TABISH KHAIR IL BUS SI È FERMATO ROMA: NOVA DELPHI 2010 |
TABISH KHAIR IL BUS SI È FERMATO TRADUZIONE DI ADALINDA GASPARINI |
TABISH KHAIR THE BUS STOPPED LONDON: PICADOR 2004 |
...Gli esseri umani
sono come pezzi di stoffa nella e pioggia del
tempo: porosi. Le culture filtrano in noi:
acquistiamo peso con la nostra storia e con le
storie di tutti gli altri. (Farhana, Il
bus si è fermato)
a Adian I miei ringraziamenti vanno a John Berger e Smriti Vohra per una frase rubata a ciascuno di loro, all'editore di Iron, London magazine, The Source (UK) e StoryQuarterly (USA) per aver accettato/pubblicato (leggermente riscritto) dei pezzi di questo libro, e a Sam Humphreys, Aamer Hussein, Ide Hejlskov Larsen, Annette Lindegaard, Pankaj Mishra, Rebecca Senior, Peter Straus e Smriti Vohra, che per primi hanno letto il manoscritto, per i consigli, l'incoraggiamento e il sostegno. CASE Più dei sahab dei bibi e dei babu, furono i servi a conoscere la posizione delle due case in cui sono cresciuto, la loro geografia incisa, le storie nell'ombra, le tante voci di mezzogiorno e di tende tirate, delle sere avvolte nel fumo. Perché più dei padroni sono furono i servi le levatrici alla nascita delle due case che hanno cullato la nostra vita. Tutte e due le case sono cresciute e sono appassite con loro. E poi, le due case sono anche state costruite dai loro padroni con la massima cura: costruite non solo con i materiali in commercio ma anche con i loro sogni, le speranze e le eccentricità. Elevati e sostenuti dal respiro di padroni, padrone, servi, i due edifici furono la casa della nostra infanzia e della prima giovinezza; perché, come si dice, gli edifici si costruiscono con i mattoni, le case si fanno col respiro. Cammino in una delle case – quella bianca – con passi attenti, felpati. La polvere della mia storia giace e pesa su questa casa. Non voglio turbare i visibili strati di questo tempo che si è accumulato. Questa è la casa che ho sempre conosciuto come Ammi ké yahan. Da Ammi. La casa di Ammi. Nonostante sia stato mio nonno, il marito di Ammi, a costruirla. Ma Ammi – la madre di mio padre e delle zie, ‘madre’ per tutti i suoi nipoti (con le nostre vere madri costrette ad adottare nomi più elastici – Amma, Mummy, etc.) – Ammi si era occupata della casa e l’aveva risistemata negli anni in cui noi crescevamo, anni durante i quali suo marito era costretto dall’Alzheimer su una sedia a rotelle, e poi, dopo sette anni passati in uno stato comatoso, era stato sepolto nella tomba di famiglia, con vero dolore e vero sollievo. Pattino sul mosaico del pavimento appena lucidato dell'altra casa, ho cinque o sei anni. Le scarpe della scuola nere e lustre scivolano e slittano, immagino di avere i pattini a rotelle. Per tanti anni mi sono avvicinato a questa casa con un grido. Una volta l’anno mi avvicino ancora a questa casa con qualcosa come un grido. Ma la casa non mi risponde più gridando. Come un vecchio pensionato, risponde con un sorriso e un grugnito. Questa casa è la casa dei miei genitori. Casa. Ghar. A volte sento che questa è la sola casa che abbia mai conosciuto, la sola che mai conoscerò. Non importa dove andrò, non importa quanti anni starò lontano, la casa sarà sempre questa. Si sono elevate entrambe nell'area acquistata da mio nonno, un'area lunga circa un chilometro e mezzo e larga mezzo chilometro. Di fronte, attraversando la stretta Barrack Lines Road, bordata da radi alti alberi di tek, si stendono brulli campi marroni e la fila degli edifici che compongono la caserma della polizia del posto. A sud e a est si stendono file interrotte di colline boscose a metà. Fra questa ce n'è una sola con una storia e un nome che si trattiene – Brahmjoni, il grembo di Brahma. A nord comincia la città. Una città che ha preso il nome da una santa asura. Non un demone, un'asura. Perché tutte e due le case confinano col cuore di uno spazio che non si lascia tradurre facilmente. Questo è uno spazio che ha una pelle di tante sfumature di colore, tanti dialetti e lingue parlate dai servi e dai membri della famiglia, è uno spazio di gente, ricordi e abitudini che non vedono perché dovrebbero chiamarsi con un altro nome. Come i jalebis non sono soltanto ‘dolci delizie’ e i roti e i paratha non sono mai solo ‘pane senza lievito’, così un'asura non può essere solo un demone. La casa di Ammi, quella bianca, la costruì mio nonno – dottore, educatore e archeologo dilettante, al suo nome sono attribuite alcune piccole scoperte. Fu costruita durante la seconda guerra mondiale, quando il cemento era strettamente razionato. Quindi non fu costruita col cemento ma con una malta di calce e terra che, come affermavano mio nonno e i vecchi capimastri che sorvegliavano i lavori, era la miscela che i Moghul avevano preferito per secoli, prima delle dure certezze del cemento e del calcestruzzo. La zona dalla quale avevano preso la terra diventò un largo stagno con le sponde erbose, dove mio nonno liberò le zeera – uno squisito pesce rehu. Si trova dietro al quartiere dei servi vicino alla casa bianca, la casa di Ammi. Nel resto dell'area fu realizzato un giardino paesaggistico, che univa con buon gusto elementi Moghul e Vittoriani, e comprendeva un frutteto sul confine a sud, un bosco spontaneo a nord, e un sentiero che girava intorno a tutta l'area. La casa bianca aveva un rapporto tutto particolare con i servi. Vivevano nei quartieri della servitù, una zona recintata costruita intorno a un’ampia corte e unita alla cucina e alla dispensa. Colazioni e cene venivano preparate nella cucina e su grandi vassoi di ottone coperti con tele fini venivano portate per almento duecento metri, fino alla sala. Era normale, ci avrebbe successivamente raccontato Ammi con un misto di orgoglio e rimpianto, era normale avere almeno dieci ospiti ogni volta che ci si sedeva a tavola. A colazione, a pranzo o a cena. Ospiti invitati, visitatori inattesi, parenti di passaggio, parenti poveri alla cui istruzione provvedeva mio nonno, viaggiatori che venivano dal paese avito. Gente che mangiava solo con la forchetta e il coltello, e gente alla quale non importava nemmeno di toccare le posate o di sapere come si tiene la forchetta, tutti insieme a mangiare come pareva bene a ciascuno di loro. Una casa come questa aveva proprio bisogno del suo bel numero di servitori. Ne uscivano dei servitori, – come il grande khansamah, Wazir Mian – che non si sarebbero mai adattati a nessun'altro genere di casa. Nemmeno alla casa che mio padre costruì alla fine degli anni sessanta. La casa di mio padre, la nostra ghar, era un edificio davvero enorme, costruito nella parte più a nord dell'area. Come suo padre, mio padre credeva nella continuità. Fu costruita perchè resistesse ai gravi terremoti che colpivano la regione più o meno ogni cinquant’anni. Si elevava, si eleva, con quella bellezza che solo gli sforzi silenziosi possono conferire. Fu costruita perché sconfiggesse il tempo e ospitasse la futura generazione. Aveva un grande tavolo da pranzo dove potevano sedersi dodici persone. Tutto questo avrebbe dovuto piacere a Wazir Mian. Ma le cose, ahimè, sono cambiate. Ghar aveva per la servitù solo un quartiere sul retro, di tre stanze. E anche queste venivano usate raramente, perché la maggior parte dei nuovi servi preferiva dormire nelle verande o in una delle stanze degli ospiti. Al suo tavolo da pranzo non si vedevano che uno o due ospiti alle ore dei pasti. Wazir Mian non era deluso dalla casa, ma dalla sua dotazione. Ghar richiedeva – e aveva – il suo genere di servitù. E quella del primo tipo poteva non andar sempre bene al secondo. Ma che mi dici proprio di loro, dei servi, forse mi chiedi. Non avevano le loro case? Alcuni sì e molti no. Alcuni passavano anni nella casa di Ammi o nella nostra casa risparmiando per costruirsi una casa e comprare (o ricomprare) un po' di terra in qualche lontano villaggio, al quale alla fine ritornavano. Altri non facevano nessuna delle due cose, e si spostavano a servizio da una casa all’altra. Ma era tanta la distanza tra le loro case e le nostre e così fugaci le occasioni, come un matrimonio, in cui noi entravamo nelle loro case che per me sarebbe impossibile raccontare le case dei nostri servi. Vedevamo le loro case al massimo una volta o due. Erano in posti dove il bus si fermava solo un minuto, se si fermava. VIAGGI 1 – Quando entra nello spiazzo non è ancora completamente giorno. Si incammina verso uno dei bus parcheggiati nella radura, una zona che fa pensare a un campo incolto più che al tentativo poco convinto di cominciare un'autorimessa, cammina lento e svogliato. Non c'è una sola ragione per lavorare un altro giorno, un’altra alba, anche se non è ancora giorno, non è nemmeno l'alba, e il grasso bastardo sta ancora russando sul soffice khaat. Ci sono delle gomme impilate davanti a una baracca di lamiera. Un piede di porco è mezzo affondato nel fango dove lo ha gettato un mese fa e dove resterà fino a quando non colpirà lo sguardo del grasso bastardo, gli darà una scossa apoplettica, servilo a dovere, quel pezzo di merda. Dei pezzi di macchina che non sono stati buttati sono sparsi qua e là: un parafanghi arrugginito, due o tre maniglie, un parabrezza rotto, piccoli pezzi di motore che lui potrebbe nominare a occhi chiusi. Le gomme si sono scavate profondi avvallamenti nella terra, ma un po’ più in là, lungo la recinzione di filo spinato, c'è una striscia di terra irrigata e arata, dove Sunita, la moglie del bastardo, sua seconda cugina (da parte di madre), un tempo attraente, pianta agli e cipolle, cavoli e patate, secondo la stagione. Ci sono gocce di rugiada sui finestrini del bus. Di tanto in tanto una goccia trema, esita e comincia a scendere. Di sua propria volontà o incoraggiata dalla brezza appena un po' fredda, rotola, fino a sembrare un rivolo sottile che corre giù, giù, giù, fino a sgocciolare sulla terra sporca. Lui è un uomo che osserva cose come queste, è un uomo che osserva solo cose come queste, gli sembra che se avesse osservato altre cose sarebbe stato un altro uomo e non un autista di bus che fa sempre lo stesso tragitto su un bus del marito della sua cugina di secondo grado. Vede la vita in piccole immagini ferme, quasi raggelate, e non sa assolutamente quale immagine – fondamentale o insignificante – gli inciderà nella memoria un momento particolare, un giorno o un viaggio. C'è chi colleziona francobolli, bottiglie o monete; lui colleziona immagini, si deve collezionare qualcosa così privo di valore come le immagini, no? che non hanno valore di mercato, e lui deve collezionarle, nient'altro che queste, immagini! immagini! una per ogni viaggio della sua vita, ora ne ha migliaia, tutte accuratamente memorizzate, solo quelle immagini isolate, un colore, una scena, un volto, un atto, messe in corsivo sulle pagine della memoria. Non che lui scelga le immagini consciamente, è semplicemente il modo in cui la sua mente ordina i giorni della sua vita, scuciti e ancora slegati. Sblocca e apre la portiera anteriore del bus e un odore disgustoso, il testimone del giorno passato, vola via nella brezza mattutina. L’uomo si issa sul sedile dell’autista, che s’illumina immediatamente di una luce gialla. I posti dei passeggeri alle sue spalle sono ancora bui, separati dalla sua cabina da barre che per imitare il colore esterno del bus sono state dipinte di giallo, con una più fine linea marrone e poi, all’estremità di ogni barra, un piccolo tocco di rosso fiammante – così sembrano proprio delle matite. Come la matita di uno scrittore. Guarda caso, pensa, guarda caso come tutte le cose congiurano per rammentargli i suoi fallimenti, perché una volta, prima di lasciare il college, aveva sperato di scrivere romanzi, ne aveva anche cominciato uno, aveva scritto cinquantasette pagine in Hindi, quanto tempo fa, tanto tempo fa, e ora gli tocca di essere iscritto fra queste matite che, come la matita di uno scrittore, gli danno un potere – ogni viaggio un racconto che si compone nell'incrocio di altre storie che si salgono sul suo bus e poi se ne vanno indifferenti – proprio perché lo separano da tutto quello che accade alle sue spalle. Sul cruscotto c’è questa scritta in Hindi, scarabocchiata a caratteri irregolari con qualcosa di simile a un rossetto scarlatto, con un rossetto scarlatto, lui lo sa, perché ha ancora quel mozzicone di rossetto dimenticato da una puttana con un enorme anello di metallo al naso, sul cruscotto c’è scarabocchiato: ‘Questo posto è dell’Autista Mangal Singh’. Mangal Singh siede in silenzio per pochi istanti, a guardare i quadranti e gli aghi sul suo cruscotto. Prenderanno vita con il giro della chiavetta di accensione, aghi oscillanti, quadranti che si illuminano fiochi. Sfiora con le dita il fischietto di metallo che porta al collo. Guarda la casa più vicina al bus, la casa a tre piani del padrone del bus, il grasso bastardo, è là che dorme e russa col braccio intorno a Sunita attraente una volta ed era piacevole stare con lei, la casa sta quieta nella luce flebile, addormentata, col respiro lieve, le finestre chiuse come palpebre. Un istante prima di girare la chiavetta di accensione, cercando a più riprese di convincere il vecchio motore a partire, si porta il fischietto alla bocca e soffia brevemente, con forza. Un suono che attraversa l’alba, i campi e le case come il volo di un uccello. 2 – Ricordo ancora i monelli di strada dell’altro giorno, con le braccia dritte e tese, gli indici puntati, le bocche a far cornice alla parola che mi arrivava come il suono di un gong, anche se erano oltre la distanza massima per sentirli: hijra, hijra, hijra. C'è stato un tempo in cui avrei potuto essere custode delle chiavi dell’harem, generale, consigliere, guardia del più santo dei santi santuari – il ... no, non lo nominerò, perché qualche mullah potrebbe offendersi. In quei giorni gli eunuchi avevano una certa posizione sociale, un ruolo da svolgere. In effetti, questo in gran parte accadeva perché il profeta, sia benedetto il suo nome, ci considerò come esseri umani – il terzo sesso – e non predicò contro di noi, anche se cercò di scoraggiare la castrazione perfino come punizione. Quando l’Islam arrivò in India, la nostra posizione salì da quella di curiosità intoccabili a quella di membri attivi e legittimi della società. Prima: non potevamo entrare in un tempio, non potevamo esercitare nessuna professione, a parte quella di danzatori rituali. Dopo: diventammo consiglieri di nobili giovani, artisti, custodi delle chiavi dell’harem, spie, soldati, costruttori di città, uno di noi divenne perfino un famoso generale. Ecco perché, nella casa della mia ustad, abbiamo sempre assunto nomi musulmani. Anche quando professavamo una fede diversa – perché la religione per noi non è un problema come per gli uomini e le donne – anche in questo caso abbiamo assunto nomi musulmani. Questo è tutto, ci dissero, le varie generazioni di ustad nella nostra casa hanno sempre richiesto i loro chela. Era il nostro modo di ringraziare la religione che, per un breve periodo, ci aveva dato la possibilità di essere noi stessi. Tutto questo, come sai, era tanto tempo fa. Le cose sono cambiate, la moralità della classe media, o la religiosità della casta superiore – chiamala come ti pare – si è rivoltata contro di noi. Forse l’arrivo dei britannici, con le loro teorie in bianco e nero, i loro valori europei e la morale vittoriana: l’arrivo degli britannici ha dato avvio al nostro declino. Forse sei sorpreso sentendo che io, 'solo' un eunuco, parli con un linguaggio così preciso, fornendo argomentazioni razionali. Dopo tutto, probabilmente tu ci associ a quelle donne mezze svestite, troppo truccate, le donne che mentre cammini ti si parano davanti agli angoli delle strade chiedendo danaro o che piombano nelle cerimonie nuziali cantando canzoni ad alta voce e se ne vanno solo se le pagano. È quello che ora siamo: è quello che ci è successo. Ma non è quello che eravamo, o quello che avremmo potuto essere. Ci educavano perché diventassimo danzatori, artisti, musicisti, soldati, anche studiosi. Noi servivamo, ma raramente eravamo servi. In certe gharana – la mia ustad ne governava una – alcune vestigia di amor proprio e di cultura erano sopravvissute fino a questo secolo. Ma è diventato sempre più difficile preservare questi sentimenti e queste attitudini in una società che ci sbatte sempre di più la porta in faccia. Ancora una volta non facciamo parte della società. Siamo tornati ad essere delle curiosità, socialmente degli intoccabili, elementi marginali, più poveri dei servi, qualcosa di intermedio fra una puttana e un fenomeno da baraccone. Questo tempo ha cercato di separare i nostri nomi femminili dai nostri cognomi maschili, perché è un tempo di cocci rotti e bordi taglienti. Eravamo tornati ad essere quel che gli altri credevano che fossimo e non quel che noi volevamo essere. E allora, le vecchie gharana sono marcite e sparite. Alcune si sono trasformate in isole fuori dal mondo, altre sono diventate covi di prostituzione e piccola estorsione. La gharana della mia ustad è semplicemente andata in pezzi dopo la sua morte e dopo la morte, di poco successiva, del solo uomo della famiglia, il suo amante, il suonatore di tabla che era anche il nostro maestro di musica. Qualcuno di noi ha cercato di governare la gharana per un paio d’anni, ma i nostri valori e la nostra formazione erano sbagliati. Noi cercavamo amanti, non clienti. Noi volevamo ricevere doni, non mance e pagamenti. Zohra Sheikh, la più anziana fra noi, se ne andò alla deriva, dio sa dove. Una notte il suo baule di legno era ancora sotto il suo charpoy e la mattina dopo non c'erano più né lei né il baule. Razia, la seconda per autorità, si trasferì in un'altra gharana poche settimane dopo la partenza di Zohra. Questa gharana era più in sintonia con i tempi e a Razia avevano sempre dato fastidio alcune delle nostre più antiche abitudini, spesso rimproverava all'Ustad di non essere in sintonia con i nuovi tempi. Così restavamo solo io e Chaand Baghi. Eravamo cresciute insieme nella gharana e partire per noi non era facile. Ma in qualche mese parve evidente che non potevamo sopravvivere in quelle condizioni. Dopo la partenza di Zohra e Razia, anche la maggior parte dei signori rimasti smise di venire. Non che fossimo poco attraenti. Eravamo più giovani e più femminili di Zohra e Razia. Ma la gente si era fatta l'idea che la gharana si fosse dissolta. Smisero di venire. E poi, la maggior parte di questi clienti erano vecchi e si sentivano più a loro agio con le nostre sorelle maggiori. E allora, un giorno che Chaand si girò verso di me e disse, Farhana, penso di andare da mia zia a Bumbai, dicono che là ci sono delle opportunità – mi limitai a rispondere, Sia quel che Dio vuole, Chaand. Lei mi sfiorò delicatamente la guancia, le dita colorate d’hennè seguivano una traccia e l'abbandonavano, ma sapevamo entrambe che toccare non bastava più. 3 – Quando Mangal Singh guida il bus, con le fiancate gialle che ora luccicano sotto un debole sole, e salta giù alla fermata dietro alla chiesa sconsacrata, sono aperte solo due delle cinque bancarelle per il tè e la colazione. Ma il primo bus Gaya–Patna, un video express, sta già accendendo il motore, il bigliettaio grida le tariffe, i passeggeri si affrettano a salire o sono incollati ai finestrini chiusi e sorbiscono tè in tazze e bicchieri di terracotta. Il tragitto Patna–Gaya ha bus migliori e più numerosi del tragitto Gaya–Phansa, dove fa servizio Mangal Singh. Dopo tutto, Patna è la capitale dello stato. Non ci sono video express sul tragitto Gaya–Phansa, a parte qualche bus come il bus non–stop turistico che parte di fronte al Chanakya Hotel di Patna due volte al giorno. Le due bancarelle hanno acceso i loro forni di terra e mattoni solo mezz’ora fa e il fumo riempie ancora lo stand come una specie di nebbiolina. Degli uomini avvolti in chaddar neri sono seduti sulle basse panche fuori dalle bancarelle; a volte gli sembra che ci siano sempre uomini, forse gli stessi uomini, chissà, a sedere sulle panche dalle gambe corte. Mangiano in piatti di pattal o sbreccati e sorbiscono tè da bicchieri bassi e spessi. Su una delle panche libere ravvisa il nuovo ragazzo delle pulizie dell’azienda, Rameshwar: è disteso sul nudo legno, in equilibrio precario, completamente avvolto in un kambal a toppe di colori e disegni indistinti. Può dire che è Rameshwar perché è qui che il ragazzo dorme tutte le notti. Con l'indice dà un colpetto al ragazzo e gli dice di andare a pulire il bus. Svegliati, figlio di un somaro, e strofina quel cesso di un bus col tuo culo, questo gli sta dicendo. Il fagotto comincia a stiracchiarsi, borbottando e imprecando. Vieni a fare colazione, aggiunge più gentilmente. Anche lui entra in una bancarella e ordina sabzi–puri. Un corvo arriva in picchiata davanti al chiosco. 4 – Barbuto, massiccio, intransigente, Wazir Mian aveva reso la vita impossibile alla lunga serie di assistenti–chokra che gli erano semplicemente toccati, come alla più lunga serie di cuochi che lo seguivano punto per punto e che era diventata inevitabilmente corta. C'erano cose che dovevi sapere di Wazir Mian. Era stato il capo cuoco del Rajah di Mánpur, o di una qualche nobiltà coloniale di quella specie, prima che, alla fine degli anni quaranta, prendesse sulle sue spalle la cucina di mio nonno. Chiedergli di cucinare un semplice pasto per la famiglia equivaleva a insultarlo. Le sue ricette, disse una volta mia madre, si potevano fare solo con le dosi per una dozzina di persone. Mia madre e le mie zie, abili cuoche loro stesse, passavano la maggior parte delle vacanze estive cercando invano di identificare quella particolare nocciolina che arricchiva con un aroma così delicato la faluda di Wazir Mian e quella particolare spezia che rendeva il murgh mussalam di Wazir Mian inimitabile. Wazir Mian custodiva i suoi segreti culinari con lo stesso orgoglio con cui custodiva la sua reputazione. Dopo ogni elaborata cena per gli ospiti, dovevi far venire Wazir Mian e complimentarti con lui per il cibo. Se ti dimenticavi di farglieli, lo considerava come una critica al cibo e ti interrogava senza pietà. Cosa c’era che non andava, babu? Forse la korma era un po’ troppo salata? Pensi che il kabab fosse poco cotto, e che mancasse un'altra goccia di succo di papaya? Se alla fine gli rispondevi che tutte le pietanze erano ottime, e che ti eri semplicemente dimenticato di chiamarlo alla fine del pranzo, Wazir Mian poteva tenere il muso per settimane. Una volta mi disse, come riferendosi a un semplice dato di fatto, che non si sarebbe mai degnato di cucinare per una famiglia che dimenticasse una così elementare regola di buona educazione due volte l’anno. Per molto tempo, fino a quando diventai più grande e imparai a distinguerli, sarei stato indotto ad associare il mio primo ricordo di Wasir Mian e la prima immagine che avevo visto del Monte Everest, un dipinto o una foto. Si chiamavano a vicenda. L’immagine o la presenza di uno dei due faceva emergere il vago ricordo dell’altra. Era un’associazione che aveva un livello di senso: Wazir Mian era una montagna. Ma nell'associazione, a un altro livello, c’era una discrepanza. La figura del Monte Everest che ricordavo era una specie di dipinto o una fotografia ritoccata che rappresentava una cima coperta di neve. Sul capo di Wazir Mian non c’era nulla che somigliasse a un cappuccio di neve: nemmeno quando era vecchio i suoi capelli erano molto imbiancati. Cresciuto e disorientato, ne feci cenno a una delle mie zie, e lei mi ricordò qualcosa che avevo dimenticato. Evidentemente, i primi tempi, Wazir Mian non solo insisteva per essere chiamato a ricevere i complimenti dopo una cena elaborata, ma voleva entrare indossando una vera e propria uniforme da cuoco. Dopo tutto, lui era stato il capo chef del Rajah di Mánpur. Per Wazir Mian, questo voleva dire un ampio pathan col grembiule bianco e quella specie di alto cappello da chef – a pieghe immacolate, bianche come la neve – che ormai indossano solo i cuochi degli hotel a cinque stelle. Evidentemente, la montuosa presenza di Wazir Mian era stata un tempo incappucciata di neve, ma il tempo e i cambiamenti gliela avevano sciolta in capelli neri e brizzolati. La morale della storia era semplice: anche Wazir Mian era umano. 5 – Mangal Singh sa che Shankar, il bigliettaio, è infuriato con lui. Lo sa da come ha picchiato a mano aperta sul bus gridando le tariffe, juntalman–Shankar con le borse sotto gli occhi a forza di fissare i borsellini pregni del maalik, nell'attesa che ne coli giù una goccia. I borsellini del maalik da diciassette anni a questa parte si sono gonfiati sempre di più, ma non partoriscono esborsi consistenti, non partoriscono nulla, e questo probabilmente vale per il mondo intero, che ha già la sua brava quota di bastardi e di mostri. Dà un occhiata a Shankar che stringe la bocca. Hanno già accumulato un ritardo di quaranta minuti, e la colpa del ritardo Shankar la dà a lui. Aveva incontrato una coppia di amici, e siccome si era lasciato prendere dal gup–shup, aveva allungato il tempo della colazione oltre il dovuto. Non che gliene importi. Ora sono comunque sulla loro strada. Guida il bus nel traffico che si addensa come una cagliata sullo stretto ponte Phalgu. Dai parapetti rugginosi del ponte si può vedere giù la sabbia e i rivoli d'acqua scura. Si deve stare attenti a guidare. Si dice che una volta il Phalgu era un fiume che scorreva spumeggiando, cantava andando per la sua strada come una vergine che va in giro per le vallate, senza pensare ai lupi e ai bruti. Ma commise il peccato di ostacolare il cammino di Sita che era incinta, O Signore, O Signore. Oppure era lei, Sita, col bambino in seno, che voleva attraversarlo (non se ne ricorda bene) e il Phalgu aveva rifiutato di ritrarsi per cederle il passo come gli era stato ordinato, non aveva mostrato rispetto per i suoi superiori, merdoso fiume vergine comunista. Sita lo maledisse. Che tu diventi secco, disse. E bhadrdraam! Ora si deve aspettare il monsone, o scavare nella sabbia del Phalgu almeno un metro per vedere l’acqua. La maggior parte dei rivoli laggiù sono stati scavati dai dhobis e dalle loro dhobins che, lo sa per esperienza, hanno i fianchi più lascivi che si possano immaginare, probabilmente dipende da tutto quel portare fasci di vestiti, e solo a pensarci ha un’erezione. I vestiti lavati sono stesi sulla sabbia, bianchi, rossi, a quadri, a righe sul giallo spento del fiume maledetto. Da tutte e due le parti del ponte, il Phalgu stende le sue ali a puntini, a scacchi, a strisce gialle: una farfalla appartenente a qualche specie estinta, che si alza e si abbassa. 6 – Potevo sentire l’odore di Zeenat dall’angolo del corridoio. Ma allora avevo sedici anni e una straordinaria sensibilità all’odore delle donne. Le donne hanno odori diversi. Lo avevo sempre saputo. L’odore del sari inamidato della nonna, la fragranza dell'acqua di colonia delle zie, il profumo di talco e attar dei parenti poveri, l’odore di sapone e sudore delle vecchie ayah: sono cresciuto con questi odori. Durante l’adolescenza a questi odori non non facevo più caso come prima. Oppure, se ci facevo caso, era con quella specie di attenzione familiare che prestavo agli alberi di mango là fuori o alla luna della sera che fluttuava come se fosse una fetta di cocomero in un cielo di limonata. Ma ultimamente avevo preso coscienza di un altro genere di odore – quello delle serve che erano più vecchie di me ma non vecchie. E insieme alla coscienza del loro odore ero andato realizzando qualcosa di diverso dall’odore. I loro odori potevano portarmi fuori di me, far partire di corsa la mia immaginazione verso qualcosa d’altro, farmi struggere per il desiderio, di che? cambiamento? avventura? la presa di braccia ferme, callose, gentili? sesso? Sesso era una parola troppo piccola per questo. E non ero abbastanza ipocrita per chiamarlo Amore. Perché mentre il loro odore attraversava le alte mura invisibili che separano la gente come me dalla gente come loro, entravano per conto loro nel mio mondo, potevano entrare nel mio mondo solo grazie a un invisibile permesso soggiorno. Erano come gli immigranti turchi nella mia Germania degli anni ottanta: avevano una pelle diversa (anche se a volte il colore era lo stesso), parlavano un’altra lingua, venivano da un altro luogo, non avrebbero mai ottenuto una piena cittadinanza nello stile di vita che a me spettava per diritto di nascita. In qualche modo, quel che entrava nel mio mondo era la loro astratta forza lavoro – e l’odore che veniva insieme a questa era profondamente sovversivo perché mostrava l’esistenza di qualcosa d’altro. Entravano di contrabbando nei loro corpi. Ed era l’odore di Zeenat che sentivo con la massima intensità. Per ore non riuscivo a levarmelo dalla testa, mi portava da lei senza sosta, con una specie di ritmo, irresistibile come il secchio che tirava su dal pozzo quando erano a corto dell'acqua dell’acquedotto. Come posso descrivere quell’odore? Come puoi descrivere l’odore di una donna nella pienezza dei suoi vent’anni appena compiuti, di corporatura media e flessuosa, soda e ben fatta, una madre con un bambino col moccio al naso e sempre trascurato, una serva che in qualche modo cercava di avere un aspetto curato, che lucidava ancora con l’olio i lunghi capelli neri, seduta fuori al sole, con le gambe ben tornite che uscivano da un sari sbiadito, nude fino al ginocchio, che a volte si metteva fra i capelli fiori di gelsomino, che ti rivolgeva uno sguardo aperto, di sfida, con una blusa che strappava i tuoi occhi adolescenti dagli altri oggetti, facendoti riscoprire ogni volta la sua pienezza, e le sue ascelle umide di sudore? 7 – L’acqua verde del Kund al di là del Karbala–Kund che descrive un'ansa. Due pellegrini, a torso nudo, ora vi immergono le teste rasate. Due delle passeggere più vecchie si sporgono e gettano al Kund 25 paisa, pazze, perché non le danno a lui se gli pesano troppo, schifose vecchie troie. Le monete non fanno tanta strada. Si fermano sul margine della strada e nello specchietto retrovisore può vedere un gruppo di bambini che si accapigliano per prenderle nella polvere. Diventano sempre più piccoli, un insieme confuso di braccia e gambe marroni, un'agitazione che resta indietro. Uno stormo di colombe si leva in volo lentamente dalla strada per far passare il suo bus. Le vede tornare a posarsi nello stesso punto, zampettando sulla strada, cancellando il suo passaggio. Per un istante, gli viene in mente l’immagine di Sunita: Sunita da giovane, quando aveva occhi che sorridevano a lui e labbra che sorridevano al mondo. Tutto quello stormo di felicità era volato via dal suo viso e dai suoi occhi dopo il matrimonio – o forse era stato prima del matrimonio, quando lo aveva deciso, perché poteva dire di no – uno stormo tanto grande che non era tornato mai più. Mai più. 8 – Questa è una città che conosce gli appartamenti, anche se non ci si è abituata. Non è Delhi o Bombay, con quei condomini composti di appartamenti su tanti piani, isolate scatole di privacy con le pareti di cartone. Questa non è una città che ha scelto cosa rivelare e cosa occultare, cosa rinchiudere e cosa esibire. Ma non è nemmeno Gaya o Phansa. Conosce i piani e gli appartamenti e i muri fra loro, conosce i rituali urbani della privacy. Questa è Patna: una città che non è proprio una città, un paese che è più di un paese. Qui ci sono muri fra piani e appartamenti, muri dai quali non sempre è possibile sbirciare, muri sui quali non puoi stare appollaiato e salutare un tuo cugino di terzo grado. Ma qua i muri sono ancora sottili. Si allungano come le membrane delle tue orecchie, fragili, più sentite che viste. E, molto spesso, restano nascosti nei profondi recessi del tuo essere. Qui i muri sono membrane attraverso le quali una segretezza impenetrabile impregna tanto quello che può essere solo sentito, non visto. È questo che a volte ti fa credere di aver sentito tutto quello che c’era da sentire. È per questo che sei seduto nel tuo appartamento al terzo piano del condominio Kanchenjunga con la TV accesa e e con l’audio spento. Un piccolo simbolo in un angolo del tuo schermo Philips testimonia questo guardare che non è sentire: l'immagine di una specie di tromba barrata. D’altra parte, quello che tu senti non ha bisogno di essere visto. Non hai bisogno di vedere l’uomo che sale le scale. I suoi passi pesanti, gli intervalli regolari, le pause brevi, come un sospiro, ogni quattro o cinque scalini. Tu sai che questi passi continueranno fino all’appartamento che è proprio sopra al tuo, sono i passi di Mr Sharma. Nessuno nel palazzo sa come si chiama di nome. È Mr Sharma, impiegato di basso livello in qualche ufficio governativo della città. Nessuno sa bene quale ufficio, non è uno di quegli uffici che conviene conoscere. Non è l’ufficio della Compagnia Elettrica o il PWD. Questo spiega perché nessuno conosce il nome di Mr Sharma. Questo spiega perché Mr Sharma porti un cappotto logoro e perché sia seriamente preoccupato per il matrimonio delle sue tre figlie. Senti il suo passo pesante che passa davanti alla tua porta. Fa una pausa e fa cadere qualcosa di frusciante, lo raccoglie e ricomincia a salire. Sai che porta una borsa di frutta e verdura avvizzita, comprata lungo la strada dopo una lunga trattativa, comprata di proposito alla fine della giornata, quando il venditore è disposto a venderla per poco. Sopra, c’è un fruscio di piedi nell’appartamento di Mr Sharma, un lieve suono metallico. Mrs Sharma ha cominciato ad affaccendarsi nella piccola cucina annerita dalla fuliggine con l’unica finestra con le sbarre e la zanzariera. C’è il suono della voce di una ragazza che ripete alcuni versi in inglese. È la figlia minore degli Sharma, quella che prepara la prima delle tre immersioni di rito nel fiume sacro degli esami del Civil Service. La figlia maggiore ha completato le sue tre immersioni, ha superato per due volte le prove preliminari, ma non è andata oltre, e si è chiusa in un silenzio scontroso che sarà presto rotto, se si deve credere a Mrs Sharma, dalla musica gaudiosa del suo matrimonio con un giovane del ‘gavernmint serbice’. La seconda figlia tra poco lo darà per la terza volta, ma non ha più l'energia per ripetere la lezione a voce alta. Le prime due volte non ha superato nemmeno i preliminari. Il suo studio silenzioso è marcato da strilli lamentosi, più o meno una volta l'ora, che chiedono alla madre di intervenire e far tacere la sorella più piccola. Lei mi dà noia, si lamenta la sorella mediana. La madre risponde: Allora va’ nell’altra stanza. Non è che ci sono poi tutte queste stanze in cui andare nel loro appartamento. Non è un appartamento di lusso come quello in cui ora sei seduto o come quello di Mrs Prasad. Tutti i suoni per un momento cesseranno quando Mr Sharma suonerà il campanello al piano. Poi la cadenza riprenderà, ma in una tonalità minore. Solo Mrs Sharma avrà una parte maggiore nei suoni: lo sfrigolio e i suoni metallici della cucina aumenteranno e le due figlie più grandi si uniranno alla madre per cucinare il pasto serale. La figlia più piccola resterà in camera a recitare la sua lezione, ora sottovoce, circondata da manuali in edizione economica e fascicoli con le soluzioni dei test sparsi dappertutto. Conosci la cadenza delle loro vite, compreso il rito trimestrale degli attacchi di angina di Mr Sharma. Sono caratterizzati da un silenzio seguito dalla confusione di piedi in ciabatte che corrono giù per le scale. Una delle figlie, di solito la più grande, bussa alla tua porta o suona il campanello dell’appartamento di Mrs Prasad, accanto al tuo. Papà ha avuto un attacco, ansima, possiamo usare il telefono kar saktey hain, per favore? Il dottore viene chiamato. Passa un’ora, colmata dai singolari lamenti di Mr Sharma e da un assoluto silenzio nel loro appartamento. A volte, quando fuori c'è caldo e silenzio, riesci a sentire il delicato flap–flap di Mrs Sharma o di una delle figlie che sventolano il malato con un ventaglio di foglia di palma. Senti i passi di un nuovo paio di piedi che salgono le scale, incisivi, giovani, ben calzati, e in qualche modo la figlia maggiore anticipa l’arrivo del dottore e lo va a ricevere due piani più giù. Viene fatto entrare e riesce in un quarto d'ora, dopo un mormorio di voci maschili con qualche interiezione preoccupata di Mrs Sharma. Questa volta è Mrs Sharma a scortarlo durante l’atterraggio, profondendosi in ringraziamenti, insistendo perché una delle figlie gli porti la valigetta da dottore fino alla Fiat giù di sotto. La gratitudine di Mrs Sharma è sincera e cieca di fronte al fatto che ha appena pagato al dottore un sostanzioso onorario. Il dottore si allontana con parole e osservazioni rassicuranti come ‘niente di serio, solo un giorno o due di riposo’ e ‘attacco di gastrite’. Chottu, il servitore di Mrs Prasad che ha tredici o quattordici anni, sale a informarsi. Porta le notizie giù al tuo piano, da dove di solito vengono fatte passare più giù. Un analogo servizio di trasmissione porta le notizie su verso gli appartamenti più alti, al sesto piano. Chottu comunque non è il più veloce dei corrieri; sfrutta questa opportunità per indugiare a diversi pianerottoli, a spettegolare con servi, donne e bambini. 9 – La Jeep suona il clacson da un paio di minuti, come se la strada fosse proprietà del padre del guidatore. Guarda nello specchietto posteriore, incerto se farla sorpassare o tenerla ancora bloccata per qualche minuto, solo perché, che cazzo, lui guida un mezzo più grosso, ficcatelo in testa, bastardo. Quello che vede gli fa cambiare idea all'istante. Sul muso tozzo un po’ da lupo della jeep c’è scritto: Governo
del Bihar
DCM TOYOTA Dirige il bus da un lato e la jeep balza in avanti, col clacson che continua a suonare, e uomini baffuti in uniforme che guardano di lato e all'indietro. Rottinculo. 10 – Secondo le categorie del povero Bihar rurale, Wazir Mian negli anni di servizio aveva accumulato una piccola fortuna e, quando avevo otto anni, decise di ritirarsi e andare a stare con la sua famiglia a coltivare la terra che aveva comprato al paese. Sua moglie, che aveva preferito restare nella loro casa al paese, era morta pochi anni prima, e i suoi tre figli ormai erano sposati ed economicamente autonomi. Non vedeva l'ora di riunirsi alla sua grande famiglia ed era ovviamente ansioso di assumere la sua parte di saggio patriarca in pensione. Come ho detto, le cose da allora erano cambiate anche nella nostra area: mio nonno era morto e mio padre aveva costruito una casa sua, ghar, in un angolo della stessa area, il resto della quale era stata venduta per distribuire equamente il ricavato – e senza liti – fra gli eredi del nonno; la neve di Wazir Mian si era sciolta da tanto tempo, e non si trovavano più le orde degli ospiti che sedevano abitualmente alla tavola del nonno, si erano ridotte quantitativamente mentre era qualitativamente calato il cibo che veniva loro servito. Per tre anni non si seppe più nulla di Wazir Mian. Poi arrivò in casa nostra una mattina d'inverno. C'era la rugiada sull'erba e un lieve velo di foschia nell'aria. I mynah stavano battibeccando nell’orto. Eravamo seduti in veranda, a bere il tè. Wazir Mian sollevò il chiavistello del cancello di ferro ed entrò, ignorando gli acuti latrati del nostro terrier tibetano, Tory. Tory, il cui nome era una corruzione di Thari (che a quanto pare in tibetano significa 'nero'), prendeva molto sul serio il suo ruolo di guardiano della famiglia e di miglior amico dell'uomo. Ma Wazir Mian non era il tipo che si fa spaventare dai guaiti di un cagnolino; aveva lavorato nell'area quando vi si crescevano enormi pastori tedeschi con bocconi di carne bollita e ossi. Ignorando Tory, ci lanciò un salaam venendo avanti fino a dove eravamo seduti sulle sedie di vimini. Era più vecchio, un po' ingrigito, leggermente incurvato, un pò meno solido. Si sedette in cima alla scala. Mio padre guardò il mio fratello maggiore e me, e noi sapevamo cosa si doveva fare. Oltre ad essere un anziano, Wazir Mian era un uomo che aveva lavorato per mio nonno. Non si poteva lasciarlo seduto sul pavimento. Però Wazir Mian era anche un servitore all'antica, un uomo che credeva anche nelle più piccole differenze, e non avrebbe accettato di sedersi su una delle nostre sedie. Corsi dentro e gli presi uno sgabello perché potesse sedersi. Mio padre gli offrì lo sgabello. Wazir Mian lo rifiutò cerimoniosamente. Era la volta di mia madre, che ripetè l'offerta, e Wazir Mian accettò lo sgabello esibendo un sollievo fisico esagerato. Allora la conversazione ebbe inizio. Papà: Allora, come state, Wazir Mian? Wazir Mian: Dio sia lodato. Mamma: E la vostra famiglia? come stanno? Wazir Mian: Dio sia lodato. Alcuni secondi di silenzio, per bere il tè. Nessuno ha offerto il tè a Wazir Mian, sapendo che in nostra presenza non avrebbe bevuto né mangiato. Offrirgli il tè così sarebbe stato come non offrirglielo affatto; gli si doveva offrire il tè in un modo e in una situazione adeguate a lui. Wazir Mian: Da quando li ho visti l'ultima volta i babu sono diventati giovani uomini. Papà: Sì, uno di loro finirà presto la scuola superiore. Wazir Mian: Dio sia lodato. Mamma: E i vostri figli, Wazir Mian? Il più grande ha avuto un altro bambino due anni fa? Wazir Mian: Dio sia lodato. Mia madre aveva i suoi contatti nel mobile esercito di servi, ex–servi e loro parenti che venivano a trovarci per ricevere il dono annuale – prevalentemente in denaro – nei giorni di festa che erano i più importanti per loro: Eid, Bakhr–eid, Holi, Diwali e Natale. Ce n'erano due o tre che avevano optato per il secolarismo indiano e venivano a riceverlo per tutte le feste. Alcuni dei più patriottici venivano anche per l'Indipendence Day. Wazir Mian: Per grazia di Dio, ora ha un figlio maschio e due femmine. Papà: Dovete essere un nonno molto impegnato. Wazir Mian: I piccoli sono sempre un dono di Dio; sono i grandi a dare problemi. Papà e mamma si scambiano un'occhiata. È stato detto più di quanto io e mio fratello abbiamo sentito. Si chiama un servo e gli si chiede di dare a Wazir Mian il tè e uno spuntino nella cucina. Sia mio padre che mia madre sanno che Wazir Mian non è venuto a trovarci. È venuto per restare da noi. La storia venne fuori più tardi, dopo che Wazir Mian ebbe ristabilito il suo ordine tirannico nella nostra cucina. Sembra che i problemi al paese fossero cominciati durante il secondo anno. Wazir Mian, con le mani chew gli prudevano per la voglia di cucinare cibi elaborati, assunse l'impegno di fare la spesa per Eid e di cucinare per la famiglia allargata. Andò in città e tornò stracarico di carni e ingredienti. Passò al setaccio il paese per procurarsi le verdure più fresche. In questo modo comunque spese una somma cinque volte maggiore di quella che i suoi figli avevano previsto. I figli si limitarono a borbottare un po', ma le sue nuore si lamentarono in paese senza mezzi toni. Un uomo dovrebbe sapere quando arrendersi all'età, disse una di loro a una vicina. "Che ci sta a fare un uomo in cucina?" sembra che avesse brontolato un'altra. Queste osservazioni furono fatte in privato, ma nel paese di Wazir Mian non c'era nulla che potesse rimanere privato. Quando le osservazioni arrivarono a lui ne fu ferito. Provocato forse dalle lamentele, o a causa della sua artistica dote per la cucina, Wazir Mian passò tutto l'anno successivo a battibeccare con le sue nuore su come e cosa si dovesse cucinare. Criticava la loro cucina 'dehaati'. Rispondevano precisando che loro vivevano in un 'dehaat' e non in 'qualche palazzo di laatsahab'. Lui insisteva sul suo diritto – di capo famiglia – a cucinare piatti costosi per i suoi nipoti. Loro contestavano questo diritto. A un certo punto i suoi figli dovettero intervenire, e Wazir Mian fu di fatto privato del patriarcale diritto a tenere i cordoni della borsa della famiglia. Fu allora che litigò per l'ultima volta e partì. Ritornò dalla famiglia che secondo lui gli dava la possibilità di essere il 'khansamah' che era. Khansamah, una parola che per Wazir Mian era stata così ricca di connotazioni e sfumature. Khansamah, una parola che né io né mio fratello avevamo mai sentito usare in nessun altra famiglia. Una parola fuori moda. 11 – Appezzamenti di terreno, prevalentemente quadrati e rettangolari, coperti di fini germogli verdi e cosparsi di fiori gialli, campi di lehsun che a una certa distanza sembrano la tela di un impressionista. No, se glielo chiedevate, non avrebbe saputo che cos'era un impressionista, però vi avrebbe potuto informare sul fatto che sì, ci sono libri d'arte in Hindi, e, per tua informazione, figliolo, lui sapeva leggere anche un po' di inglese gitpit, comunque in inglese sapeva almeno bestemmiare, accidenti a te. Una traccia di fango che taglia i campi e sulla traccia un uomo in camicia e dhoti che spinge la bicicletta. La sua bicicletta carica di quattro sacchi di un bianco abbagliante, borse rigonfie appese dai due lati del telaio di metallo. Gli fanno venire in mente il maalik, il marito della sua seconda cugina, Sunita, che un tempo aveva sperato di sposare lui, tanto tempo fa, tanto tanto tempo fa, gli fanno venire in mente il maalik e le sue borse gravide e ride forte, ride tanto forte che gli vengono le lacrime agli occhi, e i passeggeri più vicini a lui lo guardano sorpresi. Per tranquillizzarli si schiarisce la gola, appallotta il muco in gola e, sporgendosi dal finestrino, lo espelle con tanta forza che lo manda dall'altra parte della strada, dove cade nella polvere, sfrigola per un istante e si dissolve in un'umida macchia. 12 – Chottu è ancora fuori a perder tempo. Lo puoi sentire che chiacchiera con uno dei due servi dell'appartamento doppio dei Rai, a pian terreno. Sono quasi le sette e a quest'ora Mrs Prasad lo fa stare a sedere a fare i compiti. A Mrs Prasad tocca aprire la porta per chiamarlo. Raramente Mrs Prasad apre la porta. Anche se è invariabilmente cordiale e amichevole con tutti i residenti, la sola persona che vede regolarmente, a parte i parenti che vengono a trovarla, è la moglie del dottor Rai del pianterreno. I due figli e le due figlie di Mrs Prasad sono sposati e abitano in grandi città dell'India e all'estero. Sono stati bravi, puoi vedere il riflesso del loro successo nell'arredamento di buon gusto dell'appartemento della Prasad, nei morbidi sofà e nella profusione di oggetti hi–tech. Una volta ogni tanto puoi anche sentire la loro ricchezza, quando vengono in visita e accendono il lettore di CD o l'enorme TV del soggiorno. Mrs Prasad preferisce guardare quella in bianco e nero in camera sua. Mrs Prasad non ascolta musica, anche se guarda Chitrahaar e altri programmi di canzoni da film sul suo vecchio televisore. Inoltre tutte le mattine alle sette e mezzo si mette a sedere per fare la puja e l'accompagna con un bhajan, con voce roca, vibrante, decisamente priva di musicalità. Ti sveglia tutte le mattine, ma non hai pensato di lamentarti. Nessuno ci ha pensato. 13 – Nelle case basse nei paesi lungo la strada muri interi sono stati trasformati in annunci pubblicitari. Qui la maggior parte è dipinta di giallo, un giallo brillante, con le marche e gli slogan scritti in blu o in rosso. BAIDYANATH, annuncia il primo. Segue PUJA GANJI AUR BANYAN e poi un muro pieno di caratteri illeggibili, pulito da poco per far posto a un altra pubblicità. E poi uno slogan a caratteri più piccoli: UJALA TOOTHPOWDER, anche questo scritto in Devanagari. 14 – Wazir Mian era uno dei nostri servi che sapevano leggere e scrivere. Scriveva in Urdu con una certa disinvoltura e sapeva fare i conti con i numeri arabo–indostani. Ma, da quello specialista di cucina Mughlai e 'Continentale' (europea) che era, aveva anche il suo repertorio di parole inglesi. Un intero esercito di insegnanti di scuola media e superiore secondaria e superiore dovette sciacquare le nostre bocche da certe sue parole inglesi. Parole come ishtake (steak), eesstoo (stew), chickun allah kaatey (chicken à la carte), tamater boss cat (tomato basket), karma puteen (caramel pudding), ma riuscivano a costringere me e mio fratello ad abbandonare l'inglese di Wazir Mian solo in pubblico. Nelle occasioni private continuavamo – e continuiamo – ad abbuffarci di ishtake ed eesstoo. Steak e stew non sanno di nulla. Un karma puteen leggermente dorato, delicatemente tremulo, che fa venire l'acquolina in bocca, continua ad essere la prova migliore che abbiamo delle nostre buone azioni nelle vite precedenti. Ma Wazir Mian – come la maggior parte dei vecchi servi e diversamente dalla maggior parte dei più giovani – non attribuiva molto valore all'inglese. Non aveva mai preferito una parola inglese al corrispettivo urdu. E solo una volta reagì a una parola rivoltagli in inglese. Accadde durante una festa dopo la cena di Bakhr–eid organizzata per gli amici di mio padre. Alla fine della festa, mentre Wazir Mian si stava prendendo i complimenti di rito, mio padre lo presentò in inglese a uno degli ospiti – un ufficiale del Sud dell'India che parlava pochissimo l'Hindi e l'Urdu. Wazir Mian non capì la frase, ma afferrò la parola chiave: 'cook'. Quello che tutti noi avevamo dimenticato era che mio fratello aveva recentemente impartito a Wazir Mian alcune lezioni d'inglese. Il breve corso era venuto dal desiderio di Wazir Mian di imparare l'equivalente inglese di una distinzione che lui aveva inflessibilmente mantenuto in urdu. Se gli capitava di essere presentato in Urdu come 'bawarchi', Wazir Mian si erigeva in tutto il suo metro e novanta di altezza o giù di lì e ci correggeva: 'Non bawarchi, babu,' diceva in urdu. 'Khansamah'. E da mio fratello, che aveva un po' semplificato la faccenda cercando di far crescere l'inglese nella considerazione di Wazir Mian, aveva recentemente imparato che l'inglese aveva una distinzione analoga: 'cook' per 'bawarchi' e 'chef' per 'khansamah'. Siccome ora, avendo afferrato 'cook' nella presentazione di mio padre, aveva realizzato che questa volta lui poteva mettere le cose al giusto posto solo in inglese, Wazir Mian raccolse tutto l'inglese che aveva raccolto cucinando per principi regionali, ufficiali inglesi e tradizionali famiglie di professionisti come la nostra. Con la massima dignità disse: "No cook, sir, chieff." Anche la pronuncia storpiata aveva senso. Nella misura in cui Wazir Mian era da quelle parti, non c'erano dubbi su chi fosse il chief nella cucina. Nel reame delle salse, delle coppe e dei chullah, dalla sua autorità veniva la parola definitiva – non solo per i suoi aiutanti ma anche per noi e, nella maggior parte dei casi, per i nostri genitori. Ma la cucina aveva cominciato a restringersi. Wazir Mian era abituato a cucinare in cucine esterne – stanze separate con cortili e dispense annessi. Ora, naturalmente, ciò che avevamo era una cucina che comprendeva una sola stanza e faceva parte della casa. Anche i suoi aiutanti erano spariti. Aveva da fare piatti sempre meno elaborati. Un mese dopo il ritorno di Wazir Mian, al quale i nostri genitori avevano dato carta bianca per far rivivere le cene del passato e colmare i vuoti della nostra esperienza culinaria, le cene elaborate si ridussero a una al mese. Per la maggior parte del tempo Wazir Mian aveva da fare solo due o tre tipi di curry e un solo tipo di roti per accompagnarli. Negli weekend faceva dei dolci. Non c'erano abbastanza persone per mangiare le sue cene elaborate – e la spesa era anche aumentata. Tutte le altre sere, dopo aver servito la cena, Wazir Mian arrivava dalla cucina, lanciava un'occhiata ostile ai due o tre piatti sparpagliati sul tavolo da pranzo, e si informava, Posso servirvi ancora in qualche altro modo, babu? No, non era quello che avrebbe voluto dire. Come un genio liberato dalla bottiglia, avrebbe detto, Kuch aur farmaish babu? Avete qualche altro desiderio, Babu? Le sue grandi mani gli penzolavano dai fianchi, inutili e nervose. In momenti come questi potevo percepire qualcosa che passava tra i miei genitori, qualcosa come un'irritazione, qualcosa per cui ci avrebbero apostrofati seccamente se avessimo fatto qualcosa appena appena sconveniente. Però rispondevano a Wazir Mian con accurata gentilezza, Oh, no, Wazir Mian, avete già fatto abbastanza. Sul viso di Wazir Mian passava un'espressione assente, come se non capisse veramente in che lingua parlavano i miei genitori, le sue grandi mani pendevano più pesanti, e poi si voltava e s'incamminava lentamente verso la cucina. Anche i figli di Wazir Mian, tutti tranne il maggiore, erano venuti a trovarlo, la prima volta un po' imbarazzati e dopo la prima portando anche i nipoti. Ai suoi nipoti era mancato. Più o meno diciotto mesi dopo, Wazir Mian ricevette una lettera da casa. Munnu è malato e suo padre vuole che un aiuto torni a casa, disse ad Ammi. Munnu era il nipote più piccolo di Wazir Mian, un tipetto impertinente col naso sempre gocciolante e una fossetta sulla guancia destra, ed era chiaramente il preferito del nonno. Probabilmente tornerò in tempo per cucinare per Eid, disse Wazir Mian ai miei genitori mentre andava alla fermata del bus. Non tornò più, però ci mandò per Eid un seek kabab delizioso e succulento, avvolto nella plastica e confezionato in una pentola di terracotta. Il suo figlio più grande, un uomo sottile con baffi ancora più sottili e uno strano sguardo di orgoglio servile, venne a portarlo qualche giorni prima di Eid. Aveva una cicatrice di cinque centimetri sulla guancia sinistra, una forma oblunga e scura intorno a una striscia biancastra sollevata, la forma della Via Lattea. Sapevamo che gli era rimasta da una caduta quando era bambino. Era la prima volta che lo vedevamo da quando Wazir Mian era partito la prima volta. Abba sta diventando troppo vecchio per lavorare, disse come scusandosi, dopo aver raccolto tutte le cianfrusaglie che Wazir Mian aveva lasciato nella sua stanza. Veramente non ne ha bisogno, aggiunse con una nota d'orgoglio. E si passò un dito intorno al colletto rigido della sua nuova camicia a quadri, che insieme ai pantaloni di terrycot a zampa di elefante che portava doveva essere stata comprata per Eid e indossata per impressionarci col dato di fatto del suo movimento verso una posizione sociale più alta. Anche il suo discorso era destinato a dimostrarci che non era un contadino: in dieci minuti ci ripetè almeno tre volte che per il prossimo Eid avrebbero sacrificato un'intera khassi e che lui era il proprietario di un 'raation shop' nel paese. Nonostante che lo sporco sotto le sue unghie ispessite e spezzate rivelasse che lavorava anche fuori nei campi. E quando si informò su dove fosse la fermata del bus, mise l'accento sulla parola 'private'. Non disse 'preevaat' come fanno di solito quelli di paese. Ma non disse nemmeno 'private'. Disse, con un eccesso di zelo che rivelava quanto fosse importante per lui questa magra conoscenza dell'inglese, e quanto fosse dolorosa la sua consapevolezza delle inferiorità di lingua e di classe, disse bus 'priwait'. 15 – A questa fermata ci sono botteghe piene di vestiti. Ci sono botteghe che vendono al dettaglio, botteghe di abiti confezionati – in vetrina sono appese vestine da bambini e camicie – e bancarelle di sarti. Le sole botteghe che non hanno nulla a che fare con i vestiti sono le due farmacie – una di queste comprende un ambulatorio medico, il cui dottore ha tanti titoli che la targa col suo nome sembra contenerli a stento – e qualche bancarella di tè e di sigarette. Il chiosco del tabaccaio più grande, appollaiato su dei trampoli, innalza un grande cartello colorato. CHARMS. Il Gusto Che Ti Rende Libero. Sul pavimento c'è una donna accovacciata davanti a un mucchio di makhana. 16 – Quando se ne andò Chaand, mi resi conto che non sarei riuscita a pagare l'affitto della nostra casa. La nostra vecchia kothi, ereditata dalla nostra gharana, era stata venduta quando la nostra ustad era ancora viva. Ci eravamo trasferite in una casa in affitto in uno stretto vicolo secondario, vicino alla zona a luci rosse. Non era piacevole abitare in quella zona. La sera vedevamo le donne che si sporgevano dalle finestre e dalle porte, per adescare i clienti. La notte il nostro sonno era interrotto da grida e risse di ubriachi. Una volta al mese la polizia trovava una scusa per fare incursione e perquisire la nostra casa. E la zona a luci rosse, mentre era la parte della città che la gente rispettabile e religiosa sembrava evitare nella vita privata, era proprio la parte che riceveva la massima dose di religione pubblica. Missionari cattolici romani, predicatori Jamait–e–Islami dei più liberali, revivalisti induisti, quasi tutti con un mondo da salvare, venivano in questa discarica di vizi morali per pregare e condannare, salvare o dannare. Di recente nuovi partiti politico–religiosi avevano preso di mira la nostra casa con particolare attenzione – il nostro miscuglio di islamismo e induismo era per loro una spina fissa nel fianco, ultimamente anche più della nostra mescolanza di maschile e femminile. Non somigliava al modo in cui era vissuta la nostra ustad né al modo in cui aveva diretto l'impresa in passato. Avevamo avuto, direi, una casa 'pubblica' molto privata. Così, il giorno dopo, preparai con calma la mia valigia VIP e il borsone che mi aveva dato Chaand, e me ne andai alla chetichella. Dovevo stare attenta, perché c'era un mese d'affitto da pagare, ma camminai fino a uscire dal vicolo e al chowraha presi un risciò senza essere stata vista né dal padrone di casa né da qualcuno della sua famiglia. Avevamo affittato una parte di una casa grande e cadente – una volta residenza di un talukdar, ora trasformata in sette appartamenti. Non era più la casa di nessuno. Lo garantivano le pareti di compensato che dividevano le due sale immense in 'appartamenti' adiacenti. Non era nemmeno la casa del proprietario e della sua famiglia, perché da tanto avevano cominciato a sognare il momento in cui avrebbero avuto da parte abbastanza denaro per traferirsi a Patna. Quando lo lasciai, quel posto svanì dalla mia memoria con la stessa facilità di una fotografia sotto il sole d'estate; se qualcosa restava, era il tono seppia delle carezze scambiati con Chaand. Mi restava solo una cosa da fare: lasciare questa città, la città dove sono cresciuta. Istation chalo, dissi al conduttore di risciò che portava il lungi. Avevo progettato di comprare un biglietto ferroviario fino a Phansa, la città vicina. Ero stata a Phansa solo una volta per un nautch–show e avevo sentito che là avrei potuto trovare un lavoro normale senza essere inseguita dal mio passato. In tutta sincerità, quallo che volevo era un lavoro. Volevo vivere da donna, non da eunuco. Erano giorni in cui la vita dell'eunuco era troppo degradante per me. E poi mi sentivo più donna. Se avessi dovuto scegliere, avrei preferito essere una donna che un uomo. Se vuoi, puoi anche dire che io sembro una donna: ho la costituzione delicata e affascinanti occhi neri, labbra carnose e un bel naso aquilino. Ho capelli folti e lunghi fino alla vita, me li invidia la maggior parte delle donne. Forse sulle mie braccia ci sono più vene di quante se ne vedono usualmente fra le donne della classe media da queste parti, ma ho visto delle donne contadine con braccia dure, più muscolose. Vestita con un sari, nessuno mi prende per un eunuco. Ma alla stazione mi dissero che tutti i treni diretti a Phansa erano stati cancellati. Un maalgadi era deragliato in qualche punto della linea Gaya–Phansa, e i binari erano invasi dalla ferraglia e dal carbone che trasportava. Era troppo tardi, ora, per ritornare alla kothi, e non volevo prendere un bus pubblico; sono quasi sempre sovraffollati e con i treni che non viaggiavano lo sarebbero stati ancora di più. Non avevo altre possibilità che quella di investire buona parte dei miei magri risparmi – anzi, del mese d'affitto non pagato – per comprare un posto più costoso, su un bus privato. Più costoso, ma non necessariamente migliore, come avrei scoperto. Presi un altro risciò per l'angolo esterno alla fermata del bus governativo dove fermava il bus privato. Dopo aver comprato il biglietto dal bigliettaio sorprendentemente cortese di un bus che stava già cominciando a mettersi in moto, ero sul punto di salirci, quando un vecchio cliente della nostra casa mi riconobbe. Era Iskander Mian, un uomo vecchio, macchiato di paan, glabro, con una faccia che pareva un dattero secco, un chhuara. Guarda, guarda, guarda, Farhana Begum? disse, zoppicando verso di me. Dove state andando? Non ci lascerete tutti soli col cuore spezzato, vero? Essendo uno degli uomini che erano stati nella nostra gharana, Iskander Mian doveva chiamarmi 'begum': gli mancò il coraggio di proferire la verità del mio cognome maschile. Mi spiace, borbottai con la voce più fredda che potevo emettere. Vi state sbagliando. Il mio nome è Parvati. E prima che potesse rispondere salii a bordo del bus, col bigliettaio che gentimente mi metteva su la valigia e mi indicava un posto a sedere. Quando il bus partì, un minuto dopo, Iskander Mian era ancora lì in piedi, con l'aria confusa e qualche ruga in più sulla sua faccia di chhuara. Ci eravamo appena immessi sulla strada, quando il pulmann si fermò e il cuore mi salì in gola. Mi pareva di vedere Iskandar Mian e il padrone di casa, accompagnati da tutti i clienti che avevamo conosciuto, che circondavano il bus, implorando con un tono un po' canzonatorio, non ci spezzate il cuore, Farhana, non lasciateci tutti soli in questo vasto vasto mondo. Mi sentii sollevata quando salì a bordo una donna con un fagotto e con un bambino piagnucoloso, e il bus ricominciò a muoversi con un rumoroso sferragliare di ingranaggi. 17 – Lui nota il mucchio di makhana bianco con le macchie nere. Se lo fissi abbastanza da vicino vedi solo un candore punteggiato di nero, un limpido cielo notturno rovesciato. Il makhana è il popcorn del Bihar, pensa lui. A parte il fatto che è più saporito e croccante. Dicono che cresce solo nei distretti del Darbhanga, del Purnia, del Saharsa e del Madhubani nel Bihar del nord. Non c'è matrimonio indù o musulmano venga celebrato senza il makhana, anche se pochissimi indù o musulmani sanno da dove viene. Pochissimi indù e musulmani non ne sanno molto di più del posto dal quale loro stessi vengono, e spesso la loro scarsa informazione è anche sbagliata. Non sanno come viene piantato dai mallah nei mesi di marzo e aprile. Si pianta negli stagni a una profondità che va da un metro e mezzo a due metri e mezzo. La pianta spinosa che emerge dall'acqua ha delle foglie larghe, abbastanza larghe perché ci stiano appollaiati uccelli acquatici come il chaha dalle lunghe gambe. Circa sei mesi dopo che è stato piantato, i frutti gudi, che pendono dalle larghe foglie piatte, maturando cadono in fondo allo stagno. I mallah si tuffano nell'acqua e portano su i frutti nei secchi, con i loro corpi neri ed esili incrostati di foglie e di radici. I frutti vengono seccati e poi arrostiti e battuti finché scoppiano in lavva o makhana. È questo il makhana che si può comprare lungo la via, fritto e cosparso di sale e pepe. Non si deve sapere da dove viene o con quanta fatica è stato fatto. Se si hanno i soldi, basta sapere quanto costa. Non costa molto. Costa meno di un quarto dei sacchetti di popcorn nelle sale umide e buie del cinema. 18 – Un uomo di mezz'età con un lungo banyan e un lungi a quadri venne fuori dalla bottega con un secchio d'acciaio inossidabile. L'acqua debordava dal secchio. Con gesti esperti, l'uomo immerse le mani nel secchio e descrisse archi d'acqua intorno a sé. Le gocce cadevano sulla polvere secca sul bordo della strada, disegnandovi prima delle macchie, poi delle corde, corde d'acqua, corde d'acqua che l'uomo sperava l'avrebbero tenuta ferma per le prime ore di traffico del mattino. Un tavoletta di metallo sulla bottega diceva: 'Manohar Sweets' in inglese, e poi sotto, più piccolo, in Hindi, 'yahan shudh ghee ki swadisht mithaiyan milti hain'. 'Ghasmus–sir, scusi sir, due minuti, due minuti', gridò l'autista da una finestra accanto alla bottega mithai. Rasmus accomodò il suo metro e ottantotto di altezza sul sedile posteriore dell'Ambassador bianco sporco, assicurandosi che una delle sue mani restasse sulla sottile valigetta accanto a lui. La valigetta – o piuttosto il suo contenuto – pesava sulla coscienza di Rasmus, rendendolo più irritabile del solito, più attento al tempo e allo spazio. Guardava l'uomo dei mithai che andava a prendere un altro secchio d'acqua. Rasmus era stato a Gaya abbastanza a lungo per sapere che proprio questa strada, che porta fuori città, sulla strada che va a Patna dalla quale a Tehta si svolta per andare a Phansa, un tempo era famosa per i suoi tilkut. Ma anche se non avesse passato qualche settimana a Phansa, Rasmus avrebbe conosciuto il tilkut. Il tilkut era il mithai con il quale Gaya aveva contribuito alla grande ricchezza dei dolci tradizionali dell'India del Nord. Sente ancora come la voce di suo padre si riempie di sole e di sciroppo parlando dei mithais indiani in un giorno piovoso e coperto, a Copenhagen. Va' in un vecchio paese qualunque, in qualunque vecchia città dell'India del nord, mister, e scoprirai uno speciale mithai, che si fa solo in quel posto o che si fa in quella particolare variante. Khirmohan a Dhoda, khaja a Silao, tilkut a Gaya. Suo padre poteva andare avanti per molto tempo parlando del cibo indiano a Copenhagen, e spesso lo faceva con quella particolare intensità che fa agitare sulla sedia i danesi, anche Rasmus a volte. Ormai erano rimaste poche le botteghe di mithai lungo la via – comprese quelle due o tre con lo spazio pulito e il palo di legno necessari per avvolgere e girare la pasta con la quale si fa il tilkut – ma la maggior parte delle botteghe avevano cominciato a rifornirsi di prodotti meno deperibili e più redditizi. L'uomo entrò, di chiazze di polvere asciutta ne restavano ormai poche intorno al suo negozio. Passò un venditore di giornali in bicicletta. Rasmus sentiva il rumore forte e rauco di qualcuno che si schiariva la gola nella casa della porta accanto: il suono forte, con tante tonalità e tante sfumature, di un uomo che eseguiva le sue abluzioni mattutine secondo la tradizione. Non erano ancora le otto del mattino e c'era poca gente in strada. Comunque Rasmus poteva sentire i bagni e le cucine che si risvegliavano, mentre una piccola folla cominciava a formarsi intorno alla cannella comunale in fondo alla strada, in attesa che l'acqua arrivasse scoppiettando intorno alle otto e mezzo. Si piegò in avanti e suonò il clacson dell'Ambassador – un suono breve, cortese ma deciso. Il rapporto col tempo di Rasmus, il suo ritmo, era già sconvolto. L'India alterava sempre il suo orologio interno, ricco di quarzo, perfettamente sincronizzato. Forse per lui era la cosa più sconvolgente nei suoi occasionali soggiorni in India, durante i quali doveva risolvere i problemi della sua direzione centrale, a Copenhagen. Tokyo, Bangkok o Abu Dhabi non gli facevano mai questo effetto. Il Medio Oriente e l'Estremo Oriente corrono più o meno al ritmo di un orologio occidentale, pensava, ma l'India, l'India va con un centinaio di orologi diversi, o con nessun orologio. Suonò di nuovo il clacson, questa volta con più insistenza. Bajao clacson, bajao clacson, borbottò Hari, dando un'occhiata a Rasmus sull'Ambassador dalla sua finestra. Pura nashta kar kay chalengay: yeh koi firangian thoday hi hai! Ma a dispetto delle sue parole animose, buttò giù di corsa l'ultimo boccone di chappati e bhunjiya, gridò a sua moglie di controllare che Munna andasse a scuola, e borbottando si precipitò fuori dalla porta. È l'ultima volta che ti faccio fermare a casa tua per fare colazione, disse Rasmus mentre Hari apriva lo sportello della macchina. Hai detto dieci minuti e ne sono passati venti, mister. Il 'mister' era saltato fuori a sorpresa: ancora una volta suo padre, che lo avrebbe apostrofato con 'mister' per metterlo in soggezione, ancora una volta il fantasma di suo padre, tante volte esorcizzato, veniva fuori dalla sua bocca. Scusa, sir, scusa, mia consorte non sente mai, come dire, replicò Hari in inglese. Rimise in moto l'Ambassador e lasciò la frizione con una vibrante grattata che, Rasmus ancora non lo aveva scoperto, era sempre una critica al rigido senso del tempo del suo datore di lavoro. L'Ambassador accelerò sullo spazio che l'uomo del mithai aveva bagnato, cancellando qualche disegno d'acqua e riordinandogli il piano della giornata. L'uomo si era tirato su il lungi ed era impegnato a sciacquare uno dei grandi calderoni sulla veranda della sua bottega. Tutte le mattine per lui sistemare la polvere era un rito, un atto che legava i suoi giorni. Sapeva che due ore più tardi sarebbe stato là fuori ad avvolgere e girare i fili di pasta del suo tilkut, materia appiccicosa piena della dolcezza della ricetta di famiglia e della polvere di macchine, risciò, thella, biciclette, pedoni. 19 – Un motorino Rajdoot nero sorpassa il suo bus. Lo guida un uomo con un completo safari color kaki. Il suo bambino di sette–otto anni è a cavalcioni dietro di lui sul lungo sedile e la moglie è appollaiata, dietro al figlio, con le gambe su un solo lato. Il motorino oscilla pericolosamente e riprende l'equilibrio, la donna con un gesto automatico si risistema il pallu sul capo. Dopo poco sono una macchia che rimpicciolisce sulla strada lunga e stretta. Sopra di loro il cielo si estende come il piano di marmo blu del tavolo di certi ristorante lungo la via, strofinato da qualche ragazzo di servizio con uno straccio sporco imbevuto nel bianco acido fenico diluito con l'acqua. 20 – Portavo il suo odore a letto con me. Anche se quando mi guardava non riuscivo a sostenere il suo sguardo. I suoi occhi piegavano i miei fino a terra, e poi le sue labbra si curvavano con l’ombra di un sorriso. E mi salutava con la voce di un’umile serva: Salaam–alai–kum, Irfan babu. Walaikum–assalaam, Zeenat, balbettavo in risposta. La pace era l’ultima cosa che Zeenat poteva far scendere su me. Lavorava nella casa di un vicino, l’unica kothi degna di questo nome del nostro vicinato sempre più congestionato a New Karimganj, una vecchia casa, un tempo grande, ora cadente, un tempo prosperosa, ora pretenziosa. Era una casa con molte stanze, la maggior parte delle quali ormai chiuse. Era stata costruita per una grande famiglia. Ricordavo una famiglia numerosa che volteggiava nella casa durante le vacanze estive quando ero bambino. Ora era abitata da un avvocato dallo sguardo sfuggente, da sua moglie, dalle loro quattro figlie, e da sua zia, una donna di costituzione robusta, leggermente baffuta, che masticava paan e portava svolazzanti abiti fuori moda che sottolineavano i suoi diritti sulla casa. L’avvocato era venuto a vivere con la zia e ad occuparsi della casa quando degli sconosciuti avevano colpito a morte il figlio di lei – accidentalmente, alcuni dissero, nella sparatoria durante una rapina lungo la via, altri dissero che la causa era il fallimento di un avventuroso progetto imprenditoriale. Era andata avanti da sola durante il periodo di lutto, rifiutando di vendere la casa e di trasferirsi a Delhi dalle figlie. Ed era solo per le ripetute telefonate delle figlie, che la immaginavano via via precipitare dalle scale o deperire di colpo, che alla fine aveva permesso al nipote avvocato di trasferirsi in un’ala della casa. Ma le spalle dell'avvocato non sostenevano il peso della casa. Tutte le settimane precedenti lo avevamo sentito alzare la voce stridente per litigare, finalmente zittito dalle irremovibili risposte monosillabiche della zia. Lui voleva dar via alcune parti della casa. Non prima della mia morte, diceva la zia. Poi, più tardi, si sedeva sulla veranda a borbottare su quello che la casa era stata, su quanti ospiti metteva a tavola tutti i giorni, quanti parenti poveri avevano fatto venire dal paese avito per mandarli alle scuole del posto, quanti servitori avevano affrettato il passo dalla cucina alla sala da pranzo, portando le pietanze su grandi vassoi d’argento. Zeenat era l’ultima serva rimasta nella casa. Avevano ancora due servi maschi, uno dei quali era un vecchio conduttore di risciò. A parte il conduttore di risciò magro e coriaceo, tutti i servi erano nuovi nella casa, perché l'avvocato li licenziava e cambiavano quasi tutti gli anni. Solo il conduttore c'era stato prima di lui, e c'era ancora, a fare sempre le stesse corse con il risciò di famiglia, a portare avanti e indietro le figlie dalla scuola, la moglie quando faceva spese e l’avvocato dall’affollata corte del distretto, e qualche volta la zia, con un paandaan attaccato a un’impalcatura che era saldata al risciò e un purdah drappeggiato intorno al tettuccio, portava la zia nella kothi di qualche vecchia parente sopravvissuta, nel vecchio Karimganj, . Ma Zeenat era la sola serva alle quale facevo caso. Stando a sedere sul tetto, scrutando al di là della casa dei miei genitori, avevo un'ampia vista sulla corte dei nostri vicini. Era là che vivevano Zeenat e gli altri servi: Zeenat in una stanza attaccata alla casa principale, accanto alle scale, i servi in stanze più lontane, sull’altro lato della corte. Stavo a guardarla quando si sedeva a cernere il riso, o mentre attingeva acqua dal pozzo del cortile, durante una prolungata interruzione di corrente. Stavo a guardarla dopo il bagno, quando si asciugava i capelli al sole. E solo una o due volte credetti che sorridesse con una specie di sorriso d’intesa rivolto a me, e contemporaneamente si era pudicamente coperta il capo col sari pallu e aveva scoperto con noncuranza una gamba fino al ginocchio. Dovevo stare attento sul tetto. Dovevo ricordarmi di scendere di corsa dal tetto nella mia stanza prima di rispondere a un richiamo imprevisto dei miei genitori. I miei genitori non sopportavano Peeping Toms, in parte perché nel loro casto urdu questa parola non c'era, in parte perché Zeenat non era una loro beniamina. I miei genitori la trovavano ‘sfacciata’ e ‘immorale’. Erano entrambi insegnanti – mio padre nel locale Mirza Ghalib College, mia madre nella Nazareth Academy – e la loro idea di decenza era pedagogica e severa. Una volta mio padre suggerì, con un eufemismo di cui si supponeva che non conoscessi il significato, che Zeenat probabilmente aveva fatto la puttana. Non disse ‘puttana’, scelse ‘tawaif’, con la sua connotazione più morbida di musica e cultura. Mio padre considerava un segno della mancanza di carattere dell’avvocato che Zeenat – quella ‘tawaif’, quella ‘donna di strada’ – continuasse a lavorare in una vecchia casa così rispettabile. Ci fu una polemica quando io suggerii, con un sarcasmo derivato da ormoni adolescenziali repressi e da una nascente visione sinistroide della rispettabilità, che le tawaif avevano un rapporto perfettamente logico con le vecchie ‘case’, specialmente con le rispettabili vecchie ‘case’. 21 – Uno stagno o un'abbeveratoio dove l’acqua del monsone evapora solo un anno ogni tanto. Sulle sue rive, tre sparuti cespugli di banano, dietro ai banani alcune capanne sbilenche fatte di fango e mattoni, con i muri dalla parte della strada non intonacati ma imbiancati di calce. Dietro a tutto questo il Sita Ashok più grande e alto che lui abbia mai visto. Fa caso a questo albero in ogni viaggio. Si diceva che se bevevi l’acqua nella quale sono stati a bagno i suoi delicati fiori profumati, eri guarito della tua pena. Quelli erano tempi in cui la pena doveva essere una capanna di fango, pensa Mangal Singh con un mezzo sorriso. Facilmente innalzata dalla terra, facilmente portata via dalla piena. Ora noi facciamo il nostro dolore di cemento e di calcestruzzo, di ferro e d'acciaio: abitiamo il suo spazio vuoto. 22 – Tutti quelli che avevo conosciuto e che mi erano stati a cuore erano usciti dalla mia vita con la partenza di Chaand. Devo ammettere che non avevo le idee chiare su quel che avrei fatto una volta arrivata a Phansa, forse lavorare come ayah. Volevo semplicemente lasciare la mia città e ricominciare tutto daccapo. Ma le cose si misero a girare a modo loro. Le cose, come ci diceva il vecchio suonatore di tabla, il nostro maestro di musica, si mettono sempre a girare a modo loro. Sono le persone a non girare mai a modo loro, mai, mai, poveri prigionieri, kunji–maar, bastardi chiavi in mano, ormai non siamo altro che questo, diceva anche così qualche volta, e intanto in un colpo solo da malato terminale di TBC scoppiava a ridere e a tossire forte. Seduta sui sedili consunti e strappati del bus, guardando gli altri passeggeri con la coda dell’occhio, perché il nostro posto era in prima fila, mentre sentivo il bus che si riempiva del calore e dell'odore dei corpi, anche se fuori la giornata era bella, là a sedere mentre campi e villaggi si allontanavano oscillando, gli risposi in silenzio come avevo fatto anche quel giorno. Dissi, mi metterò a girare a modo mio quando verrà il momento, ricorda quel che ti dico, girerò a modo mio quando le cose gireranno a modo loro. Sul bus ero seduta accanto a una vecchia donna, anche lei diretta a Phansa. Veramente era stato il bigliettaio a insistere perché mi sedessi accanto a lei, e più tardi capii perché. Il bigliettaio stava facendo tutto il possibile per accontentare la vecchia, e aveva fatto in modo che i posti accanto a lei fossero occupati da donne, e da quelle dall'aspetto più ben educato fra quelle che si potevano trovare su un bus come questo. La vecchia aveva poco più di sessant’anni, età in cui da queste parti si è vecchie, ma era attenta e acuta. In qualche modo sembrava un mynah, anche se non somigliava affatto a un uccellino. Un roco mynah, attento e acuto. Quella fu la prima cosa di lei che notai, per il modo in cui, sporgendosi dalle sbarre del finestrino del bus, tirava sul prezzo col ragazzo del tè. Riuscì a intimidirlo e a pagare solo cinquanta paisa per una tazza di ispayshull chai che sarebbe costata una rupia. Non devi mai farti mettere i piedi in testa da questi chokkra. Sono ladruncoli, tutti ladruncoli! mi disse appena il ragazzo del te se ne fu andato, brontolando. Annuii per amore della buona educazione. Da come tirava sul prezzo, si sarebbe detto che fosse povera. Ma il suo linguaggio e i suoi abiti non significavano proprio povertà. Indossava un sari bianco – il che ovviamente voleva dire che era vedova. Comunque, non era un semplice sari di cotone. Era di qualche fibra più ricca, con ricami bianco su bianco lungo i bordi, e sembrava nuovo. Solo la gente ricca indossa abiti nuovi per viaggiare in treno o su un bus come questo. I treni su questa tratta non hanno uno scompartimento di prima classe e i bus sono ancora più democratici; devi viaggiare come la massa, e questo ti sporca i vestiti. Riuscivo a vedere anche il suo bagaglio a mano, infilato a forza sotto il seggiolino. Costoso, nemmeno VIP o Aristocrat, sembrava addirittura una marca straniera. Era evidente che apparteneva a una classe sociale diversa da noialtre sedute dietro al divisorio del posto dell’autista, dove tre seggiolini extra erano stati fissati al pavimento per formare un quadrato aperto da un lato. In pratica era stato trasformato in un settore riservato alle donne. C’erano ovviamente altre donne sul bus, come la donna col bambino piagnucoloso che sedeva subito dietro al nostro settore, ma era chiaro che non erano abbastanza rispettabili per avere posti separati dagli uomini. Nel settore riservato eravamo in sette. Una donna portava un purdah, nonostante all’interno del bus avesse sollevato il velo. Tre delle altre indossavano sari di cotone abbastanza puliti ma sgualciti, mentre la quinta era una bambina di dieci anni, con la coda di cavallo, e aveva un vestito lacero. A parte la vecchia, ero l'unica persona che portava abiti abbastanza belli. Un vestito non nuovo, ma pulito e senza rammendi, fresco di stiratura. Forse per questo la vecchia parlò tanto con me durante tutto il percorso. Ma parlava comunque tanto, in modo educato e un tantino accondiscendente. Sembrava pensare che fosse suo dovere parlare con noi per colmare la distanza che la sua evidente ricchezza poteva creare. Era anche una persona forte e dogmatica. Partendo dall’iniziale affermazione sul ragazzo del tè, andò avanti celebrando i valori del risparmio (che comprendeva il rifiuto categorico di avere una macchina e di viaggiare in taxi) e concluse raccontandoci la povertà dalla quale era partita e la sua fede politica, induista di destra. Eravamo profughi di Lahore, ci aveva raccontato prima ancora che arrivassimo alla prima fermata. Quando arrivammo a Delhi, il 27 ottobre 1947, non avevamo altro che millecinquecentodue rupie in contanti e i miei gioielli. Quelli della mia generazione sanno cosa significa risparmiare. Non come la nuova generazione. Dategli cento rupie e le spendono in un giorno. Più spendi, più guadagni, mi dice mio figlio. Facile per te dirlo, gli ho risposto, a te i soldi non mancheranno mai, grazie a tuo padre, che Dio gli conceda di riposare in pace. Se ti fossero rimaste solo un migliaio di rupie e ti trovassi in un paese straniero, vedresti come ti andrebbe via tutta questa voglia di spendere! Che hai fatto allora, madre? Chiese la donna con la bambina di dieci anni. Come siete sopravvissuti? Per sei mesi vivemmo in un campo profughi, ci davano da mangiare con un pentolone nella cucina comune. Poi, Dio sia lodato, ci assegnarono una casa a East Delhi. Era una brutta zona, a quei tempi c’erano pochissime case a East Delhi. Questa casa era stata lasciata libera da una famiglia musulmana, che era fuggita in Pakistan. Sapete, a quei tempi è così che andavano le cose: ci davano case abbandonate dai musulmani in India e davano le nostre case a quei musulmani in Pakistan. Un po’ di tempo dopo mi dissero che la nostra vecchia casa a Lahore – aveva sette stanze – era stata occupata da un ciabattino musulmano che veniva da chissà dove. Ma pensate, un ciabattino, un ciabattino musulmano! Comunque noi dividevamo questa casa con un’altra famiglia di profughi. Loro presero il piano di sopra e noi piano terreno. Entrambi i piani avevano due camere da letto, una grande e una piccola. Ma soldi ancora non ne avevamo. Mio marito – se n’è andato quattro anni fa – aveva nove anni più di me, e per lui era più difficile. Doveva ricominciare tutto daccapo. Prima, a Lahore, aveva un negozio di abbigliamento, che andava molto bene. A Delhi, aveva solo un migliaio di rupie per ricominciare, e qualche parente non tanto affidabile. Vendetti i miei gioielli – tutti tranne il mangalsutra – e si mise nel giro della vendita di abbigliamento al dettaglio. Questo ci procurava il pane quotidiano, ma non bastava. Non potevamo permetterci nemmeno una piccola comodità. Quando mi sono comprata il primo sari nuovo stavamo a Delhi già da due anni. Vijay, mio figlio, per due anni non abbiamo potuto mandarlo a una buona scuola inglese. Era una vita dura. Per questo abbiamo imparato quanto sia importante risparmiare. Lo dico sempre a Vijay, ma lui ride e basta. Il Signore dà e il Signore toglie, benedetto il nome del Signore, dice. Bella educazione inglese! Si accorse dello sguardo di mite incomprensione sui nostri volti. Il suo rapido passaggio all'inglese ci aveva lasciate al buio. Io potevo raccattare due o tre parole nel fluire della sua frase, le altre forse nemmeno quelle. La vecchia diede un colpetto di tosse imbarazzato e spiegò. Fa impressione detto in Angrezi, no? Ma vuol dire semplicemente quello che noi possiamo dire in cinque parole: – Sab Bhagwan ki leela hai. Questo segnale che ricordava la differenza sociale fra lei e noi le fece fare una pausa, e quando riprese aveva adottato un atteggiamento lievemente più conservatore, un conservatorismo più illuminato e nazionalista, come se volesse dirci che in fondo in fondo lei non era diversa da noi, che in fondo lei condivideva i nostri valori ‘Indiani’. Fu sorprendente con quanta facilità acconsentimmo alla sua costruzione di un’identità plurale, perché la donna in purdah naturalmente avrebbe detto: ‘Sab Allah ke haath hai’, e io avrei potuto dire, ‘Sab lekni ka khel hai’ e chissà quali divinità particolari avrebbero invocato le altre donne? Per il momento, comunque, la vecchia interruppe il suo resoconto per guardare dal finestrino, mentre prendevamo la nostra strada dopo la fermata di Bela, era come se nuotassimo in una corrente di risciò e thella, col bigliettaio che si spenzolava dalla porta posteriore, battendo sulle fiancate del bus e lanciando maledizioni contro i pedoni e i ciclisti. Però con noi noi era un altro uomo. Veniva a domandare alla vecchia come stava, e una volta che lei disse che non c’era bisogno che si desse tanta pena, lui rispose che non era affatto una pena. Tuo figlio, maaji, non è solo molto amico del mio maalik, è anche un uomo naami. La sola cosa buona del deragliamento del maalgaadi è che questo povero bus ha avuto la fortuna di portare i tuoi sandali. La sola cosa che posso fare è servirti mentre sei qui, disse. Un uomo gentile il bigliettaio, almeno con noi, anche se potevo sentire come trattava duramente e persino maltrattava – usando il rozzo termine ‘re’ per rivolgersi a loro – i passeggeri proprio campagnoli. Non proprio tutti, perché l’Indian People’s Front e il Communist Party of India (marxista–leninista) sono piuttosto attivi nei villaggi di questa zona. Faceva il prepotente solo con quelli che evidentemente non potevano avere la tessera di un partito rivoluzionario, o essere membri armati di una banda. 23 – Mentre sorseggia il chai alla fermata del bus, asprirandolo anche rumorosamente per raffreddarlo, Mangai Singh ripensa a quella bevanda che cura il dolore. Un compito enorme: non la TBC, non il cancro, nemmeno l’AIDS, ma proprio quel cazzo di dolore. Una volta gli avevano spiegato perché i fiori di Ashoka avevano quella proprietà. Un passeggero, un vecchio sadhu, nato col colore della notte o diventato nero per il sole, rinsecchito e convenientemente fornito di barba bianca come si deve, gli aveva raccontato la storia. La storia gli è tornata in mente vedendo passare un gruppo di campagnoli. Il gruppo comprende due o tre aborigeni – tribali, li chiama così. Ora sono laggiù, in quella parte trascurata dello stato, dopo la fermata di Dhods, dove qualche volta i tribali si possono ancora vedere, può capitare di vederli in circostanze che non richiedono che la loro semi–nudità tribale sia coperta con pantaloni o pyjama civili. Si possono vedere con la pelle nera e i laceri perizoma, con il loro orgoglio individuale e la miseria collettiva. Come mai la cura con loro non ha funzionato? C’era una donna tribale che si chiamava Sashoka e aveva ricevuto il dono di trasformarsi nell’albero dai cui rami il potente Hanuman consolò Sita sedotta e abbandonata, sì, ancora lei, quella della maledizione. Hanuman la consolò dai suoi rami, la signora della maledizione, ed ecco che in un batter d'occhio Ashoka diventò l’albero senza pena. Ma allora perché, si domanda, i discendenti di Sashoka vanno ancora in giro stringendo il loro fardello di pene? 24 – Perché non vendi questo rottame e ti prendi una Maruti? Hari con questa domanda si sentiva insultato, suonava forte il clakson a una thella intransigente e decideva di non rispondere. Ma avrebbe potuto ribattere. Avrebbe potuto rimbeccarlo, E tu come credi di entrarci in una squallida Maruti con i tuoi due metri di altezza? La battuta gli veniva sulla bocca in inglese pidgin ma se la ringoiava. Hari aveva trovato questo lavoro – ed era un lavoro dove si guadagnava, un lavoro pagato tre volte di più di quanto avrebbe guadagnato in qualunque altro posto – grazie alla sua abilità di capire e parlare l’inglese. A Gaya era uno dei due o tre autisti che capivano l’inglese. Tutti loro avevano imparato l’inglese portando i turisti in giro a Bodh–Gaya, nelle scuole che avevano frequentato l’inglese non si insegnava o si faceva solo sulla carta. Fra tutti, Hari era quello che parlava meglio l’inglese – veramente molto meglio di quanto desse ad intendere. Aveva lavorato come guida turistica a Bodh–Gaya e Nalanda, e questo gli aveva fatto raccattare più parole in inglese di quante ne servono alla maggior parte degli autisti. E poi, la lingua dei suoi migliori turisti non era l’inglese, ma il giapponese. I turisti giapponesi venivano più spesso da quelle parti – perché questa terra era il cuore storico del buddismo – e tiravano sul prezzo meno dei turisti occidentali. Un buon numero dei loschi ragazzi disoccupati che girellavano intorno a Bodh–Gaya e combinavano affarucci di contrabbando con le ‘guide services’ stagionali, parlavano giapponese con gradi diversi di competenza e di immaginazione. Dieci anni prima qualcuno avrebbe saputo anche il Thai, ma questa lingua stava morendo col declino dell’economia Tiger. Hari aveva capito parola per parola quello che aveva detto Rasmus. Aveva capito anche il tono, per questo aveva fatto finta di non capire la battuta. Rasmus era irritato – gli pesavano il tempo irregolare e il contenuto della valigetta – e proprio per questo era stato sarcastico. Hari aveva una teoria sull’irritazione nei vari popoli: gli americani alzano la voce e diventano caustici, i giapponesi sono educati ma ostinati, gli scozzesi e gli inglesi tendono a farti una conferenza su valori universali (scozzesi e inglesi), i francesi prima ti fanno le loro rimostranze e poi ti danno una mancia decisamente inferiore, i danesi fanno commenti pungenti e indiretti. Fra tutti, Hari preferiva la reazione del tipo francese, ne apprezzava la logica francamente economica. Era strano, pensava Hari, mentre suonava il clakson abbastanza forte da dissuadere un anziano che aveva intenzione di attraversare la strada, era strano, per quanto lui potesse ridere dell'Ambassador con i suoi amici, che non sopportasse le critiche rivolte a questi fidati modelli dai suoi clienti, specialmente se non venivano dall’India. Gli sarebbe piaciuto rispondere a Rasmus per le rime, bene, almeno noi facciamo le nostre macchine. Ma se ne stava tranquillo col suo rispetto professionale anche perché non ne sapeva abbastanza della Danimarca. Forse loro si facevano le loro macchine come si deve. Tutto quel che sapeva della Danimarca era che producevano una grande quantità di latte. ‘Venite dalla terra del latte e del burro, sir, vero?’ aveva chiesto a Rasmus il giorno in cui aveva fatto il colloquio per il contratto di lavoro, sapendo che nella sua buffa semiconoscenza la domanda avrebbe giovato alle pubbliche relazioni. Il suo fine miscuglio di informazione e ignoranza tendeva a rassicurare il sahab. Aveva funzionato. Ma il motivo per cui Hari associava la Danimarca con il latte e il burro aveva a che fare con una vaga reminiscenza infantile: una figura che mostrava una mucca bianca a macchie marroni enormemente grassa che guardava compiaciuta. Hari dapprima aveva creduto che la fotografia rappresentasse una scena francese – era capitato nel semestre in cui aveva lavorato per un archeologo francese che era venuto a vedere l'India – ma ora era sicuro che fosse stata scattata in Danimarca. Era l’espressione compiaciuta sul muso della mucca che aveva fatto decidere Hari dopo che gli era capitato di conoscere una coppia di Danesi. A parte questo, non aveva modo di sapere se la Danimarca produceva latte o petrolio. E non era particolarmente preoccupato dal momento che Rasmus gli pagava lo stipendio – e le saltuarie promozioni – regolarmente. Riaccomodandosi sul sedile anteriore di plastica dell'Ambassador, Hari pensava di ripetere il suo commento in una forma più aggressiva (‘La Danimarca non produce altro che latte, vero sir?’), ma poi fu distratto da un stormo di passeri cinguettanti che saltellavano sui davanzali delle finestre e sulle soglie dei negozi lungo la via e sentì che la sua irritazione svaniva. Non erano poi tanto in ritardo sul programma. Poteva sopportare le solite malignità di Rasmus. Sapeva che Rasmus aveva un appuntamento importante col ministerji dell’agricoltura dello stato, che poteva aiutarlo a concludere un contratto per la sua compagnia multinazionale. Il ministerji era anche lo MP di Phansa, ed ecco la ragione del loro viaggio di oggi. Hari sarebbe stato tollerante. Era abituato a Rasmus, a Ghasmus–sir come lo chiamava, incapace di pronunciare la erre danese, o a Ghasphus–sir come lo chiamò al ritorno. Non che quel Rasmus alto, sano d'aspetto, con le spalle larghe, somigliasse a quella specie di erbaccia sottile che si chiama ghasphus. 25 – Improvvisamente dal nulla su un muro diroccato lo scarabocchiato graffiti in Devanagari: Proust Padho! Leggi Proust. Che cazzo è, si domanda, questo Proust? 26 – Stavano andando a passo di lumaca lungo la stretta strada di Karbal–Kund, che era stato un paese distinto mentre ora era diventato l’estrema periferia di Gaya. Questo era un tratto delicato, e una delle tante cause dell’irritazione di Rasmus. Più avanti la strada curvava, proprio nel punto in cui si stringeva ulteriormente, a collo di bottiglia, tanto che ci poteva passare solo un veicolo per volta. Rasmus era al corrente del fatto che camion e bus cominciavano a viaggiare dalle nove di mattina. Rasmus – e Hari, anche se non lo avrebbe ammesso – volevano uscire da questo tratto prima che si formasse l'ingorgo del mattino. Erano curve come questa che facevano dell’Ambassador una scelta intelligente, disse Hary silenziosamente a Rasmus, in cuor suo. Un solo graffio sulla Maruti provocato da un camion prepotente e ti toccava spendere una piccola fortuna per farla riparare. E aspetta di arrivare al primo dosso artificiale, un enorme rallenta–macchine di quelli che gli abitanti dei villaggi si fanno da sé fuori dai loro paesi. Se avessi una Maruti un dosso come quelli sarebbe uno scassa–macchine. Un’immagine barbuta e inghirlandata di Sai Baba pendeva dallo specchietto retrovisore dell’Ambassador e annuiva saggiamente, codividendo i sentimenti di Hari. L’Ambassador, con la vernice bianco sporco staccata in qualche punto, arrancava lungo la strada angusta. Hari mise una marcia più bassa, questa volta in modo più dolce e senza far rumore. Era entrato nella curva a collo di bottiglia e poteva vedere il camion che arrivava dalla direzione opposta. Erano ancora a più di cento metri. Hari spinse sull’acceleratore e innestando una marcia più bassa lanciò l’Ambassador. Vide che scattava anche il camion. Rasmus, che dopo un istante di silenzio allibito aveva cominciato a protestare vivacemente, imputava questo sventato gioco da polli alla testardaggine e alla vista miope degli autisti e al traffico sregolato delle strade indiane. Ma Hari e il guidatore del camion stavano seguendo un codice rigoroso per quanto non scritto. Sapevano che il veicolo che sarebbe entrato per primo nella curva avrebbe ottenuto la precedenza. Anche se avevano fatto stridere le gomme fermandosi a un solo metro uno dall’altro, Hari poteva vedere che la corsa non era finita con un risultato incontrovertibile. Entrambi i veicoli erano quasi a metà della curva. Non prese ancora in considerazione le proteste di Rasmus e mise fuori la testa per fare le sue rimostranze all'autista del camion. L'autista del camion rifiutava di farsi da parte. Aveva letto tutti gli articoli del libro non scritto sulle locali regole del traffico: in una situazione incerta, il veicolo più piccolo è tenuto a dare la precedenza. Brontolando contro i ‘guidatori indiani pazzi della scatenati sir’, Hari fece retromarcia lungo tutta la strada e guardò l’autista del camion che gli passava accanto ruggendo con un cenno indifferente. Rasmus stava ancora imprecando e Hari pensò che era meglio disinnescare la tensione assecondando il pregiudizio fondamentale del suo datore di lavoro. ‘Auto Ambassador vecchio rottame, sir, cammina poco, tartaruga zoppa’, disse, sentendosi più falso di Giuda. ‘Io vendo anno prossimo, compro Maruti van’. Non era particolarmente preoccupato per le rimostranze di Rasmus – a dispetto del fatto che a volte si irritava, Rasmus era un datore di lavoro indulgente. Non gli importava gran che nemmeno delle opinioni di Rasmus sulle abitudini e sulle faccende indiane, nonostante Rasmus fosse il primo europeo che avesse conosciuto a capire l’Industano e perfino a parlarlo un po’. Quando erano tornati nell’ufficio della compagnia, c’erano state delle voci su suo padre, che sarebbe stato un indiano – ma Rasmus ad Hari non sembrava indiano. Riguardo al fatto che Rasmus capisse le usanze indiane, perché, Hari non lo aveva forse visto fermarsi per correggere gli operai che montavano una tenda accanto all’ufficio della compagnia? Era la tenda per un matrimonio e gli operai stavano seguendo un metodo illogico e contorto che incrementava in modo significativo il numero di ore lavorative che avrebbero impiegato per quel lavoro. Rasmus si era fermato a spiegare loro un metodo più semplice, non immaginando neanche lontanamente – cosa che per Hari era evidente – che gli operai aumentavano di proposito il numero di ore di lavoro per le quali sarebbero stati pagati. ‘Più logico’, aveva mormorato mentre lo spiegava agli operai, che lo avevano guardato adeguatamente impressionati. Era, comunque, un genere di logica molto illogico per gli operai che erano tornati al loro vecchio metodo appena Rasmus se ne era andato. No, Hari non era particolarmente impressionato dalla logica di Rasmus – comunque di Rasmus lo aveva impressionato di più la complicata macchina fotografica con lo zoom. Ma restavano ancora almeno due ore di viaggio prima di arrivare a Phansa, e Hari non voleva guidare con Rasmus che continuava a criticarlo dal sedile posteriore. Sentiva che questo era uno di quei giorni in cui non poteva sopportare troppe critiche. Alzò un ramoscello d’olivo. ‘Non auto buona, auto Ambassador, sir’, disse, ingoiando il suo orgoglio per l’Ambassador e prendendo la curva con la massima prudenza. Le strade avevano già cominciato a riempirsi. Una coppia di ortolani stava allestendo la bancarella. Alcune donne si avvicinavano portando prodotti agricoli e caseari in equilibrio sulla testa. Degli studenti, alcuni dei quali indossavano delle pallide imitazioni di uniformi di scuole private economiche, si incamminavano verso le loro classi in aule dal tetto sottile e su verande di cemento. 27 – Operai in piedi sotto al sole, a lavorare con pale e piedi di porco. Stanno riparando un tratto della adiacente ferrovia a un solo binario. Più avanti, una Ambassador governativa bianca è parcheggiata accanto a un albero gullar e alcuni agenti si sono messi all’ombra dei suoi grandi rami. Non fa così caldo da costringere a cercare l’ombra, ma evidentemente il caldo non ha nulla a che fare con la faccenda. Sopra al rumore del traffico e al borbottio del suo motore, ora sente il richiamo sordo di un piccione. 28 – C'è il suono di una musica da film che viene dall’appartamento di Mrs Prasad. Viene spento. È l’ora della lezione di Chottu. Mrs Prasad crede nell’istruzione; i suoi figli sono la dimostrazione vivente di quel che puoi ottenere con l’istruzione. Suo marito, dio lo benedica, ha lavorato in molte banche e ha risparmiato tutta la vita per dare ai loro figli la migliore istruzione possibile: il meglio delle scuole medie missionarie inglesi a Patna e poi direttamente all’Università di Delhi. In memoria di lui manda Chottu alle "English Classes" tenute da una delle mogli in un appartamento del condominio adiacente. Chottu non vede che senso abbia farsi un’istruzione. Non è uno stupido. Da quando i suoi genitori paesani lo hanno portato la prima volta da Mrs Prasad a otto o nove anni lasciandolo qui con l’accordo che il settantacinque per cento del suo stipendio sarebbe stato accreditato mensilmente a suo padre, è arrivato a conoscere e a capire questo nuovo mondo della città. Nel vicinato conosce più gente di Mrs Prasad. Non è più il bambino piccolo e timido, vestito col ganji e i pantaloni corti, col moccio che gli gocciola da una narice fra un singhiozzo e l’altro. Si veste il più possibile alla moda e si porta sempre un pettine dietro. Ha una collezione di occhiali da sole economici, più che altro di plastica, che Mrs Prasad gli fa sempre togliere. La sua voce ha cominciato a cambiare. A volte sta a sedere al nukkad con ragazzi più grandi e gioca quel venticinque per cento della paga che viene data a lui. Sente che l’istruzione è qualcosa che corrisponde poco ai suoi gusti. Ha l’esempio dei ragazzi challoo nukkad che sono entrati nel giro dei soldi. Ha l’esempio di giovani, uomini e donne, come la figlia maggiore degli Sharma, che hanno messo tanto impegno nello studio per accedere a un futuro di dubbi su se stessi, frustrazioni e fallimenti. Conosce tutti i maestri e i professori del vicinato, e ha scoperto che quelli che hanno soldi li hanno perché dispongono di risorse economiche diverse da quelle procurate loro dalla laurea. Dubita che i figli di Mrs Prasad abbiano fatto i soldi in modo proprio lineare. Ha visto film hindi. Sa tutto sui soldi facili, anche se non ne ha mai avuti. Si chiede se chi ha dovuto studiare e lottare per i soldi comprerebbe mai una Contessa nuova fiammante con l'aria condizionata lasciandola in garage per usarla una volta ogni tanto, più o meno una volta l’anno, quando va in visita. È quello che ha fatto il figlio maggiore di Mrs Prasad quando è arrivato in città da Chicago, circa due anni fa. E poi il lettore di CD e l’enorme televisore d’importazione che Mrs Prasad non ha mai voluto e che si rifiuta di usare. Chottu vede il mondo molto chiaramente, anche se scurito da un’ombra permanente, la sua povertà, come se portasse ininterrottamente un paio di occhiali da sole di plastica. Chottu considera importante sparire proprio quando Mrs Prasad sta per chiamarlo a fare i compiti. Compiti un accidente, lo hai sentito borbottare. Mrs Prasad chiama, Chottu, Chottuu, Choootttuuuu, con la voce più adirata a ogni richiamo. Nessuna risposta. Chottu, Chottuu, Choootttuuuu, grida nella notte scura. Si sente il rumore del traffico e perfino il lieve sciabordio dell’acqua del Gange in lontananza. Il fiume è ancora in piena dopo il recente monsone. Mrs Prasad grida ancora, scrutando nell’oscurità sottostante, col parco circondato dal cemento che contiene solo qualche cespuglio e dell'erba ormai ingiallita, sulle macchine parcheggiate intorno si riflette il giallo di due lampadine da quaranta watt dell’illuminazione stradale, una delle lampadine è attaccata a un portalampada non fissato e oscilla nella brezza leggera, gettando ombre furtive su Fiat, Ambassador, Maruti, su appartamenti con le finestre sbarrate laccate di giallo a basso voltaggio, come occhi malati d'itterizia, o luccicanti della luce bianca dei tubi al mercurio. Senti uno sfrigolio nell’appartamento di sopra. Mrs Sharma ha gettato cipolle finemente affettate nel ghee bollente: è l’ultima fase di preparazione della cena. Presto il tarka sarà pronto e versato nel daal. Sarà accompagnato dal riso e da un curry di verdure. Sottaceti. Ci sarà del pappad, forse. Non hai ancora sentito il profumo del pappad né lo hai sentito sfrigolare. Gli Sharma mangiano presto. Mrs Prasad ora sta chiamando il durban assunto dalla cooperativa del condominio che alloggia in una baracca accanto al giardino. Il durban risponde alla quarta chiamata. Ha la voce bassa e impastata: dipende da un primo bicchere di grog o dello sporco chaddar grigio che si avvolge intorno al corpo al minimo soffio di aria fredda. Al durban viene ordinato di andare a cercare Chottu; Mrs Prasad chiude la porta un po’ più forte del solito. Fuori puoi sentire la città, la grande città. C’è il basso rollio di un aeroplano, uno dei pochi che atterrano nell’aeroporto locale. Il Gange ora è più forte, perché il rumore del traffico si è un po’ attenuato. La gente è a casa a vedere la TV, solo una rara macchina o un camion si fanno sentire negli appartamenti di quando in quando. Ci sono lontani episodici scoppi di clacson arrabbiati: qualche strada troppo stretta o ancora intasata. C’è un disco che suona in lontananza. Sai che si tratta di un disco perché si incanta di continuo. Probabilmente, pensi, un primo matrimonio. Veramente la stagione dei matrimoni non dovrebbe essere ancora cominciata. Quando accadrà, ci sarà una cacofonia di musiche da film e di futili canzoni pop un po’ volgari, seguite dalle occasionali esplosioni di protesta da parte di Mrs Prasad, dalla porta accanto. Mrs Prasad può guardare senza protestare le stelle del cinema che strofinano insieme le labbra e spingono i loro bacini vestiti di tutto punto uno contro l’altro, in una maniera che non lascia nessuno spazio all’immaginazione, ma il minimo frammento di nudità o di parola oscena la fa arrabbiare. Senti passi leggeri ed esitanti che salgono le scale, mentre le chiavi risuonano contro la ringhiera di metallo. Gli Sharma sono già seduti a tavola: c’è il suono metallico delle sedie pieghevoli spinte al loro posto e dei piatti di alluminio disposti sulla tavola. La figlia minore ha smesso di ripetere meccanicamente. La porta di Mrs Prasad si apre e si chiude. L’hai già sentita: lezione di Mrs Prasad su educazione e responsabilità, su carattere e background, su Carattere e Background; repliche giuste e svogliate di Chottu. Mrs Prasad usa le parole con le quali deve aver parlato ai suoi figli, ma le parole che sente Chottu sono diverse. Forse è il modo in cui sta seduta Mrs Prasad – sul lussuoso divano comprato da sua figlia l’inverno scorso – e il modo in cui sta a sedere Chottu, su uno sgabello che di quando in quando senti battere sul pavimento, come protesta non verbale. Mrs Prasad non vede questa differenza fra il modo in cui sta a sedere Chottu e come il modo in cui stavano seduti i suoi figli. Mrs Prasad lo dice per il suo bene. Ha insegnato a Chottu a sedersi su sedie e sgabelli, ma il loro rapporto è tale che Chottu non sta mai seduto sul divano senza sentirsi a disagio. Mrs Prasad parla di Carattere. Qualcosa che lei e suo marito hanno evidentemente trasmesso ai loro figli come un'eredità. Chottu sente parlare di carattere, come di una cosa che a quanto pare è completamente mancata ai suoi genitori e ai loro parenti. Mrs Prasad dice possibilità, Chottu sente limitazioni. La predica finisce e l'appartamento della porta accanto si riempie di calcoli e di parole pronunciate con sofferenza, intervallate dalle correzioni taglienti e professionali di Mrs Prasad. Chottu è un ragazzino intelligente, l'hai sentita quando lo dice alla moglie del Dr Rai dal piano terreno durante una delle loro chiacchierate all’ora del tè, mentre Chottu porta il vassoio del tè, eh sì, un ragazzo molto sveglio, però, mamma mia come diventa ottuso quando si tratta di leggere e scrivere! Si ricorda mille e una canzone da film ma non riesce a imparare nemmeno una sola poesia senza fare errori. Mrs Prasad può attribuirlo solo alla sua mancanza di background. Il background spiega molto nella cerchia di Mrs Prasad. Il background è qualcosa che si può prendere solo dalla propria famiglia, concorda la moglie del Dr Rai mentre Chottu serve il tè e appoggia un piatto di samosa che ha comprato poco prima dall’halwai dietro l’angolo. Pensi che in quel preciso momento tutte e due potrebbero aver dato un occhiata in su, verso l’appartamento degli Sharma, perché le hai sentite attribuire l’insuccesso delle figlie degli Sharma quando hanno cercato di intrufolarsi nel celeste reame del Civil Service alla loro “mancanza di background”. Mrs Sharma ha uno sguardo da topo ed è analfabeta, vive costantemente terrorizzata dal mondo esterno e da una provvidenza divina particolarmente avara. Mr Sharma ha studiato in un paese e poi in un college di Jehanabad e si è spostato a Patna solo quando ha avuto il posto. Pochissime persone degli appartamenti più piccoli hanno un 'background', anche se Mrs Prasad e la moglie del Dr Rai non sono mai state consapevoli di questa seria mancanza. Nemmeno quando pensano di aver continuamente a che fare con l'invidia di persone che avrebbero potuto fare di meglio, ma, come Chottu, non riescono a sforzarsi come dovrebbero. È quello che a volte Mrs Prasad dice a Chottu nei suoi slanci di affetto: Da grande, Chottu, invidierai a persone come i miei figli l’istruzione che neghi a te stesso. Ma Chottu non invidia i suoi figli per l’istruzione. Li invidia perché possono tornare a casa quando vogliono. Li invidia perché possono tornare a casa carichi di regali. Gli appartamenti diventano silenziosi. Gli Sharma hanno mangiato e Chottu, dopo essere stato sufficientemente istruito per circa un’ora, ha riscaldato il curry di verdure e ha fatto qualche chappati per sé e per Mrs Prasad. La TV è accesa in entrambi gli appartamenti e suoni discordanti filtrano da due direzioni. Provocato da queste musiche, o forse perché hanno finito di studiare, uno dei sei studenti del college che hanno preso in affitto l’appartamento di due stanze accanto agli Sharma mette su Pankaj Udhas. Gli studenti non hanno un televisore. Hanno un vecchio impianto stereo due–in–uno, nero, che sembra una scatola e funziona come radio fino a mezzogiorno e la sera a volte viene usato come un metallico mangianastri. La notte si fa più profonda. Sei steso sul tuo letto. Filtrano i suoni di sempre. Sei disteso sicuro nella precaria conoscenza che questo è un mondo che ti è noto. I cani abbaiano a gara da una parte all’altra del vicinato, rombano rari camion, qualcuno canta fra le braccia della notte – un ubriaco o un operaio che torna tardi – porte si aprono e si chiudono qua e là nel condominio, il rubinetto nella cucina degli Sharma non smette di sgocciolare. Se fosse più freddo o più caldo sentiresti il colpo secco di qualcosa che si espande o si contrae nei muri. Le luci si spengono e qualcuno urla giù in strada. Poi si stende l’interruzione di energia elettrica come una coperta di silenzio. Ancora un minuto o due di silenzio più profondo, rotto alla fine dalla voce acuta di Mrs Rai. Non è ancora mezzanotte e il Dr Ray non torna mai prima di mezzanotte. A uno dei due servi è stato ordinato di accendere il generatore e c’è il suono del meccanismo che si cerca di riportare in vita. Al quinto tentativo si accende e un lieve mugolio riempie l’edificio. In fondo alle scale un bagliore leggero si riflette dai muri dell’appartamento di fronte. Un generatore più grande e più sonoro viene convinto ad accendersi da qualche altra parte, ma è così lontano che il suo rombo sordo si confonde col mugolio di quello giapponese sofisticato di Mrs Rai. La musica da film del matrimonio che era caduta all'improvviso nel silenzio si rialza, questa volta più forte, perché altri rumori che competevano con lei sono stati messi a tacere dall’interruzione di energia elettrica. Il cielo si fa più scuro. Qua e là gli ululati dei cani sono più alti e inquietanti. Gli Sharma e Mrs Prasad usano lanterne a kerosene durante le interruzioni di corrente elettrica, anche se per motivi diversi. Quando Mrs Sharma chiede alla figlia maggiore di accendere la laalten, pensa a quanto risparmia; se potesse permettersi un generatore, lo luciderebbe tre volte al giorno. Mrs Prasad grida a Chottu di prendere la lampada solo perché si è sempre rifiutata di usare il generatore Toshiba che, come l’enorme TV e l’impianto stereo e la macchina giù sotto, è stato comprato per lei da uno dei suoi figli, i figli del cui successo però è così orgogliosa. Puoi immaginare la città che cade nel silenzio, da qui lungo Gol Ghar e Boring Canal Road anche fino a Gandhi Maidan, un posto di giorno così affollato, ora vuoto e addormentato. Ma no, tu sai che la sospensione di energia probabilmente non si estende alle zone più alla moda. Una parte del cielo, vicino al centro della città, riflette ancora un nube di luce soffusa. Ma questo è quando le orecchie cominciano a percepire cose molto fini. Un fruscio, un silenzio, un colpo. La finestra aperta fa entrare vari odori, perché questo edificio non è proprio nel centro della città. Non è tanto lontano dal Gange, un’autostrada separa questi edifici dal fiume. E la brezza, di cui ora puoi sentire il sussurro, ti porta dal fiume ricordi inattesi, strani: l’umida fragranza della terra che solo la gente che vive in terre aride, nutrite dal monsone, può conoscere e apprezzare davvero, il profumo improvviso del gelsomino, il persistente odore di decomposizione, di un corpo che marcisce o di escrementi in riva al fiume. In questo momento dell’anno non è poi così sgradevole l’interruzione di energia elettrica e luminosa, perché non si ha bisogno dei ventilatori. La luce torna, i generatori vengono spenti e tu ti addormenti. È un sonno pieno di suoni. La voce di tuo padre che attraversa dieci anni e tre stati, i suoni del tuo passato e del tuo presente, la tua realtà e la tua immaginazione, tutti mescolati con letti scricchiolanti, passi, latrati dei cani, suoni di camion, tic–tic–tic del rubinetto. Non smetti mai di ascoltare, anche se hai l’impressione di averli ascoltati tutti. Una volta ti svegli con l’impressione di aver sentito delle voci intorno a te, voci basse che complottano, forse hai sentito anche un breve grido; sei disteso nel tuo letto ad ascoltare e ti riaddormenti senza aver capito bene. 29 – Sul bus le voci di tre o quattro uomini si sono levate sul baccano generale. I loro accenti sono rozzi e rabbiosi. Discutono di questioni che hanno avuto con un paese vicino per la costruzione di una diga lungo un corso d’acqua che fluisce oltre entrambi i villaggi. Gli abitanti dei due paesi erano arrivati a ferirsi con bombe a grappolo e un uomo era stato passato da parte a parte con un lathi, anche se non era morto, fortunato figlio di puttana, i lathi qui fanno più male delle bombe a grappolo, ma quale paese civile sparerebbe oggigiorno bombe a grappolo in questo tempo di AK–47, bastardi villani del cazzo, brontola. Stanno discutendo su quale sia la scelta migliore quest’anno. Dovrebbero sparare il primo colpo o stavolta sarebbe meglio aspettare? Le due opzioni sono perfettamentee bilanciate. Compratevi uno Sten, grida, ma non lo sentono, sono troppo impegnati a farsi prediche gli uni agli altri, e solo le donne a sedere nella sezione dietro la sua alzano il capo allarmate. A volte Mangal Singh ricorda un viaggio per una conversazione ascoltata senza volere, come questa. A volte una conversazione come questa si mette in corsivo nella sua memoria. 30 – Quale sarà stata la prima volta che ho viaggiato su un’Ambassador, si chiede Rasmus. Deve essere stata quella prima e unica volta che sono venuto in India con i miei genitori. Quanti anni avevo? Sette anni? Otto? Comunque molto piccolo. Siccome l’Ambassador era associata ai suoi ricordi d’infanzia – e alla memoria vaga di un viaggio così carico di emozioni – Rasmus provò verso la macchina un’irrazionale irritazione. Quella specie di sentimento che si nutre nei confronti della pecora nera della famiglia: senso di irritazione, disgusto e un'invidia che nasconde il residuo di un affetto misconosciuto. Da quel viaggio di vent'anni prima sono tante le cose cambiate in India – anche in una città di provincia come Gaya. Ma l’Ambassador va ancora. Almeno fuori dalle più grandi città indiane, dove è stata rimpiazzata da Maruti, Ford, Honda, Mercedes, molte delle quali fabbricate in India. Suo padre aveva intrapreso il viaggio con umore eccellente; era il suo primo viaggio in India, dopo più o meno otto anni. Suo padre, anche se Hari non ci crede, era indiano. Aveva cambiato il suo nome in Danimarca da ‘Sen’ a ‘Jensen’, per presentarsi ai colloqui di lavoro. A quei tempi un nome danese aiutava. Probabilmente era ancora così, pensò Rasmus, anche se lui, era troppo evidentemente danese nell'aspetto, nella pronuncia, nell'atteggiamento, per averlo imparato dalla sua esperienza personale. Aveva preso dal lato materno. Non c’era praticamente nulla del padre in Rasmus, forse solo il fatto che aveva capelli scurissimi e nemmeno l’ombra di quel giallo che c’era nella famiglia di sua madre, e un ‘mister’ che gli tornava quando meno se lo aspettava, come un fantasma. Suo padre, in India il Dr Alok Sen, laureato in economia all’università di Delhi. Suo padre, il cui nome a Copenhagen alla fine diventò Alok Jensen – disoccupato, parzialmente occupato, e poi pensionato dopo soli quattordici anni di lavoro regolare come rappresentante in una ditta che commerciava in mulini a vento e tecnologie del genere. Suo padre non aveva ottenuto quel lavoro grazie ai suoi titoli accademici: parlava sette lingue, cinque delle quali asiatiche: la ditta stava estendendo il suo mercato in Asia. Suo padre con i suoi ghazal e Rabindra Sangeet che Rasmus crescendo detestava. Per Rasmus, erano suoni di fallimento e debolezza. Odiava in particolare i ghazal come ‘Woh kagaz ki kashti’, canti melodiosi durante i quali suo padre dondolava il capo in una specie di estasi nostalgica – e poi alla fine della sera era ubriaco ed emozionato in modo imbarazzante. Ma durante quel viaggio in India suo padre era stato diverso. C’era stato un ritmonella sua voce, un balzo nel suo passo. Aveva parlato con tanta intensità del cibo indiano e dei monumenti indiani che perfino Rasmus – che aveva sette otto anni e l’indifferenza congenita dei bambini dei paesi ricchi – perfino Rasmus aveva ascoltato. Ma questo c'era stato solo nella fase organizzativa. Appena l’aeroplano era atterrato in India, suo padre era cambiato un'altra volta. Le folle, la disonestà degli indiani, il caldo, la polvere, l’inquinamento, il ‘sistema’, i politici corrotti – tutte queste cose diventarono progressivamente le sue nuove lamentele. Era come se l’India di suo padre fosse stata rubata dai membri di una cultura inferiore. La gente per strada, il caldo, le notizie – tutto veniva considerato da suo padre come un attacco cattivo e premeditato al cibo indiano e ai monumenti indiani, mister. Barbari, brontolava, impacchettando generazioni di sentimenti babu in un'espressiva parola occidentale. Diventò molto peggio quando raggiunsero Ranchi, la città dove Alok Sen era cresciuto e dove i suoi parenti avevano posseduto un grande palazzo. Il palazzo era stato venduto anni prima, ma era sopravvissuto intatto nella memoria di Sen. Era anche stato riempito nuovamente nella sua memoria. Non era preparato al semplice fatto che ora il palazzo non c’era più, era stato abbattuto per far posto a un complesso di piccole abitazioni. Si era aspettato che il palazzo fosse al suo posto, che ospitasse una famiglia come la sua, una famiglia con un cuoco della casa col quale Sen avrebbe potuto scambiare qualche parere. Nelle nuove case c'erano casalinghe o, nel migliore dei casi, una serva che faceva da mangiare. I barbari erano arrivati prima di Sen. Con un unico sinistro soffio non avevano demolito soltanto i monumenti del suo passato ma anche l’intera gloriosa tradizione della cucina indiana. L’avevano privato della possibilità di procurarsi quella risolutiva e inafferrabile ricetta da un bawarchi locale, la ricetta che aveva cercato invano in tanti libri di cucina patinati. Rasmus era sicuro che era questa delusione che spiegava perché i suoi genitori non erano più tornati in India. Questo e il fatto che Rasmus e sua madre avevano passato la maggior parte del viaggio nelle toilette e a vomitare in catini di rame. L’Ambassador stava facendo una serie di rumori. ‘Sassuri’, disse Hari, e spinse la macchina su un lato della strada. Girò la chiave d’accensione, premette la manopola che apriva il cofano e scese per dare un’occhiata al motore. Sembrava un problema di poco conto, forse le candele d’accensione, ma appena Rasmus scese per sgranchirsi le gambe, facendo commenti taglienti sull’Ambassador e sui meccanici locali, per la mente di Hari passò un’idea. Un’idea o un pensiero, più tardi lo avrebbe chiamato così con i suoi amici, intrattenendoli piacevolmente col resoconto, anche se è chiaro che qualcuno poteva chiamarlo un imbroglio. Erano ancora decisamente lontani da Gaya, ma mancavano pochi chilometri alla cittadina più vicina, Akbarabad. Dietro di loro c’era una fila di brulle colline, davanti a loro l’aperta campagna. C'era un grande campo pieno di girasoli. La polvere della pietra frantumata copriva le poche costruzioni di mattoni a un solo piano lungo la via. ‘Stoncrush Dhabba’, diceva un cartello di metallo appeso sul tetto di paglia della veranda dell’edificio a un solo piano più vicino alla macchina. Sotto all'indicazione, un cartello più lungo elencava piatti in Hindi. L’edificio, a parte la veranda col tetto di paglia che poggiava su file di charpoy, era fatto di mattoni e aveva un tetto pukka. Metà della parte pukka consisteva in una cucina, mentre il resto era sistemato con tavoli di legno e sedie pieghevoli. Ma non c'era nessuno seduto a tavola. Gli autisti e gli operai preferivano stare a sedere su un charpoy con assi di legno davanti a loro o appoggiate sul loro grembo con i piatti e le scodelle per il cibo. Che cosa ne sarebbe stato di tutte le sue teorie da firangi, pensò Hari, se l’Ambassador si fosse rifiutata di partire? Non sarebbero state disperse sparse al vento come ghasphus? Hari sridacchiava in silenzio di questo che secondo lui era un gioco di parole piuttosto calzante. Che cosa ne sarebbe stato dell’appuntamento con un ministro del governo statale che Ghasmus–sir sembrava così ansioso di non perdere? Hari giocava con l’idea mentre trafficava con il motore dell’Ambassador. Poi gettò la prudenza al vento, che era diventato una brezza leggera, e si buttò. Rivolgendosi a Rasmus disse: “Molto ragione voi, sir, Ambassador–sassuri no–good bekaar ki car, sir. Ora rotta, sir. Non facile riparare. Grande problema. Vuole tante–tante ore, forse giorno intero. Cosa fare, sir? Macchina non buona, ragione voi, sir. Cosa fare?’ Vide il panico dipingersi sul volto di Rasmus. 31 – Un largo fossato coperto di piante di castagni d’acqua, le foglie verdi coprono l’acqua giallastra. Un uccello, un padda, è immobile come una statua sul bordo dell’acqua, con la sua livrea striata di bruno come la terra che nasconde le penne bianche sottostanti e lo fa confondere con la terra, mentre aspetta, aspetta una rana che faccia anche un minimo errore. 32 – Ti svegli tardi. Sono quasi le nove. Ti meravigli di non aver sentito il bhajan stonato di Mrs Prasad. Lo senti tutte le mattine, che gareggia con i corvi eppure in qualche modo spande un senso di pace nel vicinato. L’appartamento di Mrs Prasad è silenzioso, insolitamente silenzioso, ma il mondo si sta riempiendo di suoni. Le grida dei venditori di giornali e di verdure, le contrattazioni dai pianerottoli, il suono dei secchi di metallo calati con delle corde, secchi con l’importo pattuito da sopra perché vengano riempiti con gli acquisti ordinati dal venditore di sotto. Gli studenti hanno la radio accesa; le notizie sono litanie di fortuna e sfortuna da tutto il mondo. Thella, automobili, voci, ssciabordii dai bagni, Mr Sharma che compie le sue elaborate e sonore abluzioni mattutine, Mrs Sharma che frigge puris, vecchie canzoni da film di Mukesh, Rafi, Lata, canzoni da film più recenti di qualcuno di cui non ti sei mai dato la pena di cercare il nome, il suono di una lite da un negozio sulla via, il gracchiare dei corvi: il mondo suona esattamente come ha sempre fatto, e tu mangi con calma una sana colazione. Senti quello che hai sempre sentito, suoni che sono identici pur non essendo mai gli stessi. Credi di aver sentito tutto, ma non è così. Non hai sentito il silenzio nell’appartamento di Mrs Prasad. Ma ne sentirai parlare più tardi. Il durban dirà a te e tutti gli altri come ieri a notte fonda tre giovani siano stati fatti salire da Chottu, che sosteneva che erano parenti venuti dal suo paese che portava a casa di Mrs Prasad per la notte. Ti dirà come avrebbe dovuto notare se avevano o non avevano delle borse, perché ha notato le loro grandi borse quando se ne sono andati al levarsi del sole. Avrei dovuto chiedere a Chottu perché doveva accompagnare dei ragazzi più grandi alla stazione dei treni, ti dirà il durban, cercando disperatamente di essere assolto dalla sua parte di colpa. Ma chi sei tu per assolverlo, tu che hai sentito tutto ma non hai ascoltato abbastanza? Sentirai dell’arrivo dei figli di Mrs Prasad, tutti tranne quello di Chicago, e della efficiente rapidità con la quale hanno organizzato la cremazione. Sentirai resoconti e chiacchiere di testimoni oculari. Sentirai parlare di Chottu per settimane. Come sia stato visto alla stazione; come sia stato quasi preso a Gaya quando è sceso dal treno; come sia stato visto l’ultima volta (aveva con sé un sari Banarasi mezzo incartato e portava occhiali da sole con la montatura di plastica) dove si era fermato il pullman privato Gaya–Phansa; come dovesse essere diretto al suo paese sulla strada da Gaya a Phansa. E poi potresti sentire che cosa gli è successo su una strada polverosa, oppure lui potrebbe cadere fuori dalla portata di tutte le orecchie della città. Ma per qualche settimana tutti i giornali locali ne parleranno, perché questa non è Delhi. Questa è Patna, dove i muri sono ancora sottili. 33 – La sola persona sul bus che fa fare una pausa agli occhi irrequieti di Mangal Singh è seduta in un posto della fila davanti. Indossa vestiti laceri ma puliti, camicia e pantaloni di cotone. Porta occhiali spessi, cerchiati di nero. È obeso in un modo particolare, liquido, sta diventando calvo sulle tempie, da tutte e due le parti, la faccia è gonfia in un modo poco sano. Anche da questa distanza, Mangal Singh riesce a vedere la forfora sparsa come polvere sul telo scuro che gli copre le spalle. Sembra in un mondo tutto suo e non è difficile vedere che l’uomo non sta bene. Per niente bene. Eppure quel che fa fermare gli occhi di Mangal Singh sul volto dell’uomo per un oscillante secondo, sono i segni di delicatezza che vi si possono scorgere. Non necessariamente educazione o istruzione, ma delicatezza: quella particolare sensazione che si associa a una statua del Buddha, occhi allungati, volto sereno e amoroso. Di tanto in tanto nota un uomo così. E qualche volta una donna. Li scopre dal modo in cui si tengono a una certa distanza da ogni cosa, connessi ma non coinvolti. Invidia la loro distanza. Anche quando sono decaduti – e gli abiti di questo indicano una caduta di qualche genere, una caduta verticale, se lui sa giudicare bene la cosa, e lui sa giudicare le cadute, ne ha avute più della parte che gli spettava – anche quando cadono sembra che lo facciano così, con un movimento lento, come se il suolo non potesse mai realmente ferirli. È una cosa che lui non è mai riuscito a coltivare. Tutte le volte che cade, le sue mani si agitano da tutte le parti in cerca di un corrimano da afferrare. Lui cade a peso morto. 34 – E ora potevo sentire nel corridoio l’odore di Zeenat. Ero stato a fare una visita ai miei vicini. La scuola era chiusa per l’inverno, lasciandomi più sere libere e una scusa per gironzolare nel vicinato dove ci si conosceva più o meno tutti. E così, non perdevo nemmeno un'occasione che mi fornisse una scusa per andare a trovare i miei vicini dopo quella volta che avevo scoperto Zeenat che prendeva il sole col suo sari giallo sbiadito, le braccia nude e piegate a pettinare i lunghi capelli scuri. Quella sera l’avevo vista uscire ed ero andato via appena potevo farlo senza sollevare sospetti, con la speranza di cogliere un suo sguardo mentre uscivo. Avevo la sensazione che mi avesse guardato per tutta la sera, mentre serviva il tè e i nimkis, mentre portava via i piatti. In quel periodo della mia vita avevo sempre una sensazione di quel genere, e non solo con Zeenat. Avevo sedici anni, età di vaghe sensazioni romantiche. Non avevo idea di cosa sarebbe successo se l’avessi incontrata nel corridoio o lungo le scale. Probabilmente nulla. In passato l’avevo incontrata tante volte nel corridoio o per le scale. Non era successo nulla a parte la sua lotta lenta e decisa che metteva al tappeto il mio sguardo, un’azione che richiedeva uno o due secondi, ma che sembrava il tempo di tutta una vita e mi lasciava ansimante, senza respiro. Il suo odore si fece più intenso. Girai l’angolo e la vidi seduta sul pavimento all’altro capo del corridoio, proprio davanti alle scale, appoggiata contro il ruvido muro imbiancato. Alzò gli occhi, catturò il mio sguardo e lo mise al tappeto. Era tutto troppo prevedibile. Ma poi, mentre le passavo accanto, con lo sguardo fisso sul pavimento davanti ai miei piedi, sentii che i suoi piccoli piedi si muovevano. Un istante dopo stavo cadendo, ma lei si era già mossa e mi aveva preso prima che toccassi terra. Lei era più bassa di me – più piccola di quasi due spanne – ma abbastanza forte da reggere il mio peso e rimettermi in piedi. Le sue braccia mi circondavano, lei mi sorreggeva circondandomi la spalla destra, e mi sostenne per qualche secondo più del necessario. O era solo quel che fantasticavo? Si profondeva in scuse per avermi fatto inciampare. Mi sono scivolate le gambe, diceva. Scesi le scale di corsa dopo averla rassicurata che non c’erano problemi. Le sue mani erano ancora su di me; il suo odore mi si stringeva intorno mentre scendevo le scale senza luce. Avevo raggiunto il fondo quando la sentii dire, Cosa? Mi voltai. La sua silhouette si stagliava contro l’illuminazione al mercurio in cima alle scale. Il suo corpo – pieno e sodo – si disegnava nelle trasparenze del sari. Cosa?, disse ancora, e cominciò a scendere le scale. Avevo la gola asciutta. Mormoravo una risposta. Non ti ho sentito, Irfan babu, disse, venendo un po’ più vicina. Ora ci separava solo uno scalino. Dicevi qualcosa? Mi chiese. Cercando di restare calmo, cercando di controllare il mio respiro, le risposi onestamente: no. No, Irfan babu, ripetè, facendo un altro passo verso di me in modo che i nostri corpi tornavano a toccarsi, no? Quando la cinsi con le braccia e la baciai goffamente, non fece obiezioni. Il suo odore era entrato in quella parte profonda della mia anima dalla quale nulla può essere più cancellato. Sarebbe rimasto lì per tutta la mia vita, e al momento non m'importava quello che dicevano di lei. Scostumata? Puttana? Per sentire il suo tocco su di me, per sentire il suo calore pieno, sarei andato contro tutte quelle lingue. Lasciai che le mie mani andassero a toccare il suo seno. Un po’ mi guidò e un po’ mi spinse pochi metri più in là, sulla porta della sua camera. Mi resi conto a malapena che ci stavamo muovendo. Non sapevo se c’era qualcuno a guardarci. O forse sapevo che non c’era nessuno, perché ricordo di aver osservato il suo sguardo che scrutava intorno a noi. Stando nell’oscurità sbilenca della sua porta, si spinse più forte contro di me. Diventai più audace e misi la mano a cingere il suo seno. Fu allora che sentii che mi scioglieva i lacci del pyjama. Era un’azione inattesa. Era troppo: andava oltre i confini di quel che mi ero concesso di immaginare. Portò l’eco delle voci dei miei genitori. Portò un’immagine che avevo colto dal tetto e che non avevo mai capito: il vecchio guidatore del risciò che una sera lasciava la camera di lei, guardandosi intorno come se avesse rubato qualcosa. Cercai di respingere la sua mano con la sinistra, mentre la mia destra continuava a circondare il suo bel seno. Ma lei rise, un riso breve, di scherno, considerandolo un gioco della reticenza iniziale di un ragazzo, e fermandomi facilmente il braccio che faceva ostacolo con una mano, mi slacciò il pyjama e cominciò ad accarezzarmi il pene. Il suo tocco era allo stesso tempo rozzo e delicato, era incredibilmente piacevole e terribilmente esperto. Il suo odore era concreto come il suo tocco. Sei pronto, disse un po' sorpresa. Fu quando mi lasciò andare per accovacciarsi sul pavimento e sollevarsi il sari che raccolsi le stringhe del mio pigiama e fuggii dalla stanza. Il giorno dopo trovai una scusa per andare a trovare dei cugini a Patna, pensando che la distanza mi avrebbe fatto uscire il suo odore dall’anima. Zeenat partì poco dopo, a quanto si dice perché una notte la vecchia zia scoprì il nipote avvocato che sgattaiolava fuori dalla stanza di Zeenat. Ha preso un bus privato per Phansa, disse il vecchio conduttore di risciò, che a quanto pare aveva visto tutto, partendo così di fretta che era corsa dietro a un bus in partenza, tenendo il bambino con un braccio e un fagotto con l’altro, senza l’aanchal sul capo, gridando da quella donna dozzinale da due cowrie che era. Per sua fortuna, aggiunse il guidatore di risciò sputando sulla ghiaia, per sua fortuna, il bus si è fermato. Ma quella sull’avvocato era una maldicenza alla quale rifiutai di credere. Dopo essere tornato da Patna e aver saputo che Zeenat era partita, continuai per settimane a sedermi sul tetto della casa dei miei genitori, guardando giù nel cortile della casa dell’avvocato. C’era chi attraversava il cortile, a volte il vecchio coriaceo guidatore di risciò in lungi e camicia, a volte le figlie dell’avvocato in shalwar–kameez, a volte anche la zia baffuta con un vestito di cui non so il nome. Ma non c’era più Zeenat a sedere nel sole, col sari tirato su, le gambe scoperte fino al ginocchio, il suo bambino piagnucoloso a giocare per terra. Ora per me il cortile era desolato, più di quanto fosse mai stato, e non sarebbe stato mai più colmato con la possibilità di un’altra vita. Puoi liquidarla come un’infatuazione adolescenziale. Ma ancora oggi quando sono a letto con donne più belle e più colte di Zeenat, donne che non hanno bisogno di invisibili permessi di lavoro per entrare nello stretto paese del mio amore, il motivo per cui sono molto riluttante a respirare la loro fragranza è che il mio essere è ancora pieno dell’odore di Zeenat. È un odore che non mi ha mai lasciato. Quello, e le sue piccole risa di scherno che riempivano i corridoi delle case perdute del nostro passato. 35 – Chi era quello che una volta glelo aveva detto, un viso addormentato non ha mai la stessa età di quando è sveglio? Alcuni passeggeri sonnecchiano. Poggiano il capo sulle braccia o sulla spalliera del seggiolino di fronte al loro o sul vetro e dormono un po’ a singhiozzo. Se si addormentano davvero – per cinque o dieci minuti – il loro viso cambia. Cominciano a sembrare diversi. Un viso addormentato non ha mai la stessa età di quando è sveglio. Sembra più giovane o più vecchio, più ricco o più povero, più felice o più triste, perduto o ritrovato. Quando si svegliano di soprassalto a volte sono segnati da quel che ha premuto sul loro viso, pieghe tracciate dal bordo del finestrino o dal rivestimento del sedile, ancora mezzi avvolti dal sonno. Mangal Singh riconosce i modelli di queste pieghe alle fermate, quando può guardarsi intorno e passare in rassegna quelli che sta conducendo alle loro varie destinazioni, con tutte le loro storie separate che solo in quei pochi momenti si fondono in una sola storia di sonno e di viaggio, un romanzo di viaggio, pensa, e ride, facendo di nuovo trasalire le donne e per rassicurarle questa volta preme un dito contro una narice cercando di espellere il muco sulla strada che corre. Questa volta non gli riesce proprio bene: il muco sgocciola lungo la fiancata del bus e gli tocca strofinare la mano sull’asciugamano. 36 – Rasmus si è trovato a gridare senza accorgersene. “Come può succedere? Non ti do una bella somma per la manutenzione, mister? Che razza di autista sei? Non riesci a riparare questo dannato rottame? Questo può succedere solo con una macchina indiana e un autista indiano! Nessun senso del tempo, assolutamente nessun senso del tempo.” A tutto questo Hari ha risposto umilmente contrito. Si è offerto di andare al dhabba a prendere una coppa di chai per Rasmus, mentre lavorava a testa in giù, il corpo mezzo sotto il cofano, sul motore dell’Ambassador. Rasmus ha gridato un po’ più forte, poi ha preso la sua valigetta ed è andato allo Stoncrush Dhabba dove si è comprato una Coca tiepida. Ha mandato all'Ambassador il ragazzino che serve nel dhabba – lavoro minorile, come sempre, ha borbottato in Danese – con un bicchiere di chai per Hari. Può anche essere in India, ma non ha assunto l'aria di superiorità e l'indifferenza dei datori di lavoro indiani. Non mangia e non beve senza offrire qualcosa anche al suo dipendente. È passata un’ora; Rasmus riesce a sentire la luce del sole che batte sempre più a perpendicolo, sta quasi per bucarlo attraverso il cappotto e la camicia di cotone stirata e inamidata. All’inizio il sole lo ha colpito in questo modo – con la sensazione di punture di spilli o di spine. Hari stava ancora lavorando alla macchina, per quasi tutto il tempo con la testa sotto il cofano, urlando imprecazioni contro la macchina in uno stile che Rasmus trovava un po’ troppo teatrale. Dopo aver sorbito la sua seconda Coca con una cannuccia di paglia, per la prima volta da quando era bambino – era tipico che avessero cannucce di paglia, qualcosa che lui credeva fuori mercato da decenni – mentre sorbiva la sua seconda tiepida Coca, ha sentito l’orologio nella sua testa che batteva colpi sempre più forti. Faceva tic–tac–tic–Tac–Tic–TAC–TIC–TAC. Anche la valigetta sembrava sempre più pesante. Vedeva la strada sempre più polverosa e trafficata. Non c’era altro da fare. Doveva prendere il primo bus per Phansa che passava di là. Hari in passato era stato un meccanico e un autista affidabile, almeno fino a un anno prima, e se diceva che la macchina era rotta voleva proprio dire che era rotta. Non poteva correre il rischio di aspettare che fosse riparata. Non poteva perdere l’appuntamento col ministro. Stavolta la sua permanenza in India si era protratta al di là di ogni previsione; il progetto aveva continuato a impigliarsi in dettagli burocratici. Doveva andare all’appuntamento col ministro, o avrebbe rischiato di restare qui anche il prossimo anno. Un'orribile prospettiva. Guardò lungo la strada. C’era qualche macchina e qualche camion che passava, ma non pensava che gli avrebbero dato un passaggio. E poi aveva con sé troppi soldi – Rasmus alla fine dovette usare questa parola – aveva proprio troppi soldi nella valigetta per viaggiare fuori da una linea regolare. In una zona come questa, aveva bisogno della sicurezza che viene dal numero. Aspettò. Aspettava più o meno da quindici minuti quando lo vide. Un bus, dipinto con colori sgargianti, luccicante di metallo e cromature, con disegni floreali intorno al tetto... naturalmente un bus privato, non governativo. ‘SPEED’ e ‘50 KM’ erano le scritte sui due lati della griglia del radiatore. Dalla sua parte, Rasmus riuscì a leggere ‘PURAB TRAVELS’ dipinto in rosso, e sotto i numeri di telefono in caratteri più piccoli. Rasmus si mise a correre verso la strada, gridando ad Hari di riparare quella stupida macchina e di portarla alla pensione di Phansa. Sventolò il braccio, il bus sembrò esitare e poi rallentò e si fermò. Sapeva che si sarebbero fermati per farlo salire. Potevano farlo pagare di più. 37 – A questa fermata fa una curva di 180 gradi, e controlla quelli che trasporta dalle sbarre che somigliano alle matite e separano il suo settore dal resto del bus. Il bus con i suoi sedili scadenti, rivestiti di plastica, alcuni strappati, la cordicella di metallo che pende accanto alla porta d’entrata e di uscita, il finestrino rotto sulla sinistra, il posto delle donne dietro di lui, il firangi aggrappato alla sua valigetta, il gruppo dei paesani che litiga sui diritti per l’acqua, il ragazzo che porta un sari col quale proprio ora sta parlando Rameshwar, gli uomini più vecchi col segno della casta sulla fronte, gli altri passeggeri, prevalentemente maschi fra i trenta e i quaranta. Con questo rituale Mangal Singh, con questa lenta carrellata sui visi dei suoi passeggeri, li immagazzina nella mente, li mette in corsivo, perché gli ricordino questo viaggio. 38 – Vilaspur è una fermata di appena due minuti sulla strada Gaya–Akbarabad–Phansa. Però qualche volta ci vuole di più, perché la fermata del bus di Vilaspur non serve solo i pendolari del posto ma anche quelli di altri quattordici paesi delle vicinanze. Nella prima settimana d’estate, dopo Holi, per esempio, quando i campi sono spogli e ispidi di stoppie e le messi sono state già accatastate o vendute, si può trovare a Vilaspur una folla vera e propria che aspetta il nostro bus. È quando i piccoli contadini e i braccianti senza terra lasciano il mufassil per cercare lavoro a Gaya, Phansa o Akbarabad. Una calca di uomini malvestiti, molti più scuri di me, che puzzano di sudore e sterco bruciato, stringendo i loro beni avvolti in sporche gamchha o in vecchi sari. Di solito sono diretti a Phansa, la città più grande di questa parte dello stato, dove alla fine dormono sui marciapiedi. Nelle notti d’estate, i marciapiedi della stazione e le pensiline dei bus a Phansa sono piene di queste figure ammassate. I più fortunati trovano da portare regolarmente una thella o un risciò; i meno fortunati vanno in giro a cercare lavori ‘giornalieri’, radunandosi tutte le mattine sotto la torre della città con la speranza di essere presi da un appaltatore. Tanti, tanti di questi uomini tornano dalle loro donne e dai loro bambini, che hanno lasciato nei villaggi, quando le prime nuvole del monsone scuriscono il cielo meridionale e il vento porta un odore caldo, umido, come quello di uno scialle indossato da una giovane madre. Tornano per arare le loro strette strisce di terra frazionate, o a piantare e seminare per i contadini più ricchi e per i proprietari benaami. Nelle stagioni della semina e del raccolto, fanno quello che hanno fatto fin da quando sono nati. Lavoro nei campi. Faticate da contadini. È quando sembrano più felici. Quanto a me io sono un cittadino – nato a Gaya, ho lavorato a Phansa, Hazaribagh, anche a Patna. Devo dire che non condivido né capisco questo amore per mettere radici fra i cespugli, vangare la terra, litigare per i canali d'irrigazione. Non parlano d'altro, neanche mentre vanno o tornano da Phansa. Ma si sa che le terre si restringono e si guadagna sempre meno a lavorare la terra. Per questo ogni anno qualcuno non torna. Tirano avanti in qualche modo a Phansa, trainando risciò, coltivando giardini privati, lavorando nei cantieri edili o come persone di servizio, e cercano di risparmiare quanto basta per tirare su una jhuggi perché la moglie e i bambini possano raggiungerli. Alcuni vanno in giro in altre città più grandi – Patna, Kalkutta, perfino Dilli. Le famiglie di molti di questi bighelloni continuano ad aspettare nei vecchi villaggi, qualche volta dimenticate e ignare di dove si trovi l'uomo, più spesso vivendo con i miseri vaglia che ricevono da lui. Ne ho visti tanti di questi uomini – gli uomini che salgono sul mio bus e ritornano col mio bus, un po’ più magri e con segni più scavati intorno alla bocca e agli occhi; gli uomini che si fanno raggiungere dalla famiglia, la moglie che porta un bambino e un fagotto con tutto quello che possiedono, i genitori anziani impauriti dalla prospettiva del cambiamento; l’uomo che s’imbarca sul mio vecchio gaadi, un bus privato, e sparisce, le mogli e le figlie che a volte vengono alla fermata del bus e stanno là con gli occhi spalancati. Li ho visti tutti. Li ho fatti salire urlando: “Pullman espresso privato – Gaya–Chaakand–Bela–Makhdumpur–Tehta–Dhoda–Akbarabad–Janbagh–Sherpur–Vilaspur–Phansa ... Gaya–Phansa payn–tees rupya, payn–tees rupya, payn–tees rupyaaa!” A loro ho venduto i biglietti, con loro ho spettegolato, litigato, qualche volta mi sono anche accapigliato con loro quando cercavano di pagare meno o di viaggiare gratis. Sono dei dehaati incivili, credete a me, che cercano sempre di risparmiare un paisa. Devi stare attento con loro, anche se sembrano stupidi o analfabeti. Sono spesso stupidi, per dire la verità, ma possono essere estremamente ostinati quando si tratta di soldi. Li ho traghettati tutti alla loro destinazione, ho aperto loro la strada battendo la palma della mia mano sul corpo metallico del bus, gridando a carretti e macchine di levarsi dalla nostra strada. Il clacson del nostro fedele gaadi è spirato in pace due anni fa – ora dà, tutt’al più, un gracidio roco come quello di un rospo – e il maalik non si è mai preoccupato di farlo riparare. L’autista porta un fischio di metallo, attaccato al collo con una catenella. Lo suona quando ne ha bisogno. Suppongo che l’autista, Mangal Singh (e prima di lui Pandey, che non usava nemmeno il fischio), avrebbe potuto far riparare o cambiare il clacson. Dopo tutto, Mangal Singh è cugino del maalik o comunque è un suo parente – ma alla fine chi lo sente un clacson? O anche un fischio, a che serve? Hai bisogno di un khalaasi, un bigliettaio, che si sporge dallo sportello, batte sulla lamiera e grida: “Via dalla strada, attento, attento! Sei sordo o cosa? Arré, tu, disgraziato di un risciò!” Quello è il mio lavoro. È quello che faccio lungo tutti i centoundici chilometri da qui a Phansa e lungo tutti i centoundici chilometri al ritorno. 39 – Le distanze sono relative. Lo sa ormai da anni – come un chilometro possa allungarsi per ore o lasciarti una cicatrice nell’anima, e come un altro chilometro possa balzare nel passato in un attimo, evaporando come uno sbuffo del tubo di scappamento. Nei giorni in cui leggeva ancora romanzi – Premchand, Renu, Amritlal, Nagar, Nirmal Verma – in quei giorni di solito osservava come gli scrittori dedicavano pagine intere, e anche capitoli, a uno spazio nel quale tracciavano la narrazione mentre un altro spazio lo saltavano con una frase appropriata. Ma poi, lo sa, ci sono distanze che si misurano per tutta la vita. Lui comunque lo fa. Come Sunita, che ora ha il fiato corto, non sa parlare d’altro che di proprietà e di bambini, come Sunita che fa quei dieci o undici passi dalla porta di cucina per portargli una tazza di tè. Viene sempre fuori a portargli il tè e si informa sulla sua salute – tiene molto al dovere e al decoro – ma lui sa che non ascolta cosa le dice lui, potrebbe affermare di essere morto e lei darebbe sempre la stessa risposta estraniata, sì, sì, Dio è buono, perché in cuor suo sta già ritornando in cucina dove l'aspettano ben altre cose da fare, nell'ordine casalingo che è il suo. Certe distanze sono rapporti, pensa, e cambia brutalmente la marcia. 40 – La vecchia si concesse una pausa nel racconto della sua storia della divisione. Bevve un po’ d’acqua da una borraccia e guardò dal finestrino con le sbarre di metallo. C’erano qua e là paesini e colline, palme da grog in lontananza e un paio di bambini che defecavano sul pendio lungo i binari che correvano paralleli alla strada. Tutta la scena era soffusa da un senso di povertà; copriva gli alberi e i campi come la polvere che si era depositata sul bus. Dal modo in cui guardava il paesaggio, avreste pensato che le ispirasse un ineffabile terrore. Forse conteneva qualcosa che lei voleva che suo figlio e i figli di suo figlio non conoscessero mai, tutti quei ricordi e quelle paure di deprivazione che la facevano rifuggire dal viaggiare in taxi e dal comprare un’automobile perfino nella sua vecchiaia agiata. Ma, sorella, ora sembra che ne siate uscita proprio bene, con la bontà di Dio misericordioso, disse la donna col purdah. Tutte le donne stavano ad ascoltare il racconto della vecchia. Solo la ragazzina con la coda di cavallo aveva lo sguardo fisso al finestrino, sui campi quasi secchi che vacillavano, i campi grigi che a volte stringevano in pugno un poggio grigiastro o salivano fino a un villaggio ingrigito, a capanne rannicchiate una accanto l’altra, a un’eruzione di terra. Ora il sole era più forte e il bus colmo di odori corporei. Era un caldo sole invernale, abbastanza caldo da far sentire qualcosa di umido sotto al colletto, non abbastanza caldo da farti sudare vistosamente. Questo è vero, riprese la vecchia. Ma questo successe più tardi. Ci demmo da fare per ottenere i documenti di proprietà di quella parte della casa che occupavamo da sette anni. A quel tempo mio marito aveva imparato a conoscere il commercio al dettaglio dall'a alla zeta. Venimmo a sapere che c’era un negozio di abbigliamento in vendita a Phansa. Avevamo cercato qualcosa di quel genere. Non potevamo permetterci nulla a Delhi, ma a quel punto potevamo permetterci di comprare un negozio in una città più piccola. Anche se non avevo voglia di lasciare Delhi per andare in uno stato dove c’erano pochissimi Sindhi e Punjabi, mio marito vendette immediatamente la nostra parte della casa di Delhi e comprò il negozio a Phansa. E così siamo venuti qua, sorella, e, per grazia di Dio, da allora ce la siamo sempre cavata bene. Se siete di Phansa, forse avete sentito parlare del nostro negozio: Vaishali Suitings and Garments. Allora è vostro, madre! Ora è di mio figlio. Io sono vecchia. Perché dovrei possedere qualcosa e aumentare il peso che mi tiene attaccata a questa terra? Come dice la Bhagwad Gita – È un negozio molto importante, disse la donna che aveva fatto l'esclamazione, senza rivolgersi a nessuno in particolare, interrompendo con la sua eccitazione perfino una citazione dalla Gita. Uno dei due più grandi negozi di abbigliamento di Phansa! È il più grande, disse la vecchia, con rapido orgoglio. O almeno lo era quando era c'era ancora mio marito. Ma Vijay è troppo giovane e si contenta di quel che ha. Oh, è un bravo uomo d’affari, mio figlio, ma non vuole stare in negozio più di otto o nove ore. Questa è la differenza: lui non ha avuto bisogno di lottare né di risparmiare. Anche quando eravamo poveri – a parte i primi due anni – non gli abbiamo mai negato nulla di cui avesse veramente bisogno. Allora dovete essere Mrs Mirchandani, continuò la donna che aveva fatto l’esclamazione. Mrs Mirchandani sorrise con un certo regale distacco, mentre tutte cercavamo di non battere il capo contro il soffitto, dato che il bus aveva preso un dosso artificiale con più disinvoltura del solito. Alcuni passeggeri gridarono all’autista di rallentare. Ahh... disse la donna che aveva fatto l’esclamazione, dopo che le cose – escandescenze e passeggeri – erano andate a posto. Aveva lo sguardo appannato che le eroine dei film assumono quando si trovano per la prima volta davanti all’eroe o si rivolgono a Dio con una preghiera. Evidentemente il nome Mirchandani era piuttosto importante a Phansa. Phansa è una piccola città, ed essere un prosperoso uomini d’affari non vuol dire che si è milionari. Ma vuol dire una vita agiata e quella forma di rispetto che in una città di provincia può ispirare anche chi è non è poi tanto ricco. Ditemi, sorella, chiese un’altra donna, che ora sembrava molto curiosa, è vero che vostro figlio sta per sposare una schoolmasterni anglo–indiana? Oh, sono arrivate anche da voi questa chiacchiere? Disse Mrs Mirchandani, senza la minima sorpresa o irritazione. Enfatizzò la parola ‘chiacchiere’. Vijay è sempre innamorato di questa masterni con i capelli appuntati o di quella doctorni con il decoro appuntato/spuntato. Viene a dirmi: Mummyji, voglio sposare quella donna in gonna o quell’altra in pantaloni. Che ne pensi? E io gli dico, ma certo che puoi sposare quella brutta donna dozzinale. Con quei capelli corti, sembra un uomo, ma la puoi sposare comunque. Basta che tu aspetti che io muoia. Di questi tempi, sorella, gli uomini giovani sono fatti così. No, no, il mio Vijay non è così. Sono sicura che non sposerà mai nessuna senza la mia approvazione. E non è che io voglio che si sposi secondo la casta. I tempi sono cambiati e io accetterei una ragazza di un'altra casta, purché non ci sia troppa distanza. Voglio dire che ci devono essere dei punti d’incontro. Un cigno non sposa un corvo. Non è che deve essere una Sindhi o venire dal Sindh o dal Punjab, ma deve essere di buona famiglia, possibilmente Bramina, o almeno Rajput. E dovrebbe essere in grado di diventare una buona moglie. Ora, se Vijay scegliesse una donna carina e rispettabile come questa ragazza – indicò me – io non avrei da fare obiezioni. Ma lui sceglie sempre queste specie di firangi dozzinali, con così pochi capelli in testa e ancor meno buon senso. Donne che lavorano, oltretutto. Mrs Mirchandani si voltò verso di me e domandò, Ma perché viaggi da sola, figlia mia? Tuo marito non pensa che ti dovrebbe accompagnare? Come ti chiami? Risposi cominciando dall’ultima domanda: il mio nome. Diedi il nuovo nome che avevo assunto per levarmi di dosso Iskander Mian. Una volta Farhana, ora Parvati: non me ne importava affatto. Erano tutti pseudonimi adatti a oscurare, per una ragione o per l'altra, la mia identità, il mio vero nome. Poi spiegai che non ero sposata. A maggior ragione non dovresti viaggiare da sola. Sei una ragazza carina e rispettabile, dovresti stare attenta. Ai miei tempi non viaggiavamo mai da sole, no, nemmeno quando andavamo alle scuole inglesi, disse Mrs Mirchandani. Fu allora che vidi l’opportunità di reclutarla dalla mia parte. Non avevo piani a lungo termine. Non mi aspettavo niente di più che un contatto utile, o, al massimo, un aiuto per trovare lavoro in un posto nuovo. Era una vaga ipotesi, appena la scintilla di un’idea, ma decisi di prenderla al volo. Giuro che nel preciso momento in cui l’idea ha preso forma nella mia mente ho sentito il roco scoppio di risa e di tosse del nostro vecchio suonatore di tabla e maestro di musica. Non ho nessuno al mondo, madre mia, risposi, e in un certo senso era vero. Sono completamente sola, una rifugiata del Kashmir. La vecchia dimenticò all'istante tutti gli altri passeggeri e si concentrò su di me. La parola ‘rifugiata’ bastava a suscitare tutto il suo interesse e la sua simpatia. Mi fece diverse domande e nelle due fermate successive imbastii una ricca storia nella quale la mia famiglia Kashmiri indù (Pundit) veniva attaccata e sterminata da fondamentalisti islamici. Mio padre, ferito a morte, era fuggito con me ed eravamo arrivati a Delhi. A Delhi era morto, e da allora io avevo girato qua e là cercando un impiego adatto e decoroso. Alla fine della mia storia piansi. E ripetei il racconto delle atrocità commesse dai musulmani contro la mia famiglia. Potevo sentire come la donna col purdah si agitava, a disagio per la mia storia cruenta, ma avevo capito che il modo per conquistare tutta la simpatia di Mrs Mirchandani era di evocare lo spettro della crudeltà islamica. Faceva appello alle sue paure e ai suoi pregiudizi più profondi, mentre la mia storia di perdite e privazioni suscitava la sua simpatia e il suo affetto. Quando il bus arrivò alla polverosa affollata Achbarabad avevo raggiunto il mio scopo: Mrs Mirchandani mi aveva preso sotto le sue ampie ali. Aveva allungato una mano esitante fino alla mia spalla e l'aveva toccata, qualcosa tra una pacca e una stretta rassicurante. Asciugandosi una lacrima all’angolo dell’occhio, aveva detto, Tu non sei più sola, figliola. C’è tua madre con te. 41 – Come, pensa frenando lentamente per parcheggiare il bus su un pezzo di terra accidentato, come le relazioni definiscono le distanze. Come puoi allungare un braccio e toccare qualcuno, e all'improvviso, per un istante, le centinaia di chilometri che separano due esseri umani si dissolvono. Come quando la vecchia, quella alla quale Shankar leccava il culo, quella vecchia quando toccava quella ragazza con i capelli lunghi qualche fermata prima. Quali enormi distanze possono dissolversi a volte con un gesto così piccolo – un gesto, come toccare la spalla a qualcuno, oppure, oppure, oppure porgere a qualcuno una tazza di chai con un sorriso e con qualcosa di diverso dalla solita domanda che si rivolge per buona educazione. Basta, si dice, basta, ho altro da pensare. E ancora una volta comincia a osservare il mondo, ancora una volta riprende la sua ricerca dell’immagine con la quale ricorderà questo viaggio. Può vedere di lontano la piccola fermata di Vilaspur: eccola là, da una parte un’eruzione di terra e mattoni dove gira la strada, e dietro altre costruzioni di terra e mattoni, il largo paese di Vilaspur che svanisce lentamente nell’uniformità dei campi verdi e grigi tutti intorno. 42 – Sembrava che Mrs Mirchandani volesse dire di più, ma in quel momento il bus si fermò con uno scossone, esattamente al centro del nulla, e dopo qualche istante salì un firangi, attaccato a una valigetta di vera pelle marrone scuro. Tutti si voltarono a guardare, non era quel genere di firangi, il genere hippy, che a volte viaggia scomodo su bus e treni locali. Non ho mai capito perché, ma lo fanno. Era del genere che viaggia solo nei taxi con l’aria condizionata. Per un attimo rimase lì impalato con un'espressione perplessa, come se fosse sul punto di riscendere di corsa. Non c’era ovviamente nessun posto libero per lui, ma il bigliettaio fece gli occhiacci a un paesano seduto accanto a noi e lo fece alzare. Tu scendi alla prossima fermata, no? Disse al paesano. Dopo una breve esitazione il firangi si accomodò in quel posto. Si sistemò la valigetta fra i piedi, stringendola bene con le ginocchia, probabilmente per timore che dei ladri la prendessero e scappassero. Su un bus come questo la maggior parte dei passeggeri dovettero sembrargli potenziali ladri. Pareva che la sua auto si fosse rotta e che lui avesse in mente di scendere ad Akbarabad, che era a pochi minuti di distanza, per prendere un taxi. Credo proprio che tutti noi avremmo potuto dirgli che non sarebbe riuscito a trovare un taxi ad Akbarabad. Non ci sono taxi ad Akbarabad. Ci sono solo alcuni autorisciò, scooter a tre ruote sovraccarichi di paesani che portano latte in bidoni di metallo e galline in gabbie di ferro. Qualche volta ribaltandosi finiscono in un fosso ma nessuno si fa veramente del male. Ci fermammo ad Akbarabad vicino a una fila di dhabba affollati, con le mosche che ronzavano anche in questo periodo dell’anno. Fili elettrici si incrociavano sopra le teste, probabilmente i soli a indicare che ufficialmente Akbarabad è una città. Autorisciò, trattori, risciò, thella, carretti tirati da muli dall’aria stanca, la macchina che passava strombazzando impaziente, biciclette, gente, tutti fluivano intorno al bus. Due venditori ambulanti – un uomo e una donna – avevano steso dei teli di plastica sul bordo della strada e offrivano ristoro a diversi tipi di clientela. L’uomo vendeva uova sode, affettate e guarnite di spezie, fettine di cipolla salate, e la donna stava friggendo makhana su un piccolo fornello e lo vendeva in coni di carta. Ci fermammo per un quarto d'ora almeno. Un mendicante cercò di salire sul bus, ma fu scacciato dal bigliettaio e dal ragazzo delle pulizie. Questo non è un bus phokat ka gavernmint, gli gridarono. Più tardi il bigliettaio andò a prendere un piatto di samosa – due samosa inzuppate nel chutney verde – per Mrs Marchandani. Non le permise di rendergli i soldi. Lei divise le samosa con me. Il firangi era stato tutto il tempo fuori dal bus, probabilmente a cercare un taxi, e quando il bus si rimise in moto non era ancora tornato. Ma poi lo vidi issarsi a bordo, con l’aria molto demoralizzata, ancora stretto alla sua valigetta. Il bigliettaio gli aveva tenuto il posto. Si sedette e nascose il capo fra le braccia. Il suo colletto era già bagnato di sudore. Il suo cappotto sembrava sgualcito e polveroso, ma lui se lo mise, forse perché sotto indossava una bella camicia rosa leggera. Quella camicia non avrebbe mantenuto la freschezza e il colore per più di dieci minuti su questo bus, se non fosse stata coperta dal cappotto. Un ragazzo che aveva preso il bus a Gaya – l’avevo osservato per via del costoso sari che aveva – quel ragazzo durante la fermata si era spostato sul seggiolino accanto al firangi. Era un ragazzo dall'aria irriverente, il tipo che si fa affascinare da stranieri e babu. Ora, raccogliendo tutto il suo coraggio, il ragazzo disse al firangi qualche parola in inglese. Parlava inglese a pappagallo, quel tipo di frasi imparate meccanicamente che perfino io riesco a padroneggiare. Ma il firangi non si lasciò trascinare in una conversazione, scosse appena la testa e restò in silenzio. Forse non aveva capito il ragazzo, forse aveva capito che il ragazzo non sapeva altro inglese che quello che aveva già sciorinato. Mrs Mirchandani si girò verso di me e mi chiese, Figlia mia, sei istruita? Le dissi che ero una BA. Non la ero ma avevo frequentato la scuola e sapevo leggere, scrivere e badare a me stessa, che è più di quanto sa la maggior parte dei BA. Questa è una buona cosa, disse, le ragazze devono essere istruite. Nell’antica India, aggiunse, c'era la tradizione di dare un'istruzione alle ragazze. Il bus aveva lasciato Akbarabad dopo una caterva di suoni di clacson e di campanelli da tutte le parti, dopo le urla e le manate sulla carrozzeria del bigliettaio. Ora attraversavamo uno stretto e profondo nullah di acqua fangosa, delle bolle futtuavano sulla sua superficie, ed eravamo ancora una volta fuori, in mezzo a campi aridi. La prossima fermata è Janbagh, gridò il bigliettaio, Janbagh–Sherpur–Vilaspur–Phansa. Janbagh–Sherpur–Vilaspur–Phansa. 43 – A Vilaspur, Mangal Singh scende dal bus per sgranchirsi le gambe e discutere con Shankar. È ancora arrabbiato con se stesso per aver pensato a Sunita, perché, non ha conosciuto tante donne da aver perso il conto, donne che per lui hanno fatto cose che Sunita non si può nemmeno sognare? Non ha perso interesse per la maggior parte delle donne, sì, anche per Sunita? E poi, cosa gli ha mai fatto Sunita, a parte tenergli le mani furtiva e dargli piccoli baci sulle guance negli angoli nascosti? Quello che lo irrita – anche se non se ne rende conto del tutto – non è la sua incapacità di far tornare il passato nel presente, ma la capacità che ha lei di cancellare il proprio passato dal presente. Sente che qualcosa è stato ucciso, qualcosa di indifeso, come un neonato. Ma non sa cosa. E allora pensa in termini normali – pensa a cosa non ha fatto Sunita per lui, e a cosa altre donne e uomini hanno fatto per lui. Così però gli sale una rabbia rancorosa contro se stesso e scende per discutere con Shankar. Strano, pensa, come questo rottinculo di un bigliettaio gli ricordi Sunita com'è diventata ora – tutta religione, dovere e decoro. Tanto che ormai, quando viene nella stanza col chai – loro sono parenti alla lontana e lei lo conosce fin dall'infanzia, e così, come potrebbe essere tanto sgarbata da farglielo portare da una serva? – quando entra nella stanza per il tempo dovuto e gli rivolge una domanda dovuta, il suo decoro contagia anche lui, perfino lui, tanto che non riesce a guardarla negli occhi e rievoca tutti i viaggi del tè solo per il colore dei suoi braccialetti, per la tazza e per le forme delle increspature nella tazza, immagini superficiali devono tenere il posto di quello che non osa più cercare. 44 – Da sei anni faccio sempre lo stesso percorso. Nei primi anni questo bus era guidato da Pandey, un bracciante agricolo che fu licenziato perché spillava troppa benzina dal serbatoio e il maalik lo prese con le mani nel sacco. Fu assunto allora Mangal Singh, un lontano cugino del maalik, dicono. Era disoccupato da quando sua moglie se n’era andata, dicono; era – detto fra noi – un poco di buono, un problema per la famiglia. Mangal bubu non spilla benzina. Però lui ed io abbiamo un accordo: prendiamo i soldi ma in ogni viaggio non stacchiamo i biglietti di quattro o cinque passeggeri. Questo ci aiuta a integrare il salario risibilmente basso che ci paga il maalik. Sì, come è spilorcio con me è spilorcio anche con Mangal babu. Il biglietto da Akbarabad a Phansa costa quindici rupie. Da Vilaspur a Phansa sono sette rupie. Dopo Akbarabad, che ormai è praticamente una città, non è previsto che ci fermiamo da nessuna parte tranne che all’incrocio di Janbagh, a Sherpur e Vilaspur – questo è pur sempre un bus espresso – ma noi di solito ci fermiamo per tutti quelli che ci fanno segno, finché abbiamo posto sul bus. Ci siamo fermati proprio ora cinque chilometri dopo Akhbarabad per far salire il firangi babu. Nelle giornate buone possiamo fare anche più di cento rupie fra il viaggio di andata e quello di ritorno. Io e l’autista Mangal Singh ci dividiamo il ricavato, a parte due rupie che vanno a quello delle pulizie. Questi ragazzi delle pulizie cambiano di continuo e di solito non sanno del nostro accordo. Credo che i soldi che gli diamo siano sprecati. Prendete questo ragazzo delle pulizie, uno nuovo di cui mi sa fatica ricordare il nome, quando ho bisogno di lui gli faccio un urlo, ‘ré’ o ‘abbé’. Durante questo viaggio è sgattaiolato via a spettegolare con uno dei passeggeri, un ragazzo della stessa età seduto in fondo al bus che si metteva e si levava continuamente un paio di dozzinali occhiali da sole. Avevo notato il ragazzo quando era salito a Gaya perché non aveva bagaglio, aveva solo un sari Banarasi, di quelli molto costosi, un po' incartato con un giornale. Un ragazzo così, dove lo prende un sari come quello? Deve averlo rubato da qualche negozio seth, che altro? E il nostro nuovo ragazzo delle pulizie deve sgattaiolare via per sridacchiare e bisbigliare con quel ragazzo del sari tutte le volte che sono troppo impegnato per prenderlo per le orecchie e metterlo a fare qualcosa. No, non voglio dividere i soldi con questi ragazzi delle pulizie, tutti potenziali ladri, date retta a me. È anche contrario ai sacri precetti del dharma indurre in tentazione e dare il cattivo esempio ai ragazzi. Io stesso non avrei rubato soldi in questo modo, giuro su Hanuman che non vorrei, se il maalik mi avesse dato un salario decente. Ma Mangal babu insiste perché si diano ai ragazzi una o due rupie. Per quanto mi riguarda, ho il sospetto che la generosità di Mangal babu abbia altre ragioni più sporche e profonde. È un uomo sensuale, a casa non ha la moglie, ingaggia sempre ragazzi carini – con le guance lisce e il corpo snello – e fa sempre sedere il ragazzo vicino a sé, sulla scatola del cambio. Non voglio dire altro. Si fa peccato anche solo a pensarle, certe cose. È in posti come Vilaspur che prendiamo la maggior parte dei nostri guadagni per via. Ad Akhbarabad e Phansa la gente è furba e può esigere il biglietto o può perfino conoscere il maalik. Quindi, quando a Vilaspur c’è una folla il bus si ferma ben più di due minuti. Ci sta tutto il tempo che occorre finché non ha preso a bordo l’ultimo uomo, donna o bambino che voleva salire – essendo un bus privato non permettiamo che la gente viaggi sul tetto con i bagagli. Non c’era una gran folla oggi a Vilaspur, c'era da aspettarselo all’inizio dell’inverno. Cinque uomini, la maggior parte dei quali era salita sul bus ad Akhabarabad, è scesa insieme al ragazzo del sari. Sono saliti due uomini e una donna con una scatola di latta e un infante infagottato. Ho staccato il biglietto a uno degli uomini e mi sono limitato a intascare i soldi dell’altro. Ho staccato il biglietto anche per la donna, anche se non era altro che una dehaati, una donna tribale, scura, col naso camuso, non era neanche di Vilaspur (dove non ci sono tribali) e ho avuto la tentazione di non passarle la matrice. Invece l’ho fatto. Questo ha provocato una piccola discussione fra Mangal babu e me. Mi ha chiamato fuori dal bus e mi ha fatto una lavata di capo dicendo, con le sue parole, che sono uno ‘scemo devoto’. Mangal babu è piuttosto grosso, flaccido, con pieghe di grasso intorno al collo. Porta piccoli orecchini d’argento, mastica sempre paan, di solito ha la barba ispida ed è sempre arrabbiato. Ha un fischio di metallo appeso al collo come gli istruttori di ginnastica. Nell’estate (in questi giorni è ancora caldo a mezzogiorno), guida con addosso solo un lungi e un banyan bianco. Più tardi si è arrabbiato con me perché mi sono rifiutato di intascare una somma maggiore del totale incassato con i biglietti. Un paio di mesi fa ha avuto una discussione con il maalik – affari di famiglia – e da allora si lamenta ancora di più per come il maalik lo tratta. Novecento di salario. Questo è tutto quello che quello spilorcio, quel miserabile stronzo dà al suo parente. Quel pezzo di merda! – più tardi il ritornello di Mangal babu era questo. E intanto mi ha spinto a spostare nelle nostre tasche il venticinque per cento dei soldi dei biglietti. Mi sono sempre rifiutato di farlo. Non ha senso mungere una mucca fino a ucciderla. Il maalik non è mica scemo. Anche lui è stato un autista di bus e ha risparmiato fino a possedere una flotta di due bus e cinque pulmini. Sa come vanno queste cose. Ha un’idea piuttosto precisa dei soldi che ci si possono aspettare da un bus su questo tragitto. Cinque o sei passeggeri, più o meno il cinque percento del numero totale, possono passare inosservati. Oppure possono essere osservati e condonati: chiunque fregherebbe un po’. Ma il venticinque percento? Perché rischiare? Sono un uomo religioso: c’è anche un’immagine di Hanuman sul pannello centrale del bus, l'ho appesa io il mio primo giorno, e gli offro una noce di cocco al mese. Non sono avido come Mangal babu. Questo lavoro mi piace. Faccio più soldi di quanti ne farei con qualunque altro lavoro e non voglio essere mandato via con un calcio nel sedere ormai che sono un uomo di mezza età. Ma Mangal babu non vede la cosa in questi termini. Stiamo lavorando come negri per un miserabile stronzo, continua a dirmi. Shankar, sei un dannato scemo se non cerchi di prendere più soldi dal mucchio del bastardo. Tutti gli altri bigliettai rubano di più ai pezzi di merda. Di che hai paura? Il tuo Hanuman, non ci farà caso. Ecco – ho girato il quadro, ora non può vederti! Ecco che genere di persona è Mangal Singh: sboccato e senza un briciolo di pietà né di religione. 45 – Quando Mangal Singh rimonta sul bus dopo la discussione con Shankar, si sente molto meglio. Guarda tutto intorno le persone che sta traghettando verso le loro svariate destinazioni. Sui loro volti – assonnati o vigili, spettegolanti o taciturni – sui loro volti vede riflesse le espressioni di tutti quelli che sono montati sul suo bus in passato, e per un istante – solo un istante – si concede di sentire che ha visto tutto, che ha visto tutti. 46 – I campi davanti al giovane, dall’altra parte della strada dissestata, erano ispidi per le stoppie rimaste dalla raccolta della ganna di ottobre, sottili gambi gialli che spuntano dal suolo bruno e polveroso, piccoli uccelli, passeri, piccioni, una coppia di hudhud crestati, mynah, a battibeccare per tutto quello che può essere rimasto fra gli spunzoni e sul terreno. Più in là, appezzamenti di terreno che si stavano preparando per la semina del gehun. Ancora più in là di questi appezzamenti di terreno arato segnati dalle ferite in via di guarigione che i piani degli uomini avevano inferto, da uno degli alberi oltre l’ultimo sottile aari di confine che può scorgere, veniva il canto di un cuculo che pensava ad alta voce. Cucù cucù cucù quale uccello farò fesso la prossima volta, cucù cucù cucù quale nido invaderò con le mie uova, cucù cucù cucù. Era un paesano, sapeva che questo doveva essere uno degli ultimi canti del cuculo della stagione. Era un giovane spilungone di diciannove o vent’anni, con la delicata peluria dei baffi appena spuntati che cominciavano a farsi vedere. Indossava una camicia di terrycot e jeans denim troppo stretti, strappati in un paio di posti ma rammendati con un abile lavoro rafoo. Accanto a lui, sul muro sbreccato di mattoni accanto alla fermata del bus, era posato un notes aperto. C’erano delle altre persone in piedi a una certa distanza da lui. Evidentemente stavano aspettando un bus. Lui no. Lo sapevi da come faceva penzolare i piedi, dal filo di paglia che masticava. Doveva essere uno studente universitario, così avresti pensato. In parte avresti sbagliato: andava ancora a scuola. I giovani uomini come lui avevano molte cose a cui pensare a casa e avevano bisogno di molto tempo per finire la scuola superiore. Se mai la finivano, ecco. Sì, stava semplicemente girellando da quelle parti. Conosceva quasi tutti quelli che vivevano o lavoravano nei dintorni della fermata del bus, il suo paese era lontano solo tre chilometri. Stava seduto a guardare le macchine e i bus che di tanto in tanto passavano di là. Aveva qualche speranza che sarebbe arrivato a gran velocità un taxi ITDC, uno di quei taxi noleggiati dagli indiani ricchi delle grandi città o dai turisti stranieri che correvano a Nalanda e Rajgir, località turistiche minori che potevano essere visitate in un giorno. Di solito questi taxi non sostavano alle fermate dei bus, anche se a volte si fermavano per dei paesi completamente cadenti, o per una mucca con dei colori particolari, per un branco di scimmie, si fermavano per sputar fuori due o tre turisti, lui sperava che fossero donne, che avrebbero fatto tanti scatti a quel posto con ogni genere di macchine fotografiche. Non gli avevano mai scattato una foto. Eppure una volta ne fatta una ai suoi genitori: suo padre con uno sporco dhoti, che sfoggiava una specie di baffi a manubrio proprio coem si deve, e sua madre col sari e un fagotto sulla testa. Era là a sedere sul muro diroccato, a dondolare le gambe lunghe e magre, sperando che si fermasse uno di quei taxi per fargli dare un'occhiata a donne vestite con abiti occidentali. Non aveva niente di meglio da fare che aspettare questo genere di spettacolo. Suo padre aveva fatto il raccolto la settimana prima e per una volta non c'era nessun lavoro ad aspettarlo. Quel giorno dovevano essere munte le mucche, più tardi, ma l’avrebbero fatto le sue sorelle. Aveva guardato il bus privato che rombava alla fermata. Sputava fumo nero di scappamento, scaricava qualche passeggero e ne prendeva qualcun altro. Sapeva riconoscere il bus dal bigliettaio. Riconosceva e classificava tutti i bus dai bigliettai. Il bigliettaio di questo bus era un uomo religioso con una lingua tagliente che usava come una frusta contro quelli che non gli piacevano e di cui non aveva paura. Di solito il bigliettaio di questo bus non scendeva a Vilaspur, ma questa volta era sceso per discutere di qualcosa con l’autista. Sembravano arrabbiati. Più tardi, quando il bigliettaio e l’autista erano risaliti sul bus, riuscì a sentire il bigliettaio che urlava contro un paio di passeggeri che, approfittando della breve sosta, erano andati un po' più in là per pisciare. I passeggeri si affrettarono a tornare sul pullman, che si mise in moto con una scossa e una serie di scoppi. Fece pochi metri e poi, con sua grande sorpresa, il bus si fermò. Quello fu l’unico momento in cui era rimasto sorpreso, l’unico di tutto l’evento. Tutto il resto era accaduto in un'aura di ineluttabilità. Perfino quando i poliziotti erano arrivati fino alla capanna di suo padre nel loro villaggio e non avevano chiesto nulla su quello che era davvero accaduto, anche allora lui non fu affatto sorpreso. 47 – Ma non è che Mangal Singh tutte le volte veda tutti. Anche lui perde delle cose. Così non ha veramente visto la donna tribale finché non è scoppiato il casino. La vedeva solo per i soldi che Shankar aveva fatto cadere nelle casse del maalik. Non aveva nemmeno visto che cosa portava. L’aveva visto e non l’aveva visto. Qualche volta, vedere non basta. 48 – Oggi il Guidatore Mangal Singh mi ha fatto pressione ancora di più delle altre volte. Shankar, scemo devoto, morirai di fame, i tuoi figli non potranno pagare la retta della scuola e tua moglie scapperà col borsaiolo della porta accanto, se non ti prendi una parte maggiore dal bottino di quel miserabile pezzo di merda. Sai quanto guadagna quel bastardo tutti i mesi? Venti, trentamila. E tu quanto prendi? Settecentocinquanta di stipendio e forse altrettanto dal lungostrada? Cosa sono oggigiorno millecinquecento rupie? Non bastano nemmeno a comprare uno schifo di televisore in bianco e nero! Forse è come dici tu, babu, risposi (Mangal Singh è un mio pari dal punto di vista sociale ed economico, ma io lo chiamo ‘babu’ per rispetto alla sua parentela col maalik. Sono cose come questa che ti fanno andare avanti nella vita: piccoli dettagli, come comprare la samosa per la madre di Mirchandani babu). Forse hai ragione, babu, ma io sono un pover’uomo. Ho paura di prosciugare la mucca a forza di mungerla. Shankar, segnati le mie parole, grugnì. Un giorno la mucca dannata ti darà un calcio nelle palle. Ammesso che tu ce l'abbia, ovviamente. Mentre discutevamo alcuni passeggeri erano scesi dal bus, che dentro si stava scaldando parecchio perché da un po' non stava andando e quell'alito di vento era cessato. Qualcuno si stava sgranchendo le gambe, qualcuno comprava frutta all’unica bancarella (piena solo a metà di banane ammaccate, arance avvizzite, qualche dolce, pettini di plastica, biscotti Glaxo, pacchetti di sigarette, mazzetti di bidi e vecchie riviste), qualcuno sorbiva tè al dhabba con due panche vicino alla bancarella e un paio di uomini orinavano oltre il muro sbreccato di mattoni dietro alla fermata del bus. La donna tribale che era salita a bordo a questa fermata non era riuscita a trovare un posto. Siccome non era altro che una dehaati tribale – si sente dall'odore – nessuno le aveva nemmeno offerto un posto. Stava in piedi accanto alla porta anteriore, stringendo il suo bambino infagottato come se avesse paura che glielo portassero via. Perché devi fare il biglietto a tutti quelli là? Domandò Mangal babu un'altra volta. Ora era questo oggi l'epicentro della sua discussione. Mangal babu è avido come il maalik. Probabilmente è di famiglia – certi caratteri lo sono. Non voleva che perdessimo nemmeno un passeggero di Vilaspur. Questi sono villani pezzi di mota, continuava a dirmi. Non devi aver paura di loro. Non ti scopriranno mai. Per esempio, quella là, la donna primitiva, probabilmente un biglietto non l'aveva mai nemmeno visto in vita sua. Ma non è vero che ho paura. Semplicemente non credo nelle esagerazioni. Sii equilibrato, contentati – è quello che predicano le scritture. Io leggo le scritture in Hindi. Io do ascolto ai discorsi dei santi uomini. Non spingerti troppo in là. Se perdi un treno, lascialo andare, non lo rincorrere. Questi sono i miei principi e mi hanno portato lontano: ho lavorato con i motori come aiuto meccanico e ce l'ho fatta a farmi una pukka di due stanze. Ho una famiglia. Ho persino un conto in banca e se le cose vanno bene, se Hanuman mi fa la grazia, fra un anno mi compro un pulmino e mi metto per conto mio. Sono un uomo timorato di Dio e voglio fare tutto in modo equilibrato. Anche la Gita è tutta sul mantenimento dell’equilibrio. Vado al tempio tutte le settimane e tutte le mattine recito l’Hanuman Chalisa. Ma questo Autista Mangal Singh, lui non è così. Rapace, donnaiolo, ubriacone. Dietro al suo psoto di guidatore ha appeso il poster di un’attrice; non di Madhubala né di Nargis né di Hema Malini e nemmeno di Rekha, c'è il poster di una stellina di oggigiorno mezza nuda. Quando spolvero l'immagine del Signore Hanuman, non ce la fa a non dirmi: Perché non pulisci anche il poster della mia dea? Si dice che era già così cattivo anche prima che sua moglie scappasse con un altro. Ora frequenta i quartieri a luci rosse di Gaya e di Phansa. È inutile discutere con un uomo come quello. Così gli ho sorriso in modo conciliante e sono risalito sul bus, battendo con le mani contro la lamiera e gridando: Tutti a bordo. Forza! Partiamo! 49 – E ora, quando finalmente Mangal Singh si gira a guardare il casino, sa già di che cosa si tratta. Si tratta della sua incapacità di vedere. Tutte le immagini impresse a fuoco nella sua memoria dimostrano questa incapacità. Se solo fosse stato capace di vederle prima, non sarebbero diventate indelebili. La sua mente non avrebbe avuto bisogno di metterle in corsivo come un scrittore mediocre al quale le nude parole non bastano per portare i significati e gli accenti. Dietro di lui, oltre le barre che somigliano alle matite e lo isolano dai passeggeri, la gente si spinge per riversarsi fuori dallo sportello. Il firangi è attaccato ancora più forte alla valigetta. Ed è solo ora che Mangal Singh vede veramente cosa portava la donna tribale. Ma è appena tornato al suo posto e non ne viene fuori sentendo il casino. Resta a sedere. Mangal Singh sa con certezza che qualunque cosa faccia è questo che gli farà ricordare il viaggio. Non tutti i ricordi sono volontari. A volte si può scegliere solo di ricordare. 50 – Il ragazzo si è assestato un po' sul muro diroccato, come se volesse mollare una scoreggia. Il bus privato si è fermato. Dalla parte dell'autista, sembrava che stesse montando qualcosa come una rissa. C’era gente che si affollava da quella parte, gesticolando, gridando. Voleva che si spostassero perché gli nascondevano la vista di una donna carina seduta accanto a una vecchia grassa vestita con un costoso sari bianco. Ma in ogni caso non pensava che fosse un problema sul quale valeva la pena di indagare. Probabilmente una rissa per il posto a sedere. Il bigliettaio del bus è saltato giù dalla porta posteriore ed è corso a quella anteriore. Doveva essere il modo più veloce per raggiungere il luogo del litigio. Alcuni passeggeri si erano riversati fuori anche dall’uscita anteriore. Era strano. In quel momento fu distratto dall'andatura ondeggiante di un teetar. Ormai non ti capitava tanto spesso di vedere un teetar così vicino a un posto abitato. Gli tornò in mente una vecchia canzone – teetar ké do aage teetar, teetar ké do peechché teetar, aagé teetar, peeché teetar, bolo kitné teetar? – che aveva cominciato a canticchiare seguendo il movimento ondeggiante dell'uccello attraverso la strada e in un campo. Questo uccello era anche diverso dal comune teetar, quello tondeggiante, bruno rossiccio, che gli ricordava sempre una casalinga cittadina della classe media. Questo era nero, con una striscia e delle chiazze bianche. Andava ondeggiando senza fretta per l'ispido campo di canna da zucchero verso una striscia di bosco di tamerici. Il ragazzo non aveva mai mangiato carne di teetar – con l'agiatezza crescente i suoi genitori stavano lentamente diventando vegetariani, mano a mano che si muovevano verso l'alto nella gerarchia delle caste, come la maggior parte delle famiglie Yadav e Kurmi della regione, anche se lui non se ne rendeva conto – non aveva mai mangiato carne di teetar, ma sapeva che era considerata una prelibatezza. Un giorno forse gli tenderà una trappola nel boschetto di tamerici: ne ricaverebbe più di quanto prendono sua madre e le sue sorelle vendendo ai macellai musulmani le galline del pollaio, quando non fanno più uova. 51 – Dal suo punto di vista alto sulla folla che si era riunita intorno ai gradini del bus, dal suo posto di guidatore, Mangal Singh vedeva di più di quasi tutti gli altri. Vedeva gli uomini che si spingevano, si toccavano: sentiva il sospetto e la sorpresa nelle loro voci. Sentiva come tutti, maschie e femmine, ognuno a modo suo, stavano già cercando di assimilare questa cosa nelle storie più lunghe e separate delle loro vite, le storie che avevano portato sul bus e che avrebbero continuato a tessere una volta che ne fossero scesi, sì, non avevano altra scelta che continuare quelle storie distinte – se necessario, passando sopra a questa cosa, questa cosa inattesa, questa cosa aliena che altrimenti fatto debordare le loro storie separate. 52 – La folla era agitata. Distrasse l’attenzione del giovane dal teetar. C'erano anche delle donne che si sporgevano dai finestrini. Una donna, che aveva un bambino piagnucoloso, era già scesa dal bus, e cercava di farsi strada nella folla. Non la donna carina, comunque, e nemmeno la vecchia grassa accanto a lei. Erano ancora sedute, anche se lui avrebbe potuto dire che la più giovane voleva scendere a vedere cosa stava succedendo. La donna col bambino piagnucoloso all'improvviso spinse via alcuni uomini e si liberò uno spazio intorno all’uscita anteriore del bus. Fu allora che lui vide la donna tribale là a sedere, con un fagotto fra le braccia. Era una ladra che avevano acchiappato? Un ladro era sempre un divertimento. Domande, scapaccioni, stoccate, scherzi, minacce, pestaggi. Scese dal muro, chiuse il notes e se lo fece scivolare nella camicia, scosse la polvere dagli aderenti jeans rattoppati e si incamminò verso il bus. 53 – Mangal Singh vide la donna tribale posare il fagotto come se non avesse nulla a che fare con lei. 54 – Ho battuto più forte la mano sulla fiancata del bus e la piccola fermata del bus ha risuonato con l'eco della carne sul metallo. Mangal Singh era già andato dall’altra parte del bus e si era issato al posto del guidatore, imprecando fra i denti, probabilmente contro di me. L’ho visto scherzare col ragazzo delle pulizie: tratta sempre questi ragazzi in modo amichevole e informale, il che li rende più pigri, e sfacciati nei miei confronti. Ha messo in moto il bus. Sbrigarsi! Sbrigatevi, voi due! Ho gridato agli uomini che stavano orinando dietro al muro in rovina. Uno di loro si è risistemato velocemente il dhoti ed è corso verso il bus. L’altro – doveva venire da una grande città a giudicare dal colletto inamidato della camicia a quadri, dai pantaloni in terrycot lucido a zampa di elefante, dai baffi fini e ben curati e dai capelli impomatati di brillantina – se l’è presa calma. Sbrigarsi, sbrigarsi! Ho gridato, la Green Revolution è finita da un pezzo! e sporgendomi dallo sportello posteriore ho battuto un'altra volta la mano sulla lamiera. Sbrigarsi per cosa? Ha detto il giovane uomo sfiorandomi e lisciandosi i baffi fini come il segno di una matita, quando è salito con tutta calma sul bus. Aveva una cicatrice sulla guancia sinistra e doveva considerarsi un duro. Non stiamo mica salendo in aereo, ironizzava. Ha tirato fuori dalla tasca un pettine rosso di plastica e ha cominciato a pettinarsi. Finalmente erano tutti a bordo. Ho battuto tre colpi sulla fiancata per dare a Mangal babu il segnale della partenza, ma per una volta lui non aveva avuto bisogno di essere sollecitato: il bus si stava già allontanando dalla fermata. Proprio in quel momento c’è stato un casino accanto allo sportello anteriore. Ho sentito alzarsi la voce di un uomo che si levava nel trambusto generale. Stava dicendo – Il bambino è morto. Ti dico che il bambino è morto! Toccagli le braccia, sono fredde, thanda come il marmo. Molte voci si sono inserite, esprimendo sorpresa, indignazione, turbamento, incredulità, paura, semplice curiosità. Il bus ha cominciato a rallentare. Sono saltato giù dall’uscita posteriore e sono corso sul davanti. Una folla si era già riversata fuori, mentre una folla più grande si trovava intorno all’uscita anteriore e sbirciava dai finestrini dalla nostra parte. Sullo scalino più alto dello sportello era seduta la donna tribale. Si stringeva al petto il bambino infagottato. Il bambino è morto. Ha un bambino morto con sé, gridava la voce maschile dominante. La donna scuoteva il capo assente, mentre teneva ancora stretto il bambino. Qualcuno degli uomini ha cercato di toccare il bambino. Non doveva avere più di un paio di mesi. È vero, ha gridato l’uomo che aveva toccato il fagotto. Il bambino non è vivo. È freddo. Non respira! È freddo come il marmo! Non ha vita. Il cittadino impomatato di brillantina con i pantaloni di terrycot a zampa di elefante che aveva orinato quanto gli era parso, a modo suo si mise a fare il protettore della donna accovacciata. Toccò il bambino. Trasudava la falsa autorità di chi deve proprio sapere tutto. Il tuo bambino è morto, disse alla donna pacatamente, come un semplice dato di fatto. Perché porti il suo corpo sul bus? Morto no, disse la donna, senza emozione, senza una mossa. È morto già da diverse ore, insistette l’uomo di città impomatato. È freddo come il marmo. È solo malato, replicò la donna. Lo sto portando a Phansa, da suo padre. APhansa ci sono dottori. Dove abita tuo marito? A Phansa. Dove a Phansa? Non so. È andato via cinque mesi fa. È andato a Phansa. Un altro di quelli che spariscono, pensai. Come fai a portarlo da suo padre se non sai nemmeno – Comunque, lo interruppi, dopo aver avuto il tempo di esaminare il corpicino. Il bambino è morto. Non ha senso portarlo da nessuna parte. Questo è vero, mormorarono alcune voci. Non ha senso portarlo da nessuna parte. È morto. Ci volle almeno un quarto d'ora o anche di più per convincere la donna che il suo bambino era morto stecchito. Queste donne rurali sono così ostinate nella loro ignoranza. Ecco perché quando ho deciso di sposarmi ho cercato una ragazza nata e cresciuta a Phansa – non in un'enorme città debosciata come Kalcutta o Dilli, ma nemmeno in un paese. Abbiamo voltato il bambino, abbiamo scoperto il corpo, abbiamo fatto sentire alla madre il freddo e la mancanza di battiti del cuore, e le abbiamo fatto anche notare il lieve odore di decomposizione che cominciava a venire dal cadavere. Finalmente ha smesso di dire ‘morto no’. Ma non piangeva e non andava via. Ha posato il bambino in terra davanti ai suoi piedi, come se il bambino non le appartenesse più, ed è rimasta a sedere sugli scalini. 55 – E allora Mangal Singh l'ha vista, l’immagine gli sarebbe restata in mente, che avrebbe preso tanto spazio nella sua immaginazione che il resto del viaggio sarebbe stato spazzato via dalla sua memoria. La sua mente, avido autore, gliel'ha messa in corsivo sulle pagine della memoria anche se lui, per quanto lo riguarda, non racconterà mai quella storia. Non veramente. Non tutta. 56 – Prima che gli uomini cominciassero a urlare eccitati – Rasmus fra l'altro ebbe bisogno di qualche minuto per capire che cosa stavano dicendo, tanto erano diversi i dialetti della maggior parte di loro da ogni tipo di Hindi che avesse sentito fino a quel momento – prima che le urla irrompessero nei suoi silenziosi calcoli di tempi e doveri, Rasmus era già vagamente consapevole della molteplicità delle voci, dei fili che riempivano il bus con un basso ronzio. Le tante conversazioni che volavano una nell’altra e poi si separavano. Più tardi pensò che erano come il tilkut che aveva visto attorcigliare e impastare con manici corti a Gaya intorno a dei pali di legno. I fili di tilkut si attorcigliavano al palo, si fondevano e si separavano, si separavano e si fondevano. Ma ora c’era improvvisamente una sola realtà di cui parlare sul bus. Morte. Ma non era proprio il genere di morte che Rasmus riconosceva. Non aveva l'ordinato decoro, la regolata gravità, la dovuta presenza dei morti che aveva visto di persona o di cui aveva sentito parlare in Danimarca. Non si separava chiaramente dalla vita. I fili di questa morte restavano intrecciati – per Rasmus era raccapricciante – con la vita sul bus e intorno al bus. Le persone si stavano spostando verso la parte anteriore del bus, spintonandosi, allungando il collo per vedere meglio. Rasmus strinse le dita sulla valigetta. 57 – Quel che Mangal Singh ricorderà di questo viaggio nel modo più vivido saranno le due mosche che saggiano le cavità delle narici del bambino, indifferenti al ribollio della vita intorno a loro, indifferenti al silenzio di morte che come un rossore si è posato sul viso del bambino. 58 – Quando il giovane paesano è arrivato al bus, metà dei passeggeri era già scesa. Solo tre o quattro uomini più anziani – col segno della casta sulla fronte – erano ancora sul bus. E la maggior parte delle donne. La donna col bambino piagnucoloso – una donna molto attraente, pensava, ma d’aspetto dozzinale, che non aveva un aanchal sulla testa – stava ancora spingendo via gli uomini, e gridava. Fatele un po' di spazio, lasciatela respirare! Era deluso. Forse non era nemmeno un ladro. Sembrava come se qualcuno fosse appena svenuto. Ma poi ha sentito le voci più distintamente: È morto; il bambino è morto. Proprio allora la folla intorno alla portiera del bus si è aperta per lasciar scendere un firangi, un uomo alto che sembrava decisamente fuori posto nel bus, e il giovane è riuscito a vedere per un momento il bambino morto fra le braccia della donna tribale. Era seduta sul gradino anteriore del bus. Le sue braccia erano tatuate con motivi stilizzati. Era la sola macchia di quiete e di silenzio in quella massa ribollente. 59 – Alla fine era semplice: Due mosche saggiano le cavità delle narici di un bambino morto. 60 – Riporta il corpo al tuo paese, dissi alla donna tribale, che ora stava dondolando piano sulle anche, senza parole. Portalo a casa, gli anziani sapranno cosa si deve fare. Siccome non rispondeva lo ripetei. Là non c’è nessuno, disse lei. Nessuno? Chiesi seccato, un po’ arrabbiato con questa donna, per la sua debolezza di cervello tribale. Nemmeno uno zio, una nonna, un suocero? Nessuno, ripeté lei. Ma non vedi donna? Non puoi andare a Phansa con un bambino morto. Non ha senso. Non volevo accumulare altro ritardo. Dovevamo fare ancora il viaggio di ritorno e non è il caso di viaggiare su questa strada col buio e la regione non è sicura come sembra alla luce del giorno. Ci sono bande criminali attive che hanno la base in quasi tutti i paesi, criminali e comuniste. Avevo anche paura di un’inchiesta della polizia e dei relativi problemi. Meglio stare alla larga dai poliziotti e dalla legge. Stava a sedere in silenzio. Fitta come una notte amavas. Dovremmo aiutarla a cremare il bambino, disse il grande uomo di città impomatato, lisciandosi pensoso i baffi. Era il tipo che deve sapere tutte le risposte. Sembrava che si gonfiasse per l’importanza della sua proposta, tanto che si vedevano sporgere le costole dalla sua stretta camicia a quadri. I tribali di questa zona non cremano i giovani. Li seppelliscono, dissi irrompendo bruscamente, cercando di eliminare questa idea folle e spreca–tempo del babu di città. Nessuno mi ascoltava. A quel punto il firangi, che sorprendentemente sapeva un po’ di Hindi, si fece avanti e ci disse in un Hindi stentato che si doveva chiamare la polizia. Polizia bullana, polizia bullana, ripeteva. Rule sé kaam karna, certificate karna, disse. Nessuno dava retta nemmeno a lui. Allora aiutiamo a seppellire il bambino, stava dicendo l'uomo di città, e i paesani lo ascoltavano. Non stavano a sentire me, e nemmeno il firangi babu; stavano a sentire quel damerino che si dava tante arie con i baffi sottili e i capelli impomatati! Seppelliremo noi il tuo bambino, disse alla donna. Sì, sì, ti aiutiamo a seppellire il bambino – dissero in coro alcune altre voci, la maggior parte delle quali grondanti di suoni campagnoli e sentimentali dei paesani che, in un'altra occasione, non esiterebbero a picchiare a morte una persona per deviare un corso d’acqua. La donna restava impassibile. Il cittadino fece autoritariamente cenno a un ragazzo di campagna perché sollevasse il corpo e si mise alla guida di una processione che partiva dalla fermata del bus e scendeva da una parte della strada fino alla sottile striscia di terra demaniale che separa la strada dai campi. Solo alcuni degli uomini vestiti meglio, di questa o quella città mufassil, e una coppia di anziani paesani col segno della casta sulla fronte, restarono lontani dal corpo. Mrs Mirchandani, ovviamente, restò dov’era; e così fece la donna rispettabile seduta accanto a lei. La piccola processione incespicava lungo i lati della strada. La striscia di terreno demaniale era coperta di erba secca ed esili arbusti. C’erano delle chiazze qua e là, dove il governo aveva tentato di piantare alberi, proteggendoli con qualche mattone e un po' di filo di ferro, ma la maggior parte degli alberi erano morti o spogli, le foglie erano state tutte strappate dalle mucche e dalle capre. Dov’è una pala? Qualcuno ha una pala? Gridava il grand'uomo di città. Dopo un momento di confusione, uno di quelli del posto – un giovane che avevo visto seduto su un muro sbreccato a guardare la tamasha – andò di corsa in una stanza dietro al dhabba e tornò con una pala. Il cittadino impomatato fece cenno a un altro uomo dall’aria rurale di cominciare a scavare. Era evidentemente quel genere di uomo che deve avere proprio tutto sotto controllo, completamente pieno di sé. Fu scavata una fossa poco profonda, ci fu messo il corpo del bambino e fu coperto. Segnammo il posto con alcuni mattoni del muro sbreccato alla fermata del bus e con le siepi che il governo aveva piantato intorno ad alberi inesistenti. Quando tornammo, la donna tribale stava ancora a sedere sui gradini. Era rimasta sempre là. Anche il firangi c'era rimasto, a borbottare qualcosa sulla legge e sull’ordine, la polizia e i regolamenti. Sapevo come si sentiva. Anch’io mi sono sentito così con questi assurdi villani. La donna dozzinale e sfrontata che era saltata giù dal bus con il bambino moccioso in braccio, anche lei era rimasta con la donna tribale, seduta sullo stesso scalino, toccandole la testa, accarezzandole teatralmente i capelli annodati e attorcigliati. Il suo bambino zampettava per terra lì intorno, cercando di tirar fuori qualcosa con un bastone, apparentemente trascurato. L’abbiamo fatto, dissi io, sperando che la donna tribale si muovesse e ci facesse continuare il viaggio. Eravamo già in ritardo di due ore e più. È inutile ora che tu vada a Phansa, aggiunsi. Si alzò lentamente. La donna dozzinale col bambino moccicoso le porse la scatola di latta che la donna tribale portava con sé. La donna tribale cominciò ad allontanarsi. Aspetta un momento. Era ancora il grande cittadino impiccione: Non le avete reso i soldi del biglietto! Sì, sì, le voci si fecero ancora sentire, lo stesso coro sentimentale: Dovete restituirle i soldi. Sì, sì, dovete farlo. Questo mi mise in una posizione scomoda. Le avevo rilasciato un regolare biglietto, l’avevo staccato dal blocchetto, e non c’era modo di convincere il maalik che il biglietto era stato rimborsato. Avevamo anche un cartello sul quale era scritto in rosso ‘Nessun rimborso’, proprio dietro la zona del guidatore. Se avessi restituito i soldi, avrei dovuto tirarli fuori di tasca mia. Sono un pover'uomo, con moglie e due figli. Non posso restituire il danaro. Ho già staccato il biglietto. Allora si accese un animato dibattito. La donna rimase là in piedi, probabilmente non poteva farsi strada nella folla che ci circondava, mentre il cittadino in suo nome diventava sempre più bellicoso. Mi girai verso Mangal babu cercando un sostegno. Era rimasto tutto il tempo sul suo seggiolino di autista, masticando placidamente un paan, sventolandosi con un asciugamano sporco e seguendo tutto a distanza. Non è come me e te, non è proprio il tipo che si mette a disposizione degli altri. Domanda al sahab autista! Gridai. Lui sa che non posso restituire i soldi nemmeno se voglio. I soldi non sono miei. Nemmeno se fosse morta mia madre. Devi farlo, devi farlo, anche se di tasca tua, strillava il cittadino, gonfiandosi tanto che le costole, ora completamente visibili, gli volevano uscire dal petto, credi a me. Lo devi fare, non puoi sfruttare la povera gente, i giorni dei Laatsahab con i loro khansamah e i loro ardallis sono passati, devi rimborsarle il biglietto anche se di tasca tua, gridò. Ma certo, gridai a mia volta. Perché allora non lo fai tu? Ma mi accorgevo che la faccenda si stava mettendo male. ‘Sfruttare i poveri’ era un’espressione efficace, astuta, e il cittadino impomatato lo sapeva. Mi girai verso Mangal babu dalla porta anteriore, che era aperta. Il firangi era già tornato al suo posto, stringendo la sua valigetta. Finalmente si era anche tolto il cappotto. Diglielo, Mangal babu, implorai. Digli che per me è impossibile restituire i soldi una volta che il biglietto è stato staccato. Devo render conto di ogni naya paisa! Invece Mangal bubu infilò le dita nella sua tasca interna e ne estrasse un rotolino di biglietti da una e da due rupie. Me li porse senza contarli e disse lentamente, Daglieli. Presi i suoi soldi dopo un attimo di assoluto silenzio. Nemmeno il cittadino Impomatato se lo sarebbe mai aspettato: il vento smise di soffiare nelle sue vele. La nave della sua eloquenza socialista traballò. Le sue costole sparirono sotto la camicia a quadri. Il biglietto costa solo sette rupie, dissi, contando le rupie e porgendole alla donna tribale impassibile. Il giovane con i jeans attillati che era andato a prendere la vanga cominciò a fare delle sciocche impertinenti risatine, ma io lo zittii con lo sguardo. Il resto dei soldi lo restituii a Mangal babu. 61 – Ma dove mai? Solo in India! Ma dove mai? Solo in India! A Rasmus pareva di sentire suo padre, Alok Sen alias A. Jensen, che diceva queste parole. Suo padre le aveva dette in due modi diversi. A Copenhagen era stata un’affermazione d’orgoglio. Ma dove mai si parlano da un capo all'altro diciotto, diciooootto lingue ufficiali? Solo in India! Ma dove mai c'è stata una storia così grande? Solo in India? Ma dove mai si è potuta ottenere l'indipendenza con la non violenza? Solo in India! Ahimsa, Ahimsa, ripeteva suo padre, strascicando la parola. Sapete cosa vuol dire, mister? Ma appena Alok Sen alias A. Jensen era atterrato a Delhi, l'accento si era spostato sulla seconda parte: Solo in India ci sono tanta burocrazia e tanta inefficienza! Solo in India si può vedere una povertà come questa! Disgustoso! Criminale! Semplicemente criminale! reclamava. E ora, sballonzolato su una strada piena di buche, cercando di evitare che la sua camicia si sporcasse troppo, Rasmus rivolse il pensiero a suo padre: Ma dove mai un bus si può fermare a seppellire un bambino per poi proseguire come se nulla fosse? Solo in India! Niente di speciale comunque, gli sembrava, a sentire alcune persone discutere di quello che era successo o la giovane donna che aveva porto all’aborigena la sua scatola, che ora sbaciucchiava il suo bambino con una commozione eccessiva. Dove? Solo nella tua India, disse Rasmus al suo padre morto. Dove? Solo nell'India maledetta! Mister. 62 – Il viaggio è stato lungo, più lungo del solito. Ma finalmente siamo all’angolo vicino al chowk di Phansa dove si ferma il bus privato. L’angolo è congestionato da bus privati, colorati, metallizzati, sedili di resina con l’imbottitura sbuzzata, divinità e santi e versetti del Corano appesi nella cabina di guida, video e impianti stereo a tutto volume. Il chowk brulica di gente. C’è gente che si precipita a prendere un bus o un risciò. Ci sono venditori. Chinniabadaam, chinniabadaam, chinniabadaam, grida il venditore di noccioline tostate. Ci sono donne che portano il purdah, donne che portano il sari e donne col shalwar–kameez, una di loro non ha nemmeno un aanchal. Ci sono uomini con il gathris e uomini con la valigia. Ci sono bambini. Un bus parte con un rombo. E gli altri autisti gridano. Ho avuto altri problemi con il Guidatore Mangal Singh. Lui vuole che ci fermiamo per due ore, come al solito. Ma abbiamo già accumulato due ore di ritardo e io voglio tornare a Gaya prima che faccia buio. Il giorno è cominciato sotto pessimi auspici. Un bambino morto. Cose da non crederci. Secondo me si doveva ripartire dopo un quarto d'ora, ma Mangal Singh deve celebrare l'unico rito che conosce: mangiare, abbuffarsi. Così partiremo fra un’ora. Do un colpetto in testa al ragazzo delle pulizie e gli dico di sbrigarsi. Non limitarti a far sparire vomito e spazzatura da sotto i sedili, pulisci perbene. Voglio vedere la tua faccia rispecchiata nel pavimento, gli dico. Poi mi ritiro a bere una tazza di chai al Nizami Restaurant. Io mi porto sempre da mangiare da casa. Fra qualche minuto ricomincerò a battere la mano sul bus, gridando le mie litanie a rovescio: “Pullman espresso privato – Phansa–Vilaspur–Sherpur–Janbagh–Akbarabad–Dhoda–Tehta–Makhdumpur–Bela–Chaakand–Gaya..., Phansa–Gaya payn–tees rupie, payn–tees rupiya, payn–tees rupyaaa!” Un altro viaggio, altre case. Penso al bus che comprerò se le cose continuano ad andare bene. Il mio bus. Non devo smettere di pensare al bus che comprerò. Non posso rischiare di farmi distrarre dalla farsa della vita che mi circonda, dalle tragedie e dalle commedie della gente che ha perso di vista la propria destinazione. 63 – Appena sceso dal bus, con la mente confusa, Rasmus era andato direttamente dal ministro, e poi andò alla guest–house per scoprire che Hari era già là con l’Ambassador. “Ghasmus–sir, Ghasmus–sir, che succede, sir, bus arrivato molto tardi, sir?” chiese a Rasmus con esagerata sollecitudine. La guest–house con i prati spelacchiati e pochi fiori, e i bungalow freddi con le travi, a Rasmus la guest–house parve un paradiso. Gli fece quasi passare di mente l'irritazione nei confronti di Hari. Rasmus era particolarmente irritato perché Hari aveva riparato la macchina ed era riuscito ad arrivare a Phansa poco più tardi del bus. Era consapevole che questo dato di fatto avrebbe dovuto fargli apprezzare le capacità di Hari come meccanico, perché prima di prendere il bus aveva nutrito seri dubbi su queste capacità, invece non faceva altro che irritarlo ulteriormente. L'Ambassador era messa tanto male? Gli passò per la mente l'ipotesi che Hari lo avesse cacciato in tutto questo guaio – senza mettere in conto l’incubo della sepoltura del bambino – per negligenza o di proposito. Ma poi guardò Hari, notò il desiderio dell’uomo di compiacerlo, piuttosto buffo, e respinse quel pensiero. Rasmus cominciava a sentirsi più felice, più leggero – lasciando la valigetta alla segretaria personale del ministro si era liberato da un peso opprimente. Aveva fatto quello che doveva fare. Ma dove mai? Solo in India, pensò, poi si strinse nelle spalle ed entrò nella guest–house per rinfrescarsi e mangiare prima del viaggio di ritorno. Potevano proprio rientrare in giornata. 64 – Quella sera il ragazzo rincasò tardi, molto dopo che le sue sorelle avevano finito di mungere le mucche. Mangiò il daalchawal che sua madre gli aveva lasciato su un thali coperto con un pattal nell’angolo della stanza più piccola che serviva da cucina e da camera da letto per la madre e le sorelle. Cercò di fare piano per non svegliarle. Poi ritornò nella stanza esterna, la più grande, che serviva da baithak di giorno e di notte da camera da letto per gli uomini. Suo padre dormiva sull’unico charpoy della casa, russando a intermittenza, ma si svegliò e disse: “Sei tornato?” per poi girarsi ricominciando a russare a intermittenza. Le stanze erano sature dell’odore di bestiame della stalla adiacente. L’odore emanato da quattro mucche, tre capre e una stia di rete di ferro con sette galline e un gallo. Delle belle bestie secondo i criteri del loro paese. Il bufalo era legato fuori dalla stalla. Non aveva bisogno di essere protetto dalla rugiada o da un acquazzone improvviso. All’entrata della stalla c’era un vitello imbalsamato, appoggiato contro il muro di fango. Il vitello era morto appena nato. Era stato imbalsamato e il suo muso rigido e scuro veniva portato alla madre due volte al giorno, perché potesse leccarlo con la sua lingua poderosa e continuare a produrre più latte del solito. Nessuno aveva mai riso di quella mucca. Si era sentito come se avesse riso per ore dopo che il bus era ripartito. Ridere, ma non per qualcosa di gioioso o divertente. Non era in grado di scandagliare il pozzo di questa voglia di ridere. Era disteso sul letto di paglia sparsa sul pavimento, accanto ai suoi due fratelli e al cugino che viveva con loro perché suo zio aveva meno terra e altri cinque figli. Si sentiva molto stanco, ma non si addormentò finché il cielo non cominciò a diventare sempre più chiaro quando cominciò a sentire dalla stalla adiacente alla loro casa semi–pukka un tramestio crescente nella stia delle galline fatta di legno e filo di ferro. Presto il gallo canterà. Una volta, due volte, tre volte. 65 – Tutto il resto venne da sé, con naturalezza, come se non lo avessi progettato io sul bus. Niente affatto. Quello che era accaduto alla donna tribale non smise di ossessionarmi fino a Phansa, anche se Mrs Mirchandani era decisa – forse per il mio bene, perché pensava che non mi fossi ancora ripresa dalla perdita della mia famiglia – Mrs Mirchandani era decisa a parlare di tutt’altro. E poi era una donna che non poteva davvero partecipare alle perdite di chi era troppo diverso da lei, e per la verità molte di noi lo sono. Parlò di tante cose, mentre la donna tribale perseguitava la mia mente e i miei pensieri. No, non ebbi tempo per pensare al mio futuro sul bus. E se ci provai, tutto quello che desideravo erano un tetto sulla testa e un impiego. Ma le cose girarono a modo loro, come avrebbe detto il maestro di tabla, ridendo e tossendo. Venne fuori che Vijav Marchandani era più o meno come me l'ero immaginato: poco più di quarant'anni, uno che prendeva tutto con calma, moderatamente religioso, con un viso piacevole, la pelle un po’ scura e ruvida, il corpo poco tonico, e un'inappagata fame di donna. Bastarono pochi giorni a fargli dimenticare la sua insegnante anglo–indiana – che era più probabilmente un'amica che un'amante – e cominciò a dedicarmi la sua attenzione. Ci sarebbe voluto più tempo a me per dimenticare la donna tribale. Una volta che ebbi realizzato che cosa stava capitando, cominciai ad avvicinarmici con modi assai pudichi. Mai, nemmeno una volta, gli permisi di pensare che stessi prendendo io l’iniziativa. Gli preparai il tè e con pudore risi delle sue battute. Mi strusciai a lui per caso, e arrossii. Lo guardai e, quando incrociò il mio sguardo, guardai subito da un'altra parte. Ammesso che Mrs Mirchandani si rendesse conto di quel che stava succedendo, fece finta di nulla. Forse lei non poteva immaginare che suo figlio contemplasse l'ipotesi di una cosa duratura con un'orfana senza un centesimo. E poi era felice di mettere fuori combattimento la chiacchierata insegnante anglo–indiana, inoltre le piacevo veramente. Una volta mentre le massaggiavo i piedi, mi fece una carezza sulla testa e disse: Se tu fossi Sindhi, ti farei sposare Vijay. Ti comporti con tanta educazione e hai la nostra cultura in ogni vena e in ogni cellula del tuo corpo. È così raro incontrare donne come te di questi tempi, figlia mia. Che dio ti conceda una lunga vita. Non le dissi che molte delle sfumature della ‘nostra cultura’ che apprezzava tanto in me le avevo imparate da un'ustad musulmana e facevano parte proprio della cultura di quella gente che non avrebbe mai perdonato. Se non voleva che ci fosse nulla in comune fra lei e quella gente, doveva far sposare suo figlio con un tipo di donna tribale come quella che quel giorno era salita a bordo del bus. E anche in questo caso poteva non riuscirci, perché gli esseri umani sono come pezzi di stoffa nella pioggia del tempo: porosi. Le culture filtrano in noi: acquistiamo peso con la nostra storia e con le storie di tutti gli altri. Avrei potuto dirglielo, ma non volli. Poi una sera, mentre Mrs Mirchandani era fuori per uno dei suoi frequenti kirtan o darshan religiosi, Vijay tornò a casa presto. Camminò fino a raggiungermi. Ero in cucina, a preparare il pranzo. Stai cuu–cuu–cuuu–cinando? Chiese, deglutendo con difficoltà. Mi risistemai il pallu del sari in modo che mi coprisse il capo e mi nascondesse una parte del viso. Nei tempi andati era un gesto che ci si aspettava da qualunque ragazza perbene. Perché ti copri sempre il volto? Disse Vijay, deglutendo con crescente difficoltà. Hai un volto così carino. Non devi tenerlo seminascosto. Non dire queste cose, mormorai, con un'agitazione nella voce. Perché no? No e basta. Perché no? Lo sai. Perché no? Disse ancora lui. Il mio finto imbarazzo aveva prodotto su lui il giusto effetto: stava diventando più audace e aveva smesso di deglutire come un pesce rehu. Non sta bene, dissi. Non sta bene? Cosa c’è di male nel dire a una donna che ha un bellissimo viso? Dopo un momento aggiunse, a voce bassa e roca: E il corpo come lo chandan. A questo punto Vijay venne più vicino, tanto che il suo corpo toccava il mio. Mi ritrassi, ma senza allontanarmi troppo. Mi seguì e mi mise un braccio esitante intorno alla vita. Glielo lasciai fare. Ma quando mi sollevò il viso per baciarmi, trovò delle lacrime che mi scendevano piano dagli occhi. Per fortuna avevo appena fritto le cipolle e le lacrime sembravano naturali. Vijah diventò apprensivo. Fece un passo indietro e chiese, Cosa c’è di sbagliato? Non ti piace che ti tocchi? Che importa, babu? Importa eccome! Non sono mica un mostro! In questa casa tu in sei il padrone e io un’orfana senza casa, una serva, una schiava. Che importa quello che sento io? È questo che pensi? Disse Vijay, un po’ sollevato. Credi che io stia solo facendo lo scemo con te? Sono troppo indifesa per credere, babu. Non sto scherzando con te. Ti sto guardando da settimane. Mi sono innamorato di te, dichiarò Vijay. Solo i ricchi si innamorano, babu. Che posso dire? Se mi oppongo, tu mi butterai fuori ora. Se non mi oppongo, mi butterai fuori dopo... quando il tuo amore finirà. Perderò la sola cosa che mi è rimasta nella vita: la mia... Vijay sembrò preso alla sprovvista da queste parole. Allora disse: E se ti sposassi? Tua madre non sarà d’accordo, replicai. Lo sarà. No, non ti farò fare qualcosa che possa ferire tua madre. È la mia padrona. È la mia dea. 66 – Più tardi, quando l'ufficiale di polizia venne per interrogarlo, lui mantenne un silenzio idiota, come se non capisse bene. Suo padre era seduto accanto a lui, come lui accovacciato sul pavimento di fronte all’ufficiale. L’ufficiale era seduto sul carpoy che era stato tirato fuori in suo onore, con le gambe accavallate e i piedi in alto. C'erano due agenti impettiti accanto al charpoy. Sua madre era in piedi dietro all’ufficiale e agli agenti sulla porta bassa della loro casa semi–pukka, e dietro a lei tutte le sue sorelle con gli occhi spalancati. Aveva pensato che gli avrebbero chiesto di quel cumulo di terra e calcinacci sul bordo della strada. Aveva pensato che gli avrebbero chiesto del bambino che avevano seppellito. Ma questo non li interessava. Cercavano un ragazzo di nome Chottu che aveva ucciso qualcuno a Patna, una certa Srimati Prasad, ed era scappato con un mucchio di soldi e di gioielli. Il ragazzo viveva in uno dei paesi vicini, disse l’ufficiale. Era chiaro che per l’ufficiale tutti i paesi della zona erano copie dello stesso campione sottosviluppato. Non esistevano, come per lui e per la sua famiglia, come entità distinte, uno noto per le sue coltivazioni di mango, l’altro per un dolce particolare, uno famoso per l’irascibilità dei suoi abitanti, l’altro per la generosità dei paesani. No, rispose, no, non conosceva nessuno di quel paese. Veniva da una lunga stirpe di paesani che credevano che non si dovesse dire nulla ai poliziotti a meno che non si fosse più che sicuri che fosse esattamente quello che la polizia voleva sentire. Non fece parola del ragazzo che aveva visto sgattaiolare via quando avevano sepolto il bambino. Il ragazzo che aveva visto non aveva nient'altro che un unico splendido sari Banarasi. Non disse nulla di quel ragazzo, anche se più tardi venne a sapere che Chottu lo avevano preso comunque. Quando l’aveva visto per l’ultima volta Chottu stava tagliando per i campi, e camminando agilmente sull’aaris. Il modo in cui camminava diceva che non era estraneo ai confini sottili e ai sentieri angusti della vita contadina. In qualunque altro giorno, avrebbe prestato più attenzione a qualcuno che fosse sceso alla fermata e si fosse incamminato verso il suo paese o verso uno dei paesi limitrofi. Ma quella volta era impegnato a procurare una pala, e l’ultima cosa che ricordava di Chottu, o chiunque fosse, era l’immagine di un ragazzo come lui pochi anni prima, una ragazzo coi pantaloni corti che camminava veloce sulla stretta aaris, con la luce del sole che luccicava sulla fibra lussuosa del sari Banarasi che portava sottobraccio. Quando cercò di nuovo il ragazzo, dopo che il neonato era stato seppellito, di lui non c’era più traccia di lui. La distanza l’aveva ingoiato. Eppure gli era parso di vedere qualcosa che luccicava in lontananza. 67 – Il telegramma che Rasmus ricevette dall’ufficio di Delhi pochi giorni dopo gli fece comprare una bottiglia di whisky per festeggiare con il manager indiano dell’ufficio di Gaya e con dei turisti danesi che aveva conosciuto a Bodh–Gaya. Voleva dire che la sua lunga missione in India – quasi un anno – si sarebbe conclusa entro pochi giorni. La gioia per il telegramma gli fece dimenticare l’irritazione con la quale aveva portato la valigetta alla residenza del ministro. Dimenticò anche il bambino morto e lo ricordò solo un po' di tempo dopo, a Copenhagen, portandolo ad esempio degli aspetti estremi dell'India. I tanti fili che vanno nel tilkut, che si torcono e girano, gorgogliano e si strappano, si fondono e si dividono, sarebbero tutti diventati invisibili nel tilkut impastato e cotto del racconto che Rasmus avrebbe servito ai suoi commensali a Copenhagen. Perché non ci scrivi un romanzo, avrebbe detto la sua ragazza, una cosa cupa e inquietante, forte e kafkiano, oppure una cosa leggera e irriverente, un realismo magico carino come quello di comesichiama Rushdie? Il telegramma diceva: CONGRATULAZIONI STOP IDEA GITA REGALO EFFICACE STOP ARRIVATO ORDINE STOP ALLA SIR TAK STOP L’ultima frase, pensò Rasmus, doveva essere ‘alle siger tak’ storpiata. 68 – Vijay andò via confuso. Ma tornò molto presto. Quella sera, il giorno dopo e tutti i giorni per le tre settimane seguenti, lo incoraggiai con le parole e con qualche toccata casuale, e all’ultimo momento lo tenni a bada. Sentivo come diventava disperato. Smise di radersi. I suoi capelli così lucidi e curati diventarono incolti. Appena sua madre usciva, arrivava da me e mi ronzava intorno. E poi, una sera, mentre Msr Mirchandani era fuori per un altro kirtan, me lo vidi arrivare di corsa e cominciò ad agguantarmi i vestiti. Io cercai di protestare, ma lui cominciò a baciarmi, sussurrando, ti sposerò, ti sposerò, ti prometto che ti sposerò. Promesse, promesse, promesse, le ripeteva come un bambino che fa a un altro bambino una solenne promessa che capisce solo a metà. Ma la sua voce non era quella di un bambino, era roca e congestionata. Vijay non è molto forte – avrei potuto respingerlo se avessi voluto. Ma mentre continuavo a protestare lasciai che mi prendesse. Come lo fece, di certo non era mai stato a letto con una donna – a dispetto di tutte quelle chiacchiere sull’insegnante anglo–indiana. Non c'è da meravigliarsi: con una madre dominante come quella con tutte le sue elevate aspettative religiose! Ho dovuto aiutarlo a fare quel che voleva, senza smettere di fingere di resistergli. Non si è accorto della differenza. Di nessuna differenza. Alla fine, mi sono semplicemente seduta e ho pianto. In modo patetico. Umile. Inconsolabile. Sapevo che la sua coscienza avrebbe fatto l'ultima parte del mio lavoro. Il giorno dopo me ne rimasi nella mia stanza e quando Mrs Mirchandani mi chiese cosa avevo finsi un mal di testa. Mancava solo un giorno, ed era fatta. Ha trovato un pujari del posto e mi ha sposato senza dire una parola a sua madre. Poi gliel’ha detto. Baap ré, come strillava la vecchia! Si strappava i capelli, si batteva il petto, minacciava di lasciare la casa del figlio. Per un istante ho pensato che tutti gli sforzi che avevo fatto per piacerle fossero stati spazzati via. Ma la mattina dopo lei era soltanto imbronciata. Una settimana dopo, mi ha parlato per la prima volta dopo la rivelazione. Nell’arco di un mese, ha accettato il nostro matrimonio – a condizione che ci sposassimo un'altra volta con il rito completo e la sua supervisione. Vieni, figliola, mi ha detto, mi sei sempre piaciuta e forse è un bene per tutti. Dopo tutto, tu sei la mia nuora e sei una pundit Kashmiri. Diventerai una moglie perfetta. Perdoniamo e dimentichiamo. Perdonare. Sì, maaji, è quel che voglio fare. Dimenticare. Dimenticare chi ero. Dimenticare Chaand. Dimenticare il suono graffiante di riso e di tosse del maestro di tabla che moriva sanguinando lentamente. Dimenticare lo sguardo – o la mancanza di qualunque sguardo riconoscibile – sul viso della donna tribale. Dimenticare e diventare rispettabile. Sì, maaji, dimenticherò. Sarò brava a dimenticare. Ma naturalmente non ho detto nulla di tutto questo. Sapevo che nella mia nuova vita ci sarebbero state molte cose che non avrei mai detto. Ho solo fatto sì col capo quando ha detto un'altra volta: Eri già mia figlia. Sarai una moglie perfetta. Ed è quel che sono ora. C’è stato un tempo in cui avrei potuto essere custode delle chiavi dell’harem, guardiano del più santo dei santuari del Medio Oriente, danzatore, spia, studioso, generale a Delhi. Ora non sono niente di tutto questo. Ma alla fine sono qualcosa che per tanti è ancora più difficile da raggiungere. Sono la moglie perfetta. Non sono più Farhana Begum o Parvati. Sono Mrs Mirchandani. Non sarò sepolta da sconosciuti lungo una via. Il mio destino sarà un’altra storia ... no, non quella. 69 – La notte che avvolge il suo villaggio è profonda. Nella sua oscurità puoi vedere le stelle. Le stelle qua fuori sono più brillanti che nelle città grandi e piccole. Sulla terra non ci sono le stelle. Se ci fosse stata la luce del giorno, avresti potuto vedere i villaggi vicini. Ma di notte i villaggi non accendono nemmeno una lampada nelle ore in cui non si veglia. A differenza del cielo, la terra indossa la notte senza il manto di stelle. Non ride più. Dorme. A singhiozzo, come il passeggero di un bus. ANCORA CASE Ecco, il bus si è fermato per la notte; siamo tornati tutti a casa. Home, casa. Una parola che, in inglese o in danese, si dice con una morsa finale delle labbra, come finestre che si chiudono, come se quello che contiene non fosse nient'altro che spazio; fanno una mossa come quella di un bambino possessivo che stringe i suoi giocattoli fra le braccia: home; e che, in Hindi o in Urdu, si dice con una delicata emissione di fiato, le labbra che si aprono come porte, una mossa che procede dalla ruvida gutturale che cattura nella gola al finale rullio della lingua: ghar, casa. Ghar, casa, è anche l'edificio. Siamo tornati tutti a casa, o almeno dentro i loro muri. Io ho la casa dei miei ricordi, quella casa, diciamo, di sessantanove stanze. Dalle finestre di queste stanze messe a soqquadro ho visto per la prima volta il mondo che ho cercato di mostrarti, quelle stanze che sono tutte buttate all'aria – come in un bhoolbhoolaiya, come in una casa cresciuta e demolita negli anni, come in uno di quegli stati mentali (sognando, rimemorando o meditando) in cui mancano le cuciture e le cose scorrono in avanti e all'indietro. Le mie case – fragili, confuse, mostruose – non le hanno tenute dentro né Ammi kè ayan né Ghar, anche se ho sempre portato il loro fardello. Parvati, Farhana, comunque si chiami, anche lei ha trovato una casa; ha trovato una casa rispettabile, la casa del Mirchandani, la casa che veste a pennello, la casa prêt–à–porter. Hari è tornato, questa notte almeno, da sua moglie, che lui stanotte non brontolerà, non ci pensa nemmeno. Rasmus è tornato a Gaya e presto ritornerà presto dalla sua fidanzata a Hillerød, nel loro appartamento di tre stanze in un palazzo del diciannovesimo secolo, alle candele che accendono tutte le sere, ai dipinti in cornice, alle piante in vaso, all’ordine polveroso della proprietà. Wazir Mian è nella casa che ha costruito negli anni, la polemica casa dei suoi figli. Gli auguro una vecchiaia libera da litigi. Gli auguro campi non divisi in appezzamenti. Gli auguro solo dolci battibecchi sui canali d'irrigazione. E suo figlio, quello con i baffi fini a matita e i capelli impomatati, quello con la cicatrice livida, c’è anche lui, in quella casa di cui si lamenta perché è in un paese mentre lui preferirebbe vivere in una città. Tu, tu sei nel tuo appartamento a Patna, con la TV accesa, senza il sonoro, ad aspettare il tap–sigh–tap dei passi stanchi di Mr Sharma. Il ragazzo che sarebbe finito da solo in grandi città dove le donne hanno un buon odore, l’adolescente che una volta era innamorato della sfacciata Zeenat ha una casa anche lui, e di sicuro Zeenat e il suo piccolo moccioso troveranno un’altra casa in cui lavorare. Come sempre. Il bigliettaio, ma sì, il bigliettaio, sappiamo che ha una casa, una casa che ha costruito con tanta fatica e tanti sforzi e tanti progetti, una casa con un grande dipinto di Lord Hanuman incorniciato, inghirlandato, e un agarbatti che gli brucia accanto; e l’Autista Mangal Singh, anche lui ha la sua kamra nella quale entrano a volte donne dal trucco sgargiante, donne che mettono un rossetto scarlatto. Anche il giovane del villaggio che sedeva sul muro e aveva preso la vanga ha una casa. Io non sono un mago: non posso portarti proprio dentro alla casa semi–pukka di quella giovinezza, ma se rallenti un po' te la posso posso indicare. Eccola, eccola là, accanto all’albero di peepul chino nel riposo del villaggio, con un pezzo d’aratro che riposa contro il muro di una baracca semiaperta, su una parete della casa butterata di torte secche di merde di vacca. E la donna tribale, forse mi chiedi. È tornata a casa? E Chottu? È arrivato a casa con lo scintillante sari Banarasi, il sari che era il suo compenso, più qualche rupia, per far entrare gli assassini? Conosceva il destino di Mrs Prasad? Gli importava di quel che le succedeva in casa sua, in quell’appartamento ricolmo dei simboli inutilizzati dell’assenza dei suoi bambini, aggeggi che lei trovava tanto irritanti e che Chottu poteva soltanto agognare? E il bambino che era stato sepolto sul bordo della strada? Ha trovato la sua casa, là sotto la terra e le macerie? O una notte sarà stato dissepolto dalle volpi e dai cani sopravvissuti al monopolio dell’uomo? O sarà spazzato via dalla prossima piena, trascinato in un affluente del Gange e da lì nel Gange e da lì nella Baia del Bengala? Saranno le acque ancora sconfinate dell’oceano la sua casa? Ci sono cose che non posso vedere nei libri. E poi, forse mi chiedi, da dove cominciano le case? Cominciano fuori, dalla strada, dove i mattoni partono per guidarti nel giardino? Cominciano al cancello? La tua casa è il villaggio, il paese, la città? È tutta la nazione, e le sue chiavi sono i passaporti stampati e timbrati, o è soltanto quel piccolo vicinato? È un fratello, una sorella, una madre, un padre, una moglie, un marito, un bambino la tua casa, la tua casa sono i tuoi amici? La tua casa è dove arrivi o da dove parti? O la tua casa può essere su un bus? Ci sono bigliettai che dormono più nei loro bus che nelle loro case di due stanze, con i tetti ondulati sui quali una pioggerella sembra una cascata. Domanda a Hari, ti dirà che lui ha passato più notti nel suo taxi Ambassador che con sua moglie. Domanda a Zeenat. Domanda a Wazir Mian: non ha passato più anni in varie cucine di quanti ne passerà nella casa dei suoi figli? Domandamelo a me, perfino a me, perché ho conosciuto tante case nella vita. Case grandi, con le radici, case che un tempo assumevano persone come Wazir Mian, rubandoli alle loro case, regalando ai loro figli case e rancore. Ammi ké yahan e Ghar. Ho portato queste case a modo mio, sulle mie spalle molto più agiate. Ho trovato e perduto, perduto e trovato anche le mie case. Ho fatto la mia casa su bus e aeroplani, in hotel e appartamenti in affitto. Anche nel mio caso non era una scelta del tutto libera. Vengo da un posto in cui le scelte sono meno libere di quanto sembrano in altri posti. E in questi altri posti, si trovano gli indici puntati. Guarda, dicono quelli che credono di avere case con solide radici, fermati, fermati, gridano quando passiamo davanti alle loro vetrine e ai loro giardini, guarda, guarda, guarda, esclamano, perché dopo secoli di sradicamento gli homeless, les marginaux, i contadini senza terra, gli zingari, l'ebreo errante, i vagabondi, il lumpenproletariat, dopo secoli in cui si sono messe a dimora le persone come se fossero alberi, ci tengono ancora, e così alzano l’indice e gridano, ladro assassino clandestino immigrante. Anch’io conosco la paura dell’indice puntato; anch’io so leggere la parola nella cornice delle labbra scostate. Anche se le cose a volte le cose girano a modo loro, come ti avrebbe detto il maestro di tabla, ridendo e tossendo, tossendo e ridendo. A volte. GLOSSARIO
Ambassador-sassuri no-good bekaar ki car Ambassador sure no good because; Ambassador sicuramente non buona perché Amma mamma, madre Angrezi Inglese Ardalli impiegato, piccolo funzionario Asura divinità dei primi testi della tradizione vedica; oggi il termine designa un demone. Attar profumo. Ayah balia, domestica che si occupa nei bambini. Baap ré esclamazione simile a "Oddio!" Babu signore, uomo di buona famiglia. baithak taverna Bajao horn suonare il clacson Banarassi sari lussuoso sari tradizionale, prodotto a Bénaras e Varanasi. Banyan mutande Bawarchi cuoco. Begum signora. Bekaar ki car una vettura inutilizzabile Benaami letteralmente, proprietario "senza nome"; mezzadro. Bhagwaan divinità Bhajan canto devozionale induista, di semplice esecuzione, frequentemente usato nei templi e nelle case. Utilizzato anche da fedeli cristiani e musulmani, è particolarmente diffuso nel Nord dell'India e nel Nepal. Bhoolbhoolaiya labirinto Bhunjiya piatto di patate fritte, tagliate in pezzetti sottili. Bibi signorina, termine di rispetto per le ragazze della buona società. Bidi sigari sottilissimi. Bihar lo stato nord orientale di Patna e Gaya Chaalloo nukkad incrocio di strade pieno di traffico Chaddar scialle. Chai thé Chandan sandalo Chappati sottile pane piatto Charpoy letto formato da un telaio di legno sul quale sono tese cinghie e corde intrecciate. Chawal riso. Chela discepolo. Chhuara dattero essiccato Chinniabadaam arachide Chokkra ragazzo giovane. Chowk incrocio o piazza. Chowraha incrocio, intersezione. Chullah forno di mattoni. Civil Service Amministrazione pubblica Counters vetrine Cowrie conchiglie, utilizzate anche come monete Daal zuppa o purè di lenticchie o legumi secchi. Daal-chawal riso alle lenticchie. Darshan esercizio spirituale Dehaat villaggio, paese. Dehaati paesano, rurale (agg.). Dhabba ristorante allestito sul bordo della strada Dharm religione. Dhobi, dhobin lavandaio, lavandaia, anche nome di una casta Dhoti tessuto bianco che gli uomini drappeggiano intorno ai fianchi e alle gambe. Dilli Delhi Doctorni doctor, dottore Durban guardiano. Faluda dolce freddo a base di latte. Firangi indica un europeo, un uomo "bianco", da « Franchi », i francesi. Firangistan termine comunemente usato per indicare l’Europa. Gaadi veicolo Gamchha tradizionale telo di cotone Ganji canottiera, maglia di sotto Ganna canna da zucchero. Gathris fagotti, pacchi. Gehun grano. Ghamchha sciarpa da uomo. Gharana accasato; non deve andar bene Ghasphus erbe velenose. Ghazal componimento poetico comune nella tradizione urdu e persiana Ghee burro chiarificato. Gitpit termine gergale che significa «charabia», usato quando chi parla si esprime in una lingua che non padroneggia realmente Gullar Ficus racemosa Gup-shup chiacchiere? pettegolezzi? Halwai venditori o confezionatori di dolci Hijra eunuco Home-burk-shome-burk compiti a casa-compiti del cavolo Hudhud upupa Ispayshull chai tè ispayshull ITDC India Tourism Development Corporation Jalebi piccolo dolce fritto Jhuggi baracca, capanna -ji suffisso che indica rispetto. Juntalman gentleman Kabab kebab Kambal coperta, piumino Kamra stanza Kar saktey hain puoi farlo? potete farlo? Khaat letto di legno Khalassi controllore di autobus o di corriera. Khansamah capo cuoco, chef Khassi razza di capra Kirtan canto rituale induista Koel cuculo indiano Korma curry di carne tradizionale Kothi grande casa Kunji-maar chiavi in mano Kurmi antica casta agricola e guerriera Laalten lantern, lanterna Laatsahab lord sahib Lathi arma di bambù con la punta di metallo, lunga circa due metri e mezzo Lavva frutto, bulbo Lehsun aglio Lungi pezzo di stoffa indossata dagli uomini, avvolta intorno alle gambe. Maaji maa’ significa madre, ‘ji’ è aggiunto in segno di rispetto. Maalgaadi treno. Maalik maestro, padrone (fr. maître). Makhana Euryale ferox, pianta della famiglia delle Nymphaeaceae. Mangalsutra collier offerto alla sposa durante il matrimonio indù, simbolo dell'unione sacra. Masterni maestra Mithai leccornia. Mufassil provincia, provinciale. Mughlai Moghul un tipo di cucina, associato per lo più alle corti Moghul Murgh mussalam pollo grigliato alle spezie.Mynah merlo indiano (gracula religiosa) Naami rinominata, chiamata Naucht-show tradizionale spettacolo di danze e canti. Naya paisa piccolo paisa Nimki biscotti salati (anche nimkis) No cook, sir, chieff "Non cuoco, signore, chef": il cattivo inglese di Wazir Mian gli fa trasformare chef in chieff, chief: capo Nukkad angolo (di strada) Nullah canaletta di scolo Paan cicca di foglie di bétel, masticate con spezie e noce d'arec – questa mescolanza rossiccia macchia i denti. Pallu lembo di un abito o di un sari, col quale le donne si coprono la testa. Pankaj Udhas Cantante indiano di ghazal Pappad spuntino a base di mango Paratha pane fritto. Pathan membro della casta dei guerrieri, Pattal piatto preparato con delle foglie. Payn-tees trentacinque Peepul (tree) fico delle pagode, Ficus religiosa. Phokat ka govirnmint bus bus pubblico gratuito; nei bus pubblici il biglietto costa meno e in certi casi le persone non pagano nulla Police bullana Call the Police Preevaat private, privato Puja preghiera induista. PUJA GANJI AUR BANYAN Biancheria e calzoncini Puja, avviso. Pujari prete induista. Pukka Costruzione di materiali resistenti, come pietra, mattoni, cotto, metallo, tenuti insieme con malta. Pundit, pandit letterato, insegnante. Pura nashta kar kay chalengay: yeh koi firangian thoday hi hai Purdah velo Puris pane non lievitato PWD Public Work Department Pyjama pantaloni morbidi e leggeri stretti in vita da lacci; da questa parola deriva l'italiano "pigiama" Raation pronuncia alterata dell'inglese "ration", indica una bottega che il govento autorizza a vendere merci razionate Rabindra Sangeet forma musicale composta da Rabindranath Tagore che unisce la musica indiana classica e quella popolare, anche Tagore Songs Rafoo rattoppato accuratamente Ré modo insolente di rivolgersi a qualcuno, del tipo "Ehi!" Rehu pesce d'acqua dolce, simile alla trota. Roti forma schiacciata di pane Rule sé kaam karna, certificate karna Work by the rules, get a certificate issued Rupya rupia, pari a circa 2 centesimi di euro Sab Allah ke haath hai Tutto è nelle mani di Dio Sab Bhagwan ki leela hai il Signore dà e il Signore toglie, benedetto il nome del Signore Sab lekhni ka khel hai Tutto è un gioco che dipende dal caso Sabzi-puri curry di legumi leggermente speziato, che si accompagna con pane piatto una colazione comune nell'India del Nord. Sahab maestro, padrone (fr. maître). Salaam pace, forma di saluto Sassuri insulto, imbecille, idiota. Schoolmasterni Schoolmaster, maestra di scuola Semi-pukka Costruzione di materiali in parte resistenti, come quelli della pukka, in parte più economici come fango, argilla, elementi vegetali Seth's shop A shop belonging to a rich merchant Shalwar-kameez Abito tradizionale indiano composto da pantaloni morbidi, da una camicia lunga fino all'anca o al ginocchio e uno scialle e, per le donne, da una dupatta che copre il capo e le spalle Stoncrush Dhabba Stone.crush cafe; a Dhabba, ristorante economico sulla strada Tabla Strumento indiano tradizionale a percussione, composto da due casse a forma di barile di dimensioni diverse, in legno o terracotta, sulle quali sono tese delle pelli la cui tensione si modifica ruotando dei cilindretti. I due corpi sono dotati di cerchi di una pasta di manganese, riso bollito e succo di tamarindo, che conferiscono al suono una sonorità armonica particolare. Richiedono una raffinatissima tecnica di dita. Tamasha Forma artistica tradizionale di danza e canto, per estensione confusione, agitazione. Tarka miscela di spezie Teetar pernice Teetar ké do aage teetar, teetar ké do peechché teetar, aagé teetar, peeché teetar, bolo kitné teetar vecchia canzone, indovinello Terrycot tessuto misto di cotone e terital Thali insieme di cibi diversi serviti in piccole ciotole su un vassoio rotondo Thanda freddo, bevanda fredda Thella carretto tirato a mano Tilkut Dolce fragrante tipico degli stati indiani del Bilhar e del Jharkhand, citato nei testi classici buddisti. Gaya è considerata la miglior produttrice di tilkut. Ustad maestro Woh kagaz ki kashti Mio piccolo battello di carta |
Fra la mia traduzione a stampa e questa
online vi sono alcune differenze, dovute a
cambiamenti decisi arbitrariamente dall'Editore, che
ha inoltre aggiunto note esplicative a piè pagina. Vedi anche, in questo sito, i seguenti saggi di A.G. dedicati a Tabish Khair: Straordinariamente sensibile. Viaggiando con Il bus si è fermato di Tabish Khair (2013) Exceptionally Sensitive. Travelling within The Bus Stopped by Tabish Khair (2013) Bhoolbhoolaiya. Un labirinto mobile: Il bus si è fermato di Tabish Khair (2014) Bhoolbhoolaiya. A Moving Labyrinth: The Bus Stopped by Tabish Khair (2014) (https://www.kriso.ee/tabish-khair-critical-perspectives-db-9781443855990.html) Chi scrive ha tradotto anche: Jihadi Jane. Da Londra alla Siria. Storia di una foreign fighter (2018) Traduzione italiana di Jihadi Jane/Just Another Jihadi Jane (2016) La notte della felicità (2020) traduzione italiana di Night of Happiness. Pan Macmillan India 2018 Vedi un estratto: Tabish Khair’s unsettling new novel asks what secrets Ahmed is keeping from his boss Anil Mehrotra |