Sulla principessa Rosaspina,
come si sa, pendeva dalla nascita una maledizione:
sarebbe stata bellissima e dotata di ogni grazia e
virtù, ma... a quindici anni sarebbe morta pungendosi
con un fuso. Il re padre per questo aveva proibito i
lavori femminili che ne prevedevano l'impiego, ma il
giorno del suo fatidico compleanno la fanciulla salì
su una torre dove una vecchietta ancora filava, e
affascinata dalla danza del fuso volle provare, si
punse, e cadde in un sonno simile alla morte che
sarebbe durato cent’anni. Bruno Bettelheim, che ha
inaugurato l'interpretazione e l'uso psicoanalitico
della fiaba, considera l'oggetto pungente e oblungo
come simbolo del maschile, lacerante per Rosaspina che
lo incontra precocemente. L'incontro erotico provoca
quindi un sonno, che può significare l'età di latenza
con una sospensione del desiderio erotico: si
attenderà così il giusto tempo dell'incontro, quando
il principe attraverserà la barriera di rovi che isola
dal mondo Rosaspina e con un bacio la riporterà in
vita. Se poi abbiamo in mente il concetto lacaniano di castrazione, magari nella versione doltoiana di castrazione simboligena, potremmo vedere nella maledizione e nella puntura del fuso, che fa sanguinare e cadere Rosaspina in un sonno simile alla morte, un suo significante, che porta l'attante protagonista, il soggetto stesso, a riconoscere la propria incompletezza, aprendo la via di accesso al diverso, all'altro sesso. Perché poi non applicare la chiave di lettura junghiana? Già nel nome della protagonista è presente una complexio oppositorum, che unisce la bellezza della rosa con la sua parte pungente, e la fiaba può essere letta come un processo di individuazione. Percorso che rende inevitabile l'incontro con l'archetipo della grande madre, la vecchia che fila come le greche Parche. Il finale felice corrisponde alle nozze alchemiche, e avviene solo quando il carattere mortifero della grande madre terra, prima rimosso per ordine paterno con tutti i fusi, viene integrato. Mentre le interpretazioni freudiane sono convincenti solo per chi già apprezza la teoria psicoanalitica a cui fanno riferimento, quella junghiana può affascinare e convincere anche chi non conosce la psicoanalisi, perché fa suoi tutti gli strumentari simbolici del mondo: si può pescare dalle alchimie e dalle mitologie di qualunque tempo e luogo, dall'astrologia, dalle religioni, ad libitum. I conti dello psicoanalista possono comunque tornare, e se è abbastanza bravo risulta convincente per i suoi ascoltatori o i suoi lettori. Ma come possono essere vere interpretazioni diverse? [2] Com'è possibile che nella Teogonia [3] poco più di mille versi, si racconti che le Parche sono nate per partenogenesi dalla Notte, e poi, settecento versi dopo, si dica che le generarono Zeus e Temi/Giustizia, sempre tre, con gli stessi nomi e le stesse fatali prerogative? Non ci vogliamo domandare come sia possibile che noi, da svegli, anche senza malattie degenerative, chiamiamo a volte il figlio di nostro fratello col nome di nostro figlio, nostro figlio col nome di nostro fratello, e così via? Porre la domanda basta per mostrare la realtà di qualcosa che, considerato dalla coscienza contraddizione, scivolata, errore, è pregnante: preme per significare qualcosa che altrimenti resterebbe silenzioso, pur esistendo. In altri termini, la metafora, ogni costruzione metaforica, potrebbe essere pensata come un'esca senza la quale è inutile andare a pescare una verità che non riusciamo a vedere, ma di cui conosciamo l'esistenza. Se consideriamo la mitologia come una grande costruzione metaforica, possiamo procedere considerando con Freud che la psicoanalisi stessa opera con la sua teoria allo stesso livello: Le esche di menzogna adatte a far affiorare carpe di verità variano nel tempo, e quel che fino al secolo scorso era regno incontrastato della vaghezza, impensabile come campo di ricerca scientifica, diventa con Freud un campo di ricerca rigoroso. Ma il passaggio dal lavoro intorno a oggetti vaghi, poetici, circondati da un alone di mistero che li rende affascinanti e vivi, a un lavoro scientifico, è lento e pieno di trabocchetti. Lo psicoanalista che consideri la teoria di riferimento della sua scuola come più vera delle altre, o che, peggio ancora, consideri se stesso e i suoi 'compagni di scuola' i soli eredi legittimi di Freud, negherà, trattandosi dell'interpretazione di una fiaba o di un suo minimo intreccio, come la puntura di Rosaspina col fuso, l'efficacia delle diverse interpretazioni. Non si accorgerà che è proprio l'efficacia di ogni interpretazione, se colta nel suo carattere vago, come quello delle pulsioni, a costituire la forza dell'interpretazione stessa. Che interpreti il momento cui Rosaspina si punge come l'incontro precoce con il sesso maschile, o lo scontro segnato dall'invidia con il fantasma della madre fallica, o con l'archetipo della Grande Madre nel suo tratto mortifero, o la castrazione simboligena, lo psicoanalista mostra che tutte le teorie psicoanalitiche sono dotate di grande pregnanza metaforica. In altri termini, la teoria psicoanalitica nelle sue diverse forme, come un mito o una fiaba nelle loro innumerevoli varianti, significa in maniera vaga qualcosa di vero della realtà psichica. Vago ha in questo caso
entrambi i suoi significati: impreciso e bello.
Trasformare un campo dove ha sempre regnato una
vaghezza che impediva di descriverne con precisione
gli oggetti richiede, come si diceva, tempo e
pazienza. Si può comprendere il bisogno di certezza,
che permette di accasarsi in un'interpretazione
psicoanalitica, o sociologica o antropologica,
scartando le altre come false. Si può comprendere
anche chi parlando della fiaba come della poesia
accusa lo psicoanalista di fare un lavoro inutile o
dannoso cercando di interpretarla o di individuarne
costanti e varianti: gli si può rispondere che la
potenza significativa di queste forme espressive, per
chi le colga veramente, non è mai minimamente scalfita
da un'interpretazione. Se poi il lettore,
insoddisfatto da questo saggio, andrà a rileggere la
storia del fuso e del sonno di Rosaspina, potrà
lanciare la sua esca e aspettare che qualcosa affiori. |