FROM
A MURDERING GAANDU TO ANOTHER
DAY BEYOND THE PHALLIC AXIS IN SACRED GAMES BY VIKRAM CHANDRA IN: POSTCOLONIAL INDIAN FICTION IN ENGLISH AND MASCULINITY Delhi, Atlantic 2009 |
DA UN GAANDU
ASSASSINO A UN ALTRO GIORNO AL DI LÀ DELL'AXIS FALLICO NEI GIOCHI SACRI DI VIKRAM CHANDRA |
VIKRAM
CHANDRA GIOCHI SACRI - ROMANZO 2007 GIOCHI SACRI - SERIE TV 2018 |
ABSTRACT La
letteratura postcoloniale è più di un ponte fra le
culture dei colonizzati e dei colonizzatori. INDICE
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1.
‘Non capisci?’ ‘Non capisci?’
Ganesh Gaitonde è il potente e ricco
capo di una delle due grandi bande criminali di
Mumbai. Ha collaborato in incognita con i
servizi segreti indiani, e ha avuto come guida
spirituale un guru di fama internazionale. Ha
scoperto che il suo Guru-ji ha organizzato, col
suo aiuto, un attentato atomico che distruggerà
la città, per attribuirne la responsabilità a
un’organizzazione terroristica islamica
appositamente creata. Lo scopo della sua guida,
che considerava come il buon padre che non aveva
mai avuto, è di realizzare un’India pura, più
ordinata e pulita perfino di Singapore. Ma la sua solitudine è grande, e la sua
identità priva di sostegno: solo Jojo
Mascarenas, alla quale lo lega la comprensione
sperimentata in tanti anni di colloqui
telefonici, può trattenerlo dallo scivolamento
infinito del suo essere. : Eravamo così
piccoli, e questo mondo era così vasto. Senza
la sua voce nell'orecchio, io ero ancora più
piccolo. Dovevo portarla
dentro. [1] Jojo Mascarenas un tempo ha tentato
inutilmente di diventare un’attrice, e ha avuto
successo procurando modelle e aspiranti attrici
a uomini ricchi e potenti. La più importante fra
queste è stata miss India, ed è diventata una
grande attrice, Zoya Mirza. Proponendola come
amante a Ganesh Gaitonde, Jojo le ha procurato
il finanziatore per gli interventi di chirurgia
plastica che l’hanno resa perfetta e per la sua
carriera nel cinema. Il gangster dapprima cerca di
convincere l’amica, che non ha mai incontrato di
persona, a raggiungerlo nel bunker. Non
riuscendoci, se la fa portare con la forza. La donna cerca di convincerlo a
lasciarla andare, ma Gaitonde è inflessibile: “Non capisci?”
Non posso stare così. Non posso. Devo uscire.
Non puoi tenermi chiusa in questa prigione.” “Ma non capisci?
Là fuori moriresti.” “E allora?
Preferisco morire piuttostoche rimanere in
questo buco.” (Giochi
sacri, traduzione italiana di Francesca
Orsini; Mondadori, Milano 2007; p. 1052) [2] Gaitonde le impone il modernissimo
bunker, fornito di ogni comfort, come
espressione della propria potenza che le
permette di salvarsi. Per Jojo è una prigione
insopportabile. Nella contrapposizione la loro intesa,
grazie alla quale ciascuno capiva lo stato
d’animo dell’altro appena ne sentiva la voce al
telefono, svanisce. Gaitonde non può prendere sul serio il
discorso di Jojo, e cerca di imporsi affermando
che le sue parole sono prive di senso: lui sa, a
differenza di lei, di che cosa ha bisogno? “Non ha nessun
senso. In questo momento sei proprio pazza.
Sai che non è la verità. Tu non vuoi morire.”
(Trad. nostra)[3]
Perché Gaitonde non cerca di
comprenderla, perché Jojo non tiene conto del
fatto che l’uomo non può stare con le spalle al
muro? ‘Don’t you understand?’ si
chiedono a vicenda, come in un dialogo fra
sordi. Jojo Mascarenas dovrebbe mettere da parte
il proprio orgoglio per permettergli di ergersi
nella sua virilità, dovrebbe essere testimone
della sola verità che può manifestare: io solo
posso salvarti, e se ti faccio violenza è per il
tuo bene. Potrebbe comprendere che la sua
inarrestabile e cieca determinazione è la sola
forma d‘amore che può darle. Potrebbe almeno
fingere di dargli retta, per salvarsi. Ma Jojo non sa o non vuole il gioco fra
uomo e donna che accetta gli antichi limiti. Le
sembra ridicolo? Il suo scopo sembra non sottomettersi,
e per farlo lo sfida: “Vuoi che ti dica
la verità, Gaitonde? Sei un vigliacco. Un
tempo eri qualcuno, eri un uomo, ma adesso sei
un piccolo pazzo tremante che si nasconde in
un fosso.” (Trad.
nostra) [4] Jojo non si stupisce quando lui
risponde con un violento manrovescio, e la
insegue, gridandole parole che sono le stesse di
una violenza sessuale: “Randi.” La seguii per la stanza
mentre lei barcollava all‘indietro. “Vuoi
vedere che razza di uomo sono. Lascia che te
lo mostri. No, vieni, vieni. Ecco, ne vuoi
ancora? Chi sta tremando, han? Chi è
che sta tremando adesso?” (Giochi sacri,
cit.; p. 1053)[5] Perdendo sangue dalla bocca, Jojo ride:
non le ha fatto vedere proprio nulla, non può
stupirla, fermarla, domarla, zittirla. Lo
specchio col quale Perseo ha sconfitto la
pietrificante Medusa può ancora essere impugnato
dalla donna: “Tu, tu non sei
un uomo” disse. Mi rise in faccia con aria di
sfida. “Comperavi le donne, perciò pensi di
essere un grande eroe. Non piacevi a nessuna
di loro, bastardo. Senza i soldi non avresti
neanche potuto avvicinarle.”(Ibidem)[6] Gaitonde non vuole e non può credere
che dica la verità, e ripete la mossa già fatta,
dicendo che vuole salvarla. Jojo manda agilmente
a vuoto il colpo, e contrattacca: “Bas” le intimai. “Basta. Stai zitta.
cerca di capire: sto cercando di aiutarti. Sto
cercando di salvarti la vita.”
“Ridevano di te,
gaandu. Scherzavano
tra loro, dicevano che eri un povero topino
patetico. Credi di essere qualcosa in
confronta a una donna come Zoya? Ci ha detto
che non è mai riuscita a cavare una notte
soddisfacente a letto con te.” (Ibidem)‘[7] Colpito al cuore del
suo orgoglio maschile, Ganesh Gaitonde dimentica
che Jojo è fragile, sola come lui, che come lui
ha paura. Jojo diventa immensa, sostenuta dal
coro beffardo di tutte le donne che gli ha
procurato. Se non riesce a sottometterla, se il
suo orgoglio è umiliato, allora è la donna ad
avergli sottratto la potenza fallica.
Gaitonde ha sempre temuto che Zoya
Mirza non lo amasse, che fingesse il piacere
durante i loro incontri. Vedendola girare un
film con Arnold Schwarzenegger ha immaginato che
l’attore le desse il piacere che lei cercava,
che con lui aveva sempre finto. Quando Jojo dice quel che lui ha sempre
sospettato, rompe il velo del dubbio che lo
proteggeva da questa verità umiliante. Gaitonde
ora è inerme, come un bambino di fronte alla
mamma che lo ha colto in fallo. Per comprendere il gioco sacro di
Ganesh Gaitonde e Jojo Mascarenas, appassionante
e tragico, dobbiamo aprire una mappa
psicoanalitica. La madre ha il potere di illudere il
figlio di essere il suo prediletto, il suo unico
amore, e di disilluderlo crudamente, ogni volta
che gli preferisce l’altro, più grande e più potente, il padre.
Occorre un equilibrio fra illusione e
disillusione, senza il quale l’ipoteca che il
bambino contrae per preservare la sua
possibilità di crescere è talmente onerosa che
la sua vita non basterà a pagarla, per
liberarsene. Si può pensare alla nostra crescita
come a una possibilità che otteniamo a patto di
accettare un’ipoteca: noi dobbiamo credere a
quel che ci dicono di noi i nostri genitori,
qualunque storia ci raccontino. Se non riusciamo
a far parte della storia che hanno preparato per
noi, possiamo solo chiuderci in una forma di
autismo. Meglio contrarre l’ipoteca, sperando di
estinguerla col tempo, da grandi. Il nostro personaggio maschile ha una
storia che rappresenta un’ipoteca quasi
impossibile. Gaitonde ha avuto un padre di cui
disprezzava la debolezza, e una madre che lo
tradiva. Il padre un giorno uccide l’amante
della madre e fugge, abbandonandoli, e la madre
mantiene se stessa e il bambino con l’aiuto dei
suoi amanti. Appena adolescente, il figlio
fugge, cambia il proprio nome, come se fosse
figlio di nessuno, e vive a Bombay dove diventa
un grande gangster. Il capitolo che stiamo
leggendo si intitola Ganesh Gaitonde Goes
Home. Tutto il potere che ha conquistato
lo porta, come in un imbuto, in questo bunker,
dove incontra il proprio destino, lo stesso che
ha cercato di fuggire. Vuole con sé la sola donna che lo ha
compreso, una donna indomita, che dice di non
aver bisogno di nessuno. Se lui ora riuscisse a
salvarla, a domarla, a possederla, estinguerebbe
la sua ipoteca, sentirebbe di consistere come
uomo, lenendo l’insicurezza identitaria che è
riuscito a nascondere agli altri, ma non a se
stesso. La potenza femminile materna, di fronte
alla quale nessun padre ha mostrato di
resistere, è rappresentata da Jojo e dal coro
delle sue randi di lusso. Il
terreno è troppo sfavorevole a Gaitonde, ma non
può perdere questa occasione, e controbatte: “È una bugia. A
Zoya piacevo.” Si chinò in
avanti e poggiò le mani sulle ginocchia. “A
Zoya piacevo.”
Spruzzi di saliva mista a sangue caddero sul
pavimento, ma lei si stava divertendo. “A Zoya
piacevo.” “È così.” La voce
che uscì dalla mia bocca mi era estranea,
flebile e sperduta. (Trad.
nostra)[8] La sua voce ora gli rivela che sta
perdendo, ma non può più fermarsi. È come se la
mamma gli parlasse come a un bambino: sei uno
sciocchino illuso... Il bambino resta senza
appigli, scopre di essersi illuso di essere il
campione della mamma, e invece lei lo ha sempre
preso in giro. Gaitonde si dibatte e si
irretisce: “Me lo disse la
prima notte che passammo insieme. Disse che
ero stupefacente. Davvero. Lo facemmo tutta la
notte. È la verità.” “Gaitonde, sei un
idiota.” Adesso era trionfante. “Sei uno
stupido. Ti ha preso in giro. Non era merito
tuo, povero ingenuo. Ti diede un bicchiere di
latte e badam. E
dentro ci sciolse una compressa di Viagra,
un’intera pastiglia. Voleva dartene due, ma
aveva paura di ucciderti. Io le dissi, fai
bene se vuoi andare avanti, se vuoi arrivare
fino alla luna, ma stai attenta a non fodnere
il razzo che ti ci deve portare. E funzionò.
Non era merito tuo, saala. Era
l’effetto del Viagra. Un velo di rabbia
mi annebbiò la vista. La scorgevo oltre quel
velo, impettita, che rideva. Non aveva paura
di me. (Ibidem)[9] Se Jojo non ha paura di lui, Gaitonde è
perduto, perché si è difeso dalla propria
fragilità spaventando gli altri, o
sottomettendoli col denaro e il potere. Non può
comprare la donna, perché non è in vendita, non
può legittimarla, perché non sa che farsene
della sua legittimazione, non può salvarla,
perché preferisce la morte alla salvezza che
viene da lui. Gaitonde è ridotto all’impotenza,
e la sua blue haze of rage, che
si manifesta come una specie di follia
paranoica, rappresenta l’ultimo baluardo
dell’orgoglio maschile e della sua consistenza
identitaria. Gaitonde deve reagire, perché come
ogni essere umano dà più valore alla sua
identità che alla sopravvivenza concreta. La
percezione dell’integrità del proprio essere, o
della speranza, anche minima, di ottenerla,
permette di esistere come soggetti umani, anche
gravati da ipoteche, anche sull’orlo della
follia o della morte. Se la realtà fosse fatta
di bisogni biologici e di oggetti adatti o
inadatti a soddisfarli, il nostro mondo non
sarebbe quello che sperimentiamo
quotidianamente, e non avremmo bisogno di
interrogarci sulle sofferenze e le gioie che
sperimentiamo, impossibili da spiegare con il
senso comune. Ma neppure Jojo, che sembra così lucida
e padrona di sé, segue un progetto sensato. Se
il suo scope fosse stato vincerlo, ora che lui è
sconfitto si fermerebbe, invece continua a
sfidarlo, gli fa il verso, come in una presa di
giro fra bambini. Vuole vincerlo o vuole essere vinta? “A Zoya piacevo” ripeté. “Sei proprio
uno stupido. Gaitonde, se pensi che lei fosse
una vergine rimasta colpita dalla tua immensa
virilità. Che chutiya. Aveva avuto già
dozzine di uomini prima di te e molti altri
dopo, e tra tutti tu se stato il più patetico.
Sei stato, sei stato il più piccolo.” “Bugiarda. Lei
era vergine. me lo dicesti tu. Me lo disse
lei.” “Una vergine?” “Sì.” “Idiota. Come
credi che sia sopravvissuta in questa città
prima di arrivare da te? Voi uomini bhenchod
siete disposti a pagare di più per una vergine
e così lei tornò vergine per te.” “No. C’era il
sangue.” Rise così forte
da doversi aggrappare al bordo del tavolo. “Gaitonde, di
tutti gli uomini più boriosi e gaandu del mondo, tu sei il più
cieco. Arre, nel raggio di dieci
chilometri ci sono almeno venti dottori capaci
di rendere di nuovo vergine qualsiasi donna.
L’intervento dura mezzora, costa
venticinquemila, trentamila rupie. E dopo tre
settimane la vergine rinnovata può essere
pronta a spalancare le gambe su un lenzuolo
bianco, in modo che un miserabile Gaitonde
possa vedere il sangue e pensare di essere
grande.” Le sparai. (Ib., 1053-1054)[10] Lo sparo chiude il corpo a corpo, che
distrugge uomo e donna quando nessuno dei due è
capace di fermarsi, di andare oltre la speculare
domanda senza risposta: “Non capisci? Non mi
capisci?” Il sangue di Jojo sgorga dal foro
all’altezza del suo cuore, facendo svanire la
pena per il sangue ingannevole della prima notte
con Zoya Mirza. Gaitonde ora non dubita più di essere
un uomo, ora può riposare, si stende accanto a
lei. Quando si sveglia, scopre che ha dormito
per più di un giorno e di una notte, e vede
accanto a sé il piede di Jojo. Ma ciò che notai
come una cosa del tutto nuova, sorprendente e
incredibile, fu quanto era complesso un piede
umano. Ha piccoli cuscinetti e archi, un
sistema intricato di muscoli e nervi, e tante,
tantissime ossa. Si flette e si muove, cammina
e sostiene. La pelle assume il colore degli
anni che attraversa, finché le crepe non
formano una rete complicata come la vita
stessa. Strinsi il piede
di Jojo. Chiusi la mano intorno alla caviglie
e ne avvertii la fredda inerzia. (Ib., 1054-1055)[11] Per la prima volta, accanto al corpo
della sola donna dalla quale si è sentito
compreso, che ha fermato accanto a sé con la
pistola, Gaitonde accoglie la
vita, che si manifesta in tutta la sua
complessità in un piede, come in uno sguardo, o
in un loto rampicante [lotus vine]. Da dove
viene questa salvezza a Ganesh Gaitonde, e dove
lo porta? [12]
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Ganesh Gaitonde torna
a casa, nel bunker a Kailashpada, per
incontrare il suo destino, e porta con sé Jojo
Mascarenas. Il loro corpo a corpo fatale ricorda
Carmen, la storia musicata da Georges
Bizet (1875). La vicenda, con alcune modifiche,
viene dall’omonimo racconto di Prosper Mérimée
(1845), ed è stata tante volte rinarrata e
rirappresentata che possiamo considerarla come
un grande sogno collettivo della cultura
occidentale. La differenza più
importante fra la coppia del romanzo di Vikram
Chandra e quella del racconto di Mérimée è che i
primi due non hanno alcun rapporto sessuale.
Siccome Gaitonde e Jojo si sono incontrati per
la prima volta nel bunker a Kailashpada, la loro
tragedia non ha una causa nell’attrazione
erotica esercitata dalla femme fatale.
Imputare la tragedia al diabolico potere erotico
di Carmen permette di ridurre il turbamento del
corpo a corpo mortale con un’attenuante che
appare biologica, quasi animalesca. Non facendo
incontrare sessualmente Gaitonde e Joio, Chandra
lascia che emerga, per chi vuole comprenderla,
tutta l’intensità perturbante dell’estremo corpo
a corpo fra maschile e femminile.
Alla fine dell’opera
lirica Carmen sta per entrare con le amiche
nell’arena dove il torero Escamillo le dedicherà
la sua corrida, quando entra sulla scena don
José, che per amor suo ha disertato, diventando
un fuorilegge. Come Ganesh Gaitonde non ha
trovato posto nell’ordine maschile consensuale,
e ora ha bisogno che la donna accolga la sua
disperazione. L’amante disperato e respinto è un
grande pericolo per Carmen, le amiche le
consigliano di evitarlo:
Frasquita: - Carmen, un bon
conseil... ne reste pas ici.
Carmen:
- Et pourquoi, s'il te plaît?
[...]
Frasquita: -
Prends garde!
Carmen: - Je ne suis pas femme à
trembler devant lui...
[...]
Mercédès: - Carmen, crois-moi, prends
garde!
Carmen: - Je ne crains rien!
Frasquita: - Prends
garde!
(Carmen, par Henri Meilhac et Ludovic
Halévy. Musique de Georges Bizet. Acte Quatrieme, Scène I; Columbia
Center for New Media Teaching and Learning; http://opera.stanford.edu/Bizet/Carmen/libretto.html)[13] Carmen si ferma di
fronte a don José: lei non fugge. Lui la
implora, non è là per minacciarla, ma per
perdonarla, e cominciare una nuova vita insieme.
Ma Carmen non vuole:
Carmen: Tu demandes l’impossible!
Don Josè: - Carmen, il est temps
encore,
(Ib.) [14] Don José vuole
salvarla, contro la volontà di lei:
Carmen:
- En vain tu dis: je t'adore!
(Ib., Scène II)[15] Perché il sangue non
scorra, la donna deve scivolare nel silenzio. La
parola di lui deve prevalere: non è nell’Uomo
che si incarna il Verbo? non è lui che è stato
creato a immagine e somiglianza di Dio, come
racconta l’Antico Testamento? La stessa verità
viene affermata su tutti i registri possibili.
Un proverbio italiano, in dialetto veneto,
tutt’ora citato, sintetizza perentoriamente come
dev’essere una donna, e probabilmente la stessa
cosa viene detta, con minime variazioni, in
tutte le lingue del mondo:
Che la piasa / che la tasa / che la staga in casa.[16] Nessuno ha mai
preteso che la donna non abbia parola, basta
pensare alla grande Shahrazàd, che parla tanto
da comporre Mille e una notte di
racconti, o alla sacerdotessa Diotima, che svela
la natura di Eros nel Simposio di
Platone, o alle sibille, che venivano consultate
quando era necessario un sapere diverso da
quello comunemente accessibile. Ma la donna
nell’ordine patriarcale deve chiudere la bocca
in modo che la parola dell’uomo possa prevalere.
Anche il suo silenzio, se non significa
sottomissione, è intollerabile per l’uomo.
Shahrazad racconta ogni notte, ma dopo aver
chiesto il permesso al sultano, e quando l’alba
appare scivola da sé nel silenzio [lapses into
silence]: in modo che il sultano possa andare a
esercitare il suo potere sentendosi pienamente
capace di circoscriverla. [17] Diotima conosce, a
differenza degli altri commensali di Socrate, la
verità sulla natura di Eros, ma è Socrate a
riferirla, includendola nel proprio discorso. La
voce delle sibille era preziosa, ma era il dio
Apollo che parlava per bocca loro. Le antiche
divinatrici vivevano separate dalla città, in
luoghi ben delimitati o difficili da
raggiungere. Se una donna parlava
con voce propria, senza accettare la
delimitazione maschile, poteva essere solo il
personaggio di una tragedia, anche se quel che
diceva era la verità. L’indovina Cassandra, che
non aveva rispettato il volere del dio Apollo,
viveva nella città di Troia profetando il
futuro, ma era condannata a non essere mai
creduta. Antigone, avendo onorato le spoglie del
fratello morto contro il decreto del re di Tebe,
viene giustiziata perché ha difeso con la sua
voce libera una delle forme più antiche e
universali di umanità. Il maschile si
costituisce nell’ordine patriarcale solo nella
misura in cui la sua parola, il suo corpo, la
sua legge, delimitano e circoscrivono la donna,
condannandola a morte se rifiuta di farsi
delimitare. L’esempio più cupo e più illuminante
è costituito dal Tribunale della Santa
Inquisizione di Santa Madre Chiesa, che nei
cinque secoli della sua storia ha mandato al
rogo come streghe otto milioni di donne. Quale enorme potenza
assassina è attribuita alla parola e al
desiderio indipendente della donna, se al suo
manifestarsi corrisponde la tragedia, se la sua
autonomia procura la morte a lei stessa e agli
altri? Il mito di questo
potere terrifico della donna si nutre di altri
miti, ed è ben presente nell’inconscio degli
uomini e delle donne, quasi del tutto
impermeabile alle moderne convinzioni
scientifiche, al diritto egalitario, alla lucida
coscienza critica. Il mito della donna sfrenata,
demoniaca e dannata, contorna nella fascia più
esterna la base del dominio maschile, è l’orlo
terrifico della terra sulla quale poggia l’axis
mundi fallico, perno della cultura
patriarcale. Intorno a questo centro fallico che
punta verso l’alto, sta la terra coltivata e
benefica, che non desidera altro che sostenerlo
e garantirne la durata. Sono le donne che
piacciono e tacciono quando è necessario, le
spose e le madri accoglienti, celebrate dalla
cultura patriarcale quanto il maschile eroico,
che libera la terra dai mostri, con le guerre,
le scoperte scientifiche, l’esercizio del
potere. In questa
rappresentazione, che ricorda il cosmo
tolemaico, il logos maschile si alza al centro,
poggiando sulla terra, e tutti i fantasmi e i
demoni che non si lasciano colonizzare o
annientare sono respinti ai margini, come i
mostri marini che bordavano le antiche carte
geografiche. La potenza demoniaca femminile è la
rappresentazione del resto che la cultura non
sa, non può domare, la forza della vita che è
cieca perché non vista. Si chiama demone una
potenza che non coopera all’ordine umano, e la
nominazione ha la funzione di spingerlo in uno
spazio il più possibile lontano.[18]
Oltre i confini del mondo, o nel cuore della sua
origine, nel grembo femminile: dal corpo e
dall’anima della donna che non si sottomette
all’uomo viene un pericolo che travolge ogni
cosa. Questa rappresentazione è una struttura
terrifica nella realtà psichica dell’uomo e
della donna, che può essere riconosciuta in ogni
cultura umana. L’ipotesi di una
società matriarcale, che avrebbe preceduto
quella patriarcale, può essere considerata un
mito, che presenta l’organizzazione
fallocentrica come più evoluta di quella che
vedeva la donna al potere. La donna nel
patriarcato deve piacere, tacere, e stare ferma,
in casa, perché i figli e il marito
possano lasciarla e ritrovarla secondo i loro
bisogni sovrani. L’ordine che assegna al
maschile un diritto/dovere di dominio potrebbe
risalire alle prime espressioni umane di cui ci
è giunta la testimonianza. Nell’arte del
paleolitico la donna è spesso rappresentata
plasticamente, con seni, glutei e vulva
mostruosamente sviluppati, ben di più di quelli
delle sex-symbol contemporanee. Mancano le
estremità, e gli arti sono appena abbozzati (Veneri
del Paleolitico). Le figure maschili
invece sono spesso disegnate in movimento sulle
pareti delle caverne, con corpi filiformi, arti
ben sviluppati, armi in pugno. Il pene eretto
completa spesso questa rappresentazione del
maschile. La persistenza del
mito di una superiorità maschile, la convinzione
che il soggetto della cultura sia maschile - il
genere umano, gli uomini,
accomunano sotto la parola uomo anche le donne
-, si esprime oggi nel momento stesso in cui ci
si illude di osservarlo criticamente. Quando
pensiamo che il patriarcato logocentrico e
fallocentrico sia stato voluto dai maschi contro
le femmine, non facciamo altro, uomini e donne
in modo solo apparentemente diverso, che
continuare ad attribuire alla parte maschile la
responsabilità di tutto l’andamento della
cultura e dell‘ordine sociale. Parlare di una tendenza maschile alla
prevaricazione, al dominio, all’arroganza, alla
guerra, e di una tendenza femminile alla
composizione dei conflitti, alla mitezza, alla
pace, significa cambiare i termini del gioco
patriarcale lasciandolo intatto. Il mito è tanto
potente che possiamo rovesciarlo, non prenderne
le distanze, così accade in Europa che siamo
passati, nell’arco di un secolo, dalla certezza
che le donne non possono votare all’affermazione
che più donne in parlamento e al governo
sarebbero una garanzia di pace.
Ciò che garantisce
la permanenza della cultura patriarcale, la sola
di cui ^conosciamo realisticamente l’esistenza,
è la stabilità di un axis mundi fallico,
si preferirebbe quindi attribuirne il possesso e
la tutela alle donne: non è raro sentire
l’affermazione per la quale le donne sarebbero
state considerate inferiori per limitare la loro
reale superiorità. Pur
di non interrogarsi sulla consistenza
immaginaria dell’axis mundi fallico,
pensiamo con risibile ingenuità che la cultura
patriarcale sia stata imposta da un sesso contro
l’altro. Nella mia esperienza
psicoanalitica osservo come molte donne, di ogni
età e condizione sociale e culturale, mettano in
gioco una tendenza inconscia a sostenere la
parola dell’uomo, proprio mentre a livello
cosciente si difendono da lui con ogni arma. Il mito di un centro
unico suggerisce la lettura della storia di
Carmen come la violenta soppressione della
libertà femminile da parte del maschile. In
questa prospettiva Jojo Mascarenas sarebbe una
donna libera, e Ganesh Gaitonde il
rappresentante di una violenza solo maschile. Possiamo dimenticare
che Jojo, che pure conosce bene Gaitonde, lo
provoca tanto da farsi uccidere?
Possiamo dimenticare
che Carmen potrebbe ignorare don José e andare a
vedere Escamillo che uccide il toro per lei? Quando si levano le
fanfare e le grida della folla per il trionfo
sul toro lei è già morta, avendo preferito al
combattimento del torero nell‘arena il suo
combattimento con don José. Carmen e Jojo non
vogliono essere delimitate, fermate dagli uomini
che vogliono salvarle, proteggerle, amarle. O vogliono essere
fermate? Don José e Ganesh
Gaitonde conoscono l’indomabile natura di Carmen
e di Jojo: perché vogliono proprio loro? Don Josè vive la
stessa tragedia di Ganesh Gaitonde, come lui ha
perduto ogni riferimento certo a un sistema
culturale, ha lasciato la sua famiglia, è un
fuorilegge. Ma perché pensa, come Gaitonde, che
solo quella donna possa fare da base al suo
cuore, che solo la donna senza padroni, la donna
che sa dire la verità, possa accogliere la sua
anima incerta, come una casa ospitale? Questa
donna non è materna, non vuole accoglierlo né
dargli il tempo di rigenerarsi nel suo grembo. O
vuole disperatamente essere per lui grembo vivo,
senza riuscirci? Le parole
raggiungono la massima violenza, dopo la quale
il linguaggio verbale cede e il corpo entra in
azione:
Carmen (voulant passer): - Laisse-moi...
laisse-moi...
José: Sur
mon âme,
Carmen: Laisse-moi, Don José, je ne
te suivrai pas.
[...]
José: Non,
par le sang, tu n'iras pas!
Carmen:
Non, non! jamais!
José
(avec violence): Je suis las de te menacer!
Carmen (avec
colère): Eh bien! frappe-moi donc, ou
laisse-moi passer.
(Carmen,
cit., Ib.)[19] Questa violenza
maschile è allo stesso tempo espressione di
impotenza e disperata barriera contro
l’impotenza stessa, avvertita come annientante
dal soggetto maschile. Se Carmen e Jojo
comprendessero la debolezza degli uomini che
fronteggiano, perché dovrebbero combatterli?
Perché continuano a sfidarli quando vedono che
sono sconfitti? Vogliono distruggerli o vogliono
che la loro maschilità fallica si manifesti,
miticamente efficace, capace di contenere la
mitica distruttività femminile? Carmen, come Jojo
Mascarenas, sembra non sopportare la debolezza
di don José, e gliela mostra crudelmente,
sfidando la sua maschilità, a qualunque costo:
José (éperdu): Pour
la dernière fois, démon,
Carmen: Non! non!
José (le poignard à la main, s'avançant
sur Carmen): Eh bien! damnée!
[...]
(José a frappé Carmen... Elle tombe
morte... Le vélum s'ouvre. La foule sort du cirque.)
José (se
levant): Vous pouvez m'arréter... c'est moi
qui l'ai tuée!
Ah! Carmen! ma Carmen adorée! (Ib.)[20] Cale il sipario, la
compagna del corpo a corpo fatale è vinta, è
morta, e don Josè si consegna ai tutori della
legge, pronto a essere giustiziato. Non ha più
nulla da dire, non c’è più nulla da sentire. Ma nel racconto di
Mérimée don José ha un tempo fra la morte di
Carmen e la sua, e questo è il tempo del
racconto. Al suo ascoltatore, poco prima di
essere garrotato, don José dice qualcosa su
verità e menzogna che non smette di
interrogarci: Elle mentait, monsieur,
elle a toujours menti. Je ne sais pas si dans
sa vie cette fille-là à jamais dit un mot de
vérité ; mais quand elle parlait, je la
croyais : c’était plus fort que moi. [21] (Prosper Mérimée, Carmen ; Éditions
Garnier Frères, Paris 1960; p. 38) |
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3.
L’axis fallico diventa vago Ci sono verità
antistoriche, cieche, che giustificano la
violenza. La verità del fondamentalismo, in Sacred
Games è sostenuta da Guru-ji, che ha un
immenso seguito di fedeli in tutto il mondo. Per
realizzare un India pura e perfetta, non esita a
distruggere con un’atomica tutta Bombay. Ci sono commistioni
fra illegalità e politici o tutori dell’ordine,
elevate a sistema. Nel suo ultimo romanzo
Chandra ci racconta come l’onestà sia qualcosa
che può esistere, ma va pronunciata sottovoce.
Prima degli anni Sessanta in Italia era
sconveniente parlare di sesso, oggi si esita a
dire che si agisce in nome di un ideale. Provare
piacere facendo qualcosa che non porta danaro né
visibilità sta diventando una faccenda intima,
come sa bene Katekar, il sardar che da sette
anni lavora con Sartaj Singh. Non trova nulla da
rispondere a un suo parente gli chiede cosa
aspetta a lasciare il suo incarico, così poco
redditizio, e riflette. I soldi erano
bene accetti, naturalmente, ma c’era anche il
desiderio di essere a servizio del pubblico.
Sì, davvero, sadrakshanaya khalanighranaya.
Katekar sapeva che non avrebbe mai potuto
confessare questo impulso a nessuno, certo non
a Vishnu, perché discorsi altisonanti sul
proteggere il bene e il male avrebbero
suscitato solo ilarità. Anche tra i colleghi
non si poteva mai parlare di queste cose.
Eppure l’impulso c’era, per quanto seppellito
sotto sordidi strati di cinismo. Katekar
l’aveva visto ogni tanto anche in Sartaj
Singh, questo idealismo insensato e
imbarazzante. Naturalmente nessuno dei due
avrebbe potuto anche solo accennare al
romanticismo dell’altro, ma forse era proprio
questo il motivo per cui la loro
collaborazione era così duratura. Una sola
volta, quando avevano salvato una ragazzina di
dieci anni dai suoi rapitori, in una baracca a
Vikhroli, Sartai Singh aveva brontolato,
grattandosi la barba: "Oggi abbiamo fatto un
buon lavoro". Era bastato. (Giochi sacri, cit., pp.
291-292)[22] Parole come quelle
del motto sanscrito della polizia di Bombay, Proteggi
la Verità, Distruggi il Male, fanno parte
dei grandi ideali, che nel XX secolo sono stati
usati per coprire i peggiori crimini. Giusto
diffidarne, ma è impossibile orientarsi nel
labirinto della vita senza il filo d’Arianna di
un senso della vita, che permetta, almeno
qualche volta, di pensare che si è fatto un buon
lavoro. Come in tutto il
nostro mondo, in Sacred Games ci sono i
potenti che pensano solo ad arricchirsi, al
punto che è difficile distinguere la morale del
gangster da quella dei tutori dell’ordine. Si
racconta di persone di ogni fede che subiscono
persecuzioni e perdite atroci, mentre nessuno
pensa di dar loro giustizia. Ci sono giovani che
per liberarsi della miseria o da una scarsa
visibilità sono disposti a vendersi a protettori
che li introducano nel mondo della televisione o
della moda, c’è soprattutto la città immensa,
con quartieri lussuosi e quartieri fatiscenti,
ci sono i suoi tramonti bellissimi, anche se si
sa che i colori potrebbero essere accesi
dall’inquinamento. Ci sono molte
verità, che scorrono dentro i personaggi e si
muovono nelle vie della città, come i rami di un
rampicante che per espandersi si avvolge anche
su se stesso, sperando di trovare un sostegno, e
salire, e fiorire. Il fiore di Sacred
Games, è la salvezza di Bombay dalla
distruzione atomica, metafora del rischio
radicale che percepiamo per il nostro mondo,
così ingiusto, pieno di contraddizioni, e così
ricco. Ganesh Gaitonde,
dopo aver stretto nella mano il piede inerte di
Jojo, riflette: Avevo dormito per più di ventiquattro
ore. Muoviti con questa cosa. Ma quale
cosa? Più soldi, più donne, più cadaveri.
L’avevo già vissuto, e non ne volevo più. E
allora, muoversi con quale cosa? Steso sul
pavimento, vicino a Jojo, me lo chiesi. Mi
risentii intero, su questo pavimento macchiato
di sangue, come se questo lunghissimo sonno mi
avesse liberato dall’assurdo, dal caos, dalla
spossatezza. (Trad.
nostra)[23] Cos’è l’integrità
che sente per la prima volta Gaitonde? Com’è
possibile che la conosca un gangster, dopo aver
ucciso l’amica che voleva salvare con sé? Quando qualcosa del
senso della vita si manifesta, ha una forza
sommessa e imbattibile. Nessuna pratica
religiosa, nessuna ideologia, nessuna ricerca
scientifica la possiedono. Ha la forza indomita
del germoglio, e la sua natura è la stessa della
voce della ragione [voice of the
intellect], di cui Freud dice che è fioca,
ma insiste, finché non ottiene udienza. ...Die Stimme des
Intellekts ist leise, aber sie ruht nicht, ehe
sie sich Gehör geschafft hat. Am Ende, nach
unzählig oft wiederholten Abweisungen, findet
sie es doch. Dies ist einer der wenigen
Punkte, in denen man für die Zukunft der
Menschheit optimistisch sein darf. (Die
Zukunft einer Illusion, 1927)[24] Qualcosa si fa
strada ed emerge solo quando rinunciamo a
dominare la vita, riconoscendo che tutte le
conoscenze di cui siamo giustamente orgogliosi
sono impotenti di fronte al dolore e all’amore,
di fronte al senso del nulla e di fronte alla
comunione con il mondo intero. La voce della
ragione è l’apertura radicale alla realtà, la
scoperta del limite inesorabile della nostra
presenza: il nostro tempo breve che dovrebbe
bastare.[25]
Il paradosso è che mentre si cerca di vivere
ignorando i nostri limiti, si trova la vita solo
riconoscendoli. Ora che per la prima
volta ha se stesso, Ganesh Gaitonde vuole
consegnarsi, e sceglie un tutore della legge,
come don José dopo aver ucciso Carmen nell’opera
di Bizet. Gli viene in mente solo l’ispettore
sikh Sartaj Singh, che era di servizio quando,
anni prima, si era recato in incognita a un
meeting di Guru-ji. Ma Sartaj Singh non sa di
aver incontrato una volta il potentissimo
gangster, e non sa perché mai abbia scelto di
chiamare proprio lui. Il giorno prima è
stato chiamato da un uomo asserragliato in
camera, mentre la moglie con un coltellaccio da
cucina lo conficcava ripetutamente nella porta.
Da una finestra del loro appartamento al quinto
piano l’uomo, durante una lite, aveva lanciato
la cagnetta della moglie. Uscendo Sartaj Singh
aveva guardato sul marciapiede la cagnetta
innocente: L'amore è un bischero assassino.
Povero Fluffy.
(Trad. nostra)[26]
Quando Gaitonde, la
mattina dopo, lo chiama al bunker di
Kailashpada, Sartaj Singh non ne conosce la
ragione. Non ricorda di aver mai incontrato il
capo della malavita di Bombay, non sa di averlo
guardato con compassione, come un essere umano.
Gaitonde lo sceglie perché rappresenta la legge,
senza che la sua umanità sia coperta
dall’uniforme, e lo considera adatto a
prenderlo, il che significa che vuole
raccontargli la sua storia. Sartaj Singh arriva
al bunker di Kailashpada, e cerca inutilmente di
convincere il gangster a uscire dal bunker. Lo
sta a sentire per alcune ore, durante le quali
Gaitonde racconta l‘inzio della sua vita di
gangster a Bombay, a un certo punto prova
interesse per la sua storia, ma quando il
bulldozer che ha chiamato riesce ad aprire una
breccia nel rifugio atomico smette di
ascoltarlo. Come potrà non
perdersi Gaitonde, che si è appena trovato? Stai entrando. Sto ancora parlando,
ma non mi ascolti più. Hai lo sguardo acceso.
Mi volete, tu e i tuoi tiratori scelti. Ma
ascoltami. Ho nella testa un turbinio di
ricordi, brandelli sparsi di volti e di corpi.
So come strillano uno attraverso l’altro, i
loro nessi e loro sconnessioni, posso segurli
alla loro velocità. Ascoltami. Se vuoi Ganesh
Gaitonde, devi lasciarmi parlare. Sennò Ganesh
Gaitonde ti scapperà, come è scappato ogni
volta, come è scappato a tutti gli assassini.
Ganesh Gaitonde è quasi scappato anche a me.
Ora, in questa ora finale, io ho Ganesh
Gaitonde, so chi era, cosa è diventato.
Ascoltami, devi ascoltarmi. Ma ora sei nel
bunker. (trad.
nostra)[27]
A che serve il
racconto di una vita? Anche se Sartaj non
ascolta più, perché deve fare il suo lavoro, la
scoperta del bunker e dei suoi due occupanti è
la battuta d’avvio per sventare l’attentato
atomico di Guru-ji, fra poliziotti e gangster e
agenti segreti, di ogni religione e fede,
perdigiorno e idealisti, uomini e donne... Gaitonde si consegna a
Sartaj, che porta a termine il compito di
sventare un attentato talmente terrificante che
sembra non possa accadere se non al cinema. Il
capo della malavita di Bombay aveva tentato di
sconfiggere il fondamentalista Guru-ji, e la sua
sconfitta è il punto di partenza per la riuscita
del sardar sikh. L‘eredità di
Gaitonde è un atto di fiducia senza garanzie di
riuscita, come ogni vero dono che una persona fa
a un’altra persona. L’impazienza di Sartaj non
impedisce che il dono giunga a destinazione: A ogni tuo passo, vedo scorrere una
dozzina dei miei anni. Ora sono in grado di
vederli tutti insieme, dal primo inizio alla
prima casa che mi sono costruita, la mia prima
casa a Gopalmath. (Trad.
nostra)[28] Nel tempo di un
passo scorre per Gaitonde una dozzina di anni.
Nelle pagine di un libro, che, anche se è grande
[big] come i romanzi di Chandra occupa poco più
di un decimetro cubico, s trovano storie che si
intrecciano ad altre storie, un labirinto
intricato di vite, di dolore, di aspirazioni
deluse, di morti e di speranze, di cieli, di
fogne, di stanze lussuose... La capacità di
Vikram Chandra di tenere le fila di tutte queste
storie è la sua straordinaria potenza di
narratore. Più che il narratore onnisciente del
canone classico, Vikram Chandra appare come un
ascoltatore che rinarra storie senza
impossessarsene, piuttosto accogliendole,
curandole come un giardiniere, perché
fioriscano. Ogni Inset ha
una tale ricchezza che fa pensare all’abbozzo di
un nuovo romanzo, ma anche se le pagine
moltiplicano lo spazio, l’indagine di Sartaj
Singh e il racconto del gangster premono.
Nessuno lo sta ascoltando, eppure Gaitonde
continua a parlare: Ecco la pistola. La canna mi entra
facilmente in bocca. Penso a ciò che avrebbe
detto Jojo, Bastardo, hai paura o cosa? Vuoi
che lo faccia per te? No, Jojo, non ho paura. Sartaj, sai perché lo faccio? Lo
faccio per amore. Lo faccio perché so chi
sono. Bas, adesso basta. (Trad. nostra)[29] Ancora oggi si
sperimenta la forza magica della letteratura, il
tempo immenso che sboccia e scorre in un fiume
di parole, quando uno solo scrive, ma è
consapevole di raccogliere le parole di tanti,
di tutti. Una coincidenza interessante: i due
grandi [big] romanzi di Chandra sono a cavallo
di due secoli, e di due millenni. Come in Midnight’s
Children (1981) e in The Moor’s Last
Sigh (1995) di Salman Rushdie, in Red
Earth and Pouring Rain (1995) il
protagonista è morente e racconta in prima
persona un romanzo intero. In Sacred Games il
narratore Gaitonde muore alla fine del secondo
capitolo. Che cosa vuol dire? I capitoli in cui
Ganesh Gaitonde narra in prima persona si
alternano alla vicenda di cui è protagonista il
sardar sikh, arrivando quasi alla fine del
libro, e l’equivalenza topologica fra i passi
del sardar sikh e le dozzine di anni di vita, o
i capitoli, è pronunciata solo prima del
capitolo della salvezza. Il destinatario della
storia di Ganesh Gaitonde è e non è interno al
romanzo: siamo noi, i lettori, perché cogliendo
questo tempo topologico Vikram Chandra ha potuto
ascoltarlo e narrarcelo. In Sacred Games
ci sono grandi rappresentazioni dei drammi
che affliggono il nostro mondo globale, le
contraddizioni della storia, ma il fiore sboccia
grazie alla capacità di Chandra di scendere in
fondo al minuscolo infinito dramma del soggetto,
di un particolare soggetto: qui il mondo muore,
rigermoglia, rinasce. Esiste un tempo
lineare, irreversibile, e uno spazio regolare,
misurabile. Si possono costruire orologi, sempre
più precisi, e misure capaci di indicare
grandezze che fino a un secolo fa non erano
pensabili. La conoscenza che si estende oltre i
confini delle nostre percezioni ci turba,
soprattutto applicandola alla nostra mente. È il
tema dell’Inset The Great Game, nel
quale sta morendo K.D. Yadav, che ha diretto i
servizi segreti indiani, a causa di una malattia
che distrugge la sua mente.
K.D. può essere
considerato un modello di mascolinità, per
intelligenza, capacità di comando, compassione,
amore per la sua nazione. Il suo orgoglio si
dissolve, non di fronte alla morte imminente, ma
all’impossibilità di distinguere la realtà
presente dai ricordi lontani: Ora K.D. Yadav conserva la memoria ma
non la sequenza. Ha gli elementi, ma non la
distanza che li separava. per lui il passato
non è più diviso dal presente da un confine
nitido e rassicurante, tutto è ugualmente
presente, tutte le cose sono collegate e sono
qui. Perché? Che cosa mi è successo? K.D. non
lo ricorda. Invece ricorda. (Giochi sacri, cit.; p. 394)[30] Come sono possibili
due affermazioni opposte? Si può affermare che
una è vera e una falsa? ...È in un letto d’ospedale a Delhi,
sta perdendo la testa. Considera la frase: perdere la testa.
Che cosa resta, se la tua testa non è a posto?
Se non c’è la testa, la mente, c‘è ancora un
sé? Ricorda che secondo la parabola per
conoscere l’Io deve esserci un altro Io, un
occhio che guarda gli uccelli del sé che
festeggiano con il nettare del mondo. Ma
resterà qualcuno a vegliare, se vanno via
queste strutture della mente, queste facciate
di linguaggio, queste fondamenta di logica,
queste narrazioni di causa ed effetto? Cosa
resta quando tutto è crollato? Beatitudine o
torpore? Una presenza, o un’assenza? “Il ragno
tesse le sue cortine di tela nel palazzo dei
Cesari, il gufo segna l’ora di guardia nelle
torri di Afrasiab”
(Trad. nostra)[31] Il controllo sfugge
a K.D. Yadav, e quel che comprende trova una
spiegazione nella parabola, mentre i suoi
racconti si affollano, incontrollabili. Dove abita il
racconto, se continua quando la mente ha perso
il controllo sulla realtà e sulla propria
espressione? Il racconto ha una
radice nel sogno notturno, una nel delirio, ha
radici dappertutto nella realtà quotidiana,
permette che emerga il nostro carattere nelle
sue pieghe altrimenti innominabili, e insieme
può mascherare e smascherare all’infinito la
nostra anima. Quale parte della
mente abita il racconto? Ad ogni passo di
Sartaj nel bunker di Kailashpada, Ganesh
Gaitonde ricorda una dozzina di anni. La memoria
somiglia al libro, perché basta aprirla,
sfogliarla, per visitare paesi e città, rivedere
persone amate e perdute, sentire ancora la pena
del dolore e della sconfitta. La memoria è
immensa, si contrae e si espande verso
l’infinito, eppure se il nostro cervello si
spegne, tutto scompare. La scrittura aumenta
il tempo del soggetto, può portare il suo
racconto attraverso le generazioni, e gli
permette di varcare confini che in vita non ha
mai neppure immaginato. La comunicazione che
oggi la rete rende possibile, l’immensa quantità
di informazioni che possiamo conservare nel
piccolo spazio di un personal computer, sono
miracolose, ma sono una realizzazione dello
stesso desiderio umano che ha portato a
inventare la scrittura. La nostra mente accoglie
e riproduce l’immenso gioco della vita, e del
suo respiro la letteratura è lo specchio
vivente. Anche se Sartaj
Singh non ha tempo per sentire la storia di
Gaitonde, dalla sua determinazione a consegnare
la sua storia, se stesso, prende avvio
l’indagine che porterà l’ispettore sikh a
salvare Bombay dall’esplosione atomica, e a
ritrovare l’amore, nell’incontro con Mary
Mascarenas, sorella di Jojo.
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Freud ha aperto una
rivoluzione radicale con la psicoanalisi, su
cosa sia la mente, non solo la vita psicologica
del soggetto, ma anche la sua cultura. La
neurologia contemporanea propone modelli molto
più simili a quelli della psicoanalisi che a
quelli della medicina dei tempi di Freud. I confini fra
normalità e follia si rivelano simili a quelli
che separano gli stati, o le classi sociali.
Esistono, ma cambiano col tempo, non
rappresentano più una certezza, sfumano come il
confine nitido e rassicurante fra passato e
presente nella mente di K.D. Yadav. Se i confini cadono,
possiamo sperimentare la gioia per
l’allargamento del nostro orizzonte, ma dobbiamo
fronteggiare l’incertezza della nostra identità,
che perde i suoi ancoraggi tradizionali. Nei
suoi romanzi Vikram Chandra sembra aver
contemplato ogni personaggio, piccolo o grande,
prima di raccontarne la storia, di mostrarci la
sua fede, semplice o complessa: nessuno è
condannato, nessuno è salvato. Ci sono
personaggi che sopravvivono, come Sartaj Singh e
Mary Mascarenas, e altri che muoiono, come
Ganesh Gaitonde e Jojo, ai quali abbiamo
accostato don José e Carmen. Abbiamo ricordato il
racconto di Prosper Mérimée, quando don José
dice che Carmen ha sempre mentito, ma che lui le
ha sempre creduto: Je la croyais : c’était
plus fort que moi. (cit) Il dominio sulla
donna nel patriarcato si sostiene
sull’attribuzione di una maggiore capacità
raziocinante al sesso maschile. Nasce prima
l’uomo, come nell’Antico Testamento, e da una
parte dell’uomo viene formata la donna. Si può
ricordare che secondo l’antica medicina
occidentale il sesso del nascituro dipendeva dal
maggior o minor calore del grembo materno al
momento della fecondazione: se il calore non era
sufficiente, il feto poteva crescere, ma gli
organi genitali non ce la facevano ad
estroflettersi, restavano all’interno del corpo,
rovesciati. Così nasceva una femmina, minus
habens rispetto al maschio. Si può anche
ricordare che l’ovulazione è stata scoperta
all’inizio del XX secolo: prima si riteneva che
lo sperma contenesse l’homunculus, e che
la donna fosse per il bambino come la terra per
il seme. L’infecondità di una coppia poteva così
venire sempre attribuita alla sterilità della
donna. Dobbiamo comprendere
come la scienza poggi sui miti culturali, e che
nessun pensiero umano è possibile se non
all’interno di un mito culturale. Il primato
dell’affect rispetto ai processi
cognitivi diventa sempre più evidente, anche per
chi ignora che la sua prima e decisiva
teorizzazione è di Freud. Questa comprensione
implica una sospensione del giudizio su vero e
falso, su reale e immaginario. Ma non significa
ignorare la differenza fra bene e male, perché
dubitare di quale sia la via giusta per muoversi
nel labirinto della vita non è una forma di
relativismo etico {spero che in inglese ci sia
un‘espressione corrispondente a questa, che in
Italia viene usata in senso dispregiativo}, come
se chi accetta l’interrogazione radicale del
nostro tempo fosse meno coraggioso di chi si
schiera dietro a una bandiera. L’axis mundi
fallico, perno della cultura patriarcale,
sostegno della mascolinità dominante, nel secolo
scorso è stato indagato non meno della materia
dalla fisica subquantica [subquantic], e la sua
natura, prima percepita come compatta, si è
rivelata piuttosto simile a una nebulosa.
Distogliere lo sguardo dalle prospettive aperte
nel secolo scorso in tutte le scienze implica
regredire, come accade, a forme di
fondamentalismo che spaventano per la loro
violenza irrazionale e antistorica. Parlare di
maschilità oggi significa prendere atto
dell’indebolimento dell’Io, del soggetto
maschile, colui che ha il diritto e il dovere di
delimitare la parola femminile. Significa
comprendere che la centralità del logos unico,
dell’axis fallico, è un bisogno culturale
irrinunciabile, e che mantenerne l’unicità
assoluta significa riaffermare l’antica maîtrise
sul diverso, considerandolo comunque minus
habens. Per Guruji i
musulmani vanno eliminati dall’India, per i
fondamentalisti islamici deve essere eliminata
dal mondo arabo l’influenza occidentale, mentre
America ed Europa cercano di imporre la loro
democrazia con le armi. Nihil novi sub sole,
visto che la storia racconta di imperi che si
alternano, e anche se durano per un millennio e
sembrano eterni, muoiono, come le lingue, come
ogni organismo vivente, lasciando che altre
lingue e altre forme di cultura si sviluppino. Quel che però appare
nuovo, è che un numero immenso di esseri umani
può osservare in tempo reale come si muovano
contemporaneamente, egualmente certi del loro
diritto e dovere di dominio, popoli di diverse
culture. Dobbiamo sperare che uno di loro
prevalga, in modo che l’axis mundi logocentrico
e fallocentrico sia restaurato? O possiamo
considerare la possibilità, un tempo riservata
ai mistici e ai saggi, di contemplare il great
game della vita? Se il nostro
controllo si rivela illusorio, se abbiamo sotto
gli occhi la rovina che provoca per affermare un
principio unico e superiore, perché dovremmo
essere obbligati a schierarci, affermando che la
nostra via nel labirinto della vita è più
diritta e migliore di tutte le altre? E come
possiamo credere che questo ci dia il diritto e
il dovere di imporla con la forza? Contemplando il
piede della amica che ha ucciso, Ganesh Gaitonde
si sveglia dal suo sogno del potere, che si è
trasformato in un incubo. La verità che enuncia
prima di spararsi è la stessa che possiamo
trovare nel Mahabharata, quando Dharma gli
chiede un esempio di vittoria, suo figlio
Yudhishtira risponde: la sconfitta. "Sartaj, mi hai chiamato yaar. Ti
dirò una cosa. Che uno la costruisca grande piccola, non c’è
casa che sia completamente sicura. Vincere
vuol dire perdere tutto, e il gioco vince
sempre." (Giochi
Sacri, cit.; pp. 62-63)[32] Il gioco sacro della
vita vince su ogni pretesa di controllarlo, di
possederne il senso una volta per tutte. Il corpo a corpo
fatale fra Gaitonde e Jojo, come quello fra
Carmen e don José, è il gioco sacro attraverso
il quale, non fermandosi ai limiti assegnati
dalla cultura patriarcale all’uomo e alla donna
nella cultura patriarcale, trovano la morte. In
termini patologici, è il fatale incontro fra
l’isterica e l’ossessivo. Ma la diagnosi non dà
conto del fascino che esercitano le innumerevoli
storie che lo mettono in scena, e l’incontro non
è necessariamente tragico: è appena il caso di
ricordare che sono state le pazienti isteriche a
far scoprire la psicoanalisi a Sigmund Freud,
che certo era un ossessivo. C’è in queste storie
qualcosa di così vivo che la morte stessa sembra
fermarsi ad ascoltare, affascinata dal ritmo del
racconto come il dio Yama, che in Red Earth
and Pouring Rain siede sul suo trono di
buio ad ascoltare i racconti della scimmia che
era un bramino. Quello che trovano,
l’uno nell’altra, l’uno per l’altra, l’uno
contro l’altra, Gaitonde e Jojo, è la loro
storia, che noi amiamo ascoltare, perché nel
momento in cui, identificandoci con loro,
trascendiamo i limiti della nostra esperienza
quotidiana, siamo restituiti al nostro tempo
comune, che comprende il loro, che li ricorda in
uno degli spazi piccoli e immensi dell’anima. Il patriarcato
espelle quello che non riesce a dominare, a
controllare, ma la ricchezza del caos non è meno
importante per la vita dei suoi processi
mirabilmente regolari. Quando la donna che
non si considera un’emanazione dell’uomo,
rivendicando una libertà senza limiti, incontra
l’uomo che non resiste al desiderio di amarla,
per diventare il suo eroe civilizzatore, il caos
vitale e terrificante che la cultura patriarcale
ha espulso torna da terre ignote, da isole dove
sbarcano solo i naviganti che hanno perso la
rotta.
Gaitonde ha compreso
il senso della vicinanza con Jojo nello stesso
momento in cui ha rinunciato a dominare la
realtà: si è aperto al grande gioco che fa
incontrare col proprio destino ciascuno di noi,
in maniera tanto più tragica quanto più ci si
illude di poterlo fuggire. del resto, anche la
spinta a fuggire il proprio destino è un
destino: Forse Jojo mi aspettava dall’altra
parte. Forse mi avrebbe offeso e ferito, ma
alla fine avrebbe capito. Io le avrei parlato
e lei avrebbe capito, come sempre. Era solo
questione di parlare, e di tempo. E io l’avrei
offesa perché mi aveva tradito, perché mi
aveva mentito. Ma alla fine l’avrei perdonata.
Ci saremmo perdonati a vicenda. (Trad. nostra)[33]
Una forza più grande
di lui, diceva don José, lo ha sempre spinto a
credere a Carmen pur sapendo che mentiva. Forse
questa stessa forza fa comprendere a Gaitonde
cosa lo legava a Jojo fino a ucciderla per
morire poco dopo di lei, come se il loro corpo a
corpo fatale si rivelasse un incontro la cui
posta è intravedere una comprensione nuova, la
capacità di stare insieme perdonandosi a
vicenda. Due sorelle, Jojo e
Mary Mascarenas, due protagonisti che si
incontrano, l’ispettore sikh e il grande
gangster. Una città minacciata di distruzione
totale, una difficile via di salvezza, una sola
coppia che alla fine si salva. Sono gli
ingredienti di tante storie, di tante fiabe, ma
il protagonista non somiglia a un eroe, anche se
ha sconfitto il nemico Guru-ji e ha combattuto
contro il vecchio re, il potente e corrotto capo
Parulkar. Alla fine del
romanzo, prima della pagina bianca: Sartaj scese dalla moto. Posò le
scarpe sul pedale una per una, e le spolverò
con un fazzoletto fino a farle splendere. Poi
si passò un dito attorno alla vita, lungo la
cintura. Si diede un colpetto alle guance, e
passò l’indice e il pollice sui baffi. Erano
splendidi, non aveva dubbi. Era pronto. Entrò
e diede inizio a un’altra giornata. (Ib., p. 1162)[34] [35]
Nessun eroe alla
fine della sua storia si lustra le scarpe e si
liscia i baffi. Poche pagine prima
leggiamo di un’altra cura niente affatto eroica,
come quella che una madre dedica al suo bambino,
o un padre, o un sano a un malato. Mary e Sartaj hanno
fatto l’amore, ora sono sul letto e lei tira
fuori una maschera rilassante: Mary voleva mettere del fango sulla
faccia di Sartaj. “Non è fango”, disse lei
indignata, ma era esattamente ciò che
sembrava, fango in un vasetto rosa. “Sì che lo è” disse Sartaj. “Sei
andata giù e l’hai presa sotto a una pianta”
(Trad. nostra) [36] ‘ La voce narrante
condivide lo sguardo di Sartaj, che ha avuto per
la prima volta Mary a casa sua, e il salvatore
di Bombay: ...aveva passato il pomeriggio a
mettere in ordine e a pulire togliendo la
polvere che si era accumulata durante il
viaggio ad Amritsar. (Trad. nostra)[37] Dopo avergli
spiegato quanto sia costoso quel trattamento nel
salone di bellezza in cui lavora, Mary
Mascarenas si mette
all’opera: “Arre,
non ti muovere, baba.” Tuffò le due dita nel
vasetto e spalmò la roba sulla fronte di
Sartaj. Stava dando una sensazione fresca,
fresca e liscia. “Tirati indietro i capelli.” Mary lavorava con calma e attenzione,
tenendo la lingua fra i denti. [...] Dopo aver finito, annuì soddisfatta,
e lui le prese il vasetto, ne tirò fuori un
po’ e la spalmò lungo la linea degli zigomi.
la roba era rossa e più morbida del fango
normale, molto omogenea e di grana finissima,
e si spalmava facilmente. (Trad. nostra) [38] Una cura reciproca,
paritaria, non umilia la virilità di lui, né fa
sentire lei meno pronta per accoglierlo. Molte
pagine prima l’ispettore sikh le aveva confidato
la sua incertezza su se stesso dicendole che il
suo lavoro dipendeva in gran parte dalla
fortuna: “Te ne stai seduto con le mani in
mano, e ti cade qualcosa in grembo. Allora fai
finta di aver sempre saputo cosa stavi
facendo. [...] Devi stare a sentire, ma a volte il
guaio è che non sai che cosa stai sentendo.
Come se ci fosse una canzone, ma non ne
conosci il motivo. Così devi vagare qua e là,
guardando e ascoltando. Ti puoi sentire come
uno scemo.” Ora lei fu molto diretta, e lo guardò
negli occhi. “Tu non sei uno scemo,” gli
disse. Era una dichiarazione, e Sartaj non
ebbe più esitazioni. (Trad. nostra)[39]
Se la gerarchia si
dissolve insieme al mito dell’axis fallico,
posseduto in esclusiva dall’uomo, non per questo
uomo e donna smettono di desiderarsi. Un mito, anche se
dura millenni, come un impero, può essere una
stagione della vita umana, una partita del suo
gioco sacro. I romanzi di Salman
Rushdie ricordati sopra, e in misura più
innovativa e ricca quelli di Vikram Chandra,
danno la possibilità di partecipare di uno
sguardo che arricchisce la comprensione della
cultura patriarcale occidentale, che sembra
pervadere tutte le culture del pianeta proprio
mentre mostra i segni del suo tramonto. Una diversa
percezione dell’Io e del Sé, difficile e
quotidiana per chi, come chi scrive, fa il
mestiere di psicoanalista, trova una profonda e
rigogliosa espressione letteraria in Sacred
Games. Un
autore indiano, che ha alle spalle una cultura
di incomparabile antichità e ricchezza, dopo il
suo [its] lungo corpo a corpo con la cultura
inglese, racconta in maniera nuova il nostro
tempo e il dramma del soggetto maschile. La
scelta della lingua inglese permette di
tradurre, nel senso della parola latina transducere,
trasportare [to traduce], una consapevolezza del
tempo e dello spazio che consente al soggetto di
rinarrarsi al di là della caduta dell’axis
fallico maschile. Un modo diverso di
sentire il tempo, di includere nella coscienza
la percezione della morte anziché di lottare
contro la morte: non è questo il senso che si
può cogliere nei sadhu che compongono un grande
mandala di sabbia colorata per poi distruggerlo? Sartaj li vede per
caso durante la sua indagine, mentre compongono
un mandala per la pace:
Era riposante guardare come cadeva la
sabbia dalle mani dei sadhu, la grazia e la
sicurezza dei loro movimenti. Dopo un po’, la
struttura generale del mandala apparve a
Sartaj in un vago contorno bianco. All‘interno
dell’ultimo cerchio stavano formandosi molte
zone indipendenti, ovali, ciascuna delle quali
conteneva scene o immagini, umane animali e
divine. Fra questi ovali, proprio nel centro
dell’intero cerchio, c’era una forma, e Sartaj
non poteva distinguere cosa fosse. Fuori da
questi ovali c’era la parete interna del
quadrato, e fuori dal quadrato c’era un’altra
ruota , e altre figure ancora, e poi un
contorno con i suoi disegni, tutti di una
complessità ipnotica e in qualche modo
piacevole. Sartaj fu contento di essercisi
perso. “Quando avranno finito, saab, lo
cancelleranno.” “Dopo tutto questo lavoro?’ Chiese
Sartaj. ‘Perché?’ Ganga alzò le spalle. ‘Forse è come
il rangoli delle nostre donne. Se è fatto di
sabbia, non può comunque durare.” Sartaj pensò che comunque era crudele
creare questo intero mondo vorticoso e poi
distruggerlo all’improvviso. Ma i sadhu
sembravano proprio felici. Uno di loro, più
vecchio, con i capelli grigi, colse lo sguardo
di Sartaj e gli sorrise (Trad. nostra)[40] |
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[1] We were so small, and this world was so vast. Without her voice in my hear, I was smaller still. I had to bring her in. (Vikram Chandra, Sacred Games, Faber and Faber, London 2006; p. 805; trad. nostra)
‘They laughed at you, gaandu.
They made jokes together, about what a
pathetic, weak little rat you are. You think
you are anything in front of a woman like
Zoya? She told us that she never got one good
night in bed out of you.’ (Ibidem)
[9] ‘The first night we
were together, she told me that. She said I
was amazing. She did. We did it all night.
That’s the truth.’
[11] But what I noticed
all new, all keen and fresh and as if for the
first time, was how complicated a thing a
woman foot is. It has little pads, and arches,
and a convoluted network of muscles and
nerves, it has bones, so many bones. It flexes
and moves and walks and endures. Its skin
takes on the colour of the year it passes
through, until the cracks in it form a net as
complicated as the life itself.
[14] Carmen: Quel che tu chiedi non
potrà mai accadere! Don José: Carmen, hai la tua vita
davanti a te, [15]
Carmen: È inutile che
tu dica “Ti adoro!" [18] Un bellissimo esempio
del potere del nome si trova nelle Mille e
una notte: quando un demone, un jinn,
rifiutava di convertirsi all’Islam, il re
Salomone lo condannava a entrare in un vaso di
rame, e lo sigillava imprimendovi il suo anello,
sul quale era impresso il nome segreto di Dio. Il demone
bloccato dall’incantesimo veniva quindi gettato
in fondo al mare, dove si trova ancora, se un
pescatore non l’ha tirato su per caso. [19] Carmen (cercando di
passare): - Lasciami, lasciami!
[30] K.D. Yadav now has
memory, but not sequence. He has the elements,
but not the distance between them. To him the
past is no longer separated from the present
by a distinct and confortable boundary,
everything is equally present, all things are
connected and are here. Why? What’s happened
to me? K.D. can’t remember. But he can
remember. (Ib., p. 298)
[32] ‘Sartaj, you called
me yaar. So I’ll tell you something. Build it
big or small, there is no house that is safe.
To win is to lose everything, and the game
always wins.’ (Ib., p. 42)
[37] ...had spent the
afternoon tidying up and cleaning away the
dust that had accumulated during his Amritsar
trip. (Ibidem)
[39] ‘You
sit around, and something drops into your
lap. Then you pretend that you knew what you
were doing all along.’
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Penultimo
aggiornamento 5 novembre 2018 Ultimo aggiornamento 9 ottobre 2022 |