pantaloni.' (Chandra 1995,
traduzione nostra)[2] Non
diversamente dal colonizzatore occidentale Abhay
dovrebbe imporre il suo stile di vita, prima che
il fascino del minus habens lo travolga, premendo
dalla sua anima non meno che dai rami dei grandi
alberi del giardino. Sta cercando di vivere,
come ciascuno di noi, dice il padre di
Abhay, ma questa espressione, se veramente
accolta, mina alle fondamenta la superiorità del
soggetto occidentale: il dominatore, colui che si
sente autorizzato a combattere chi è diverso da
lui, considerandolo più o meno come una scimmia,
non pensa che ciascuno di noi, occidentali o
orientali, uomini o animali, cerca di vivere la
propria vita, ma che c'è un modo più degno e
legittimo di vivere: il proprio. Abhay non è
americano, né indiano, è un esule che cerca di
sentirsi in patria perché non sa ancora che la sua
condizione diasporica è definitiva. Nessun
movimento nello spazio può farlo ritornare a casa,
nessuna azione può concludere il suo esilio: per
non riconoscere questa condizione La scimmia lo ha
lasciato senza pantaloni, e Abhay deve vendicarsi: impugna un suo vecchio
fucile calibro 22, e spara. [E]
allora, d'improvviso, una linea sottile di luce
filtra dall'oscurità di una finestra, e la scimmia
avverte un urto contro il petto, sotto la spalla
destra, un attimo prima ha sentito un secco WHAP,
poi si rende conto, scoprendo i denti e ringhiando
per la sorpresa, che è successo qualcosa di molto
brutto; le gira la testa, a un tratto vede il sole
rosso, le pareti biancorosa chiazzate di rosso; il
mondo gira e va in pezzi, rosso e bianco, rosso e
bianco, un'altra parete di un giallo lucente,
barcolla, il cornicione, scivola e inciampa, una
scivolata lenta, un disperato afferrarsi ai
margini del tetto, ma ormai forza ed equilibrio
sono andati, e la scimmia cade, voltandosi, e
nella caduta, nel breve attimo in cui si volta,
un'immagine del tutto sconosciuta, una scena
assolutamente non scimmiesca, le lampeggia in
mente, rosso e bianco, giallo lucente, tremila
lance, tuonaredi zoccoli, e poi la scimmia sbatte
sui mattoni rossi con un tonfo sordo, e infine
giace in silenzio sul limitare del cortile.
(Chandra 1995, p. 9) Il
colpo mortale inferto da Abhay alla scimmia che
gli ha rubato i jeans funziona nel romanzo come
rappresentazione della futilità del conflitto, ma
anche come innesco di tutto il romanzo. Solo il
colpo di Abhay fa affiorare nella memoria
dell'animale il ricordo della passata esistenza
umana, che si ripresenta al suo risveglio, appena
annunciata da quell'immagine di guerra baluginata
nella caduta. Qualcosa di imprevisto affiora in
una caduta mortale, e questo qualcosa è la
sorgente del racconto. Abhay
non elude l'incertezza della sua identità
eufemizzandola, e immaginare che perdere la patria
sia semplice condanna a un pensiero che indossa
una maschera contemporanea, per ripetere riti
identitari passati. La dimensione tragica della
sconfitta non può essere addolcita, ma
attraversata. Nessun essere umano sfugge a questo
passaggio cruciale, nessuno è fornito di strumenti
che possano rendere agevole l'attraversamento. L'abitatore
dei grandi alberi del giardino che Abhay voleva
eliminare èora molto più vicino a lui: l'animale
privo di sensi è portato in casa, messo a letto e
curato dai suoi genitori. La scimmia che è e non è
il brahmino che è stato, Abhay che è e non è
indiano ed è e non è americano devono incontrarsi,
la loro stessa ostilità di fatto lo impone. Abhay
dividerà con la scimmia la funzione di narratore,
e fra i suoi racconti, quando la scimmia avrà
bisogno di riposarsi, uno dirà di una giovane
americana che ha seguito il fidanzato indiano nel
suo paese, ma che, non riuscendo ad adattarsi al
clima e i ritmi dell'India,ritorna negli Stati
Uniti, lasciandolo solo. La sua partenza può
essere letta come la sanzione dell'impossibilità
di una fusione armonica, abbastanza indolore, dei
due mondi. Allo stesso modo il divorzio subito
dall'ispettore Sartay Singh rende impossibile una
vita che si snodi senza affrontare il vuoto, la
mancanza dell'essere dove il poeta si ritrova
sempre a sporgersi. La
caduta della scimmia colpita da Abhay richiama
altre cadute, come quella di Sanjay bambino, la
cui anima si sarebbe in seguito reincarnata nella
scimmia: [P]oi però divenne
drammaticamente consapevole dell'assenza di un
appoggio per il suo fondoschiena,
dell'irresistibile, incessante richiamo della
gravità. Gli si dipinse in viso un'aria di
perplessa concentrazione, come a chiedere
cos'è-questo-niente-sotto-il-mio-culo mentre
cadeva all'indietro, con le caviglie che
scivolavano sulla pietra; il mondo si capovolgeva,
gli oggetti sul terreno - foglie, fili d'erba,
grumi di fango e qualcos'altro,due sporgenze -
s'ingigantivano in un attimo di luce: Yama
è un dio felice. Le rovine sono semi nella terra,
il raccolto sono viticci che spuntano dal
sottosuolo, attraverso la pianta dei nostri piedi.
[...] Quando Sanjay riprese
conoscenza aveva in mezzo alla fronte duebuchi, a
uguale distanza dagli occhi, e la gente cominciò a
raccontargli segreti. (Chandra 1995, pp. 267-268) Una nuova forma di coscienza
sembra sorgere durante la caduta, che fa sì che le
persone raccontino a Sanjay i loro segreti: per
libera associazione ci si potrebbe chiedere se
anche lo psicoanalista non abbia in qualche forma
due buchi sulla testa conseguenti a una caduta, e
se non sia questo a indurre che i suoi pazienti a
dirgli cose che non hanno mai detto neppure a se
stessi. Un piccolo animale cade nella
prime parole di Sacred Games: Una
bianca volpina di Pomerania che si chiamava Fluffy
volò di sotto dauna finestra del quinto piano del
Panna, che era un edificio nuovissimo ancora
circondato dalle impalcature degli imbianchini.
Fluffy strillò lungo tutta la caduta con la sua
vocina da cane da grembo, come un piccolo
bollitore bianco quando esce il vapore, rimbalzò
sul cofano di una Daewoo Cielo, e arrestò il suo
volo ai piedi di un gruppo di ragazzine...
(Chandra 2006, p. 3; trad. mia)[3] Durante una lite un marito
tradito ha lanciato il cagnolino di sua moglie,
poi si chiude in una stanza e chiama la polizia
perché la moglie vuole accoltellarlo. Di fronte al
povero corpicino Sartaj Singh commenta: "L'amore è
un bischero assassino. Povera Fluffy."[4] Prima che
si concluda il capitolo è lo stesso Sartaj a
immaginare la propria caduta nel vuoto, dopo
essersi chiesto se esistevano ancora le strade
della sua infanzia, se davvero erano esistiti uno
spazio e un tempo felici, e se erano un'invenzione
della sua memoria: Pensò d’un tratto quanto
sarebbe stato facile continuare a sporgersi,
finché il peso non l’avrebbe trascinato con sé.
Videse stesso cadere, la kurta bianca sventolare
all’impazzata, il torace e la pancia scoperti, il
nada al seguito come una cometa, i chappal da
bagno di plastica bianca e blu svolazzanti, i
piedi che ruotavano, e prima di aver compiuto un
cerchio completo il tonfo del cranio che si
fracassava, un tonfo rapido e poi il silenzio.
(Chandra 2006, p. 37) Quando nel racconto Kama,
che abbiamo già citato, Sartaj non vuole firmare i
documenti per il divorzio, il suo capo gliene
chiede ragione: E
Sartaj, [...] senza rendersene conto confessò - Ho
paura di morire. [...] Un
senso di spossatezza prese Sartaj alle braccia e
alle gambe; gli occhi, anche dopo che li ebbe
chiusi, continuarono a bruciargli come se fossero
pieni di sabbia. Ogni respiro era fatica, perché
adesso aveva paura del silenzio. Aveva persino
paura di provare disprezzo per se stesso. [...] Aveva
quelle due parole in testa, "contemplare" e
"morte". Fra l'una e l'altra c'era una specie di
luce, un cielo immenso, limpido, spaventoso, in
cui stava sospeso. (Chandra 1997, pp. 133-134) Quale sistema filosofico,
quale religione storica, quale ideale politico può
guarire Sartaj dalla sua debolezza? Se la donna
che lo ha lasciato torna, se è sua come un tempo,
per un istante trionfa sul rivale, ma la
desolazione dell'incertezza torna con la domanda
su chi sia davvero il marito, chi il cornuto, come
una lama di disperazione nera e amara in gola. La caduta può essere mortale,
come accade alla povera Fluffy,ma di solito non è
mortale, e apre un nuovo orizzonte di ricerca e di
scambio con la propria comunità. Sanjay in Terra
rossa e pioggia scrosciante dopo la sua
caduta infantile ha due buchi in fronte che
invitano gli altri a dire i loro segreti.
Reincarnato in una scimmia, all'inizio del suo
romanzo, cadendo dal grande albero vede uno
sprazzo della sua vita precedente, e dopo la
caduta,svegliandosi, ricorda il suo nome, la sua
storia, il suo suicidio. Due narratori in entrambi i
romanzi, uno dei quali sta per morire, emuore
appena finisce il suo racconto, alla fine del
romanzo. Nel primo romanzo il narratore che
sopravvive è il giovane Abhay, che non sa se è
americano o indiano, che tenta di risolvere
l'oscillazione perturbante con la violenza, e si
trova invece a un confronto serrato con ciò che
credeva di dover fuggire: la scimmia, l'infante,
l'uomo antico, miticamente unito a se stesso,
miticamente istintuale. Nel primo romanzo l' asse
generatore della spirale della storia, è il
conflitto fra il mito originario, l'India con le
sue narrazioni immense e lussureggianti, e il mito
contemporaneo, l'America col suo dinamismo che
consuma freneticamente cose e persone. Asse che si
anima fra il giovane Abhay e la vecchia scimmia,
ma anche fra l'India ottocentesca in cui viveva
come Sanjay, con i colonizzatori e i colonizzati.
Chandra coglie magistralmente
il nucleo affascinante della cultura occidentale:
solo chi sente il punto di forza e di fascino
dell'avversario è in grado di stargli di fronte,
di scoprirlo e di farsi riconoscere. Se
l'avversario è il barbaros, il balbuziente, il
minus habens, il soggetto che lo combatte ripete
la sottomissione del diverso e condanna se stesso
ad essere, prima o poi, sottomesso da un altro.
Chi come me è cresciuto e vive in Italia, a
Firenze, imbevuto di cultura classica e
umanistica, di fronte a questo brano di Chandra si
trovadi fronte a uno specchio sorprendente: Sanjay
deciso per una volta a non mancare la presa, tese
le braccia ma la cosa gli saettò fra le mani
colpendolo dolorosamente al petto. Gli venne da
piangere e dovette ricuperarlo tra la fuliggine
del crepuscolo. - Leggilo - disse Markline, già in
procinto di allontanarsi. - E torna la settimana
prossima. Era un libro, e Sanjay se lo avvicinò
agli occhi per decifrarne il titolo. La carta
odorava di fumo, e le sobrie lettere nere erano
disposte con perfetta simmetria: 'La poetica' di
Aristotele. Nei
sette giorni successivi Sanjay studiò il libro: il
significato era abbastanza chiaro, anche se
piuttosto limitante per l'artista; sembrava
insistere sull'uniformità emotiva, sull'evocazione
di un unico sentimento dall'inizio alla fine
dell'opera, quasiché unità equivalesse a
omogeneità o identità. Curiosamente l'emozione
pareva intesa come qualcosa da espellere,da
scaricare, letteralmente da evacuare: lo scopo
ultimo dell'arte diventava così una sorta di
movimento intestinale dello spirito. Tutto
ciò era razionale, comprensibile, benché violasse
ogni regola che Sanjay avevatentato d'imparare dai
frammentari discorsi di Rai Mohan; era comunque un
esercizio intellettuale coerente, un 'darshan'.
L'aspetto inspiegabile e spaventoso era la voce
che usciva dalle pagine del libro, un sussurro che
pure metteva a tacere ogni altra voce, provocando
nella tipografia un silenzio in cui essa sola
ripeteva un'unica frase: - 'Katharòs dèi èinai o
kòsmos. -Anche quando il libro rimaneva chiuso, o
durante la cena, Sanjay udiva quelle sillabe
aleggiare nei cortili, scavalcare i muri, stormire
con il vento tra le fronde;giorno e notte una voce
incessante, dapprima dolce e ragionevole, poi
maniacale nella sua insistenza, 'katharòs,
katharòs', finché Sanjay cominciò a darsi pugni
sulle orecchie e a stringersi la testa fra le
mani, incurante del dolore. (Chandra 1995, pp.
404-405; corsivo mio) Nello
specchio che Chandra ci offre il lettore europeo
può vedere sé stesso rispecchiato dall'immagine
che lo stesso occidentale ha offerto all'altro, e
capire che ci siamo illusi di trasformare o
costruire l'altro a nostro vantaggio. Il giovane
brahmino Sanjay che legge la Poetica dopo
essere stato colpito al cuore, o al petto, dal suo
volume, la comprende perfettamente, e non ne
subirebbe il fascino, se non fosse quel suadente e
insistito invito alla purezza: catarsi attraverso
la tragedia, liberazione dalle emozioni,
evacuazione dei sentimenti, verso la purezza.
Questa purezza è il fondamento del soggetto
occidentale, il suo ideale, che si forma credendo
alla promessa culturale di dominare emozioni,
passioni e malattie. L'affetto che ci lega
all'amico è parente stretto dell'affezione che ci
rende malati.[5] Il
soggetto maschile ideale è un soggetto capace di
controllare e dominare emozioni e sentimenti, come
nell'espressione popolare con al quale i padri
cercavano di educare i figli: uomo che piange
e cavallo che suda non valgono nulla. L'ideale di purezza che
perseguita Sanjay come uno spettro è responsabile
dell'ambigua parentela fra l'affezione come
sentimento, legame,
el'affezione come malattia. L'attrazione per il vuoto, le
cadute che ricorrono nell'opera di Chandra, sono
il movimento che segue al confronto doloroso e
inevitabile con questo ideale, che il brano
citato, relativo alla Poetica di
Aristotele, esprime in maniera più sintetica e
chiara di qualsiasi brano che conosca di filosofia
o di psicoanalisi. Credo dipenda dal fatto che una
questione considerata astratta viene da Chandra
riportata al corpo, al dolore del volume nel
petto, all'udito ossessionato dalla voce che sussurra quella
parola straniera e antica: katharos, katharos,
katharos... Per dimenticarla si giunge
sull'orlo di un baratro, che non è salvezza, né
lotta contro la salvezza. Il vuoto è il Nulla di
cui è possibile prendersi cura, il luogo e il
tempo dell'Essere che nessuna autorità giustifica
e fonda definitivamente. Questo vuoto è mortale
per una forma d'identità, la sola che l'Occidente
conosce, per difendere la quale i totalitarismi
del Novecento, eredi grandiosi e perversi di tutti
i sistemi di credenza della nostra storia, sono
nati e hanno avuto sia il loro sanguinario
successo, sia il loro tramonto. Ciò che porta
l'Occidente a celebrare il Processo di Norimberga
non è la comprensione e l'abbandono di questo
ideale, ma l'estremo tentativo di salvare il
proprio ideale rimuovendo la perversione che ne
manifesta la crudeltà. Il soggetto occidentale si
costituisce come dominante rispetto al debole, al
peccatore, al malato, al minus habens. Esplorando
questo ideale, grazie all'eredità della propria
cultura millenaria, Vikram Chandra affronta in Sacred
Games, dopo aver annunciato il tema in Love
and Longing in Bombay, un'opposizione non
fra Oriente e Occidente, India e America, ma fra
distruttore della legge e difensore della legge.
Cos'è la Legge, cosa consente di non distruggersi,
qual è la condizione della vita civile? L'ispettore Sartai Singh e il
grande gangster Ganesh Gaitonde sono i due
protagonisti del romanzo, i due volti del gioco:
la legge esiste perché entrambi esistono. Il loro
gioco è il gioco del passato, fra guardie e ladri,
giusti e ingiusti, ma la loro opposizione, la loro
guerra cessa, per trasformarsi in un'inedita
alleanza quando entra in scena quel che minaccia
oggi la nostra vita: Guru-ji. Il guru di Ganesh
Gaitonde incarna l'ideale di purezza di cui stiamo
parlando, portandolo alle estreme conseguenze.
Vuole un India induista, dalla quale scompaiano i
musulmani, ordinata e pulita, perfetta. Ha un
seguito imponente in tutto il mondo, fatto anche
di europei che vestono abiti orientali e salutano
a mani giunte: se il loro ideale è fallito,
sperano di trovarlo altrove, disposti a cambiare
tutto perché niente cambi. L'ingenuo occidentale
non riesce a immaginare come la religione
induista, con le sue centinaia di migliaia di dei,
possa esprimere un ideale di purezza assoluta, e
giustificare un'azione violenta per imporla. Allo
stesso modo chi sia consapevole dei debiti
filologici del Corano verso l'Antico e il Nuovo
testamento trova insensato e privo di fondamento
il fondamentalismo islamico contemporaneo. Ma i
popoli e gli intellettuali occidentali, tranne
poche eccezioni, non hanno trovato insensati, nel
momento in cui esprimevano la loro forza
purificante e distruttiva, il fascismo e il
nazismo col loro ideale di purezza razziale e
culturale, né lo stalinismo con la loro utopia di
eguaglianza, la cui giustizia si realizzava
attraverso un analogo bagno di sangue. A Chandra dunque va il
riconoscimento di farsi carico di un interrogativo
incessante intorno al male, alla tragedia che
stiamo vivendo in tutto il pianeta, alla quale
assistiamo comodamente seduti di fronte al nostro
televisore o allo schermo del nostro computer,
alternando l'orrore per una guerra genocida in
Africa o per le centinaia di morti dell'ultimo
attentato terroristico a Bombay, alla consumazione
dei pasti quotidiani. Non una maggiore capacità di
sapere e riflettere caratterizza il nostro tempo,
ma una minore possibilità di rimuovere la
tragedia. Il movimento espulsivo di cui parla
Sanjay a proposito della catarsi aristotelica
diventa sempre più difficile, e accade di
trovarsi, per vicende e immagini e racconti che
affettano irrimediabilmente il soggetto e la sua
cultura, sull'orlo di quel Vuoto, di quel Nulla,
di quell'Essere che sembra coincidere con la
caduta, la Morte. Un Vuoto, una Mancanza nella
quale il soggetto precipita: il gangster Ganesh
Gaitonde riconosce nell'ispettore Sartaj Singh il
suo simile, colui cheha incontrato un giorno,
quando in incognita si era recato a uno dei grandi
meeting di Guru-ji. Nel loro breve incontro si
scambiano il senso della perdita, della mancanza,
che passa nonostante i loro ruoli e i loro
camuffamenti: "Mi dicono spesso che
somiglio a qualcuno. Mia moglie ci rideva." "Ci rideva? Adesso non lo
fa più?" Era molto attento, questo
ispettore chikna e niente affatto ottuso
come i sardar delle barzellette. Con lui
bisognava stare in guardia. "E' morta" dissi con
mestizia. "Uccisa in un incidente." Lui annuì e
distolse lo sguardo. Quando tornò a fissarmi era
ancora lo stesso maderchod di un ispettore, ma
avevo colto un lampo di compassione in lui.
Anch'io sapevo essere acuto. Nella mia vita avevo
imparato a osservare le persone. "Anche tu hai
perso qualcuno" dissi. "Chi, tua moglie?" ! Mi
rivolse un'occhiata penetranete, Era un uomo
orgoglioso, ovviamente, e indossava l'uniforme.
Non mi avrebbe detto niente. "Tutti perdono
qualcuno"disse. "E' quello che succede nella
vita." (Chandra 2006, p. 744) Dalla perdita e dalla mancanza
di entrambi, di cui Ganesh Gaitonde diventerà
consapevole solo alla fine della sua storia, solo
quando preferirà combattere per la sua città
anziché essere il gangster prediletto da Guru-ji,
di cui Sartai soffre, e dalla quale è formato fin
dalle prime pagine, scaturisce la salvezza della
città. Non la salvezza definitiva,quella che nelle
favole e nei miti e nelle religioni l'eroe sempre
ottiene per la sua città, ma l'evitamento della
distruzione atomica dei milioni di persone di
Mumbai, delle loro case, della bellezza dei
tramonti, i cui colori straordinari forse derivano
dall'inquinamento e non per questo sono meno belli
e commoventi. Torniamo ora alla domanda che
abbiamo posto all'inizio: perché, come riconosce
Freud, i poeti sono i primi e i migliori
psicologi? Perché lo psicoanalista si dedica allo
studio di un romanzo, come in questo saggio su
Chandra? Come abbiamo scritto, quando
lo psicoanalista parla fuori dal suo studio, o dal
gruppo di colleghi con i quali confronta il suo
lavoro clinico, la sua autorità non poggia su
nulla. Non ha il prestigio del medico, della cui
efficacia di terapeuta nessuno dubita, né quello
del filosofo, il cui pensiero può ancora aspirare
a una purezza non affetta da emozioni o malattie.
Lo psicoanalista troppo spesso ripara,
rattoppandola, la pericolosa fragilità del suo io,
tura i buchi che si evidenziano dalla sua
quotidiana frequentazione dell'orloche separa e
unisce normalità e follia: costituisce dottrine
che sembrano proseguire la novità radicale della
psicoanalisi freudiana, ma che hanno al contrario
la funzione di riparare la sua estrema debolezza
di soggetto, di contenere l'incontenibile rischio
di cadere nel vuoto dell'essere. Lo psicoanalista, come ha
fatto Freud, è attratto dal romanzo perché lo
scrittore, come lui trae la sua forza dalle
parole, dal linguaggio, e soltanto da esso. La sua
debolezza consiste nel fatto che nessuna
istituzione può legittimarne l'efficacia, perché,
se questo accade, la sua capacità di indagare è
compromessa, facendolo diventare uno
psicoterapeuta, una figura che la professione
medica può assorbire al proprio interno. Ma questa
è al tempo stesso la sua forza, perché ciò che
costituisce la particolarità irrinunciabile della
sua professione è l'esperienza difficilmente
comunicabile della parola che trasforma, della
parola che morde la carne. Allo psicoanalista
accade come allo scrittore, di provare piacere per
la verità che nel suo romanzo prende forma: Non sempre si cura del
fatto che ciò ch'egli dice o congettura sia reale:
è sedotto dalla mera coerenza delle sue
ricostruzioni. Ma forse dobbiamo, anche in questo
caso, fidarci di lui. Fidarci del piacere che la
psicoanalisi continua a darci, malgrado tutto. Un
piacere certo per le connessioni significative -
ma nutrito dalla segreta fiducia che queste
connessioni significative incidano sulla carne
degli esseri umani. (Sergio Benvenuto, 1999) Sull'orlo del nulla, se allo
stesso tempo resiste e cede all'attrazione unheimlich[6] per
il vuoto, per la caduta, lo psicoanalista, come
Sartaj Singh, non smette di chiedersi da dove
viene questo Nulla, questo Essere affascinante: Da
dove veniva? Disse ad alta voce: 'Da dove veniva?'
Poi si mise a sedere sul pavimento, e si accorse
che sentiva male a piegare le ginocchia. Gli
facevano male le cosce. Mise tutte e due le mani
sul tavolino, poggiando le palme, e guardò davanti
a sé il muro bianco. Era calmo. (Trad. mia)[7] Nel personaggio della scimmia
resta la memoria del brahmino vissuto durante la
dominazione inglese. Il brahmino Sanjay ha messo
volontariamente il suo capo nel cappio di seta che
Yama mostra ai mortali. Yama è un dio felice,
questo vede Sanjay nella sua prima caduta: Yama è un dio felice le
rovine sono semi nella terra, il raccolto sono
viticci che sbucano dal sottosuolo, attraverso la
pianta dei nostri piedi. Ci invadonosenza che ce
ne accorgiamo. I nibbi planano in lenti
cerchi per migliaia di anni, pronti a cogliere il
più esile sbuffo di polvere. Ogni cosa è predatore
e preda, le rocce pulsano, si espandono, si
contraggono, fino a scoppiare. I serpenti
abbandonano i lorotesori sotterranei per mutare
pelle alla luce del sole, lasciando le sagome
deisé precedenti, fragili storie che cominciano a
decomporsi nell'attimo in cui si sono formate. [...] Ciò
che è sacro non può diventare storia, ma la
memoria (la smorfia della scimmia, lo sbadiglio
del pescecane) è divina. (Chandra 1995, pp.
267-268) Se consideriamo questo sacro
che non può diventare racconto come quei dogmi che
l'istituzione erige e sostiene, possiamo pensare
ad esso come a ciò che deve trattenerci lontani
dal vuoto, ma la memoria può non accettare questo
confine stabile, e nel nostro tempo in cui
convivono e si mescolano in mille e un modo le
culture e le lingue del mondo, essa si affaccia
sul vuoto. In questo vuoto il brahmino Sanjay
precipita morendo, allontanandosi dagli uomini la
cui affezione è divenuta intollerabile.La scimmia
immemore che è diventato, che ha rubato i jeans
americani di Abhay, e che ne viene colpita a
morte, ricorda quella vita rifiutata e sa di
essere condannata a ripetere una vicinanza senza
parola all'essere umano, in altre forme animali.
Chi cede al fascino del cappio di seta del dio
della morte, chi anticipa volontariamente l'evento
che rappresenta la sola certezza assoluta per il
vivente, rinuncia allo strumento che caratterizza
l'essere umano, la parola. Allora
vidi con chiarezza il mio destino. Mi attendevano
una vita dopo l'altra alla deriva in acque melmose
colme di pericoli, secoli di muta disperazione
egualmente spartita fra i demoni gemelli della
fame e della paura e, peggio di tutto, l'eternità
di ciò che un tempo mi era parso desiderabile:
l'inconsapevolezza, l'incapacità di capire.
(Chandra 1995, p.20) Solo parlando ancora, solo se
avrà ancora tempo per raccontare, Sanjay eviterà
di ripetere le sue reincarnazioni animali. Al dio
della morte, che sta per portarlo via, non
interessa questo desiderio. Il dio felice
partecipa della trasformazione incessante della
vita e non ha bisogno delle storie degli esseri
umani che si illudono di dominare la vita o la
morte. Perchè un racconto nasca e si
sviluppi,con la forza del loto rampicante, basta
il desiderio di ingannare il tempo, di articolarne
il flusso sovrumano, o inumano, in un ritmo
scandito dalla voce, dai segni neri sul bianco
della carta, dal ticchettio di una macchina da
scrivere o dalla quasi silente pressione sui tasti
di un computer. Con la vecchia macchina da
scrivere dei genitori di Abhay la scimmia, il cui
apparato vocale non può emettere le parole che
pure ricorda, comincia a raccontare, e il suo
uccisore presta la propria voce alle sue storie.
L'incontro fatale genera un racconto che permette
alla scimmia brahmino di liberarsi dalla
ripetizione infans, senza parola, di scontare la
pena meritata col rifiuto della parola umana, col disprezzo del
suo valore,col suicidio. Dapprima Yama non vuole
aspettare, né è interessato alla storia di quel
che è successo, al quale partecipasempre. Non la
storia codificata può ingannare il tempo e la
morte, ma un racconto che intreccia vero e falso,
che sa come la verità sia spesso poco verosimile,
come le costruzioni dell'uomo catturino la realtà,
come laparola possa mordere la carne e modificare
il flusso del sangue. Questo manca alla vita che
si riproduce senza di noi, al ghigno della
scimmia, allo sbadiglio del pescecane, al nibbio
che vola altissimo. In tutto questo primo romanzo
di Chandra la morte siede in un angolo, invisibile
a quasi tutti, siede su un trono di buio più nero
della notte, attraversato da pulviscoli d'oro. Nell'ultimo romanzo di Chandra
Ganesh Gaitonde si spara e muore all'inizio del
libro, ma racconta fino alla fine. Nonostante lui
sia morto, le sue storie continuano a narrarsi,
anche se Sartaj Singh, che aveva scelto come
destinatario, non gli ha dato il tempo di
raccontare: le storie hanno un tempo che inganna
il tempo, come il ritmo della poesia genera sensi
che la vita animale ignora, e incanta, come
l'antico Orfeo con la sua cetra ammansiva le belve
e otteneva che le divinità degli Inferi cedessero
al suo desiderio. Il tempo del romanzo, come il
tempo dell'analisi, è un tempo sospeso nella cura
dell'Essere, che possiamo chiamare Nulla perché
non serve a nulla, non dimostra nulla, non è
padroneggiabile da nulla né padroneggia nulla. Forse nel mito vehi contenuto
nel primo romanzo di Chandra possiamo trovare una
rappresentazione paradossale dell'essere umano,una
descrizione della sua origine che lo costituisce
come privilegiato allo stesso tempo in cui lo
riconosce mancante. E' la storia che possiamo
ritrovare in qualsiasi mito delle origini
dell'uomo, ma che sembriamo incessantemente
portati a dimenticare, come se potesse esistere
una salvezza che nega la mancanza, come se si
potesse ignorare l'assenza nel cuore che Iqbal
riconosce nel suo quadro, mentre rinuncia a
credere che gli riporti l'immagine dell'amante.
Questa assenza, questo nulla che ci costituisce,
questo errore, questa erranza, possiamo
dimenticarla solo attribuendola ad altri, minus abentes,
infantes o barbaroi, nemici da distruggere
o da convertire. Se la diaspora è il
complemento inevitabile della patria, la patria
degli uni è la diaspora degli altri. Cosa accade
se la diaspora e la patria mescolano i loro
confini e si scambiano le parti, nel luogo più
difficile da colonizzare, il proprio cuore? Il
giovane indiano che viene dagli US e la scimmia
bianca che vive nel giardino della sua
vecchiacasa, l'ispettore sikh e il gangster fanno
insieme la storia, si uniscono per raccontare: e
poi? E poi il racconto genera un altro racconto, o
un saggio, o semplicemente una riflessione che non
trovando la sua fine, né il suo fine, ricomincia
dove cade, come una creatura lontana: Davano al loro popolo il
nome di "vehi", e mi raccontarono che un tempo un
frammento del sole era caduto roteando dal cielo;
un'aquila, scambiandolo per un colibrì, aveva
virato facendo perno sulla punta di un'ala e si
era lanciata ad afferrarlo con il becco, perdendo
immediatamente i sensi per il bruciore e
precipitando al suolo. Prima le penne, poi gli
artigli e infine il becco dell'aquila erano
caduti, finché non era rimasto altro che un
animale dalla pelle morbida, cui la luminosità
interna aveva dato una forma nuova: fu il primo
essere umano, il remoto antenato dei vehi. (Chandra
1995, p. 122) Benvenuto,
Sergio, Gli amori di Matematica e Psicoanalisi.
PSYCHOMEDIA,
1999. Available on:
http://www.psychomedia.it/pm/science/psyma/benven.htm;
accessed6 January 2009. -----------------
Accidia. la passione per l'indifferenza. Bologna:
Casa Editrice Il Mulino, 2008. Chandra,
Vikram (1995), Terra rossa e pioggia
scrosciante. Traduzione di Anna Nadotti e
Fausto Galuzzi. Torino: Instar Libri 1999. ----------------- (1997), Love
and Longing in Bombay. New York: Little,
Brown, 1998. -----------------
(1997), Amore e nostalgia a Bombay.
Traduzione di MarinaManfredi. Torino: Instar Libri
1999. -----------------
(2006), Giochi sacri. Traduzione di
Francesca Orsini. Milano: Mondadori 2007. Freud,
Sigmund (1919), Il perturbante. Traduzione di Silvano
Daniele. OSF, volume 9; pp. 77-118. Torino:
Boringhieri 1977. -----------------
(1920), Al di là del principio di piacere.Traduzione di Anna Maria
Marietti e Renata Colorni. OSF, volume 9; pp. 187-249.
Torino: Boringhieri 1977. ----------------- (1934-1938), L'Uomo Mosèe la religione monoteistica. Traduzione di Pier Cesare Bori, Giacomo Contri, Ermanno Sagittario. OSF, volume 11; pp. 329-453. Torino: Boringhieri 1979. [1] Alone, I'll look for the painting in the dim shifting light. Now I'll see only a glimmering in the dark, a white that comes out of the shadow. I'll know that Rajesh is not in the lines, that the body is not in thecolour. But there is that colour that moves through the body, rang ek sharir ka. There is that glow. I know what it is. It is the absence in my heart. (Chandra 1997, p. 257-258; italics in the text ctrl) [2] 'He got my jeans,' Abhay said; 'the son of a bitch has my jeans.' 'Well, what did you expect?' Mrs Misra said, a little stiffly, irritated by the sudden violence inflicted on a member of the tribe of Hanuman. 'You scared him away.' 'Will he bring them back? Cost forty dollars.' 'No. He'll probably drop them somewhere and forget all about it. You've lost your pants.' (Chandra1995, p. 4) [3] A white Pomeranian named Fluffy flew out of a fifht-floor window in Panna ... Fluffy screamed in her little lap-dog voice all the way down, like a little white kettle losing steam, bounced off the bonnet of a Cielo, and skidded to a halt near the rank of schoolgirls...(Chandra 2006 p. 3) [4] Love is a murdering gaandu. Poor Fluffy. (Chandra 2006, p. 5) [5] In inglese to affect significa to act on the emotions of; touch or move, e anche to attack or infect, as a disease In Spagnolo la parola afección significa affetto e malattia. In francese affection designa sia il tenero affetto che la malattia. Queste parole derivano dal latino affectus, participio passato del verbo adficio: il soggetto è affectus, passivo, catturato daun'emozione o da una malattia. [6] Il termine unhemlich è qui usato come aggettivo, nel senso descritto da Freud (1919) [7] Where did it come from? He said it aloud, 'Where did it come from?' Then he saton the floor, and found thet it was painful to bend his knees. His thighs were aching. He put both his hands on the table, palms down, and looked at the white wall opposite. He was quiet. (Chandra 2006, p. 23) |