Noi siamo i
discendenti di una serie infinita di generazioni
di assassini. (Sigmund Freud, 1915)
1. Sartaj, tu credi in Dio?
Io
penso che la vita perda di consistenza e di
interesse quando dalla lotta è esclusa la
posta suprema, precisamente la vita stessa.
Essa diventa vuota e stupida come un flirt
americano in cui è già stabilito a priori che
non deve accadere niente, a differenza di una
relazione amorosa europea in cui i due partner
hanno sempre presente la minaccia del pericolo
che incombe. (Freud's presentation to the
Israeli Humanity Society "Wien" of the B'nai
B'rith order: We and death, 1915).
La vita è come una storia, in cui
Eros non ha significato se Thanatos non lo segue
abbastanza da vicino da poterlo raggiungere.
D'altra parte la natura di Eros, originato dal
desiderio di Penia, Povertà, di concepire un
figlio con Poros, Ricchezza, è anarchica, sempre
oscillante fra stati opposti.
Prima
di tutto è sempre bisognoso e tutt'altro che
morbido e bello come crede la gente, ma duro
e trascurato e scalzo e senza casa: sta
sempre a terra senza coprirsi sulle soglie e
lungo le vie dove si addormenta a cielo
aperto, e secondo la natura di sua madre
abita sempre con la mancanza: d'altro canto
secondo la natura del padre va a insidiare
le cose belle e le cose buone, ed essendo
virilmente audace e ardente e tremendo
cacciatore, sempre tende qualche trappola: è
desideroso di saggezza e fornito di molte
risorse passa la vita ad amare la scienza: è
un tremendo incantatore un medicatore un
sofista: non è stato generato mortale né
immortale: e nell'arco di un sol giorno
germoglia e vive ogni volta che trova un
modo e poi muore, e poi torna alla vita
secondo la natura del padre: tutto quello
che si procura svanisce e così Eros non è
mai indigente e non si arricchisce mai del
resto è nel mezzo fra scienza e incoscienza.
(Platone, Simposio, 203)
Eros è il desiderio che la vita ha
di se stessa e ci attraversa come un fiume
percorre una valle. Rispetto alla natura del
grande demone che con movimento incessante
connette cielo e terra, la nostra è rigida e
inerte quando è lontano, se non fosse per il canto
che possiamo levare per invocarne la presenza e
piangerne la distanza, quando non siamo troppo
occupati a dimenticare che senza di lui la vita
non ha senso.
Eros si è eclissato quando
cominciano i Sacred Games, per entrambi i
protagonisti, l'ispettore di polizia Sartaj Singh,
che ha una fantasia suicida, e il grande
gangster Ganesh Gaitonde, chiuso in un bunker
atomico. La sua assenza è come la mancanza del
sole e della luna, e il lavoro dell'immaginazione
a servizio del desiderio onnipotente ha solo
rimandato l'incontro con la semplice verità, come
ce la risparmiavano i nostri genitori quando
eravamo troppo piccoli: indipendentemente da noi
la luce si accende e si spegne, nel nostro umore
come in cielo. Indipendentemente da noi veniamo al
mondo e lo lasciamo.
Se l'identità nasce nella fiducia di poter un
giorno appagare il desiderio, il soggetto cresce
tollerando la caduta delle illusioni dorate
dell'infanzia. Ci sostiene da svegli un po' di
illusione, mentre se vogliamo rendere stabile come
una roccia l'orgoglio per la potenza del nostro
pensiero e l'incisività della nostra azione,
spezziamo l'equilibrio nel quale viviamo,
oscillante fra immaginazione e realtà quotidiana,
fra la percezione dell'unicità del nostro essere
che vuole affermarsi e il bisogno di sentire il
sostegno degli altri. Nel quotidiano alternarsi
del soggetto capace di controllo su sé e sul mondo
nella veglia, e del suo eclisse nel sonno,
l'equilibrio è un lavoro costante, rischioso,
appassionante. A chi si illude di eliminare i
rischi, se non basta considerare i sogni notturni,
così nostri e così non nostri, dovrebbe bastare la
ricorrente percezione unhemlich,
straniante, spaesante. Essa rivela in un batter
d'occhio la fragilità della casa del proprio
essere, mostra la città caotica, il paesaggio, di
collina o di mare, spogliato di ogni bellezza, e
nessuna lingua particolare viene in nostro
soccorso, come se il fraintendimento fosse il suo
esito beffardo.
Un'etica nuova è necessaria per raccontare come
questo straniamento ricorrente sia la sola risorsa
che abbiamo per dubitare delle certezze che da
sempre hanno fondato le culture diverse, con le
quali oggi ci troviamo confrontati. Abbiamo
bisogno di tollerare lo scarto unhemlich della
differenza da noi stessi, che è la sola condizione
per riconoscere di cosa viviamo, abbandonando
l'edificio della nostra origine, che amiamo,
andando verso altre culture, che ci affascinano,
che ci atterriscono. Abbiamo bisogno di immaginare
una storia che non ci porti alla melanconia nera
che fa scivolare ogni senso nell'insignificanza,
di ogni bellezza nella dissoluzione, o a regredire
penosamente, aderendo a movimenti religiosi o
ideologici, la cui corsa, come sempre, è tanto più
cieca e distruttiva quanto più alza la bandiera di
un superiore diritto a esercitare il dominio sugli
altri, con le armi o col pensiero.
Nella riflessione sapienziale di ogni tempo e
spazio possiamo trovare l'allusione a un mistero
che sfugge alle parole, qualcosa che, essendo alla
portata di tutti, ogni giorno della nostra vita,
non riusciamo a vedere. Il sentimento di essere
vivi, la presenza di Eros in noi, è sia una
tensione verso l'infinito che il desiderio vuole
sapere e avere tutto intero, sia il lutto costante
per la sua impossedibilità.
L'io narrante di quasi metà dei Sacred Games,
il grande gangster Ganesh Gaitonde, si chiede alla
fine se si possa vivere senza il sostegno di una
fede, di un Dio che legittima l'esistenza e veste
di dignità l'essere umano che crede in lui,
onnipotente e onnisciente come il padre appare al
bambino, indicando il confine fra il lecito
dall'illecito, condannando e assolvendo, e
mantenendo un ordine ci rassicura del fatto che il
caos terrificante non prevarrà sull'ordine del
cosmo. Ci sono storie e racconti che servono a una
ideologia che può definirsi religiosa, che
funzionano come stampelle per chi teme di cadere:
Possibile
che fossi un essere sballottato casualmente
qua e là in balia degli eventi? Che un
giorno seguisse l'altro solo perché così
era, senza alcun motivo? Non potevo
accettarlo. Questo ammasso ronzante di caos
mi faceva soffrire, voglio dire che avevo
mal di stomaco e mal di testa, poi mi
tornarono le emorroidi che mi lasciarono
stordito e tremante in bagno. Il mio corpo
protestava contro l'asserzione che la mia
vita fosse priva di significato. No, la mia
vita aveva una forma.
E ancora adesso stavo imparando, stavo
progredendo, avevo una missione per il mio
paese, avevo un maestro, ero diretto da
qualche parte. Avevo una storia. (Vikram
Chandra, Giochi sacri, Mondadori,
Milano 2006; pp. 721-722)
Ganesh Gaitonde ha una storia se
affida la sua libertà a Guru-ji, che lo chiama il
mio Arjun e lo assolve da tutti i suoi crimini,
ponendolo con sé al di sopra del bene e del male,
svelandogli il senso della vita che da solo non
riesce più a vedere. Ma Ganesh Gaitonde scopre, al
termine della sua corsa, nelle prime pagine dei Sacred
Games, che la morte è il solo senso della
sua esperienza, e ora sa che per avere una storia
occorre solo raccontarla, e che nessuna storia è
insignificante se ne restiamo testimoni. Sceglie
come ascoltatore il suo antagonista naturale, un
poliziotto, che lo ascolta pochi minuti, mentre
cerca il modo di aprire il suo bunker:
Sartaj,
mi hai chiamato yaar. Ti dirò una cosa. Che
uno la costruisca grande piccola, non
c'è casa che sia completamente sicura.
Vincere vuol dire perdere tutto, e il gioco
vince sempre . (Ib., pp.
62-63)
Una ruspa si muove sferragliando
per ordine di Sartaj, al quale sembra di sentire
le ultime parole del gangster:
Sartaj,
tu credi in Dio ? (Ib.)
Hai un padre che ti guida, Sartaj,
al quale affidarti? E tu, lettore, hai un padre
che ti rassicuri quando le tue risorse non bastano
a vivere?
Il gangster si era affidato a un
grande guru internazionale, scoprendo alla fine
che stava preparando un attentato atomico a
Bombay. Il tutore dell'ordine invece non si affida
a nessuno, sente, pensa, agisce, si interroga. La
sera prima della ruspa e del rifugio atomico,
Sartaj Singh, il solo ispettore sikh di Mumbay,
mentre sorseggiava il suo secondo whisky, solo in
casa, aveva ricordato Bombay/Mumbai, la città
della sua infanzia:
Ora
invece Mumbai gli sfuggiva, era troppo
vasta, famiglia dopo famiglia dopo famiglia
fino ad arrivare a quel lucore freddo e
senza fine, impossibile da riconoscere e da
sfuggire. Era davvero esistita quella viuzza
deserta, libera per le partite di cricket
dei bambini e il dabbaispies e il
tikkar-billa, o l'aveva rubata a un
pellicola sfocata in bianco e nero? Era
forse un regalo fatto a se stesso, il
ricordo di un luogo più felice?
Sartaj si alzò. Appoggiandosi a un lato
della finestra, finì il whisky, inclinando
il bicchiere per godersi anche l'ultima
goccia. Si sporse fuori, cercando di
catturare un filo di brezza. L'orizzonte era
indistinto, lontano, luci inclementi lo
illuminavano dal basso. Guardò giù e vide
uno scintillio nel parcheggio sottostante,
un pezzetto di vetro, di mica. Pensò d'un
tratto quanto sarebbe stato facile
continuare a sporgersi, finché il peso non
l'avrebbe trascinato con sé. Vide se stesso
cadere, la kurta bianca sventolare
all'impazzata, il torace e la pancia
scoperti, il nada al seguito come una
cometa, i chappal da bagno di plastica
bianca e blu svolazzanti, i piedi che
ruotavano, e prima di aver compiuto un
cerchio completo il tonfo del cranio che si
fracassava, un tonfo rapido e poi il
silenzio. Sartaj si ritrasse dalla finestra.
Depose, con molta attenzione, il bicchiere
sul tavolino. Da dove era venuto quel
pensiero? Se lo chiese ad alta voce: "Da
dove è venuto?" (Ib., p. 37)
Dall'incontro fra Ganesh Gaitonde e
Sartaj Singh germoglia la possibilità di salvare
dall'esplosione atomica Bombay, la città
minacciata di annientamento come il reame di tante
fiabe, e come nelle fiabe è necessario un eroe che
la salvi adempiendo il suo compito impossibile.
Morfologicamente Ganesh Gaitonde e Sartaj Singh
sono due forme dell'attante protagonista, legati
in una fratellanza fragile e vera per lo sguardo e
le parole nelle quali il gangster si è sentito
riconosciuto dal secondo, e ha creduto che lo
sguardo di lui fosse capace di andare oltre le
apparenze.
L'eroe negativo delle fiabe, che formano la
struttura di tante storie contemporanee, è
sgradevole dall'inizio, o ha qualcosa che
ricordiamo, una volta che scopriamo la sua
malvagità, come indizi che avrebbero potuto
metterci in guardia. Allo stesso modo nella vita
quotidiana il fallimento di un rapporto è meno
doloroso quando possiamo rinarrarci la storia
dicendo che c'erano tanti elementi che abbiamo
trascurato, per un eccesso di fiducia. Così
torniamo fra i buoni e collochiamo fra i cattivi
la persona dalla quale ci siamo sentiti traditi,
illudendoci di aver imparato come difenderci dal
male.
Nei romanzi di Chandra, come nella realtà, è
difficile distinguere i buoni dai cattivi, nessuno
è stabilmente collocato da una parte, come se
tutti i suoi personaggi avessero bisogno di capire
chi sono, e insieme temessero di farlo. Per la sua
appartenenza al mondo del crimine Ganesh Gaitonde
è un eroe negativo, ma nella sua ascesa
spregiudicata verso il potere il fremito costante
della sua debolezza, disperata e furiosa, ce lo
rende fin troppo vicino, e gli siamo accanto nel
momento in cui riconosce che non ha cambiato il
proprio destino, quando chiama Sartaj perché a
nessun altro può consegnare se stesso e la sua
storia.
Per Sartaj Singh, ispettore di polizia dotato
dello spirito del detective che un tempo poteva
operare solo fuori dall'istituzione, né la divisa
né alcuna ideologia sono una protezione
rassicurante sul senso della sua esistenza. Ha una
sensibilità così fine che per restare aperto alla
bellezza dei tramonti di Bombay e alla nostalgia
per l'infanzia deve lasciar affiorare una fantasia
suicida di cui non conosce l'autore, come non
conosciamo l'origine dei nostri sogni notturni.
Ama la sua città ma non la riconosce, e non è
affatto sicuro che valga la pena darsi tanto da
fare per salvarla. Bombay, o Mumbai, è la città
che contiene, al massimo grado, le contraddizioni
di tutte le metropoli del mondo. È la civiltà che
non riconosciamo perché non ci aiuta più a
mantenere l'illusione di un'identità compatta,
stabilmente fondata: su una lingua particolare, su
tradizioni un tempo considerate frutto di una
mente superiore, come quella del padre per il
bambino, del dio per il credente.
Nella fiaba, nella fiction, come
nella storia che preferiamo raccontarci di noi
stessi, il cattivo ha, prima o poi, una forma ben
distinta da quella del buono, i persecutori sono
anche somaticamente diversi dai soccorritori, in
modo che possiamo continuare a credere in un
principio superiore che ci accompagna, magari
punendoci, purché uno sguardo ci segua,
onnisciente e onnipresente. I fondamentalisti per
il democratico sono folli, i politici sono
corrotti, mentre lui è tollerante, aperto. Neri,
gialli, fedeli di Allah, Cristo o Jahveh, sono da
rispettare, accogliere, comprendere, mentre chi
non riuscendo più a trovare senso si chiude in una
credenza è da disprezzare. È lo stesso movimento
apparente risultato dall'anti-psichiatria negli
anni Settanta: il fardello della colpa è stato
tolto dalle spalle dello schizofrenico per essere
appeso sulle spalle della madre schizofrenogenica.
La rivoluzione è un movimento apparente, un giro
narcisistico che risponde a una situazione di
incertezza rimescolando le carte e
ridistribuendole, in modo che il giocatore possa
riprendere un posto conveniente, e il gioco
continua come prima. Rispetto alla malattia
mentale, la camicia di forza e l'elettroshock sono
state squalificate come pratiche violente e
reazionarie, e i muri dei manicomi sono stati
abbattuti, per essere sostituiti dai muri virtuali
degli psicofarmaci. Quel che conta è credere che
questo sia il progresso, e continuare a proteggere
la nostra normalità. La psicoanalisi stessa sembra
aver perso il vigore vitale del doppio movimento
operato da Freud, che ha riconosciuto nella
nevrosi e nella psicosi gli stessi elementi che
compongono il normale equilibrio, che compongono,
con forme e risultati tanto diversi, le formazioni
culturali più preziose, come la religione, le
ideologie, la filosofia, l'arte.
Nei romanzi di Chandra si
intrecciano la cattiveria, la viltà, il
tradimento, dei buoni e dei cattivi, il loro
slancio compassionevole, la capacità di
sacrificarsi per un ideale, in una scrittura che
comincia dopo la consapevolezza della mescolanza
spesso indistinguibile di bene e male, premio e
punizione, bellezza e bruttezza. Vivono, lottano,
si confondono e si distinguono in ogni pagina,
come se il senso del libro fosse contemplarli, non
imporre loro un ordine rassicurante.
In Vikram Chandra, come in pochissimi scrittori
del Novecento, riconosco la capacità di sospendere
qualsiasi giudizio, di non cedere alla tentazione
di chiudere gli occhi di fronte alla realtà
contemporanea, alla sua tragica incertezza. Questo
significa smantellare dentro di sé il carcere, il
manicomio, lasciare che i pensieri peggiori
affiorino, rischiando di sentirsi privi di
riferimenti etici, di affetti, di parentele, di
casa, di patria. Solo attraversando questa
dissoluzione delle certezze, che Freud chiamava
illusioni, si può scoprire come la passione che la
vita ha per se stessa affiori dentro di noi,
chissà da quale sorgente segreta, e ci faccia
ritrovare quello che credevamo di aver perduto, i
nostri legami, l'utopia, la tragedia, l'amore.
Prima del Novecento l'immaginario collettivo era
come una civiltà circondata da terre che
attendevano di essere scoperte, da popoli
ignoranti che andavano illuminati. La cultura del
passato consentiva di dedicare i propri sforzi a
un perfezionamento crescente della propria maîtrise,
perché divenendo sempre migliore potesse attrarre
chi, volente o nolente, si trovava all'oscuro. Lo
splendore della riflessione di Socrate nell'opera
di Platone non è concepibile senza i popoli
barbari, balbuzienti, che restavano fuori dalle
mura dell'utopica Atene, inaccessibili alla
pratica dialogica della verità.
L'identità umana si sostiene in un gioco di
opposizioni, che permette di dislocare fuori da
sé, proiettandolo sui nemici, diversi e inferiori,
tutto lo sporco che ci appartiene ma di cui non
vogliamo sapere nulla. Gli scrittori che resistono
alla tentazione di soffocare la voce della verità,
di per sé già fioca, sono pochissimi, e Chandra è
uno degli ultimi in ordine di tempo, per qualcosa
che mette la sensibilità del lettore in movimento
con la propria, e ci aiuta a riflettere sulle
contraddizioni della cultura classica nella quale
siamo cresciuti. Ciò che hanno in comune scrittori
lontanti fra loro, come Marcel Proust, Fernand
Celine, Alice Munro, è che alla fine dei loro
libri sappiamo di noi stessi e del mondo meno di
quando abbiamo cominciato a leggere, ma non ci
sentiamo più poveri. Non abbiamo accumulato
nozioni né acquisito certezze, ma abbiamo
alleggerito il nostro bagaglio di pesi inutili.
Non sappiamo quale direzione prendere per trovare
il nemico da combattere o l"amico al quale
associarci, né ci sentiamo purificati da una
qualche fustigazione autoriale, ma ci sentiamo più
creature che artefici. Siamo meno illusi, ma più
disposti a vivere.
Nessuna sapienza, nessuna soluzione, nessun dio,
nessun ateismo.
Dopo queste parole, che Sartaj non
è certo di aver sentito, Gaitonde si spara, e il
sardar, il poliziotto, sikh comincia a cercare il
senso della sua morte, sola traccia per trovare la
salvezza per la città.
Metà del libro è il racconto in prima persona di
Ganesh Gaitonde: ma da dove parla? e a chi parla?
Nel primo romanzo di Vikram Chandra, Red Earth
and Pouring Rain, c'era una vecchia scimmia
morente, nella quale si svegliava la memoria
dell'essere umano che era stato. Questo uomo del
passato, Sanjay, aveva bisogno di raccontare prima
di morire, perché solo così poteva liberarsi dalle
reincarnazioni animali, facendo rivivere la parola
umana che era scomparsa nel silenzio del suo
suicidio. Sanjay era morto suicida, e la scimmia
che è una sua reincarnazione morirà quando non
avrà più voglia di raccontare. In questo romanzo
Ganesh Gaitonde si spara alla testa e continua a
raccontare dopo essere morto. Il potere della
scrittura è svincolato dal dispositivo narrativo
che chiamava come testimoni diretti gli dei
Hanuman e Yama, che ora sono nella forza del
racconto e nella morte che lo delimita a ogni
pagina. Due protagonisti in Sacred Games,
due in Red Earth and Pouring Rain. Uno dei
due causa la morte dell'altro, e insieme gli
permette di raccontare.
"Do you want Ganesh Gaitonde?' dice il gangster in
punto di morte a Sartaj prima di raccontare. Sacred
Games è il grande romanzo che Abhai, il
narratore legato alla scimmia Sanjay, aveva
promesso di raccontare alla fine di Red Earth,
per richiamare alla vita una bambina in coma a
causa di un attentato terroristico, perché non
bastano i medici e i genitori che pure la curano
amorevolmente: Raccontale una storia, ha detto la
scimmia Sanjay ad Abhai, prima di morire:
Devo
essere impazzito, forse mi arresteranno.
[...] Mi darete ascolto? Mi lapiderete, mi
rinchiuderete? Non importa, io devo
raccontare una storia. [...] Racconterò una
storia che crescerà come un loto rampicante,
si avvolgerà su se stessa e si espanderà
senza fine, finché ciascuno di voi entrerà a
farne parte, e gli dei verranno ad
ascoltare, finché tutti noi parleremo in
un'armoniosa confusione che contiene il
passato, ogni attimo del presente, e il
futuro infinito. E la grande musica di quel
suono primigenio raggiungerà Saira, che si
metterà a sedere sul letto, si libererà
dalle bende e salterà giù con le mani sui
fianchi e ridendo chiederà, cosa succede,
eh? Cosa sono quei musi lunghi, volete fare
una partita a cricket? [...] Giocheremo fino
al tramonto, liberi e spensierati. Poi
siederemo in cerchio, in innumerevoli
cerchi, e diremo, dacci la tua benedizione,
Ganesha; resta con noi, amico Hanuman, e tu
Yama, vecchio furfante, puoi stare a
sentire, se credi; e con queste parole
ricominceremo tutto daccapo. (Red
Earth and Pouring Rain, Faber and Faber,
London 1995; Terra rossa e pioggia
scrosciante, tr. di Anna Nadotti e
Fausto Galuzzi; Instar Libri, Torino 1998; pp.
740-741 trnslt)
Fra le pagine bianche che
delimitano il racconto scritto, fra il silenzio o
il rumore che precedono e seguono la voce del
narratore, cresce un loto rampicante, sorvegliato
dal lavoro di un giardiniere che non segue regole
del passato, non perché non ne conosca l'arte, ma
proprio conoscendola, né si identifica in una
tradizione orientale per trovare un nuovo confine
che la separi dall'occidente, o viceversa, che
lavora perché possa entrarvi chiunque si trovi a
passarvi accanto. Per coltivare la città del
nostro tempo dobbiamo riconoscere la nostra
appartenenza a lei, dobbiamo e possiamo
riconoscere il dissolvimento dei confini che fino
all'Ottocento erano i segni visibili dell'ordine
cosmico, come le righe sulle carte geografiche,
che corrono lungo i fiumi o le catene montuose,
che corrono diritte come le hanno volute i
colonizzatori, o serpeggiano seguendo secoli di
guerre e trattati. L'identità fondata sulla maîtrise
di una cultura sull'altra si sta dissolvendo,
come la padronanza sulla realtà psichica dell'Io,
armato della razionalità e della logica
tradizionale. L'articolazione più universale del
patriarcato, quella fra maschio e femmina, con la
disposizione gerarchica che ha sempre diviso e
unito i due sessi, è logora, e nei tentativi di
restaurare l'ordine con l'astuzia della ragione o
con proclami sanguinari scorgiamo l'inevitabile
fallimento. È lecito distogliere lo sguardo
cercando nel passato una casa che oggi non si
trova? Nessuno guarda ciò che non può sostenere,
Freud ce lo ha insegnato e la pratica
psicoanalitica ci mostra quotidianamente come
scegliamo di camuffare la realtà o di delirare
quando temiamo che la nostra visione di noi stessi
e delle cose possa dissolversi. Solo una parte di
noi può tollerare il bagno di incertezza nel quale
siamo di fatto immersi, e se è vero che non trova
una soluzione, la strada per un lieto fine, è vero
che scopre come questa condizione non impedisca di
vivere, agire, ascoltare e raccontare. Scopre che
quel che sembrava il caos può essere una nuova
forma del cosmo, fra le mille e una che il passato
ci ha consegnato, e gli accade come a chi non sa
nuotare e per paura annaspa e va sotto, quando
finalmente scopre che se smette di agitarsi
l'acqua lo sostiene e lo culla.
Per farlo occorre conoscere il richiamo fascinante
e assillante che spinge a selezionare i propri
pensieri e delimitare la sensibilità in una
prospettiva che pone al suo orizzonte una forma di
purezza. In Red Earth and Pouring Rain Chandra
ci insegna a sciogliersi da questo richiamo, che
risuona con le parole della Poetica di
Aristotele:
Katharòs
dèi èinai o kòsmos. - Anche quando il libro
rimaneva chiuso, o durante la cena, Sanjay
udiva quelle sillabe aleggiare nei cortili,
scavalcare i muri, stormire con il vento tra
le fronde; giorno e notte una voce
incessante, dapprima dolce e ragionevole,
poi maniacale nella sua insistenza,
'katharòs, katharòs', finché Sanjay cominciò
a darsi pugni sulle orecchie e a stringersi
la testa fra le mani, incurante del dolore.
(Ib., p. 404)
La vita si offre a chi è immerso
nell'incertezza non meno che a chi difende i
confini del passato, ma l'esultanza per le forme
che genera la sua danza, vorticosa eppure quieta
come un minuetto, è massima per chi ha temuto che
nulla potesse più dar senso alla sua vita. Accade
alla scimmia Sanjay la notte prima di cominciare a
raccontare:
Poi
rimasi coricato e sveglio, tendendo
l'orecchio agli scricchiolii e al fruscio
del vento fra le piante fuori dalla
finestra, volgendo di tanto in tanto lo
sguardo al trono nero nell'angolo, una
lastra di oscurità più scura nell'oscurità;
deboli brillantini di luce vi guizzavano
dentro; mi sforzavo di riandare al passato e
riportare alla luce ricordi convertibili in
storie, ma riuscivo a pensare solo alla
ricchezza del mondo, alla sua verdeggiante
profusione: il delizioso profumo che esala
dalla regina della notte quando i suoi fiori
si schiudono lentamente, il gracidio delle
rane, la luce argentata della luna e le
ombre misteriose, lo stormire delle cime
degli alberi e il soffuso diffondersi delle
voci, la carezza di morbide rotondità
concrete e rassicuranti, nell'incavo della
mano. Soprattutto pensavo: siamo fortunati,
ed è strano che impariamo a odiare perfino
questo, che dimentichiamo simili doni e
cerchiamo di liberarcene; le lenzuola sono
fresche e lisce sotto di me, e di ciò sono
riconoscente; sì, tutto questo deve bastare,
sentire queste cose e sapere che tutto
questo coesiste, la terra con i suoi mari,
il cielo con i suoi soli . (Ib., p. 26)
Ma tutto questo, molte volte, non
basta, e il cosmo che ci invitava a cantare la sua
melodia diventa un'illusione che si dissolve e
cade come un velo: tutto il meglio che abbiamo
creduto di ricevere e donare appare un cumulo di
detriti che ha preso temporaneamente una forma per
illuderci.
La disillusione, la scoperta della vanitas
vanitatum è l'incipit del romanzo, nella
fantasia suicida di Sartaj Singh e nelle parole
che Ganesh Gaitonde gli dice prima di spararsi
alla testa: Build it big or small, there is no
house that is safe. To win is to lose
everything, and the game always wins (cit, vedi sopra).
La vanitas vanitatum, che in passato era
l'amaro grido del saggio, la sua sapienza
inaccessibile e non desiderata, è in Sacred
Games il punto di partenza dei due
protagonisti: omnia vanitates, il grido
dell'antico Ecclesiaste si leva quotidianamente
dentro e fuori di noi. Il grido, più dell'invito
aristotelico alla purezza, sgombra il tavolo da
tutte le cianfrusaglie, i souvenir, i giochi di
prestigio. Il racconto allora ricomincia, antico e
nuovo, per sorprenderci mentre ci svela qualcosa
che non sapevamo di sapere.
2. "Tu non sei un pazzo," disse
lei.
"Molto
spesso' Sartaj stava dicendo a Mary, "una
soffiata è solo questione di fortuna. In
genere succede così. Te ne stai seduto con
le mani in mano, e ti cade qualcosa sulle
ginocchia. Allora fingi di aver sempre
saputo fin dall'inizio quello che stavi
facendo' (Ib., p. 775)
Sherlock Holmes non avrebbe mai
descritto in questo modo il suo procedimento, e
soprattutto non lo avrebbe detto a una donna,
perché, come sa bene Ganesh Gaitonde:
Dare
qualsiasi informazione a una donna è una
sciocchezza che sconsiglio sempre ai miei
ragazzi. Qualunque cosa tu dica verrà
utilizzata contro di te. (Ib., p. 828)
Sartaj, che fa la parte del
detective nei Sacred Games, racconta alla
donna che ricevere nel proprio grembo (lap)
qualcosa che cade (drops) dall'esterno, è
l'evento decisivo verso la soluzione di un caso.
Nel conflitto che oppone due forme
dell'essere, maschile e femminile, e nella
disposizione gerarchica che ne ricava, il soggetto
trova una via per definire se stesso e il senso
della propria vita. Il soggetto maschile è attivo,
ha sempre una direzione, che mantiene se riesce a
proiettare nella donna, diversa e minus habens per
eccellenza, ogni dubbio sulla stabilità di questa
prerogativa, che tutela come il proprio axis
mundi.
Ganesh Gaitonde paga le donne che usa per
confermare il senso della propria virilità, del
proprio axis mundi, fino al giorno in cui
ascolta la preghiera di Dipika. La giovane, figlia
di un gangster amico suo, ama un giovane dalit,
troppo umile, che il padre non le permetterà mai
di sposare. Ganesh le parla del dovere verso la
famiglia e la esorta a dimenticare, ma senza alcun
risultato:
"Non
sono una bambina" rispose, e capii fin dove
era arrivata con questo Prashant, e vidi in
lei il magnifico orgoglio della giovane
donna per i piaceri dati e ricevuti.
Che cosa vuoi che faccia, Dipika?"
"Ne parli a papà. Lui le darà ascolto."
Prese la mia mano e se la pose sul capo.
"Fin da quando ero bambina lei è sempre
stato gentile con me. E so che non la pensa
in modo antiquato. (Ib., p. 315)
Prima di dar ascolto a Dipika,
Ganesh Gaitonde diceva:
Sapevo
che un giorno sarei morto anch'io,
ammazzato. Non c'era scampo per me. Non
avevo futuro, né vita, né pensione, né la
prospettiva di una vecchiaia facile.
Immaginare anche solo una di queste cose era
da codardo. Una pallottola mi avrebbe
raggiunto prima. Ma sarei vissuto da re.
Avrei combattuto contro questa vita, questa
puttana che ci condanna a morte, e me la
sarei mangiata, avrei consumato ogni minuto
di ogni giornata. Perciò a quel punto
camminavo per le mie vie come fossi il
padrone dell'umanità, fiancheggiato dai miei
ragazzi. (Ib., p. 309)
Non è la morte a costituire un
limite per il soggetto, che anzi abita
trionfalmente l'orlo che lo separa da lei, deciso
a batterla con la sua stessa mancanza di pietà.
Gainesh Gaitonde vede nella fragile Dipika un
coraggio pari al suo, e nello sguardo quello splendid
pride che nessuna delle donne che ha
posseduto e pagato ha mai mostrato per lui.
Ganesh promette a Dipika di aiutarla, ma si rende
conto che la forza di Eros sfugge completamente al
suo controllo, e la tradisce svelando il suo
segreto al padre di lei: così permette che sia
costretta a un matrimonio combinato, dopo il quale
Dipika muore, forse suicida, in un incidente
stradale.
Pagare le donne e cercare di fottere la morte,
camminando per le strade che controlla fra le
benedizioni e l'ammirazione di tanta gente non gli
basta più.
Paga la donna più di quanto avesse mai fatto,
cerca di comprare il suo amore, estende le
dimensioni del suo pene con esercizi di ginnastica
e si sottopone a interventi chirurgici perché il
suo volto sia privo dei segni del tempo, ma si
continua a chiedersi se l'amore che la donna gli
mostra sia sincero.
La domanda di Ganesh Gaitonde non è sulla donna,
ma sulla propria anima: basta la potenza a
controllare il mondo? La donna sostiene
l'identità, non la crea, l'axis mundi che
ci sostiene si forma perché nasciamo dal padre non
meno che dalla madre: dai suoi genitori Ganesh
Gaitonde è fuggito, per lasciarsi alle spalle il
destino di debolezza che lo legava a loro.
Quando vede nel capo della grande setta induista
in Guru-ji il padre buono, forte e sapiente che
gli è mancato, si affida a lui credendo di
ottenere una legittimazione che lo liberi dai
dubbi che minano la sua sicurezza, e mette nelle
sue mani la domanda sull'amore della donna, che lo
rode da dentro come un tarlo.
Il grande guru, che affascina occidentali e
orientali, muovendo aerei e capitali immensi,
dispensando un'antica saggezza di cui si considera
depositario, lo rassicura:
"Neppure
i saggi sanno guardare nel cuore di una
donna. Vatsyayana stesso ha scritto: 'Non si
sa mai quanto sia innamorata un donna,
neppure quando si è il suo amante'. [...] Le
donne sono volubili, Arjun. Non sono in
grado di controllare le loro emozioni, sono
mutevoli come la prakriti. Ameresti il tempo
per la sua costanza, oppure il fiume perché
resta sempre nello stesso luogo? [...]
Finché avrà da guadagnare da te, ti darà
l'impressione di poterti amare. È l'abilità
della puttana. È una dote naturale nelle
donne. Non è colpa loro, agiscono secondo
come sono fatte. Sono deboli, e i deboli
hanno tre armi a disposizione: mentire,
evadere, recitare. " (Ib., p. 919)
Anche Guru-ji, che vuole
distruggere la città con una piccola bomba
atomica, ha una saggezza, e nella sua risposta c'è
una verità che va estratta: non si può amare il
tempo (weather) per la sua stabilità, né
l'acqua corrente è il riferimento per rafforzare
il proprio axis mundi. Se lo scopo della
vita è ergersi contro la vita stessa che si
manifesta nella fioritura della pianta come nel
fiore che cade e marcisce nella terra, occorre
considerare la mutevolezza del tempo e del fiume,
e l'incertezza della passione o dell'amore, meno
importanti del proprio axis mundi, che sia
personale o scelto fra i feticci di una religione
o di un'ideologia. Il piacere e la gratitudine per
una giornata di sole o per l'aria liberata da un
temporale, il nostro umore che torna sereno dopo
giorni cupi, senza che sappiamo da dove vengano
l'uno e l'altro, non impediscono di agire e
pensare, ma tolgono la delirante pretesa che il
nostro axis mundi controlli il flusso
della vita.
Solo considerando la donna come inferiore - weak,
lier, evasive, actress, whore - è possibile
per il soggetto maschile non perdere la propria
sicurezza centrata sul dominio fallico, lasciando
che lei resti ai margini del suo sacred game,
che ha solo altri maschi come referenti. Guru-ji
ha ragione quando invita Ganesh a considerare il
dolore della passione come una porta verso la
saggezza, eppure questa ragione provoca una
ribellione nel corpo di Ganesh Gaitonde:
Ma
la mia pelle si opponeva al dolore, alla
decisione che sapevo di dover prendere. Lo
stomaco mi ribolliva di disperazione.
Sarebbe rimasto solo questo grande vuoto,
lasciato dall'illusione evanescente
dell'amore? Mi sembrava di essere in piedi
in mezzo a una pianura sconfinata,
illuminata da una strana luce che livellava
tutto. La vidi e mi ritrassi sgomento di
fronte alla sua vacuità. (Ib., p. 920)
A Guru-ji non resta altro che
richiamarlo alla fede, sollecitandolo a non
ascoltare la propria sensibilità, fatta di carne
non meno che di pensieri, e a mettere nelle sue
mani paterne la ricerca del proprio senso della
vita:
"Abbi
fede, Arjun. Non dubitare nella fede. Io
veglierò su di te. Non avere paura, beta.
" (Ibidem)
Nulla eguaglia il conforto di un
padre che ci sostiene, nulla consola quanto sapere
che qualcuno ci conosce e ci guida, e Vikram
Chandra dipinge la nostalgia di questo padre in
ogni pagina dei Sacred Games. Il desiderio
sboccia e dà frutti se si rinuncia all'illusione
di appagarlo, senza dimenticare la sua
impareggiabile dolcezza:
Ero
fiducioso, non avevo paura nella dolce culla
dell'amore del mio Guruji. (Ib., p.731)
Il padre come solo conforto che
tratta l'incertezza come un male dal quale si può
guarire, aiuta a tenersi lontani dalla rivelazione
che dà titolo al primo romanzo di Chandra:
Cosa
potrebbe essere mia madre
per la tua? Che parentela esiste
tra mio padre e il tuo? E come
ci siamo mai incontrati io e te?
Ma nell'amore
i nostri cuori si sono mescolati,
come terra rossa e pioggia scrosciante:
mai più separabili.
(Terra rossa, cit., p. 289)
La vita, dice la canzone, cade in
noi come la pioggia, dopo la quale non si può più
distinguere cosa è nostro e cosa è dell'altro,
cosa abbiamo donato e ricevuto, cosa abbiamo
cercato e cosa abbiamo scoperto per caso. Cosa è
nel figlio più del padre che della madre, o
viceversa?
Chi ha scelto il giorno della nostra nascita, chi
ha scelto di essere? I genitori sono il nostro
ponte per entrare nella vita, non i nostri autori,
e finché non rinunciamo a un Genitore Autore
l'esistenza si consuma fra fughe e regressioni
alla loro immaginaria onnipotenza.
Dove Eros è presente, l'illusione che un axis
mundi basti a sostenerci nella vita si
dissolve, mostrando la sua anarchia, e come le
tradizioni si costituiscano per non esserne
sovvertite.
Il poliziotto Sartaj si scioglie dalla tradizione
quando confida a Mary di sentirsi fool, e
riconosce il balsamo della sua risposta, mentre
Ganesh si scontra con la tradizione quando,
nonostante la sua potenza di gangster, non vede un
modo di aiutare Dipika, la giovane innamorata
senza speranza:
Seduto
accanto a Paritoh Shah, mortificato dalle
sue lacrime e incapace di guardarlo negli
occhi, percepii tutta la mia impotenza.
Avrei picchiato tutti i suoi parenti, li
avrei calpestati con le mie stesse scarpe,
avrei spaccato quei musi compiaciuti per far
assaggiare loro un po' di aria moderna, se
solo questo avesse cambiato qualcosa. Ma la
tradizione aleggia tra gli uomini e le
donne, si nasconde nella pancia dei bambini
e sfugge e si espande e svanisce a ogni
respiro, è impossibile farla fuori, o anche
solo afferrarla, si può solo sopportarla.
(Ib., p. 326)
Gaitonde non può cominciare a
sciogliersi dall'axis mundi della cultura
patriarcale, fallocentrica, non vede nessun
appiglio per evitare i bagni di sangue che ogni
Guru-ji pretende per realizzare il suo ordine,
sangue umano che va versato per fondare ogni città
e per salvarla nel tempo, come il sangue di
Dipika.
L'incertezza che sperimenta Sartaj Singh parlando
con Mary, che non lo tradirà, somiglia a quella di
Ulisse nel suo ultimo naufragio, o al suo
smarrimento quando si sveglia a Itaca avvolto
dalla nebbia. La sperimenta Sherlock Holmes
prima di affrontare un caso che Scotland Yard
considera insolubile. Ma Ulisse e Sherlock Holmes
non sono insieme alla donna mentre vivono
l'incertezza, che fa sperimentare la vaghezza
errante del senso della vita, e la loro storia in
qualche forma continua ad alimentare l'illusione
that they knew what they were doing all along.
La compulsione al senso è il rovescio della
ricerca del senso, che culmina nel falso proprio
quando crede di catturare la verità. Per questo la
violenza è strutturalmente connaturata al gesto
con cui mettiamo la nostra libertà nelle mani di
chi si presenta come detentore di soluzioni
definitive, promettendo che userà la nostra delega
per realizzare l'utopia di una società giusta, e
illudendo i propri seguaci che con lui saranno al
sicuro dal rischio di smarrire il senso della
propria vita.
"You are not a fool,' dice
Mary a Sartaj, e gli ricorda come abbia usato
tutto ciò che sa di sapere per trovarsi dove
qualcosa poteva cadergli in grembo (drop in his
lap). Gli dice, come donna, che questa
posizione di attesa ricettiva non è né passiva né
folle.
Né Sartaj né Ganesh Gaitonde sono garantiti da un
padre, anche se fino alla fine della vita o del
libro non rinunciano all'illusione di averlo. Il
distacco da un'autorità paterna che può
legittimare il proprio essere non è una scelta,
perché nessuno sceglie di rinunciare alla culla
nella quale si sente sicuro, ma la conseguenza
dello sguardo lucido sugli axis mundi di
cui i nostri mezzi di comunicazione ci mostrano
molti, troppi esemplari. L'axis fallico
deve essere unico, non può includere quelli degli
altri se non disponendoli gerarchicamente sotto al
proprio.
Rinunciare a seguire l'insegnamento di Guru-ji
riguardo al femminile, che secondo il guru va
usato subordinandolo al maschile, implica una
nostalgia infinita di padre, di patria, di
stabilità dell'essere, e la scoperta che la
nostalgia vive senza certezza della meta.
In questa incertezza può accadere un incontro
imprevisto, e la parola di qualcuno i cui parenti
non erano nulla per i nostri parenti basta a
rassicurarci, come Mary che dice a Sartaj che non
è fool:
"Tu
non sei un idiota" disse.
Era una dichiarazione, e Sartaj non ebbe più
esitazioni. Allungò il braccio e le prese la
mando, e rimasero seduti tenendosi per mano.
[Kamble avrebbe riso di questo scambio,] Di
certo nessun ghazal aveva mai dichiarato con
fervore che l'amato non era un idiota,
nessuna canzone d'amore di Majrooh
Sultanpuri aveva mai sentito il bisogno di
affermare una cosa del genere. Kamble
credeva nel grande amore e nella grande
tragedia, ed era giusto così. Ma Sartaj si
sentì appagato: essere salvati dalla propria
stupidità era la tenerezza più grande. Siamo
tutti idioti, pensò, lo so di esserlo.
Trovare una persona che ti
perdona questo, è fantastico. È
importante. (Ib., pp. 776-777)
Mi piace pensare che questo è un
amore in un una forma nuova, non la ribellione
mortale degli amanti, come Dipika e il dalit
povero, come Giulietta e Romeo o Laylah e Majnun,
né il matrimonio che inserendosi armonicamente
nella storia delle famiglie d'origine ne preserva
la tradizione. Un amore contemporaneo, con le sue
parole in sordina che scendono come un balsamo,
come la maschera di bellezza che Sartaj e Mary si
faranno a vicenda, alla fine del romanzo. Forse
oggi i veri amanti non si sostengono a vicenda, né
uno dirige l'altro, non si inseriscono nella
tradizione né la combattono morendo, ma si
perdonano per il loro smarrimento. Non trovano per
questo né una ragione per vivere, né per morire,
ma solo una compagnia che scalda l'anima, fino
alla pagina bianca che mette fine alla loro
storia.
3. Il miracolo più grande
Dhàrma:
- E qual è il miracolo più grande?
Yudhìshtira: - Ogni giorno la morte colpisce
e noi viviamo come se fossimo immortali.
Questo è il miracolo più grande. (Peter
Brook, The Mahabharata, GB 1989; trad.
nostra)
L'essere umano vive in questo
miracolo, e gli dà forma nell'arte.
Il racconto esiste solo quando il narratore e
l'ascoltatore tollerano il limite del suo inizio e
della sua fine, le due pagine bianche al principio
e alla fine del libro. Le persone che vivono una
condizione di grave sofferenza psichica spesso non
possono guardare un film o leggere un romanzo,
dicono di non potersi concentrare, o che non li
interessa. Per la mia esperienza la loro ignoranza
del miracolo più grande, corrisponde a una fuga
dalla morte non meno che dalla vita, verso una
meta che, se raggiunta, è un'atto [acting] che
fatalmente le mostra unite: l'esito tragico della
psicosi paranoica o melanconica è una ribellione
al proprio annientamento realizzata dando la morte
all'altro o a se stessi. Se pensiamo al racconto,
l'esito paranoico vale in una storia
incontenibile, narrata e interpretata da un
narratore onnisciente che vuole dire cosa accade
prima e dopo la pagina bianca. Nell'esito
melanconico la storia si contrae progressivamente,
fino a che tutti i suoi passaggi sono considerati
insignificanti da un autore altrettanto
onnisciente che si dissolve [fading] con
loro, fino a quando le due pagine si congiungono,
inghiottendo il soggetto.
Da una prospettiva psicoanalitica, la superiorità
morale o intellettuale delle persone è una
maschera che funziona come una seconda pelle, e
non si può portare se non avendo accanto dei minus
habentes, siano peccatori, allievi, figli
bambini, malati. Chi manifesta qualche forma di
superiorità morale o intellettuale rivela prima o
poi che la sua potenza non esisterebbe se non
avesse accanto qualcuno inferiore, in qualche modo
bisognoso. Né esita a usare tutta la forza di cui
dispone, combattendo o fuggendo, quando sente che
la sua superiorità gerarchica è minacciata.
Infinite sono le forme di gerarchia che si trovano
ovunque, alla portata di tutti, più o meno
raffinate e mascherate, più o meno grezze e
scoperte, sostanzialmente uguali, in ultima
istanza volte a mantenere una scala che all'ultimo
gradino possa sfiorare il cielo, il paradiso, il
benessere, l'immortalità, in una delle loro
infinite forme.
Romanzo dei nostri anni, Sacred Games/Giochi
sacri ci mostra senza pregiudizi come ai
nostri giorni si sia disposti a qualunque
sacrificio per ottenere la bellezza fisica, il
danaro, la visibilità mediatica, come fossimo
pronti a ribellarci in questo modo
all'indebolimento del soggetto conseguente al
tramonto dei grandi sistemi di legittimazione,
religiosi o ideologici.
L'incontro fra Ganesh Gaitonde e Sartaj Singh non
serve a nessuna formazione gerarchica, è un evento
gratuito. Non serve, non è a servizio di nulla, è
gratuito, è una grazia, che sfugge per sua natura
alle trame che costruiamo quando misconosciamo il
miracolo più grande di cui parla il Mahabharata.
Trame immense, giochi sacri, che Gainesh Gaitonde
ha costruito fino a diventare il bhai indù di
Bombay, l'Arjun di Guru-ji, per poi comprendere
che il progetto del grande guru internazionale è
di distruggere Mumbai con un'atomica, per
attribuire la responsabilità dell'attentato ai
fondamentalisti islamici. Intende così aprirsi la
strada verso il potere in India, per poterla
rendere tutta induista, meravigliosamente
religiosa, pulita, ordinata, legale, come gli
ashram a forma di mandala che ha già costruito:
Voleva
migliorare e trasformare l’India intera in
questa oasi verde di pace, portarla avanti
fino alla perfezione. Alcune zone di
Singapore possedevano la pulizia che voleva
lui, ma non c’era città al mondo che avesse
questa simmetria, questa coerenza intima che
equilibrasse con precisione negozi e centri
di meditazione, e facesse scorgere il tempio
centrale attraverso le arcate perfettamenet
allineate della biblioteca e della
lavanderia. Questi edifici e i cancelli
azzurri sembravano il passato, i set dorati
dei film mitologici, e invece erano il
futuro di Guruji. Questo era il futuro che
voleva portarci, il Satyug che voleva
creare. (Ib., p. 1003)
Un albero immenso è caduto sulla
cancellata di un ashram, e ha aperto il varco a
una mandria di capre, in un altro gli uffici sono
invasi da termiti e formiche rosse, mentre in un
terzo ashram l'amministrazione è stata sconvolta
da uno scandalo sessuale. La brutta vecchia vita
resiste al titanico sforzo di chirurgia plastica
che Guru-ji con il suo Arjun sta tentando, perché
il logos della vita non è padroneggiabile. Non è
necessario appartenere a una confessione religiosa
per contemplare il miracolo più grande, anche se
riconoscere il paradosso nel quale viviamo esige
una maturità etica che i nostri nodi nevrotici e
psicotici rendono quasi inaccessibile, come la
realizzazione di un sogno. Forse appartenere a una
religione attenua la difficoltà, assicurando che
qualcuno, invisibile, inattingibile, ci renderà
giustizia. Credere in Dio significa mantenere
nella nostra immaginazione una parte ordinata e
perfetta, grazie alla quale l'incertezza di tutte
le altre sembra sopportabile, come un profumo
celestiale che ci sembra di sentire nell'humus,
nella melma di terra e pioggia. Ma i credenti sono
in numero molto ridotto rispetto ai bigotti o ai
benpensanti.
Guru-ji non è un accidente della cultura, una sua
perversione da eliminare con un"azione eroica per
poter raggiungere il lieto fine, ma la conseguenza
inevitabile della fede, ogni volta che un soggetto
si erge a interprete assoluto della volontà
divina, legittimando se stesso e gli altri ad
agire in suo nome.
Per un soffio la città di
Bombay/Mumbai non scompare in un fungo atomico,
come sono cadute le Twin Towers, come esplodono
ogni giorno persone e case e villaggi. Un soffio
permette di evitare un olocausto, di tornare a
sentire la vita nel miracolo più grande, e nel
romanzo di Chandra il soffio si libra
dall'incontro gratuito fra i due protagonisti.
Allo stesso modo in Red Earth il flusso
dei racconti scaturiva dall'incontro mortale fra
il giovane Abhai, studente indiano di ritorno
dagli US, e il brahmino Sanjai reincarnato in una
grande scimmia.
Gaitonde non ha mai avuto una
donna, se non per il tempo che le comprava, e la
moglie che non amava è morta col figlioletto in
una delle battaglie che regolano i conti delle
bande criminali. La sola donna che non ha
sacrificato alla sua potenza di bhai di Bombay è
Jojo, la sola che lo comprenda, la sola di cui
comprende, da un semplice sospiro, se è di
malumore o distratta. Entrambi sanno che il loro
rapporto esiste a patto che non si incontrino,
grazie al limite del telefono, il mezzo che hanno
scelto per viverlo e delimitarlo.
Quando Ganesh Gaitonde si rende conto che non
potrà impedire l'attentato atomico, vuole salvare
Jojo, contro la sua volontà. Il suo potere gli
consente di farla portare con la forza nel bunker,
dove dovrà restare con a lui. Sono due esseri
umani che non hanno mai rinunciato alla loro
onnipotenza, ciascuno dei quali riesce a vivere
ergendo dentro di sé un axis mundi che
non può più essere spostato, indebolito,
inclinato. Né Ganesh Gaitonde nè Jojo possono
inchinarsi al destino o a un altro essere umano, e
quando la donna non trova un mezzo per sottrarsi
alla presa del suo amico, lo colpisce con il
disprezzo per la sua virilità. La prevedibile
collera di Ganesh è l'opposto complementare della
violenza di Jojo, e l'arma impugnata, lo sparo con
cui la riduce al silenzio è il solo modo che ha
per rapportarsi a lei.
Morta Jojo, Ganesh Gaitonde è costretto a
incontrarsi con se stesso, perché nulla e nessuno
ormai lo separa dalla scoperta che la debolezza
che ha fuggito è cresciuta dentro di lui per
sommergerlo.
In un'antica storia sufi un giovane di Baghdad
vede la Morte che lo fissa, e temendo che voglia
prenderlo monta a cavallo e galoppa fino a
Samarcanda, dove la trova ad aspettarlo. La Morte
lo aveva fissato a lungo perché le era sembrato
troppo lontano da Samarcanda, dove sapeva di
doverlo prendere con sé. Nella tragedia di Edipo,
eroe tragico per eccellenza nell'antica Grecia e
chiave di volta mitica nella psicoanalisi, il
protagonista fugge il destino di parricida
incestuoso che gli ha rivelato l'oracolo di Delfi
abbandonando la reggia dei sovrani che crede i
suoi genitori. Sulla via di Tebe uccide il padre
sconosciuto e divenendo re della città sposa la
madre e genera figli con lei. Quando scopre che la
sua fuga dal destino è stata una corsa verso il
destino, Edipo si acceca.
Lo ritroviamo quando giunge vicino ad Atene,
vecchio, stanco, mendico, con la sola luce della
figlia sorella Antigone, e gli abitanti del demo
di Colono inorridiscono di fronte alla sua miseria
gravata dal carico di disgrazie che porta:
Non
esser nati è condizione
che tutte supera; ma poi, una volta apparsi,
tornare al più presto colà donde si venne,
è certo il secondo bene.
(trad. di Umberto Albini e Vico Faggi;
Sofocle, Le tragedie; Mondadori,
Milano 1983; vv. 1224-1227)
La vittoria sul destino di Edipo
che ascende al trono di Tebe si rivela come la
sconfitta definitiva. Eppure Edipo dice che non
sarà ricordato come empio, perché non è stata sua
la scelta di uccidere il padre e generare figli
con la madre. La catena delle generazioni che lo
hanno preceduto, e il destino che ha raggiunto
fuggendone l'orrore, ne ha fatto il vecchio misero
e cieco che è ora.
In questa condizione di sconfitta giunge un nuovo
messaggio dell'oracolo, dal quale si
apprende che la città che darà a Edipo un
luogo per morire sarà vittoriosa, e sarà Edipo a
scegliere questa città.
Edipo respinge Creonte, re di Tebe, che vuole
portarlo via con la forza, e maledice il proprio
figlio che giunge a supplicarlo di unirsi a lui,
perché lo aiuti a realizzare il suo diritto al
trono di Tebe. Edipo a Colono rigetta ogni legame
di sangue, rifiuta di favorire uno dei suoi figli
maschi, ricordando che il solo conforto che ha
avuto nella disgrazia è venuto dalle figlie.
Non alla sua patria, Tebe, assegna la vittoria, ma
ad Atene, la città governata da Teseo, di cui ri
conosciamo la giustizia insieme a Edipo, l'uomo di
dolore:
So
bene che sono un uomo, e che il domani non
appartiene più a me che a te . (Ib., vv.
567-569).
Sono uno di fronte all'altro vivi
per un tempo di cui non scelgono l'inizio né la
fine, e la loro comprensione del miracolo più
grande rende possibile un riconoscimento che ha un
valore superiore a quello dei legami di sangue e
della posizione gerarchica in cui si trovano. Il
re giusto non è superiore all"uomo di dolore.
Comprendendo il valore dell'uomo che ha combattuto
il destino e ne è stato sconfitto, che è stato re
e ora è un lacero mendicante, che ha trovato la
soluzione dell'enigma della Sfinge ed è cieco per
sempre, il re Teseo lo accoglie perché muoia in
pace: questa è la ricchezza che rende invincibile
la città.
L'utopia di Sofocle, che scrisse Edipo a Colono un
anno prima di morire, vola nella memoria come
un'eredità che possiamo accogliere all'inizio del
terzo millennio
Dalla morte dell'eroe che si riconosce sconfitto,
e si scioglie da ogni legame di sangue e di
stirpe, sboccia l'utopia di una città che non si
fondi sul sangue, sul rigetto dell'altro.
Atene non otterrebbe la salvezza se Teseo,
riconoscendo la propria umanità, non accogliesse
Edipo vicino alla morte, e Mumbai non si
salverebbe dall'esplosione atomica se Ganesh
Gaitonde e Sartaj Singh non si riconoscessero.
Quando il grande gangster in incognita cercava di
incontrare Guruji, e Sartaj gli aveva detto che
gli sembrava di conoscerlo, Gaitonde aveva
replicato:
"Mi
dicono spesso che somiglio a qualcuno. Mia
moglie ci rideva."
"Ci rideva? Adesso non lo fa più?"
Era molto attento, questo ispettore chikna e
niente affatto ottuso come i sardar delle
barzellette. Con lui bisognava stare in
guardia. "E' morta" dissi con mestizia.
"Uccisa in un incidente." Lui annuì e
distolse lo sguardo. Quando tornò a fissarmi
era ancora lo stesso maderchod di un
ispettore, ma avevo colto un lampo di
compassione in lui. Anch'io sapevo essere
acuto. Nella mia vita avevo imparato a
osservare le persone. "Anche tu hai perso
qualcuno" dissi. "Chi, tua moglie?"
Mi rivolse un'occhiata penetrante, Era un
uomo orgoglioso, ovviamente, e indossava
l'uniforme. Non mi avrebbe detto niente.
"Tutti perdono qualcuno" disse. "È quello
che succede nella vita." (Giochi
sacri, p. 744)
Nella sconfitta, solo nel bunker,
dopo l'estrema e vana difesa della sua identità,
del suo axis mundi, uccidendo Jojo che vi
si contrapponeva col proprio, Gaitonde ha bisogno
della sola cosa alla quale non possiamo
rinunciare. Non è la profusa bellezza della terra
con i suoi mari, del cielo con i suoi soli, che
sentiva Sanjay nel primo romanzo di Chandra, prima
di cominciare i racconti, che deve bastare e
spesso non basta. Non è nemmeno la posizione
assegnata o conquistata nell'ordine gerarchico fra
esseri umani, ma il desiderio di raccontare la
propria storia, di lasciarla volare chissà dove,
chissà per quanto tempo.
Perché si possa raccontare una
storia occorrono un narratore e un ascoltatore,
fra i quali possa scendere la grazia di una verità
all'unisono, siano un re giusto e un mendicante
carico di tutte le disgrazie, siano un
grande gangster e un ispettore di polizia.
Ganesh Gaitonde avrebbe potuto chiamare un
giornalista del Mumbai Mirror, che
starebbe stato avido ad ascoltarlo:
No,
mi serviva una persona brava e semplice. Una
persona che mi ascoltasse come un passeggero
in attesa alla stazione, con partecipazione
e gentilezza, per un paio d'ore, fino
all'arrivo del treno. Qualcuno che mi avesse
visto non solo come Ganesh Gaitonde, ma come
essere umano. Fu allora che mi tornasti in
mente tu, Sartaji Singh. Ricordavo il mio
primo incontro con Guruji, la prima volta
che mi ero seduto faccia a faccia con lui.
Ricordavo come mi avevi aiutato in
quell‘occasione, mi avevi parlato e -
l‘ultimissimo giorno - mi avevi consegnato
al mio destino. Ricordavo quel gesto di
generosità, insolito per chiunque,
incredibile per un poliziotto, e mi ero
ricordato di te. Hai negli occhi la crudeltà
del poliziotto, Sartaj, ce l'hai nella
camminata tracotante, ma sotto quella
studiata indifferenza batte il cuore di un
uomo romantico. Nonostante le tue arie da
sardarji, ti eri commosso. Le nostre vite si
erano incrociate e la mia era cambiata per
sempre. (Ib, pp. 1056-1057)
Se a questo punto volessimo trarre
una morale dalla storia, potremmo celebrare
l'unisono fra un criminale e un poliziotto, la
verità che scende come una grazia per vie diverse
da quelle ordinate dai ruoli e dalle posizioni
gerarchiche, e ricordare il riconoscimento
evangelico del proprio prossimo come specchio di
sé. Dovrebbe bastare, ma non basta.
Lo psicoanalista Franco Fornari poneva come
compito dell'analisi il ribaltamento della massima
latina mors tua vita mea / vita tua mors mea.
Osservando come al tempo dei grandi arsenali
atomici, nella guerra fredda fra USA e URSS, gli
uomini si trovassero per la prima volta di fronte
a uno scenario in cui la distruzione dei nemici e
di se stessi coincidevano, lo psicoanalista
italiano si chiedeva se non fosse l'occasione per
imparare a rinunciare alla violenza che esplode e
si placa nella distruzione del nemico.
Lo scenario che si apre a distanza di pochi
decenni sembra piuttosto risultare dalla riduzione
dell'esito estremo della contrapposizione,
frammentando il conflitto in molteplici scenari,
così che si possa continuare a eliminare e
convertire i nemici senza per questo scomparire
insieme a loro. Quanto alla minaccia della fine
della vita sul pianeta, causata dall'inquinamento
dei popoli dominanti, ma ugualmente mortale per
tutti, sembra sufficiente per alimentare a far il
pio desiderio di un rinsavimento salutare, ma non
per realizzarlo.
Sentendoci tutti piuttosto ingiusti, perché solo
alle vittime, già defunte, appartiene con certezza
una coscienza immacolata, continuiamo la nostra
vita come gli abitanti di Sodoma e Gomorra, nelle
città inquinate e ingiuste che non per questo
smettono di commuoverci con la loro bellezza.
La contemplazione della bellezza della città in Sacred
Games è accompagnata dalla consapevolezza
che vederla è una scelta che dipende dalla propria
sensibilità, non da un valore assoluto, da imporre
agli altri. Accade a Ganesh Gaitonde quando torna
a Bombay:
Sudavo
copiosamente, ma stavo bene. Chiesi un
bicchiere di succo di cocco e lo assaporai
lentamente, gustando l’inconfondibile tanfo
di Bombay nell’aria pesante, un misto di gas
di scarico, inquinamento e acqua stagnante.
Dietro di me una serie di condomini mi
copriva le spalle mentre davanti c’era una
strada sterrata fiancheggiata dai lampioni e
poi dal buio del fogliame. Mi sentivo
rinvigorito e la stanchezza del volo mi
abbandonò lentamente mentre sentivo il canto
dei grilli. Un branco di cani sbucò
dall‘angolo uggiolando. Ero appagato.
(Ib., p. 990)
Accade a Sartaj Singh, dopo aver
finalmente sventato l'attentato atomico:
"Boss
[...] Sei l’eroe del momento. Alzati ed
esigi la parte di merito che ti spetta,
altrimenti te lo soffierà uno di questi
gaandu ufficiali della polizia nazionale.
" Ma Sartaj non se la sentiva di dare
consigli proprio a nessuno. Gli bastava
starsene seduto alla luce degli schermi dei
portatili e guardare il cielo cambiare
colore fuori dalla finestra sul retro. Una
volta qualcuno - non ricordava chi - gli
aveva detto che il fantastico colore dei
tramonti a Mumbai derivava dall’inquinamento
che sovrastava la città, dalle masse di
persone assiepate in uno spazio così
ridotto. Sartaj non dubitava che fosse vero,
ma i porpora, i rosa e gli arancio erano
comunque belli e grandiosi. Uno poteva
osservarli cambiare e scurirsi prima di
scomparire nel nero della notte. (Ib.,
p. 1076)
Il miracolo più grande è per il
soggetto la realtà più immediatamente percepibile,
e allo stesso tempo è la cosa più difficile da
accettare. La bellezza esiste solo se il nostro
sguardo la coglie, ma il nostro sguardo non la
crea. Abbiamo solo la nostra vita, ma non abbiamo
scelto di averla.
Fra l'onnipotenza che spinge il soggetto verso il
dominio paranoide, verso l'isolamento del
protagonista assoluto della storia, e l'impotenza
che ci fa percepire la nostra fragilità come
insignificanza, e la nostra sparizione come unico
senso, il soggetto tenta, nella mitica normalità,
di garantirsi un equilibrio stabile, come se non
fosse il frutto di tensioni opposte, incrociate,
che si congiungono e si disgiungono guidate da una
forza vitale, che può ugualmente sembrarci
l'espressione di una luce superiore o di un buio
cieco.
Resta il sentimento di verità del riconoscimento
reciproco, dove Eros come forza di vita si
manifesta con una semplicità che sovverte
qualsiasi sistema di pensiero. Piccoli gesti,
parole che non colonizzano il silenzio, ma lo
abitano, e restano accanto, alla fine del libro,
come invito a interrogarci su quante volte
ciascuno di noi le ha sentite senza ascoltarle, e
quante volte le ha dette inutilmente.
Le domande di Sartaj e di Gaitonde restano alla
fine dei Sacred Games, ma qualcosa è
successo, qualcosa è cambiato: forse la tensione
eroica che vuol trovare risposte. Forse si è
compreso che l'ideale che tende alla soluzione
definitiva manifesterà prima o poi il suo asse di
sopraffazione, come la volontà di Guru-ji di
formare un India perfetta, che procede fra
massacri, giustificati dalla perfezione stessa a
cui aspira.
Sartaj alla fine è una persona normale, come
Ulisse quando riprese la sua vita a Itaca, quella
che nessun Omero può raccontare, è il libro dopo
la sua fine, è l'invito a raccontare la propria
storia, come a vivere la propria vita, lasciando
che la mente metabolizzi il gioco sacro del
romanzo, che i colori delle nostre emozioni, dei
nostri risvegli e dei nostri giorni cupi, abbiano
sfumature che non esisterebbero se non avessimo
letto questo libro.
Sartaj
scese dalla moto. Posò le scarpe sul pedale,
una per una, e le spolverò con un fazzoletto
fino a farle splendere. Poi si passò un dito
attorno alla vita, lungo la cintura. Si
diede un colpetto alle guance, e passò
l'indice e il pollice sui baffi. erano
splendidi, non aveva dubbi. Era pronto.
Entrò e diede inizio a un'altra giornata.
(Ib., p. 1162)
Dalla sconfitta tragica nella corsa
contro il destino viene il principio della
salvezza della città, se Gaitonde, come Edipo, non
vuole la distruzione di tanti esseri umani
affollati in un piccolo spazio, a Bombay come ad
Atene. Ogni città rivela la sua bellezza se lo
sguardo coglie cosa la rende commovente: le
costruzioni di esseri umani separati gli uni dagli
altri da secoli e da desideri diversi compongono
un piano che neppure l'architetto più geniale,
l'artista più grande e il dittatore più potente
potrebbero eguagliare. Ciò che ci fa amare una
città, o la città, è il senso del conflitto e
dell'incontro fra generazioni e gerarchie, che la
forma e la trasforma, invitandoci ad abitarla e a
costruire a nostra volta.
Dopo Ganesh Gaitonde, pari a lui per simpatia e
umanità, Sartaj Singh si libera dall'ansia di
legittimazione che lo tiene legato alla figura
paterna, quando per trovare la bomba deve
detronizzare il suo capo Parulkar, dal quale pure
aveva imparato tanto. E poi ritrova piangendo la
radice, l'acqua sorgiva della sua nostalgia del
padre, nel penultimo capitolo, ad Amritsar, per
lasciarla all'infanzia, al sogno in bianco e nero
che ci consola, alla memoria che costruisce
l'essere.
L'incubo atomico è finito, e
Sartaj mantiene la promessa di accompagnare la
madre ad Amritsar, e camminando ricorda quando
faceva lo stesso percorso da bambino, per mano al
padre e alla madre. Allora non sapeva leggere i
nomi dei martiri sikh, ora non può farne a meno:
Per
che cosa piangeva? Piangeva per il capitano
deceduto, ma anche per i suoi nemici, che lo
avevano aspettato su quel fronte di ghiacci,
ansimanti e con i polmoni rovinati per la
mancanza d'ossigeno. Piangeva per i nomi
sulle lapidi, e per i martiri sikh dei
dipinti nel museo al piano superiore, che
avevano opposto resistenza per difendere la
fede ed erano stati torturati, smembrati e
infine giustiziati. Piangeva per i
seicentoquarantaquattro nomi della lista nel
museo, per i sikh uccisi quando l'esercito
aveva messo sotto assedio il tempio nel
1984, e piangeva per i soldati falciati dai
proiettili su queste stesse lastre di
pietra. Sartaj continuò a camminare. Si
asciugò il viso e completò il giro intorno
al sarovar. Sua madre era ancora lì, la
schiena appoggiata contro un pilastro e gli
occhi chiusi. Le passò davanti e ricominciò
la parkama. Un vecchio lo guardò con aria
gentile e incuriosita, e Sartaj si accorse
di stare di nuovo piangendo. Non c'era modo
di calcolare con esattezza quanto era stato
sacrificato e quanto era stato guadagnato,
c'era solo questo riconoscimento della
perdita, del dolore sofferto e assorbito. Il
calore saliva da sotto i piedi di Sartaj in
un pizzicore gradevole, e continuò a
camminare. Dava una certa pace girare
intorno a questa Piscina del Nettare. Non si
aspettava il perdono di Vaheguru, e neppure
che la sua fede frammentaria e dubbiosa in
Vaheguru gli desse il diritto di chiedere
perdono. Non sapeva se era un uomo buono o
cattivo, e neppure se le sue azioni
nascessero dalla fede o dalla paura. Però
aveva agito, e adesso camminare gli faceva
male e al tempo stesso gli portava
sollievo. (Ib., p. 1152-1153)
Non si può fare nessun bilancio che
faccia tornare i conti delle perdite e dei
guadagni in un massacro, in una guerra, in un
omicidio. Sartaj piange per i martiri della sua
religione e per i loro nemici, e incontra se
stesso come in un racconto di Borges-bhai, così
Chandra chiama Jorge Luis Borges, nel quale si
incontrano i due fratelli:
Abel
y Caín se encontraron después de la muerte
de Abel. Caminaban por el desierto y se
reconocieron desde lejos, porque los dos
eran muy altos. Los hermanos se sentaron en
la tierra, hicieron un fuego y comieron.
Guardaban silencio, a la manera de la gente
cansada cuando declina el día. En el cielo
asomaba alguna estrella, que aún no había
recibido su nombre. A la luz de las llamas,
Caín advirtió en la frente de Abel la marca
de la piedra y dejó caer el pan que estaba
por llevarse a la boca y pidió que le fuera
perdonado su crimen.
Abel contestó:
-¿Tú me has matado o yo te he matado? Ya no
recuerdo; aquí estamos juntos como
antes.-Ahora sé que en verdad me has
perdonado -dijo Caín-, porque olvidar es
perdonar. Yo trataré también de olvidar.
Abel dijo despacio:
-Así es. Mientras dura el remordimiento dura
la culpa. (Jorge
Luis Borges, Leyenda; in Elogio
de la sombra, 1969)
Il perdono
in Borges come in Chandra non è frutto di una
superiorità etica, che è una specie di eroismo
dell'anima, destinata a produrre nel tempo una
violenza senza limiti.
Può semplicemente accadere, il perdono, senza il
quale non si riconosce la somiglianza col diverso,
né si considera la diversità del simile, grazie al
gioco della memoria, quando ricordando quella
nostra storia dolorosa, d'amore fallito, di lavoro
appassionato e vano, di amicizia finita, non
sappiamo più se abbiamo fatto la parte del cattivo
o del buono, della vittima o dell'aguzzino.
Liberarsi del peso della colpa, e
del rimorso, è vivere con una leggerezza che
consente di caricarsi dei pesi che ci tocca
portare, come questa incertezza insostenibile,
così vera nelle parole di Sartaj: nessuno di noi,
se non rinuncia ad ascoltare la voce fioca della
ragione, sa se è buono o cattivo, se agisce per
paura o per fede.
Nelle lacrime di Sartaj, nelle lacrime di un uomo,
scorre la pietà che non è, non può essere
riservata alle vittime della propria parte e
rifiutata a quelle degli altri, perché vediamo i
volti dei nemici come degli amici, e negare che
abitiamo il mondo, pensare che la nostra città non
sia la stessa della città di tutti gli altri,
significa comprare sicurezza in cambio dell'anima
Per vivere questa incertezza, alla
quale il flusso della vita non si oppone, occorre
lasciare che i padri muoiano, liberandoli dalla
nostra illusione che ci facciano scudo con una
perfetta integrità, come quella del padre di
Sartaj, con una inarrestabile ascesa verso il
potere, come quella del suo capo Parulkar, o che
possano spingere il mondo verso la perfezione,
come Guru-ji.
La nostalgia del padre, se lo lasciamo libero di
morire riconoscendo la sua fragilità e la nostra,
lo fa tornare con noi, in un ricordo che non
autorizza a vivere, in una memoria sempre viva.
Considero il ricordo d'infanzia di Sartaj prima di
lasciare Amritsar con la madre come un lungo addio
al padre:
Quella
lontana mattina d"inverno quando era venuto
con Papaji e Ma', Papaji aveva cercato di
convincerlo a immergersi nella piscina.
Papaji si era tolto la camicia e i calzoni
ed era entrato in acqua nei suoi kaccha blu.
"Vieni Sartaj," lo aveva esortato. Però
Sartaj si era nascosto dietro Ma' e si era
rifiutato di entrare in acqua. "A uno sher
come mio figlio un po' d'acqua fredda non
può dar fastidio" aveva detto Papaji.
"Vieni." Eppure non era del freddo che
Sartaj aveva avuto paura. Era diventato
improvvisamente timido, conscio di essere
piccolo e magrolino a confronto delle spalle
brune e massicce di Papaji, niente affatto
uno sher.
Non voleva essere guardato da tutta quella
gente. Perciò si era aggrappato a Ma'
scuotendo la testa, e lei lo aveva
assecondato: "Lascia stare il bimbo,
prenderà freddo". E Papaji aveva riso ed era
uscito dalla piscina rovesciando
l'acqua sui gradini, con il kara che
spiccava sul polso possente.
Adesso però era estate, e Sartaj non era più
timido. "Penso che entrerò in acqua" disse a
Ma'. [...]
Sartaj unì le mani e immerse la faccia e i
rumori si attutirono. Più in basso, molto
più in basso, c"era una sorgente che portava
al centro del respiro del mondo. (Giochi
Sacri, pp. 1153-1154)
Lasciare morire il padre, rompere i
legami di sangue significa ritrovare insieme alla
nostra fragilità bambina l'illusione della sua
potenza invincibile. Significa rinunciare al sogno
di diventare potente come credevamo che fosse il
padre, o a cercare un padre che somigli a quello
che avremmo voluto avere. Si scopre allora il
miracolo più grande, perché Eros non disdegna la
debolezza, avendo in sé la natura della madre, e
che intreccia alla ricchezza del padre, per questo
è l'invenzione più bella del mondo, sia frutto
delle nostre inesauste fantasie o dono di un Dio.
Non gli accadrà più di sentirsi confident e
fearless, in una gentle cradle, come Ganesh
Gaitonde quando si sentiva amato da Guru-ji. Ma
saprà riconoscere l'amore di Mary e per Mary,
quando si sente perdonato da lei per la sua
debolezza: To find one person who forgives you
for this, that is big.
Alla fine dei Sacred Games resta la città col suo
inquinamento, la sua ingiustizia, i criminali che
hanno un codice d'onore e i poliziotti corrotti.
Guru-ji era deciso a distruggerla, Sartaj, che ha
raccolto le ultime parole di Ganesh Gaitonde, si è
trovato a salvarla. Ne valeva la pena?
Nessun Dio, nessun padre resta a darci una
risposta, se non vogliamo e non possiamo eliminare
la nostra incertezza di fronte al mondo, i nostri
dubbi sulla nostra natura e il nostro destino.
Alla fine dei giochi sacri, prima della pagina
bianca, non si pensa che la coppia che si è
formata nel libro vivrà felice e contenta, né che
nessuna felicità è possibile in questo mondo. Non
si spera in una pace imminente né si prova
angoscia per la distruzione inevitabile.
Possiamo solo cominciare una nuova giornata.
_________________________
NOTE
Sigmund Freud, Noi e la morte, Palomar, Bari
1993; p. 39. [Wir und der Tod; conferenza
tenuta da Sigmund per i membri dell'associazione
umanitaria austro-israelitica di Vienna B'nai
B'rith, il 15 febbraio 1915]
Caino
e Abele
Caino e Abele si incontrarono dopo la morte di
Abele. Camminavano nel deserto e si riconobbero di
lontano, perché erano entrambi molto alti. I
fratelli si sedettero per terra, accesero un fuoco
e mangiarono. Guardavano in silenzio, come la
gente stanca quando finisce il giorno. In cielo si
accendeva qualche stella, per la quale nessuno
aveva deciso il nome. Alla luce del fuoco, Caino
notò sulla fronte di Abele il segno della pietra,
gli cadde il pane che stava portandosi alla bocca
e chiese che il suo delitto gli fosse perdonato.
Abele chiese:
- Sei tu che mi hai ucciso o io ho ammazzato te?
Non ricordo, stiamo qui vicini come prima.
- Ora so che davvero mi hai perdonato, - disse
Caino - perché dimenticare è perdonare. Cercherò
anch'io di dimenticare.
Abele allora disse:
- È così. Finché dura il rimorso dura la colpa.
(Jorge Luis Borges, Leyenda; in Elogio
de la sombra, 1969; traduzione nostra)
- Ricevo
da Claudia Chellini il 3 luglio 2008 questa
nota:
- Perdono
e tolleranza
|
|
|
|
|
tasāmuħ |
SMĦ |
samħ |
mutasāmiħ |
samāħ |
reciproco
perdono
|
|
generoso
|
indulgente
|
generosità
|
In questa riflessione, che lega il pianto di Sartaj
ad Amristar con la sua capacità di riconoscere
"l'amore di Mary e per Mary", si intrecciano, trama
e ordito di una stessa tela, i concetti di perdono e
tolleranza nei confronti dell'altrui imperfezione e
della propria.
- In
arabo tasāmuħ indica ciò che in italiano
viene normalmente tradotto con tolleranza.
In realtà la parola araba fa riferimento ad un
campo semantico molto diverso da quello
dell'italiano.
Se infatti tolleranza è etimologicamente legata
al latino tollo, nel suo primo
significato di porto, sopporto il
peso, come a esprimere la fatica del
sopportare l'altrui diversità (rispetto a noi,
al nostro ideale); tasāmuħ vuol dire
"reciproco perdono"; e si forma dalla radice
SMĦ.
Una breve ricerca sul dizionario mostra
un'interessante costellazioAl momento di questa
ne di parole che si diramano da questa radice: i
significati si sviluppano da generoso (samħ)
fino a quello di indulgente, tollerante
(mutasāmiħ) passando attraverso la
polisemia di samāħ che contiene
in sé i concetti di generosità; indulgenza,
tolleranza; perdono; autorizzazione, permesso.
Dall'accostamento fra la parola araba tasāmuħ
e il suo corrispettivo italiano tolleranza,
dunque, si ottiene un intreccio semantico e
concettuale in cui l'apertura e disponibilità
all'altro e la possibilità/capacità di
sostenerne la diversità acquistano una
pregnante, reciproca profondità di senso.
(Claudia Chellini)
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