ADALINDA GASPARINI                PSICOANALISI E FAVOLE
EXCEPTIONALLY SENSITIVE
TRAVELLING WITHIN THE BUS STOPPED BY TABISH KHAIR
 
STRAORDINARIAMENTE SENSIBILE
VIAGGIANDO CON IL BUS SI È FERMATO
DI TABISH KHAIR
In: Tabish Khair: A Critical Companion; by Om Prakash Dwiwedi. New Delhi 2013 






Gli esseri umani sono come pezzi di stoffa nella pioggia del tempo: porosi. Le culture filtrano in noi: acquistiamo peso con la nostra storia e con le storie di tutti gli altri. (Tabish Khair,Farhana)






ABSTRACT

Fra Gaya e Phansa il bus si ferma la prima volta per far salire la giovane serva Zeenat, col suo bambino piagnucoloso senza padre, la terza per dare sepoltura a un neonato morto fra le braccia della madre, una donna tribale. I viaggiatori e il personale di viaggio affollano il bus con i loro corpi e le loro storie, mentre il paesaggio le punteggia silenzioso o attraversato dal verso di un uccello. Il lettore viaggia in un romanzo, composto da un intreccio delicato e potente di racconti, o in una raccolta di poesie in forma di prosa, che della lirica ha l’intensità aerea, sospesa? La complessità espressiva corrisponde alla complessità irriducibile delle esperienze colte nell’attraversamento dei confini fra persone e culture, ripetuto, incessante. Senza concedere nulla alla facile seduzione del lettore, la scrittura implica una riflessione rigorosa e vigorosa – sia poetica che etica – sulla nostra identità, sulla nostra alterità. L’altro non è astratto: è colui che ci troviamo accanto e ci sorprende con un invito che non possiamo rifiutare, a uscire dai nostri confini.














L'incontro con la donna, le sue diverse età, la sua leggerezza e la sua tragedia, è in questo libro un modo di rivelarsi dell'io narrante a se stesso, non meno che un canto a lei, presenza fisica, concreta, e mistero cangiante. È attraverso questa porta che nelle case e nel viaggio l'affascinante diversità dell'altro fa incursione.

Potevo sentire l’odore di Zeenat dall’angolo del corridoio. Ma allora avevo sedici anni e una straordinaria sensibilità all’odore delle donne.
Le donne hanno odori diversi. Lo avevo sempre saputo. L’odore del sari inamidato della nonna, la fragranza dell'acqua di colonia delle zie, il profumo di talco e attar dei parenti poveri, l’odore di sapone e sudore delle vecchie ayah: sono cresciuto con questi odori. (Viaggi, 6)

Odori familiari di abiti e fragranze che velano l'odore del corpo, prima che si avvicini il tempo della sua nudità, con l'odore di giovani donne che servono nella casa:

I loro odori potevano portarmi fuori di me, far partire di corsa la mia immaginazione verso qualcosa d’altro, farmi struggere per il desiderio, di che? cambiamento? avventura? la presa di braccia ferme, callose, gentili? sesso?
Sesso era una parola troppo piccola per questo. E non ero abbastanza ipocrita per chiamarlo Amore. (Viaggi, 6)


Sesso è la parola che delimita questo richiamo a uscir fuori di sé nella misura in cui lo classifica come evento biologico o rapporto mercenario. Amore lo sposterebbe sul piano romantico, mascherandolo e depotenziandolo. Se la prima parola è riduttiva e la seconda ipocrita, che cosa sta guidando l'io narrante fuori di sé, verso l'esperienza dell'alterità radicale, la donna per l'uomo, come l'uomo per la donna?
L'odore è guida, traccia, senso che non mente, pur non spiegando nulla di quel che accade, o forse proprio per questo. Come nelle fiabe, l'attante segue una via, il racconto si dipana come un gomitolo, a patto di non pretendere di sapere dove si sta andando.

Zeenat salirà sul bus Gaya-Phansa, che farà una fermata non prevista per lei che lascia correndo la casa dove serviva.
Le barriere sociali  che separano l'io narrante dai servi sono attraversate da odori di donne come Zeenat grazie a un invisible work permit. La straordinaria sensibilità all'odore della donna si descrive ora intrecciandosi all'incontro fra diversi: cittadini massimamente dotati di diritti, e lavoratori immigrati.

Perché mentre il loro odore attraversava le alte mura invisibili che separano la gente come me dalla gente come loro, entravano per conto loro nel mio mondo, potevano entrare nel mio mondo solo grazie a un invisibile permesso soggiorno. Erano come gli immigranti turchi nella mia Germania degli anni ottanta: avevano una pelle diversa (anche se a volte il colore era lo stesso), parlavano un’altra lingua, venivano da un altro luogo, non avrebbero mai ottenuto una piena cittadinanza nello stile di vita che a me spettava per diritto di nascita. In qualche modo, quel che entrava nel mio mondo era la loro astratta forza lavoro – e l’odore che veniva insieme a questa era profondamente sovversivo perché mostrava l’esistenza di qualcosa d’altro. Entravano di contrabbando nei loro corpi. (Viaggi, 6)

Qualcosa  entra di contrabbando attraverso il corpo dell’altro , l'altro sesso come l'ignoto, il continente inesplorato. Freud ha considerato il femminile come il “continente nero” della psicoanalisi (1926, Il problema dell'analisi condotta da non medici, OSF 10, pp. 347-423; p. 379). Ma è il femminile a nascondere ciò che contiene, per sua natura, per la tendenza delle donne a eludere il controllo maschile, o si deve piuttosto pensare che il femminile si costituisca come contenitore, perché vi si possa gettare quanto non sostiene l'identità logocentrica dell'essere umano?

Il continente inesplorato, nero, funziona come metafora del femminile, con il maschile nella parte dell'esploratore che lo scopre e vi issa la sua bandiera. L’uomo porta civiltà e ordine alla donna come alla terra, entrambe vergini. Oggi la metafora viene anche ribaltata: è la donna la custode dei valori di relazione, della pace, della fecondità, salvandoli dal crudele dominio maschile. L'opposizione resta netta, si cambia tutto perché niente cambi.
Si può fare di meglio in questi nostri anni di cambiamento rapido e pervasivo, sa farlo il poeta. Raccontando di come l’io narrante seguendo un odore viva la sua iniziazione erotica, Tabish Khair si muove senza far rumore come un acrobata e un funambolo fra le due sponde, e il movimento ha la stessa struttura del viaggio Gaya-Phansa.
Homes, all'inizio, e Homes, Again, alla fine: non c'è viaggio senza due punti fermi, di partenza e di arrivo.
Ma la stessa casa in questo libro è mobile:

Ho trovato e perduto, perduto e trovato anche le mie case. Ho fatto la mia casa su bus e aeroplani, in hotel e appartamenti in affitto. (Ancora case).

Nel racconto la casa si muove e il bus si ferma: viaggio e stabilità si intrecciano come maschio e femmina, intrusivo e ricettivo, come si incontrano nella Germania degli anni ottanta l’emigrante turco, il cittadino tedesco, e l’io narrante.
Seguire un odore è come sospendere un ordine per cercarne uno diverso - scontato ricordare la madeleine proustiana? - correndo il rischio di precipitare nella sua perdita:

Portavo il suo odore a letto con me. Anche se quando mi guardava non riuscivo a sostenere il suo sguardo. I suoi occhi piegavano i miei fino a terra, e poi le sue labbra si curvavano con l’ombra di un sorriso. E mi salutava con la voce di un’umile serva: Salaam-alai-kum, Irfan babu. Walaikum-assalaam, Zeenat, balbettavo in risposta. La pace era l’ultima cosa che Zeenat poteva far scendere su me.(Viaggi, 20)

Chi conduce il gioco, contro chi, per chi?
La complessità della riflessione di Tabish Khair sull'alterità  ha una concretezza che diventa chiara se si riflette su una comune esperienza quotidiana. Se, dotati per nascita di un pieno diritto di cittadinanza, incontrando un immigrato lo guardiamo e ci lasciamo guardare  abbastanza a lungo, sperimentiamo una vicinanza che presto giunge all'intimità, tanto che dobbiamo distogliere lo sguardo. Possiamo scoprirci allo stesso tempo esploratori ed esplorati, mentre la piena umanità dell'altro si rivela in una brevissima messa a nudo, ricettiva e intrusiva quanto la nostra.
L'esperienza è raccontata per tutto il libro, come nella pagina in cui il guidatore sikh, Mangal Singh, ricorda gli aborigeni indiani, che nessuna cultura sembra poter integrare, come tanti aborigeni nel mondo:

Ora sono laggiù, in quella parte trascurata dello stato, dopo la fermata di Dhoda, dove qualche volta i tribali si possono ancora vedere [...] Si possono vedere con la pelle nera e i laceri perizoma, con il loro orgoglio individuale e la miseria collettiva. Come mai la cura con loro non ha funzionato? (Viaggi, 23)

Si parla dell'Ashoka tree, dei suoi fiori che curano ogni dolore. Nessuna cura, magica, psicologica, economica, può eliminare la dimensione tragica della condizione umana. Dimenticarla è necessario per vivere, ma ricordarla è necessario per umanizzarsi.
Bisogna avere una sufficiente identità di genere per incontrare eroticamente l'altro, comprendendo che si tratta di qualcosa che è riduttivo chiamare sesso e ipocrita chiamare amore. L'esperienza però non sembra incrementare la stabilità identitaria, ma piuttosto minacciarla.
Tutte le culture colonizzatrici e razziste considerano l'omossessualità come peccato, perversione, crimine. Questo accanimento dogmatico difende la stabilità identitaria, che è anzitutto certezza del proprio genere, condizione per la coppia di opposti nella quale sembra articolarsi il senso dell’identità: maschio/femmina, inferiore/superiore, civilizzatore/civilizzato, ecc. Considero un poeta come Tabish Khair un l'acrobata che volteggia in un circo di parole, e non potendosi accasare definitivamente da nessuna parte traccia nell'aria figure nuove, suggerendo nuovi percorsi.
Nel bus Gaya-Phansa tutti i personaggi sembrano partecipare, anche se non lo sanno dire, a questo movimento. Zeenat è una di loro, ed è in rapporto a lei che l'io narrante si dichiara straordinariamente sensibile all'odore della donna: in Zeenat converge, e da qui si irradia, la dolorosa e irrinunciabile sensibilità dello scrittore alla alterità.
Un giorno l’adolescente Irfan babu è in visita ai vicini dove Zeenat è a servizio, e immagina che lei lo abbia guardato tutta la sera. Cosa accadrebbe se la incontrasse nel corridoio o per le scale? Probabilmente nulla, come tutte le altre volte:

Non era successo nulla a parte la sua lotta lenta e decisa che metteva al tappeto il mio sguardo, un’azione che richiedeva uno o due secondi, ma che sembrava il tempo di tutta una vita e mi lasciava ansimante, senza respiro.
Il suo odore si fece più intenso. (Viaggi, 34)

Intensità crescente come una battuta musicale che annuncia e prepara il movimento successivo, l'incontro fra il maschio padrone e la femmina serva in un luogo di passaggio, il corridoio, accanto alle scale, percorrendo le quali si cambia piano.

Girai l’angolo e la vidi seduta sul pavimento all’altro capo del corridoio, proprio davanti alle scale, appoggiata contro il ruvido muro imbiancato. Alzò gli occhi, catturò il mio sguardo e lo mise al tappeto. Era tutto troppo prevedibile. Ma poi, mentre le passavo accanto, con lo sguardo fisso sul pavimento davanti ai miei piedi, sentii che i suoi piccoli piedi si muovevano. Un istante dopo stavo cadendo, ma lei si era già mossa e mi aveva preso prima che toccassi terra. Lei era più bassa di me – più piccola di quasi due spanne – ma abbastanza forte da reggere il mio peso e rimettermi in piedi. Le sue braccia mi circondavano, lei mi sorreggeva circondandomi la spalla destra, e mi sostenne per qualche secondo più del necessario. O era solo quel che fantasticavo? Si profondeva in scuse per avermi fatto inciampare. Mi sono scivolate le gambe, diceva. (Viaggi, 34)

Irfan babu si precipita per le scale, ma lei lo richiama, lo raggiunge, gli si stringe, senza tener conto della sua resistenza, anche quando lui vorrebbe scappare:

Stando nell’oscurità sbilenca della sua porta, si spinse più forte contro di me. Diventai più audace e misi la mano a cingere il suo seno. Fu allora che sentii che mi scioglieva i lacci del pyjama. Era un’azione inattesa. Era troppo: andava oltre i confini di quel che mi ero concesso di immaginare. Portò l’eco delle voci dei miei genitori. Portò un’immagine che avevo colto dal tetto e che non avevo mai capito: il vecchio guidatore del risciò che una sera lasciava la camera di lei, guardandosi intorno come se avesse rubato qualcosa.
Cercai di respingere la sua mano con la sinistra, mentre la mia destra continuava a circondare il suo bel seno. Ma lei rise, un riso breve, di scherno, considerandolo un gioco della reticenza iniziale di un ragazzo, e fermandomi facilmente il braccio che faceva ostacolo con una mano, mi slacciò il pyjama e cominciò ad accarezzarmi il pene. Il suo tocco era allo stesso tempo rozzo e delicato, era incredibilmente piacevole e terribilmente esperto. Il suo odore era concreto come il suo tocco. Sei pronto, disse un po' sorpresa. (Viaggi, 34)

La signora dell'incontro guida il giovane signore, e i confini delle vesti, dei nomi, degli appartamenti diversi, seguendo l'odore sono attraversati, perché ogni confine si può attraversare, per visitare ogni terra, ogni cultura. La percezione della differenza è nel libro unheimlich e heimlich (vedi Sigmund Freud [1919], Il perturbante, OSF 9, pp. 81-110).

Aprirsi alla diversità dell'altro significa fare esperienza della propria intima diversità da se stessi. Je est un autre (I is another), con Rimbaud. Se si trattasse solo di un'estensione, avventurosa e incerta, dell'io verso l'altro, sarebbe un'altra esperienza di colonizzazione, esaurite le terre da esplorare: la colonizzazione della realtà psichica. Forse la psicoanalisi ha avuto i suoi maggiori successi perché è sembrata un'estrema avventura coloniale, per piantare la bandiera qua e là nell'inconscio. Ma dall'intimità di sé è l'altro che immediatamente si affaccia, come una presenza unheimlich emerge dalla parte più heimlich della casa. Quando credo di prendere possesso dell'altro, è l'altro a prendere possesso di me: un autre suis moi, io sono un altro. Essere io e altro fa dissolvere ogni colonizzazione, svelandone il carattere illusorio, l’infantile umanissimo gioco delle parti.

Chi varca davvero il confine, come più volte accade in questo libro, diventa cittadino di ogni luogo. O di nessun luogo? Sicuramente si trova più incerto di come immaginava di essere, incapace di puntare il dito contro l'altro senza ritirarlo dopo un istante, vergognandosi. L'altro è tale per mille e una ragione: la lingua diversa, il colore della pelle, l'identità di genere, l'età, un diverso grado di equilibrio mentale e affettivo. Ma restando aperti di fronte all’altro, lui, sentendo e lasciando che ci senta, preparati a fronteggiare una scioccante diversità aliena, scopriamo una scioccante somiglianza. Non la diversità è unheimlich, ma la somiglianza che sta al suo fondo, perché rende insensati i muri e i fili spinati che delimitano la nostra vita.
Basterebbero i nostri sogni notturni ad avvertirci della nostra intima non identità, ma preferiamo non tenerne conto, e sostenere la nostra illusoria identità proiettando la diversità indesiderata - ma anche quella desiderata - sull'altro, dal quale dobbiamo e vogliamo essere separati, da asservire - al quale asservirsi - affermando che una delle nostre culture è inferiore o superiore, più sana o più malata.

L'autore è la voce narrante, è il bus Gaya-Phansa, il suo guidatore sikh, il bigliettaio, i passeggeri. E il paesaggio. Momenti di silenzio dove l'animale e la pianta possono occupare la scena, sospendendo il racconto delle storie degli uomini e delle donne di età, caste, culture diverse. Spesso una forma si presenta lirica al lettore, mentre i passeggeri non sembrano guardare dai finestrini:

Un largo fossato coperto di piante di castagni d’acqua, le foglie verdi coprono l’acqua giallastra. Un uccello, un padda, è immobile come una statua sul bordo dell’acqua, con la sua livrea striata di bruno come la terra che nasconde le penne bianche sottostanti e lo fa confondere con la terra, mentre aspetta, aspetta una rana che faccia anche un minimo errore. (Viaggi, 31)

Alla fine del libro non c'è soluzione, nè consolazione.
L'odore della donna per l'adolescente, fra tanti, ci resta accanto, come l'odore e il colore della morte nell'episodio della donna tribale che viaggiava col povero corpo del suo bambino. Come si era fermato fuori programma per far salire Zeenat, il bus si è fermato per seppellire di fretta il piccolo. Alla fine la voce narrante si chiede quale sia il destino dei passeggeri, una volta scesi dal bus, dopo la pagina bianca che chiude il romanzo.

E il bambino che era stato sepolto sul bordo della strada? Ha trovato la sua casa, là sotto la terra e le macerie? O una notte sarà stato dissepolto dalle volpi e dai cani sopravvissuti al monopolio dell’uomo? O sarà spazzato via dalla prossima piena, trascinato in un affluente del Gange e da lì nel Gange e da lì nella Baia del Bengala? Saranno le acque ancora sconfinate dell’oceano la sua casa?
Ci sono cose che non posso vedere nei libri. (Ancora case)

Se c’è una risposta, essa è nella domanda. La tensione verso un'identità più aperta, verso una casa mobile e stabile allo stesso tempo, come potente desiderio di comprendere, incontra uno scacco, indipendentemente da quanto il viaggio sia rigoroso, poetico, onesto. Non è forse lo scacco tanto più chiaro quanto più l'interrogazione è radicale?

Come psicoanalista alla fine interrogo il mio piacere di viaggiare in intimità con lo scrittore, il cui mestiere ha dei punti di contatto col mio, e ripenso al celebre invito di Freud a volgersi ai poeti per saperne di più sul continente nero del femminile, che può valere come luogo principe della alterità [Otherness] .

Se volete saperne di più sulla femminilità, interrogate la vostra esperienza, o rivolgetevi ai poeti, oppure attendete che la scienza possa darvi dei ragguagli meglio approfonditi e più coerenti. (Sigmund Freud (1932), Introduzione alla psicoanalisi. Seconda serie di lezioni, XXXIII, Femminilità; OSF 11, p. 241).

Non ha più senso per lo psicoanalista far diagnosi su uno scrittore basandosi sulla sua opera, anche se è capace di proporre una diagnosi sorprendentemente esatta. Né considerare il proprio lavoro come una paziente costruzione di storie - il paziente soffrirebbe per una storia che non sa raccontare – come una singolare forma di letteratura, allo stesso tempo antichissima e molto moderna, aiuta l’analista a procedere nella sua riflessione e a coltivare la psicoanalisi come teoria della mente.
Eppure, eppure...

Anche se le cose a volte le cose girano a modo loro, come ti avrebbe detto il maestro di tabla, ridendo e tossendo, tossendo e ridendo. A volte. (Ancora case)

Tossendo e ridendo, come il maestro di tabla, si può pensare che Freud incitasse noi analisti a interrogare i poeti perché come noi  sono ricercatori che non hanno altro che parole, come il funambolo ha solo il suo filo. Con la nuda parola si compone un canto in cui la gamba tesa di Zeenat è un gioiello erotico, o un requiem, che sottrae all’oblio il neonato sepolto di fretta. Requiem breve, fragile, ma più forte delle acque del Gange in piena.












NOTE

The Bus Stopped
, 2004; London: Picador Palgrave Macmillan 2005.
Il bus si è fermato, tr. it. Adalinda Gasparini. Roma: Nova Delfi 2010


Versione italiana di: Exceptionally Sensitive. Travelling within "The Bus Stopped" by Tabish Khair. © Tabish Khair: Critical Perspectives; Forthcoming 2011, New Delhi, India, O.P. A.N. Dwivedi.


I could smell Zeenat round the corner of the corridor. But then I was sixteen and exceptionally sensitive to the smell of women.
Women have different smells. I had always known that. The starched sari smell of my grandmother, the eau-de-cologne fragrance of my aunts, the talcum-and-attar scent of poorer relatives, the soap-and-sweat smell of the older ayahs: these are smells I had grown up with
Per la presente citazione, in italiano nel testo, e per tutte le seguenti, tradotte dall'inglese da Adalinda Gasparini, non si indica la pagina ma la parte del libro dal quale è tratta (Case, Viaggi, seguiti dal relativo numero, Ancora case) e si riporta in nota l'originale inglese.


Their smell would draw me out of myself, send my imagination racing towards something else, make me yearn for, what? change? adventure? the clasp of firm, callused, gentle arms? sex?
Sex was too small a word for it. And I was not hypocritical enough to call it Love (ibidem, pp. 26-27).


Because while their smell penetrated the high invisible walls between people like me and people like them, they themselves entered my world, could enter my world only on invisible work permits. They were like Turkish immigrants in my eighties Germany: they had another skin (though sometimes the same colour), they spoke another language, they came from another place, they would never be given the citizenship to the lifestyle that came to me as a birthright. In some ways, what entered my world was their abstract labour power - and the smell that came along with it was deeply subversive for it indicated the existence of something else. They had smuggled in their bodies (ibidem, p. 27).


I have found and lost, lost and found my houses too. I make my home on buses and aeroplanes, in hotels and rented apartments (ibidem, p. 198).


I would take her smell with me to bed. Though when she looked at me, I would fail to sustain the look. Her eyes would wrestle mine to the ground, and then her lips would curl with the shadow of a smile. And she would greet me in a voice of servile humility: Salaam-alai-kum, Irfan babu. Walai-kum-assalaam, Zeenat, I would utter back.
Peace was the last thing Zeenat could bestow on me (ibidem, p. 62).


They are now out in that overlooked part of the state, beyond the Dhoda stop, where tribals can be seen sometimes [...] Seen in their dark skins and their torn loincloths, their individual pride and their collective poverty. Why has the cure not worked with them? (ibidem, p. 74)


Nothing had happened except her slow and steady wrestling of my gaze to the floor, an act that took a second or two but felt like a lifetime and left me gasping for breath.
Her smell grew denser (pp. 107-108).


I turned the corner and saw her sitting on the floor at the other end of the corridor, just before the stairs, reclining against the whitewashed, peeling wall. She looked up, caught my eye and wrestled my gaze to the ground. It was all too predictable. But then as I was passing her, my gaze rooted to the ground around my feet, I sensed her feet move slightly. The next moment I was falling, but she had already moved and caught me before I hit the ground. She was smaller than I was - at least a foot shorter - but strong enough to bear my weight and lift me to my feet again. Her arms were round me, her rounded right shoulder supporting me, and she held on for a few seconds more than necessary. Or was it something I fancied? She apologized elaborately for tripping me. My leg slipped, she said (ibidem, p. 108).


Standing in the slanted darkness of her doorway, she pressed closer to me. I grew bolder and cupped her breast. It was then that I felt her pulling away at the strings of my pyjamas. The act was unexpected. It was too much: it went beyond the bounds of what I had allowed myself to imagine. It brought up echoes of my parents' voices. It brought up an image I had caught from the rooftop and never understood: the old rickshaw puller leaving her room one evening, looking around himself as if he had stolen  something.
I tried to pull her hand away with my left hand, the right one still cupped around a shapely breast. But she laughed, a short, dismissive laugh, considering it a game or a youth's initial reticence, and easily pinning my obstructing arm with one hand, she pulled open my pyjamas and started fondling my penis. Her touch was rough and soft at the same time, it was incredibly lovely and frighteningly knowing. Her smell was as palpable as her touch. You are ready, she said with some surprise (pp. 109-110).
A broad ditch covered with water-chestnut plants, their green leaves blanketing the yellowish water. A paddy bird standing still like a statue at the water's edge, its streaked earthy-brown mantle concealing the white feathers underneath and making it merge with the earth, waiting, waiting: for a frog to make the slightest mistake (ibidem, p. 101).


A broad ditch covered with water-chestnut plants, their green leaves blanketing the yellowish water. A paddy bird standing still like a statue at the water’s edge, its streaked earthy-brown mantle concealing the white feathers underneath and making it merge with the earth, waiting, waiting: for a frog to make the slightest mistake (ibid., p. 101).


And what about the child who was buried by the roadside? Did he find his home there, under earth and rubble? or will he be dug up one noght by the foxes and dogs that have survived the monopoly of man? Will he be swept away during the next flood, washed into a tributary of the Ganges and from there int othe Ganges and from there into the Bay of Bengal? Will the yet-unwalled waters of the ocean be his home?
There are things I cannot see in books (pp. 197-198).


Though sometimes things do take a turn, as the tabla master would have told you, laughing and coughing, coughing and laughing. Sometimes they do (ibidem, p. 199).




Vedi anche, in questo sito, i seguenti saggi di AG dedicati a Tabish Khair:

Straordinariamente sensibile. Viaggiando con Il bus si è fermato di Tabish Khair (2013)
Exceptionally Sensitive. Travelling within The Bus Stopped by Tabish Khair (2013)
 
Vedi le traduzioni di AG dei romanzi di Tabish Khair:

Il bus si è fermato (2010) (traduzione di The Bus Stopped, 2004)

Jihadi Jane. Da Londra alla Siria. Storia di una foreign fighter (2018) (traduzione di Jihadi Jane, 2016)

La notte della felicità, Tunuè, 2020; traduzione di Night of Happiness. Pan Macmillan India, 2018.
Per leggere un estratto da  questo romanzo: Tabish Khair’s unsettling new novel asks what secrets Ahmed is keeping from his boss Anil Mehrotra.

Penultima revisione 7 novembre 2018
Ultima revisione 8 ottobre 2022