BHOOLBHOOLAIYA.
A MOVING LABYRINTH. THE BUS STOPPED BY TABISH
KHAIR Versione italiana inedita |
BHOOLBHOOLAIYA, UN
LABIRINTO MOBILE IL BUS SI È FERMATO DI TABISH KHAIR |
In: Tabish Khair. Critical Perspectives. Edited by Cristina M. Gámez-Fernández and Om Prakash Dwivedi New Castle: Cambridge Scholars Publishing 2014 |
Stories can knit the
world together;
stories can blow the world apart: the choice is always ours. (Tabish Khair, corrispondenza privata) (Le storie possono unire il mondo col loro intreccio; le storie possono fare a pezzi il mondo: la scelta è sempre la nostra.) ABSTRACT
Il bus si è fermato di Tabish Khair può essere letto come un canto corale di dolore, nelle Case che si trovano all'inizio e alla fine del libro e nei sessantanove capitoli di viaggio fra Gaya a Phansa. Narrato dall'Autore in prima e in seconda persona, in terza persona secondo il punto di vista di quattro personaggi, e dalle voci narranti di altri due viaggiatori, il romanzo è un labirinto mobile, nel quale il lettore può perdersi se cerca di individuare una struttura definita. L'unità del romanzo è data dal suo movimento costante e multidirezionale, che accoglie la trasformazione incessante di paesaggi, tradizioni, persone. La fermata che forse dà il titolo al libro è una sosta imprevista del bus, quando si scopre che la donna tribale salita a bordo con il suo bambino di pochi mesi ha fra le braccia un piccolo cadavere. Confrontati loro malgrado con questa morte struggente e col dolore straziante della madre, silenziosa e scura come una notte amavas, senza luna, tutti i personaggi si fermano, e la parola stessa dello scrittore sfiora il proprio limite, il silenzio della vita che dà e prende, per vie misteriose, forse senza senso. La forza della scrittura angloindiana di Tabish Khair, spesso lirica, sempre densa, si alza a evocare il dolore senza confini, la pena che graffia l'anima, che i miti consumistici del nostro tempo tentano di coprire con le merci. La letteratura, la vera letteratura, rievoca una cura di parole, qualcosa che può accadere fra narratore e ascoltatore, fra scrittore e lettore, come fra psicoanalista e paziente. Lo psicoanalista, come ogni lettore, può accogliere la proposta di questo romanzo e riflettere, entrando col proprio filo d'Arianna in questo labirinto semovente e commovente. INDICE 1. Un romanzo economico 2. Responsabilità del narratore 3. Sentire tutto 4. Vedere tutto 5. Amavas 6. Acque sconfinate 7. Una cura della Vita 1. UN ROMANZO ECONOMICO Ho la casa dei miei ricordi,
quella casa, diciamo, di sessantanove stanze. Dalle
finestre di queste stanze messe a soqquadro ho visto
per la prima volta il mondo che ho cercato di
mostrarti, quelle stanze che sono tutte buttate
all'aria - come in una bhoolbhoolaiya, come in una
casa cresciuta e demolita negli anni, come in uno di
quegli stati mentali (sognando, rimemorando o
meditando) in cui mancano le cuciture e le cose
scorrono avanti e indietro. Le mie case - fragili,
confuse, mostruose - non le hanno tenute dentro né
Ammi kè ayan né Ghar, anche se ho sempre portato il
loro fardello. (Tabish Khair, Il bus si è fermato,
p. 171; nota 1)
Lavorare come psicoanalisti da trent'anni, a Firenze o altrove, significa ascoltare anche se stessi in relazione ai propri pazienti. Se poi l'analista, come me, studia miti, fiabe, strutture narrative, da un tempo anche più lungo, senza mai arrivare a una conclusione, a una teoria soddisfacente, può pensare di aver trovato un suo simile nell'autore di un libro come "Il bus si è fermato", fra alcune Case, di diversa consistenza, e sessantanove Viaggi. Altri romanzi angloindiani [nota 2] possono essere per lo psicoanalista appassionato di strutture narrative una particolare vicenda di questo ascolto e di questo studio, per una precisa ragione: sono al di là del travaglio, dell'agonia, delle esequie frettolose o pietose del soggetto dominante e colonizzatore che nella sua versione occidentale ha raggiunto vertici eccelsi e tragici. In certi romanzi di Salman Rushdie, di Vikram Chandra e di Tabish Khair, peraltro molto diversi fra loro, non si raccontano come nuove vecchie storie di colonizzati né di colonizzatori, non vi si trovano conferme né sovvertimenti nell'attribuzione di superiorità o inferiorità culturali, etiche, religiose. Per questo fra le loro pagine nulla e nessuno appare inumano, alla fine nessuno è condannato ad assumere il ruolo del capro espiatorio, grazie al quale il lettore può alleggerire la sua coscienza. Nemmeno il colonizzatore, il terrorista, il criminale o il fondamentalista subiscono questa condanna. Non penso che Freud abbia avuto alcuna influenza diretta su questi scrittori, che però si muovono nella stessa direzione che innerva la psicoanalisi, anche se oggi la sua tenuta appare un po' indebolita: un decentramento dell'Io che non è un rattrappimento del soggetto, e una distanza dalla propria cultura, che appare così come mito fra altri miti, che non è un rigetto, ma uno spazio che può accogliere una trasformazione imprevista. Questi autori angloindiani non offrono la lezione di una cultura millenaria e di un popolo che gli europei per un certo tempo hanno colonizzato, ma un dono: l'invito a riconoscersi nello stesso travaglio, nella stessa pena. La pena nella costruzione e nella tenuta della nostra identità, sia orientale, sia occidentale, è tanto forte che mentre tutto ci costringerebbe a riconoscere le reciproche somiglianze, si cerca riparo in movimenti regressivi. In tutto il mondo ricompaiono con la minacciosa consistenza dei morti viventi tutti i vecchi fondamentalismi, come se la lezione della storia, quella del secolo passato in particolare, fosse da cancellare. Non è facile riconoscere che certi esiti tragici, personali e collettivi, non rappresentano un'anomalia, o una malattia dell'identità, ma il suo comune modo di costruirsi: ogni cultura dominante, a qualunque titolo, consiste nell'opposizione ad altre culture, da dominare, e perdura nella loro distruzione, per sterminio o conversione. Uno psicoanalista italiano, Franco Fornari, considerava la sfida del nostro tempo in maniera analoga alla sfida che ogni persona affronta in analisi, costretta da un sintomo, da un particolare disagio, a scegliere una via di riflessione costante e dolorosa, dove le cose e le case si scuciono e si spostano avanti e indietro, cambiano consistenza, scompaiono e tornano, fra ricordi, sogni, sintomi e miti. Dalla guerra fredda potevamo e dovevamo imparare che per la prima volta nella storia la distruzione del nemico sarebbe stata la nostra stessa distruzione. Il quadro di questi anni non è meno chiaro: il modello di sviluppo dei paesi ricchi non può essere realizzato a spese degli altri paesi senza danni irreversibili per tutti. In analisi il soggetto non attraversa il suo muro di sofferenza senza nome se non destituisce il paradigma di costruzione dell'identità dominante, basato sul potere e sul rispetto della gerarchia: mors tua, vita mea / vita tua mors mea. La grandezza di una civiltà è la bassezza della civiltà nemica, la stabilità identitaria dell'uno poggia sulla debolezza dell'altro. Franco Fornari non vedeva altra via d'uscita che un rovesciamento del paradigma: mors tua, mors mea / vita tua vita mea. In questo modo il Vangelo, la buona novella, non annuncerebbe un voto etico, ma una necessità, un dato di fatto inconfutabile. La convenienza, il vantaggio libidico teorizzato da Freud, si salderebbe con l'appello dei Vangeli, che è del resto comune a quello di tante religioni: il riconoscimento dell'altro, il rispetto della sua vita come della propria, in nome di una fraternità che urge riconoscere. L'economia e l'etica si congiungerebbero. L'etimologia di queste parole tornerebbe a brillare: etica dal greco ethos, carattere, ed economia da oikos, casa, e nomos, legge, regole della casa, della casa che abitiamo, che oggi è il mondo, senza esclusione di una sola delle sue parti. Etico sarebbe il modo che scegliamo per prenderci cura della nostra economia, della casa comune. I padri greci hanno dato forma alla nostra civiltà, ma non dobbiamo dimenticare che la loro democrazia valeva per gli uomini liberi che partecipavano all'assemblea, e non poteva riguardare né gli schiavi né le donne di Atene. La loro cultura prosperava nell'orgoglio della lingua greca, che implicava la qualifica di barbari, balbuzienti, ai popoli che parlavano una lingua diversa. In questo senso particolare "Il bus si è fermato", con le sue case e i suoi viaggi, è un romanzo economico, sull'economie della casa comune, la casa dalla quale ci si allontana e alla quale ci si avvicina con sessantanove capitoli di viaggio. L'Autore è stato definito un miniaturista, e "Il bus si è fermato" sarebbe come un mosaico di figure e vicende dell'India. Queste definizioni sono come istantanee che si possono scattare a una prima lettura, mentre la sua complessa costruzione resta invisibile. Tabish Khair lascia le case delle origini Ammi kè ayan e Ghar, ma ne porta il fardello, con i materiali del passato che insegnano a diffidare delle novità presentate come troppo vantaggiose. Case antiche costruite con una malta di calce e terra: [U]na malta di calce e terra che,
come affermavano mio nonno e i vecchi capimastri che
sorvegliavano i lavori, era la miscela che i Moghul
avevano preferito per secoli, prima delle dure
certezze del cemento e del calcestruzzo. (Case, pp.
16-17)
Dure certezze che lo sguardo aperto all'altro dissolve, che si rivelano impotenti di fronte al dolore, alla dimensione tragica che dal cuore dell'uomo lo interroga. Lo sguardo dell'autista Mangal Singh nella parte 21 si posa su un grande Sita Ashok dietro a capanne sbilenche di fango e mattoni: Fa caso a questo albero in ogni
viaggio. Si diceva che se bevevi l’acqua nella quale
sono stati a bagno i suoi delicati fiori profumati,
eri guarito della tua pena.
Quelli erano tempi in cui la pena doveva essere una capanna di fango, pensa Mangal Singh con un mezzo sorriso. Facilmente innalzata dalla terra, facilmente portata via dalla piena. Ora noi facciamo il nostro dolore di cemento e di calcestruzzo, di ferro e d'acciaio: abitiamo il suo spazio vuoto. (Viaggi, 21; p. 65) Non si tratta di un rimpianto per la tradizione perduta, ma del riconoscimento del valore di ciò che abbiamo perduto. Il riconoscimento dell'altro riguarda il diverso che troviamo vicino, troppo vicino a noi, su un bus, nel Bihar come a Firenze, ma anche il diverso del passato, il genitore che non riconosce il nostro modo di crescere, il figlio che rifiuta quel che vorremmo dargli, la storia che non sa insegnarci, il futuro che non riusciamo più a immaginare né a sognare. Un libro economico, che rinunciando a istituire un mito fondante, di una vecchia malta o di cemento, descrive i rapporti labirintici, come in una bhoolbhoolaiya un labirinto formato dal movimento dei diversi soggetti con i loro miti, e dei soggetti fra loro, incontri, scontri, indifferenza, passione, dolore. Ci sono identità che si illudono di essere stabili, come quella del bigliettaio Shankar, altre che cambiano da una religione all'altra, da una condizione sociale all'altra, da un genere all'altro, come quella di Parvati/Farhana. Tutte fanno parte del racconto, senza alcuna gerarchia tradizionale, compongono insieme un canto, erotico, grottesco, funebre, comico, tragico. Un canto che rinunciando alle certezze illusorie delle ideologie laiche o religiose risponde con fermezza etica ed economica all'indice puntato di chi cerca di ridurre i diversi al silenzio: Guarda, dicono quelli che credono
di avere case con solide radici, fermati, fermati,
gridano quando passiamo davanti alle loro vetrine e
ai loro giardini, guarda, guarda, guarda, esclamano,
perché dopo secoli di sradicamento gli homeless, les
marginaux, i contadini senza terra, gli zingari,
l'ebreo errante, i vagabondi, il lumpenproletariat,
dopo secoli in cui si sono messe a dimora le persone
come se fossero alberi, ci tengono ancora, e così
alzano l’indice e gridano, ladro assassino
clandestino immigrante. (Ancora case, p. 174)
Il Bihar di cui racconta Khair è come un oggetto topologico: la distanza fra Gaya e Phansa si dilata, diventa vasta come il mondo intero, come il tout-monde di Édouard Glissant, per il quale la letteratura è di per sé riflessione etica, e anche economia, come regole della casa comune: J’appelle tout-monde notre
univers tel qu’il change et perdure en énchangeant
et, en même temps, la “vision” que nous en avons. La
totalité-monde dans sa diversité physique et dans
les répresentations que elle nous inspire: que nous
ne saurions plus chanter, dire ni travailler à
souffrance à partir de notre seul lieu, sans plonger
à l’immaginaire de cette totalité [Nota 3].
2. RESPONSABILITÀ DEL NARRATORE Può osare la mia lingua, può
scegliere fra le opzioni? Può pretendere la mia
lingua di raccontare tutto di Amir Ali? O dovrei
lasciare che il soffio del vento urli nel cieco
candore di una nebbia marina dietro la quale posso
nascondere la mia scelta delle parole, e anche
questo, che le parole che ho scelto, e quelle che
potrei scegliere, non saranno mai abbastanza, mai
complete? (T. Khair, The Thing about Thugs, p. 244) [Nota 4]
L'Autore narra in prima persona, nelle Case all'inizio e alla fine, nelle storie di Wazir Mian, il grande cuoco di Ammi kè ayan e Ghar (4, 10, 14), e in quelle della serva dei vicini, Zeenat, alla quale il narratore adolescente deve la sua iniziazione erotica (6, 20, 34). Narra in seconda persona, rivolgendosi a un ascoltatore silenzioso nel condominio di Patna (8, 12, 28, 32), e nella parte finale. Narra in terza persona 30 episodi dei Viaggi, secondo lo sguardo e la sensibilità dell'autista Mangal Singh (tutte le parti che hanno un numero dispari da 1 a 59 compresi), del danese di padre indiano Rasmus (18, 30, 36, 56, 61, 63, 67) e del suo autista Hari (24 e 26), e secondo il giovane di Vilaspur (46, 50, 52, 58, 64, 66, 69). A questa molteplicità di punti di vista, che rischia di confondere anche il lettore più attento, anche seriamente interessato all'architettura di questo romanzo che è una bhoolbhoolaiya, un labirinto, Khair aggiunge altre due voci narranti: il bigliettaio Shankar e l'eunuco Parvati/Farhana. Il primo, bigliettaio del bus, e la seconda, un eunuco che ha scelto di presentarsi solo come donna, possono rappresentare due poli opposti del rapporto che il soggetto, attraverso il racconto, intrattiene con l'esperienza. Il bigliettaio e l'eunuco tengono diritta la barra del loro timone per tutto il libro, senza mai vacillare, ma mentre Farhana sa che basterebbe una raffica a rovesciare la sua imbarcazione, come un vecchio cliente della sua Gharana che la riconosce mentre sta salendo sul Bus. Il bigliettaio Shankar è certo della propria tenuta, perché è sicuro di essere nel giusto, aderendo senza la minima esitazione al senso comune. La forza del racconto dell'eunuco dipende dal fatto che ha attraversato tanti confini, fra religioni, caste, identità di genere, quella del bigliettaio, all'opposto, dal fatto che non ha nessuna intenzione di attraversare nessun confine, certo che la sua vita, a differenza di quella di chiunque cerchi di varcarli, sia proprio per questo degna di ogni benedizione. D'accord ocon l'autista Mangal Singh sottrae soldi al proprietario del bus, trattenendo una parte dell'incasso, ma si sente onesto perché non vorrebbe farlo, è solo che deve rimediare al fatto che, essendo il padrone un taccagno, lo stipendio è troppo basso. Racconta con orgoglio come resiste alle esortazioni dell'amorale autista Mangal Singh: Non sono avido come Mangal babu.
[...] Shankar, sei un dannato scemo se non cerchi di prendere più soldi dal mucchio del bastardo. Tutti gli altri bigliettai rubano di più ai pezzi di merda. Di che hai paura? Il tuo Hanuman, non ci farà caso. Ecco - ho girato il quadro dall'altra parte, ora non può vederti! Ecco che genere di persona è Mangal Singh: sboccato e senza un briciolo di pietà né di religione. (Viaggi, 44; p. 123) Sii equilibrato, contentati – è quello che predicano le scritture. Io leggo le scritture in Hindi. Io do ascolto ai discorsi dei santi uomini. Non spingerti troppo in là. Se perdi un treno, lascialo andare, non lo rincorrere. Questi sono i miei principi e mi hanno portato lontano: ho lavorato con i motori come aiuto meccanico e ce l'ho fatta a farmi una pukka di due stanze. Ho una famiglia. Ho persino un conto in banca e se le cose vanno bene, se Hanuman mi fa la grazia, fra un anno mi compro un pulmino e mi metto per conto mio. (Viaggi, 48; p. 130) Per raccontare è necessario assumere la responsabilità di descrivere la propria storia secondo un punto di vista, o perché, come il bigliettaio Shankar, lo si considera l'unico legittimo, tale che si pensa di avere una sicura presa sulla realtà, oppure perché si considera incerto e precario qualunque criterio, e se ne sceglie uno per sopravvivere, per non essere sommersi dall'urlo del vento nella nebbia tragica della realtà. L'eunuco decide di vivere come se fosse solo donna, Farhana, e lascia il suo nome maschile Parvati. Il lettore via via è portato a dimenticare che non è una donna, e ci sembra plausibile che non se ne accorga ill ricco e inesperto Vijay Mirchandani, che Farhana riuscirà a sedurre fino a farsi sposare. L'identità passata tramonta, resta solo quella presente: C’è stato un tempo in cui avrei
potuto essere custode delle chiavi dell’harem,
guardiano del più santo dei santuari del Medio
Oriente, danzatore, spia, studioso, generale a
Dehli. Ora non sono niente di tutto questo. Ma alla
fine sono qualcosa che per tanti è ancora più
difficile da raggiungere. Sono la moglie perfetta.
Non sono più Farhana Begum o Parvati. Sono Mrs Mirchandani. Non sarò sepolta da sconosciuti lungo una via. (Viaggi, 68; pp. 165-166) Quando il bus parte, il bigliettaio Shankar riconosce in una delle passeggere la facoltosa Mrs Mirchandani, e per renderle onore le fa sedere accanto le più educate e rispettabili fra le donne che sono a bordo. Nel posto adiacente al suo fa accomodare proprio Farhana, ed è quindi lui a darle modo di inventare una storia fatta apposta per catturare tutta la simpatia della signora, che alla fine la porterà a casa con sé. Il personaggio più sicuro della sua presa sulla realtà, e quello che più di tutti ne conosce la vaghezza, si trovano così vicinissimi uno all'altro. Sono voci narranti perché scelgono la loro prospettiva, ma solo lo scrittore porta sulla pagina la loro storia. Gli altri personaggi non sono narratori in prima persona, ma Shankar e Farhana, come vuole essere chiamata, raccontano una storia che diventa romanzo perché qualcuno presta loro le parole. Hanno bisogno di qualcuno che sia assolutamente certo della forza delle parole, e allo stesso tempo altrettanto certo della loro inconsistenza, qualcuno che le ami senza riserve, pur sapendo che questo amore potrebbe non essere corrisposto, un amante senza speranza e che proprio per questo non può fare a meno di parlare, di chiamare, di cantare. Lo scrittore li accoglie nella sua casa di sessantanove stanze, che si muovono molto più del bus. C'è in Tabish Khair in grado massimo la consapevolezza che attraversa tutta l'opera di Proust, per il quale [l]e devoir et la tâche d'un écrivain sont ceux d'un traducteur: [i]l dovere e il compito d'uno scrittore sono quelli di un traduttore. [Nota 5] Questo significa che lo scrittore non costruisce col romanzo una casa dove sentirsi al sicuro, né distrugge le case del passato o le case costruite secondo criteri lontani dai suoi, sia quella agiata delle due signore Mirchandani, sia la semi-pucca di due stanze del bigliettaio. Né scambia il suo smarrimento, lo smarrimento di fronte alla dissoluzione di tutte le certezze del passato e il ritorno dei fanatismi più ciechi, con la fine del mondo: il racconto, il romanzo, non ha bisogno di garanzie esterne, non si regge sull'autorità superiore di una religione o di un'ideologia, né sulla lotta rivoluzionaria contro di loro. Le parole gli bastano per esistere. Gli scrittori angloindiani realizzano nella narrativa quella espressione della più intima relazione fra le lingue che Walter Benjamin considerava come compito del traduttore: Tutte le manifestazioni
finalistiche della vita, come la loro finalità in
generale, non tendono in definitiva alla vita, ma
all'espressione della sua essenza, all'esposizione
del suo significato. Così la traduzione tende in
definitiva all'espressione del rapporto più intimo
delle lingue fra loro. (Walter Benjamin, Il compito del
traduttore; p. 40)
Essere traduttori è meno e più che essere autori, certo permette di non indossare una maschera, come l'eunuco Farhana, e di non imprigionarsi come il bigliettaio Shankar in una visione ristretta, la cui stabilità dipende dall'esclusione degli altri, dei diversi. Per quanto la verità sia impossibile da afferrare, per quanto la pagina bianca alla fine del libro segnali la fine, il limite del dire, come la morte rispetto a una particolare esistenza, il racconto ha, come le parole, una forza sua, che non deve nulla alle concezioni del mondo e alle ideologie che vogliono dominarlo. A chi non ha reagito all'indice puntato puntando l'indice a sua volta, a chi non può sottrarsi al fascino che ogni lingua, come ogni esistenza, anche la più diversa dalla nostra, esercita, resta sempre il mondo delle parole, il cui regno è la poesia, la fiaba, il romanzo. 3. SENTIRE TUTTO In un appartamento nella città di Patna un ascoltatore dall'udito finissimo ha costruito un mappa dei condòmini, delle loro ricchezze e delle loro difficoltà economiche, di come si sentono giustamente appartenenti a una classe sociale superiore, certi che chi non riesce a migliorare la sua condizione sia pigro o privo di quelle qualità che solo certe origini conferiscono alle persone. Le persone compongono una comunità, il privilegio delle une risalta grazie alle mancanze delle altre, e se queste differenze non hanno una giustificazione trascendente, come le antiche caste, non per questo permettono di vedere l'altro nel suo particolare dramma umano, né la sua particolare ricchezza. Come in una recita a soggetto o in un sociodramma, tutto sembra ripetersi senza scosse, gli attacchi di angina dell'oscuro impiegato del piano superiore, il ronzio dei condizionatori, rumoroso se sono vecchi, lievissimo se sono i giapponesi di nuova generazione, lo sfrigolio delle cipolle nel ghee bollente, i richiami di Mrs Prasad a Chottu, che ascolta di malavoglia i rimproveri quotidiani senza saper replicare, solo tardando ogni sera sull'orario concordato per il rientro. L'ascoltatore di Patna riconosce quel che si ripete ogni giorno, ogni mese, ogni anno, ci lascia vedere la pena dell'oscuro impiegato Mr Sharma che sale lentamente le scale e via via sosta per riprendere fiato, perché soffre di angina, come del timore di non poter permettere alle tre figlie un buon matrimonio. La divisione in caste aveva una giustificazione trascendente, la diversità di condizione economica e sociale è presentata come una condizione mobile, e ognuno, istruendosi e lavorando, ha la possibilità di migliorare la sua vita, quasi senza limiti. Ma le barriere invisibili non sono meno difficili da superare di quelle visibili. La lezione di Mrs Prasad al ragazzo che è al suo servizio è vera solo dal suo punto di vista, perché Chottu, il suo giovanissimo servitore, vede troppi elementi che gliela fanno apparire come una mistificazione. L'ascoltatore di Patna non ignora l'ingiustizia, ma riconosce che la realtà è quella che è, non si può pretendere che cambi, resta in silenzio, non interviene mai, continua ad ascoltare e a capire le esigenze di tutti, senza prendere posizione. Ricorda la sostanziale passività di molti intellettuali, che isolano la realtà con acute osservazioni e un punto di vista mobile, agile, tale però da sollevarli da ogni responsabilità rispetto alla dimensione tragica che è nella vita di tutti, sempre pronta a manifestarsi con la sua potenza devastante. [Chottu] Non è più il bambino
piccolo e timido, vestito col ganji e i pantaloni
corti, col moccio che gli gocciola da una narice fra
un singhiozzo e l’altro. Si veste il più possibile
alla moda e si porta sempre un pettine dietro. Ha
una collezione di occhiali da sole economici, più
che altro di plastica, che Mrs Prasad gli fa sempre
togliere. La sua voce ha cominciato a cambiare.
(Khair, Il bus si è fermato, Viaggi, 28; p.
81)
Chottu è una delle persone messe a dimora ... come se fossero alberi (cit.), arrivato da bambino dal suo villaggio rurale nella casa di Mrs Prasad, che vive sola, fiera dei suoi figli che hanno avuto successo e vivono lontano, dai quali riceve ricchi doni che preferisce non usare, come la televisione a colori che lascia da parte per guardare il suo vecchio apparecchio in bianco e nero. L'ascoltatore di Patna sa che Chottu ha subito un'ingiustizia che non trova riparazione nell'offerta di istruzione di Mrs Prasad, sa che l'oscuro impiegato che ha un cappotto logoro e va comprare le verdure all'ora di chiusura, quando costano meno, soffre di un'angina che gli fa salire lentamente le scale, e che la moglie e le tre figlie, che non hanno mai un moto di ribellione, non riusciranno a liberarsi del senso di inadeguatezza e di miseria che assedia le loro vite. Ascoltando comprende che la fine delle caste giustificate da riferimenti trascendenti non è la fine delle barriere sociali. Ci mostra come la promessa di felicità del mito consumistico sia un imbroglio, come l'ingiustizia cambi veste ma non riduca la sua massiccia presenza, nel condominio di Patna come sul bus, come in ogni parte del mondo, ma sembra che gli basti ascoltare, forse perché pensa che non esista altro che il teatro che ascolta mentre siede di fronte alla televisione senza sonoro. Ci sono molti modi di evitare la dimensione tragica che ci può assalire e devastare in qualunque momento, da dentro e da fuori. L'ascoltatore di Patna è sensibilissimo e raffinato, coglie la verità e il bisogno nelle vite di tutti gli altri condomini, li comprende, e rivolge la sua attenzione e la sua simpatia umana a ciascuno di loro. Comprende l'agitazione di Chottu, e potremmo capire con lui che non ha vie d'uscita, non adottando la remissività della famiglia dell'oscuro impiegato, né avendo la speranza di essere felice studiando e lavorando senza sosta: Ha l’esempio di giovani, uomini e
donne, come la figlia maggiore degli Sharma, che
hanno messo tanto impegno nello studio per accedere
a un futuro di dubbi su se stessi, frustrazioni e
fallimenti. Conosce tutti i maestri e i professori
del vicinato, e ha scoperto che quelli che hanno
soldi li hanno perché dispongono di risorse
economiche diverse da quelle procurate loro dalla
laurea. Dubita che i figli di Mrs Prasad abbiano
fatto i soldi in modo proprio lineare. Ha visto film
hindi. Sa tutto sui soldi facili, anche se non ne ha
mai avuti. (Viaggi,
pp. 81-82)
Quando scrive in seconda persona Khair parla a ogni lettore, soprattutto se che crede di aver sentito tutto, se esaurisce il suo impegno nei confronti degli altri nell'ascoltare, nel rendersi conto, interessandosi anche sinceramente alle vite degli altri. Pensare di aver sentito tutto significa costruire una mappa della realtà che isola dalla sua dimensione tragica, per poter restare seduti in poltrona e addormentarsi ogni sera, rassicurati dalla regolare ripetizione di voci e rumori noti, di cui si conoscono il senso e il contesto. È un sonno pieno di suoni. La
voce di tuo padre che attraversa dieci anni e tre
stati, i suoni del tuo passato e del tuo presente,
la tua realtà e la tua immaginazione, tutti
mescolati con letti scricchiolanti, passi, latrati
dei cani, suoni di camion, tic-tic-tic del
rubinetto. Non smetti mai di ascoltare, anche se hai
l’impressione di averli ascoltati tutti. Una volta
ti svegli con l’impressione di aver sentito delle
voci intorno a te, voci basse che complottano, forse
hai sentito anche un breve grido; sei disteso nel
tuo letto ad ascoltare e ti riaddormenti senza aver
capito bene. (Viaggi,
29, pp. 87-88)
Credi di aver sentito tutto, ma
non è così. Non hai sentito il silenzio
nell’appartamento di Mrs Prasad. (Viaggi, 32, p.
95)
Nell'appartamento c'è solo il corpo della signora Prasad. Chottu ha fatto entrare dei giovani per rubare, certo non prevedendo che avrebbero ucciso la sua padrona, forse è fuggito senza nemmeno sapere che è morta, e sale sul bus Gaya-Phansa con un lussuoso sari Banarasi che attrae i sospetti dei viaggiatori più attenti. L'ascoltatore di Patna, e noi con lui, abbiamo un'occasione per smettere di illuderci di aver sentito tutto. Tabish Khair ci mostra, come ci dice rivolgendosi ancora a noi in seconda persona, le sessantanove stanze della sua casa, che rappresentano forme diverse di narrazione, di ascolto, di sguardo. Per quanto si ascolti attentamente, per quanto ci si interessi a quel che accade intorno a noi, proprio quando si pensa di aver sentito tutto, la dimensione tragica fa incursione e devasta l'orticello di certezze al quale abbiamo dedicato tutte le nostre cure. Forse solo il romanzo, il vero romanzo, può esprimere lo sforzo di contenere la tragicità della nostra esistenza, per poter vivere, e il fallimento di questo sforzo proprio nel momento in cui sembra che la meta sia finalmente raggiunta. La seconda persona torna nelle ultime pagine del libro, forse è lo stesso ascoltatore di Patna a prendere la parola, forse siamo noi, lettori anche attentissimi, che, avendo compreso che non eravamo riusciti a sentire tutto, chiediamo avidamente come è andata a finire quella storia: E Chottu? È arrivato a casa con
lo scintillante sari Banarasi, il sari che era il
suo compenso, più qualche rupia, per far entrare gli
assassini? Conosceva il destino di Mrs Prasad? Gli
importava di quel che le succedeva in casa sua, in
quell’appartamento ricolmo dei simboli inutilizzati
dell’assenza dei suoi bambini, aggeggi che lei
trovava tanto irritanti e che Chottu poteva soltanto
agognare?
[...] Ci sono cose che non posso vedere nei libri. (Ancora case, pp. 172-173) Ci sono ancora acque sconfinate, e pozzi che non sappiamo scandagliare. Come psicoanalista lavoro su queste acque, osservando le cose che affiorano, le cose dell'altro. Il desiderio della vita può emergere da noi quando siamo perduti nel nostro labirinto, come il desiderio di ridere emergerà nello spilungone di Vilaspur. 4. VEDERE TUTTO Uno stormo di colombe si leva in
volo lentamente dalla strada per far passare il suo
bus. Le vede tornare a posarsi nello stesso punto,
zampettando sulla strada, cancellando il suo
passaggio.
Per un istante, gli viene in
mente l’immagine di Sunita: Sunita da giovane,
quando aveva occhi che sorridevano a lui e labbra
che sorridevano al mondo. Tutto quello stormo di
felicità era volato via dal suo viso e dai suoi
occhi dopo il matrimonio – o forse era stato prima
del matrimonio, quando lo aveva deciso, perché
poteva dire di no – uno stormo tanto grande che non
era tornato mai più. Mai più. (Viaggi, 7, p.
35)
L'autista Mangal Singh impreca contro il grasso bastardo proprietario del bus e suo datore di lavoro, e rievoca l'immagine di Sunita, ora sua moglie, quando c'era fra loro una specie d'amore. Soffre di rimpianti e di rancore, e vive come un dato di fatto che la sua mente funzioni come un negativo fotografico. Lavorando per il grasso bastardo che ha sposato la sua amata, ricorda ogni giorno il suo fallimento, e le barre gialle con una sottile linea marrone e la punta rossa che delimitano la sua cabina di guidatore gli sembrano una caricatura dello scrittore che da giovane aveva immaginato di poter diventare. Come all'ascoltatore di Patna, a Mangal SIngh non fa difetto la sensibilità. Impressionabile come un negativo fotografico, sensibile come un diapason, l'autista vibra per il colore dei campi, per un uomo sconfitto e dignitoso seduto nel bus, e coglie la verità tragica più di ogni altro personaggio. In qualche modo si oppone alla sua stessa sensibilità: perché deve ricordare tanto Sunita, che in fondo non gli ha dato nulla, e che lo saluta ormai senza vederlo? Le borse attaccate al manubrio di una bicicletta per via: Gli fanno venire in mente il
maalik, il marito della sua seconda cugina, Sunita,
che un tempo aveva sperato di sposare lui, tanto
tempo fa, tanto tanto tempo fa, gli fanno venire in
mente il maalik e le sue borse gravide e ride forte,
ride tanto forte che gli vengono le lacrime agli
occhi, e i passeggeri più vicini a lui lo guardano
sorpresi. Per tranquillizzarli si schiarisce la
gola, appallotta il muco in gola e, sporgendosi dal
finestrino, lo espelle con tanta forza che lo manda
dall'altra parte della strada, dove cade nella
polvere, sfrigola per un istante e si dissolve in
un'umida macchia. (Viaggi,
11; p. 45)
Marcel Proust scrive che l'etica di un artista può e talora deve essere radicalmente diversa da quella di un uomo comune, che la troverà incomprensibile, perché deve in qualche modo lasciare gli ormeggi che lo tengono ancorato a identità certe. Lo scrittore è sempre un migrant, anche se non si è mai spostato dal suo paese natale, è un fuoricasta, anche se appare ben inserito in un ambiente particolare. È, soprattutto, un po' fuori di sé, cura quel decentramento dell'Io che Freud auspicava come esito del lavoro analitico, che porta alla consapevolezza di non essere padroni in casa propria. Ma anche alla consapevolezza che la sua casa non ha avuto padroni se non quelli ai quali ha affidato le chiavi. Il maalik padrone del bus ha imprigionato Sunita nella sua casa agiata e Mangal Singh si muove intorno a lei come un personaggio di fiaba che avendo scorto Prezzemolina alla finestra non fa altro che restare in attesa di scorgerla, pieno di rabbia per il mago che la tiene prigioniera. La fiaba di Mangal Singh si è inceppata nell'impotenza di fronte al suo sogno irrealizzato, nell'ingiustizia che subisce dal suo rivale padrone, un padre edipico che non sa affrontare né abbandonare. Al suo sguardo, più attento e acuto di quello degli altri, intenso come l'udito dell'ascoltatore di Patna, Mangal Singh non ha fornito una protezione, e il buon senso comune, personificato dal bigliettaio Shankar che viaggia con lui, lo aggredisce con un effetto paralizzante. Improvvisamente dal nulla su un
muro diroccato lo scarabocchiato graffiti in
Devanagari: Proust Padho!
Leggi Proust. Che cazzo è, si domanda, questo
Proust? (Viaggi,
25, p. 76)
Se ascoltasse l'esortazione in devanagari, Mangal Singh potrebbe conoscere Proust, che ha raccontato come si possa sciogliere la propria sensibilità particolare dal senso comune, non come in una rivolta, non grazie a un'ideologia, né fornendo una soluzione. Si tratta solo di snodarla, per sperimentare come il varco aperto dalla sospensione di ogni certezza rassicurante possa lasciar passare, come l'imprevedibile comparsa di un aiutante magico nelle fiabe, un ricordo che tiene e si racconta, libero dai vincoli che sostengono la costruzione consensuale della propria identità. Uno stormo di colombe si alza in volo dalla strada, vicino al Karbala-Kund, e gli ricorda lo sguardo di Sunita quando i suoi occhi gli sorridevano, un volo ora scomparso, che non tornerà più. Non ci sono le condizioni per una ricerca, e la sensibilità si ubriaca di rancore: Quello che lo irrita – anche se
non se ne rende conto del tutto – non è la sua
incapacità di far tornare il passato nel presente,
ma la capacità che ha lei di cancellare il proprio
passato dal presente. Sente che qualcosa è stato
ucciso, qualcosa di indifeso, come un neonato. Ma
non sa cosa. E allora pensa in termini normali –
pensa a cosa non ha fatto Sunita per lui, e a cosa
altre donne e uomini hanno fatto per lui. Così però
gli sale una rabbia rancorosa contro se stesso e
scende per discutere con Shankar. (Viaggi, 43; p.
119)
Il senso comune che Shankar rappresenta è ancora abbastanza forte da impedire a Mangal Singh di proteggere la sua sensibilità, ma non tanto forte da appannarla e rimuoverla: è qualcosa che subisce, che lo impressiona. I passaggi lirici del libro scaturiscono dal racconto in terza persona secondo lo sguardo del guidatore. La vista è il senso principe nello stabilire un dominio sulla realtà, nel decidere quale sia la giusta prospettiva da adottare, ma la ricettività lirica di Mangal Singh rompe questo il dominio, e si posa in lui, e in noi, un'immagine come questa: Un largo fossato coperto di
piante di castagni d’acqua, le foglie verdi coprono
l’acqua giallastra. Un uccello, un padda, è immobile
come una statua sul bordo dell’acqua, con la sua
livrea striata di bruno come la terra che nasconde
le penne bianche sottostanti e lo fa confondere con
la terra, mentre aspetta, aspetta una rana che
faccia anche un minimo errore. (Viaggi, 31; p.
94)
Mangal Singh non capisce che una delle colombe dello sguardo di Sunita, del suo sguardo su Sunita, ha posato questa immagine davanti ai suoi occhi, non si accorge del suo ritorno, e rimpiangendo il tempo perduto la stessa immagine diventa solo un elemento della sua collezione: Vede la vita in piccole immagini
ferme, quasi raggelate, e non sa assolutamente quale
immagine – fondamentale o insignificante – gli
inciderà nella memoria un momento particolare, un
giorno o un viaggio. C'è chi colleziona
francobolli, bottiglie o monete; lui colleziona
immagini, si deve collezionare qualcosa così privo
di valore come le immagini, no? [...] Non che lui
scelga le immagini consciamente, è semplicemente il
modo in cui la sua mente ordina i giorni della sua
vita, scuciti e ancora slegati. (Viaggi, 1; p.
22)
Se questo romanzo è un labirinto, una bhoolbhoolaiya, Tabish Khair è Dedalo, l'architetto che, avendolo costruito, è il solo a conoscerne la struttura. Come in un labirinto univiario, bisogna percorrere ogni via, seguire ogni personaggio, fare attenzione ai tempi con cui ciascuno sale sul bus, al modo in cui scambia uno sguardo o una parola con un altro viaggiatore, alle immagini che impressionano l'autista e punteggiano il racconto di tutti. Il labirinto di Creta fu costruito per imprigionare il Minotauro, essere umano e animale a un tempo, per liberare la città dalla minacciosa commistione fra natura umana e ferina, che sempre la minaccia, che è compito dell'eroe civilizzatore combattere e sconfiggere. Il labirinto di Tabish Khair non è costruito per isolare qualcuno che turba gli abitanti della città con la sua semplice esistenza, ma piuttosto per offrire un luogo abbastanza complesso perché i diversi personaggi e le loro vicende vi possano trovare ospitalità e riparo abbastanza perché la loro storia possa essere vista o intravista, indovinata, ascoltata. Tutta la vita entra ed esce dal labirinto, come aria che si respira e si espira, essenziale e impadroneggiabile. Al suo centro, proprio nella parte centrale del libro, si trova una storia di dolore che cattura qualunque lettore non troppo distratto, la storia della donna tribale, che a differenza delle altre non viene interrotta per far posto alle altre storie, in alternanza. Si racconta solo la storia della donna tribale dalla parte 46 alla parte 61, e anche le parti seguenti, e le Case finali, ne mantengono la traccia indelebile. L'immagine della morte di un neonato era già affiorata alla mente dell'autista Mangal Singh a significare il dolore e il rimpianto per il volo di colombe perduto nello sguardo di Sunita, come a preannunciare la saldatura fra la storia di lui e la vicenda straziante della donna tribale che viaggia con il suo bambino di pochi mesi già morto fra le braccia. Mangal Singh resta in silenzio al suo posto mentre i passeggeri si agitano, parlano, cercano un'impossibile risposta all'evento, o almeno una soluzione per continuare il viaggio, per lasciare a terra il dolore, frettolosamente seppellito. Più di ogni altro Mangal Singh subisce inerme la crudeltà della morte, la sua violenza insensata, totalmente scissa da tutto ciò che, facendo legame fra gli esseri umani, rende possibile la loro esistenza: Quel che Mangal Singh ricorderà
di questo viaggio nel modo più vivido saranno le due
mosche che saggiano le cavità delle narici del
bambino, indifferenti al ribollio della vita intorno
a loro, indifferenti al silenzio di morte che come
un rossore si è posato sul viso del bambino. (Viaggi, 57; p.
143)
Ancora più essenziale la morte nell'ultima delle parti dispari che Khair racconta in terza persona secondo lo sguardo e secondo la memoria impressionabile di Mangal Singh, dopo la quale non ci saranno altre immagini viste da lui. A questa non può seguire altro che il silenzio: Alla fine era semplice: Due
mosche saggiano le cavità delle narici di un bambino
morto. (Viaggi,
59; p. 145)
5. AMAVAS In molte chiese italiane si venera una madonna nera miracolosa, una statua o una tavola dipinta arrivata dal mare o da un paese lontano, dotata nel viaggio di una storia avventurosa, favolosa, miracolosa, circondata da un numero anche immenso di ex voto d'argento, d'oro, di legno, marmo, dipinti o scolpiti dai fedeli. Lasciamo da parte i tanti corpi di sante, custoditi in urne di cristallo, come quella che i nani costruirono per la morta apparente Biancaneve, miracolosamente intatti, spesso neri come l'ebano. La Madonna patrona della Toscana, raffigurata con la pelle chiara, ha la sua oscurità nel nome: la Madonna di Montenero ha il suo santuario, dal quale si vede il mare, su un colle circondato da fitti boschi, chiamato Monte Nero, un tempo Monte del Diavolo. La religiosità popolare torna a conferire i caratteri oscuri delle grandi dee madri alla Madre umana di Dio, dalla quale la dottrina ufficiale le ha rimosse. Per la dottrina cattolica Maria è la sola creatura umana concepita senza peccato, era ed è restata vergine prima e dopo la nascita del Figlio, ed è la sola creatura, oltre a Gesù Cristo, ad essere stata assunta in cielo con tutto il corpo. Le madonne miracolose dalla pelle nera tornano a rappresentare il femminile oscuro, mai assimilabile a un ordine stabilito, lo stesso che l'Induismo venera senza eufemismi nella dea Kali (in sanscrito kala significa anche nero). Nessun ordine patriarcale può annettersi questa oscurità, né eliminarla. La violenza della Chiesa Cattolica contro l'inevitabile ritorno di questo rimosso ha acceso per secoli roghi col Tribunale della Santa Inquisizione, per eliminare le donne accusate di stregoneria. Una madre nera, la donna tribale, con il suo bambino di pochi mesi morto fra le braccia, occupa i Viaggi 46-61. È la sola storia narrata senza sospensioni, senza che altri personaggi la interrompano, e resta nella riflessione di tutti i personaggi fino alla fine del libro. L'evento che apre il racconto è la scoperta, da partedi un viaggiatore, che il bambino che ha fra le braccia non è vivo, e questo fa fermare il bus che era appena ripartito dalla fermata di Vilaspur. Tocca a Shankar raccontare, a lui che essendo ancorato saldamente al senso comune non si lascia distrarre dal suo viaggio, come quasi tutti i passeggeri del bus, e non ha nemmeno un momento per fermarsi: il suo sguardo sulla donna tribale, la sua attenzione alle reazioni dei passeggeri sono ordinate dal suo unico scopo, ripartire al più presto. Alla richiesta di allestire il necessario per cremare il bambino, reagirà affermando che i tribali di quella zona seppelliscono i loro bambini nella terra, e dopo il funerale frettoloso il bus potrà ripartire. Alla donna tribale parla il figlio maggiore del cuoco Wazir Mian, il viaggiatore che si è accorto del piccolo cadavere: Il tuo bambino è morto, disse
alla donna pacatamente, come un semplice dato di
fatto. Perché porti il suo corpo sul bus?
Morto no, disse la donna, senza emozione, senza una mossa. È morto già da diverse ore, insistette l’uomo di città impomatato. È freddo come il marmo. È solo malato, replicò la donna. Lo sto portando a Phansa, da suo padre. A Phansa ci sono dottori. Dove abita tuo marito? A Phansa. Dove a Phansa? Non so. È andato via cinque mesi fa. È andato a Phansa. [...] Ci volle almeno un quarto d'ora o anche di più per convincere la donna che il suo bambino era morto stecchito. Queste donne rurali sono così ostinate nella loro ignoranza. Ecco perché quando ho deciso di sposarmi ho cercato una ragazza nata e cresciuta a Phansa – non in un'enorme città debosciata come Kalcutta o Dilli, ma nemmeno in un paese. Abbiamo voltato il bambino, abbiamo scoperto il corpo, abbiamo fatto sentire alla madre il freddo e la mancanza di battiti del cuore, e le abbiamo fatto anche notare il lieve odore di decomposizione che cominciava a venire dal cadavere. Finalmente ha smesso di dire ‘morto no’. Ma non piangeva e non andava via. Ha posato il bambino in terra davanti ai suoi piedi, come se il bambino non le appartenesse più, ed è rimasta a sedere sugli scalini. (Viaggi, 54; pp. 139-140) La donna tribale non parla più, non cambia espressione, è come una notte amavas, una notte senza luna. Ho avuto in analisi giovani donne la cui gravidanza si era interrotta tragicamente, che il marito, i genitori, gli amici, esortavano a non pensarci troppo, alle quali per lo più suggerivano una nuova gravidanza che facesse loro "superare" quella vicenda sfortunata. Queste donne non avevano parole per il loro dolore, per l'esperienza di se stesse, del proprio grembo, come luogo non di vita ma di morte. Pur vivendo in una cultura avanzata, pur sapendo che si era trattato di una disgraziata fatalità della quale non avevano colpa, un'angoscia senza nome si era stretta intorno a loro come un nodo scorsoio. Erano oscure e arcaiche come la donna tribale. Un tumulto sorge alla scoperta del piccolo corpo, quasi tutti i passeggeri si agitano e scendono, restano seduti alcuni degli uomini vestiti meglio [...] e una coppia di anziani paesani col segno della casta sulla fronte. Farhana racconta che anche lei è rimasta a sedere accanto a Mrs Mirchandani, ma questo non l'ha isolata da quel dolore: Quello che era accaduto alla
donna tribale non smise di ossessionarmi fino a
Phansa, anche se Mrs Mirchandani era decisa – forse
per il mio bene, perché pensava che non mi fossi
ancora ripresa dalla perdita della mia famiglia – a
parlare di tutt’altro. E poi era una donna che non
poteva davvero partecipare alle perdite di chi era
troppo diverso da lei, e molte di noi lo siamo, a
dire il vero. (Viaggi,
65; p. 157)
Solo una giovane donna, secondo il bigliettaio Shankar troppo volgare per essere invitate nel settore riservato intorno a Mrs Mirchandani, si fa strada nella piccola folla e si siede accanto a lei: La donna dozzinale e sfrontata
che era saltata giù dal bus con il bambino moccioso
in braccio, anche lei era rimasta con la donna
tribale, seduta sullo stesso scalino, toccandole la
testa, accarezzandole teatralmente i capelli
annodati e attorcigliati. Il suo bambino
zampettava per terra lì intorno, cercando di tirar
fuori qualcosa con un bastone, apparentemente
trascurato. (Viaggi,
60; p. 148)
Ma noi sappiamo il suo nome, è Zeenat, che sta fuggendo sola col suo bambino da un lavoro servile per cercarne un altro, e lo scrittore in prima persona non dimenticherà mai la sua grazia e il suo profumo. [Nota 7] Alla voce narrante del bigliettaio Shankar (Viaggi 48, 54, 60) ora si alterna quella dello scrittore da un nuovo punto di vista, quello del giovane spilungone di Vilaspur, uno studente che spesso aiuta i genitori nei lavori dei campi (46, 50, 52, 58, 64, 66, 69). Seduto su un muretto alla fermata, a vedere se arriva qualche turista interessante o qualche attraente donna di città, cerca di capire perché il bus si è fermato, dopo essere regolarmente ripartito, e ora col suo sguardo vediamo Zeenat: La donna col bambino piagnucoloso
– una donna molto attraente, pensava, ma d’aspetto
dozzinale, che non aveva un aanchal sulla testa –
stava ancora spingendo via gli uomini, e gridava.
Fatele un po' di spazio, lasciatela respirare!
Era deluso. Forse non era nemmeno un ladro. Sembrava come se qualcuno fosse appena svenuto. Ma poi ha sentito le voci più distintamente: È morto; il bambino è morto. Proprio allora la folla intorno alla portiera del bus si è aperta per lasciar scendere un firangi, un uomo alto che sembrava decisamente fuori posto nel bus, e il giovane è riuscito a vedere per un momento il bambino morto fra le braccia della donna tribale. Era seduta sul gradino anteriore del bus. Le sue braccia erano tatuate con motivi stilizzati. Era la sola macchia di quiete e
di silenzio in quella massa ribollente. (Viaggi, 58, p.
144)
Questa sola macchia di quiete e di silenzio, la donna tribale alla quale la morte ha spento il colore, fa fermare il bus. Forse questa fermata genera il titolo del libro. Il bus si è fermato, il rumore e i suoni di questo viaggio, di ogni viaggio, non possono toccare la donna tribale, farla parlare, consolarla. E tutte le voci narranti, tutti i punti di vista dai quali lo scrittore ci parla del viaggio, si affollano intorno a lei, alla notte amavas, perché non c'è modo di ignorarla se non per chi si illude di evitare la dimensione tragica della vita, e per questo deve restare cieco. Non c'è parola vera che non si confronti con questo limite dello sguardo e della parola, oltre il quale il silenzio sacro ci interroga senza sosta sull'enigma della morte intrecciata alla vita. Stava a sedere
in silenzio. Fitta come una notte amavas. (Viaggi, 60, p.
146)
6. ACQUE SCONFINATE A questo punto cerca di intervenire il firangi che sembra fuoriposto, il giovane danese Rasmus, di padre indiano, che si trova sul bus perché il suo autista ha finto un grave guasto alla macchina. L'autista indiano non tollerava più le continue battute sarcastiche del giovane uomo d'affari danese contro la sua vecchia Ambassador. Fingendo un guasto lo ha costretto a salire sul bus, dove il danese si trova accanto a tutti gli altri, senza la protezione della macchina personale, senza aria condizionata, con una valigetta piena di danaro destinata a un uomo politico che favorirà i suoi affari. Rasmus stringe la valigetta più forte quando quasi tutti si agitano e si spingono verso l'uscita: Prima che le urla irrompessero
nei suoi silenziosi calcoli di tempi e doveri,
Rasmus era già vagamente consapevole della
molteplicità delle voci, dei fili che riempivano il
bus con un basso ronzio. Le tante conversazioni che
volavano una nell’altra e poi si separavano. Più
tardi pensò che erano come il tilkut che aveva visto
attorcigliare e impastare con manici corti a Gaya
intorno a dei pali di legno. I fili di tilkut si
attorcigliavano al palo, si fondevano e si
separavano, si separavano e si fondevano.
Ma ora c’era improvvisamente una
sola realtà di cui parlare sul bus. Morte. Ma non
era proprio il genere di morte che Rasmus
riconosceva. Non aveva l'ordinato decoro, la
regolata gravità, la dovuta presenza dei morti che
aveva visto di persona o di cui aveva sentito
parlare in Danimarca. Non si separava chiaramente
dalla vita. I fili di questa morte restavano
intrecciati – per Rasmus era raccapricciante – con
la vita sul bus e intorno al bus. (Viaggi, 56; p.
142)
Quel che turba Rasmus è al cuore del libro: la morte si rivela intrecciata alla vita, e quando ci si illude di aver visto o sentito tutto, quando si crede di aver cotto e ben nascosto il suo filo senza parole, la morte si manifesta all'improvviso, come la vita, non ordinata, non separata dalla vita, né ad essa assimilabile. Il punto di vista di Rasmus può rappresentare la tendenza del soggetto ad assimilare il diverso per fare uno, per costruire una gerarchia che comprenda l'estraneo, ma collocandolo in un posto preciso, subordinato. Nell'opera di colonizzazione che riguarda l'anima occidentale, il soggetto vuole dominare con la sottomissione, lo sterminio o la conversione sia la propria interiorità ignota sia i popoli stranieri. Il padre indiano di Rasmus gli ha lasciato un tentativo di costruire questa unità, che si sintetizza in una domanda retorica e torna alla sua mente per velare il suo turbamento: Ma dove mai? Solo in India! Ma
dove mai? Solo in India!
A Rasmus pareva di sentire suo padre, Alok Sen alias A. Jensen, che diceva queste parole. Suo padre le aveva dette in due modi diversi. A Copenhagen era stata un’affermazione d’orgoglio. Ma dove mai si parlano da un capo all'altro diciotto, di-ciot-to lingue ufficiali? Solo in India! Ma dove mai c'è stata una storia così grande? Solo in India? Ma dove mai si è potuta ottenere l'indipendenza con la non violenza? Solo in India! Ahimsa, Ahimsa, ripeteva suo padre, strascicando la parola. Sapete cosa vuol dire, mister? Ma appena Alok Sen alias A. Jensen era atterrato a Dehli, l'accento si era spostato sulla seconda parte: Solo in India ci sono tanta burocrazia e tanta inefficienza! Solo in India si può vedere una povertà come questa! Disgustoso! Criminale! Semplicemente criminale! reclamava. E ora, sballonzolato su una strada piena di buche, cercando di evitare che la sua camicia si sporcasse troppo, Rasmus rivolse il pensiero a suo padre: Ma dove mai un bus si può fermare a seppellire un bambino per poi proseguire come se nulla fosse? Solo in India! [...] Dove? Solo nella tua India, disse Rasmus al suo padre morto. Dove? Solo nell'India maledetta! Mister. (Viaggi, 61; p. 151) Un primato indiano miticamente positivo si ribalta in un primato altrettanto miticamente negativo. Il padre ha cercato di costruire una casa miticamente sicura, da abitare come se avesse solide radici, e Rasmus lo imita tornando in Danimarca: [a] Hillerød, nel loro
appartamento di tre stanze in un palazzo del
diciannovesimo secolo, alle candele che accendono
tutte le sere, ai dipinti in cornice, alle piante
nei vasi, all’ordine polveroso al quale
appartengono. (Ancora
case; pp. 171-172)
Non essendo abbastanza cieco da essere sicuro delle proprie radici, e avendone almeno due, Rasmus cerca di dare un ordine alla sua esperienza sul bus Gaya-Phansa e la paragona al tilkut: una volta cotto e servito non si possono più vedere i suoi fili, tanti, e tutto il lavoro per intrecciarli e separarli e unirli ancora. La bhoolbhoolaiya di questo libro può essere gustata dal lettore come un tilkut: l'Autore consente al lettore di chiudere il libro inconsapevole dei suoi fili e del lavoro per intrecciarli, separarli, unirli. Ma il lettore ha la possibilità di capire che questo romanzo non è una storia cotta e finita, perché l'Autore offre al lettore più raffinato e paziente qualcosa di più di buon tilkut. Il lettore può muoversi in questa Bhoolbhoolaiya, in questo labirinto di Khair, indiano, occidentale, umano, e commuoversi. Andando avanti e indietro fra Viaggi, numerati ma non ordinati, e Case, e Ancora case, il lettore può vivere la complessità e la ricchezza di queste molteplici storie e di questi personaggi, che possono essere considerati come un romanzo matrice. Il lettore pago di questo romanzo come di un tilkut finito e cotto perde la possibilità di muoversi e commuoversi fra le cose che per la loro natura scucita scorrono avanti e indietro ... come sognando o rimemorando o meditando (citato). Perde la possibilità di capire come Tabish Khair dia forma a case contemporanee, fragili, confuse, mostruose, che nessuna vecchia casa, come le sue Ammi kè yahan e Ghar, può contenere. È difficile e necessario capire che l'antico ideale di un progresso continuo e irresistibile è crollato, e rinunciare all'idea che noi possiamo vedere il futuro come nani sulle spalle di giganti: [nota 9] forse siamo piuttosto in basso, e sulle nostre spalle pesano anche i giganti del passato, come il passato che l'Autore porta narrando in prima persona: Le mie case, - fragili, confuse,
mostruose - non le hanno tenute dentro né Ammi kè
ayan né Ghar, anche se ho sempre portato il loro
fardello. (cit.)
Il traduttore sa che personaggi e storie possono vivere anche senza cuciture, grazie a una struttura impadroneggiabile, della quale l'autore stesso potrebbe essere inconsapevole. Questa struttura esiste, come la possibilità di tradurre ogni testo da qualunque lingua in qualunque altra lingua, come la possibilità di comprendersi e fraintendersi all'infinito. I tanti fili che vanno nel
tilkut, che si torcono e girano, gorgogliano e si
strappano, si fondono e si dividono, sarebbero tutti
diventati invisibili nel tilkut impastato e cotto
del racconto che Rasmus avrebbe servito ai suoi
commensali a Copenhagen. Perché non ci scrivi un
romanzo, avrebbe detto la sua ragazza, una cosa cupa
e inquietante, forte e kafkiana, oppure una cosa
leggera e irriverente, un realismo magico carino
come quello di comesichiama Rushdie? (Viaggi, 67; p.
163)
I romanzi di Rushdie sono iscrivibili in un gradevole realismo magico per la fidanzata di Rasmus come per il lettore occidentale che non ha consapevolezza della cultura indiana millenaria e molteplice, delle sue lingue che si sono espresse in grandi letterature, della sua straordinaria tradizione narrativa, alle quali la colonizzazione inglese non ha aggiunto nulla. Pochi lettori sono consapevoli del fatto che le grandi culture occidentali e orientali sono nate e cresciute in una relazione ininterrotta, in un corpo a corpo sia feroce sia fecondo. Leggendo scrittori indiani in lingua inglese, come Salman Rushdie, come Vikram Chandra, come Tabish Khair, che è poeta prima ancora che narratore, ci si chiede se non siano proprio loro ad arricchire questa lingua, che è la più compresa e parlata nel mondo contemporaneo. Quando la fidanzata di Rasmus gli consiglia di sfruttare con la scrittura la sua singolare esperienza sul bus Gaya-Phansa citando Kafka, ignora che la storia della donna tribale è oltre la denuncia del tramonto inglorioso del grande soggetto occidentale. Per vederla occorrono occhi diversi, per sentirla, toccarla, entrano in campo viaggiatori lontanissimi uno dall'altro, per raccontarla occorrono molte voci: eppure tutte convergono sul bus, dove la zona privilegiata intorno a Mrs Mirchandani, alla quale decide di appartenere Parvati/Farhana, non ripara dalla reciproca vicinanza, né dalla mescolanza degli odori e delle lingue che ogni bus propone ai suoi passeggeri. La memoria di Mangal Singh, che resta in silenzio sul suo seggiolino per tutto il tempo, è impressionata dalla cruda immagine delle mosche intorno alle narici del bambino, e il lettore che tollera e condivide il corpo a corpo con i personaggi difficilmente la potrà dimenticare. Il giovane di Vilaspur ha osservato l'evento, senza lasciare la sua vita, i genitori, la casa, il pollaio, gli animali selvatici che potrebbe catturare e vendere, mentre il suo futuro sta per prendere forma. Anche del giovane di Vilaspur vuol sapere l'ascoltatore del condominio di Patna, come il lettore silenzioso e avido di storie: Anche il giovane del villaggio
che sedeva sul muro e aveva preso la vanga ha una
casa. Io non sono un mago: non posso portarti
proprio dentro alla casa semi-pukka di quella
giovinezza, ma se rallenti un po' te la posso posso
indicare. Eccola, eccola là, accanto all’albero di
peepul chino nel riposo del villaggio, con un pezzo
d’aratro che riposa contro il muro di una baracca
semiaperta, su una parete della casa butterata di
cacche di vacca seccate. (Ancora case, p. 172)
Il lettore non frettoloso, che non cerca un'uscita di servizio per lasciare il libro senza mettersi in gioco, è turbato da un'immagine del giovane di Vilaspur, cruda quanto quella finale dell'autista Mangal Singh, delle mosche intorno alle narici del bambino morto. L'immagine evocata dal punto di vista del giovane di Vilaspur è più enigmatica, rimandando a una dolorosa maternità animale che l'uomo non cessa di sfruttare, qualcosa di unheimlich, che possiamo guardare solo se possiamo avvicinarci senza cercare una soluzione, nuova o antica, sia orientale sia occidentale. Proprio per questa vaghezza dolorosa l'immagine, insieme a quella del bambino morto sul bus, in tutti i sessantanove Viaggi e in tutte le Case, sia che siamo impressionati come Mangal Singh, sia che siamo ciarlieri come Shankar, in cerca di un riparo come Farhana, inorriditi come Rasmus, ci fa sperimentare nel nostro labirinto questa loro vicinanza, questi molteplici nessi fra culture che non si possono spezzare né ignorare. Mostrandoci la sua casa di sessantanove viaggi lo scrittore risveglia l'attitudine del traduttore, che può alimentare ogni comprensione, ogni romanzo, ogni nostra storia. All’entrata della stalla c’era un
vitello imbalsamato, appoggiato contro il muro di
fango. Il vitello era morto appena nato. Era stato
imbalsamato e il suo muso rigido e scuro veniva
portato alla madre due volte al giorno, perché
potesse leccarlo con la sua lingua poderosa e
continuare a produrre più latte del solito.
Nessuno aveva mai riso di quella mucca. Si era sentito come se gli fosse venuta voglia di ridere per ore dopo che il bus era ripartito. Ridere, ma non di qualcosa di gioioso o divertente. Non era in grado di scandagliare il pozzo di questa voglia di ridere. (Viaggi, 64; p. 155) La notte che avvolge il suo
villaggio è profonda. Nella sua oscurità puoi vedere
le stelle. Le stelle qua fuori sono più brillanti
che nelle città grandi e piccole.
Sulla terra non ci sono le stelle. Se ci fosse stata la luce del giorno, avresti potuto vedere i villaggi vicini. Ma di notte i villaggi non accendono nemmeno una lampada nelle ore in cui non si veglia. A differenza del cielo, la terra indossa la notte senza il manto di stelle. Non ride più. Dorme. A singhiozzo, come il passeggero di un bus. (Viaggi, 69; p. 167) L'allevatore del villaggio nel Bihar aumenta la quantità di latte prodotta dalla mucca portandole il suo vitello di cui non riconosce la morte. Come la donna tribale non riconosceva la morte del suo bambino. Leggendo vorremmo considerare quella della famiglia dello spilungone di Vilaspur una pratica crudele del passato, ma poi pensiamo agli ormoni che allo stesso scopo per tutta la vita vengono somministrati alle mucche negli allevamenti più moderni. Al bambino sepolto frettolosamente lungo la via è dedicato nelle ultime pagine un canto funebre al quale ogni lettore può prendere parte, se può riconoscere il dolore dell'altro ricordando il dolore nella sua casa, che come ogni casa nel nostro tempo ha stanze e viaggi ai quali mancano le cuciture e le cose scorrono avanti e indietro, come sognando, rimemorando o meditando. E il bambino che era stato sepolto sul bordo della strada? Ha trovato la sua casa, là sotto la terra e le macerie? O una notte sarà stato dissepolto dalle volpi e dai cani sopravvissuti al monopolio dell’uomo? O sarà spazzato via dalla prossima piena, trascinato in un affluente del Gange e da lì nel Gange e da lì nella Baia del Bengala? Saranno le acque ancora sconfinate degli oceani la sua casa? Ci sono cose che non posso vedere nei libri. (Ancora case; p. 173) Ci sono ancora acque sconfinate, e pozzi che non sappiamo scandagliare. Come psicoanalista lavoro vicino a queste acque, guardando quel che affiora, venendo dall'altro. Il desiderio della vita può emergere quando siamo perduti nella nostra bhoolbhoolaiya, come il desiderio di ridere del giovane spilungone di Vilaspur. 7. UNA CURA DELLA VITA - No - rispose la vecchiarella -
anzi io sono la vita. E sapi che io mi trovo aver
qua dentro in questa bolgia, che io mi porto dietro
le spalle, certi liquori e unzioni che, per gran
piaga che l'uomo abbi nella persona, io con
agevolezza la risano e saldo, e per gran doglia che
egli parimenti si senta in picciol spacio d'ora
levoli ogni dolore -. (Tomo I, p. 317)
Ma quando Flamminio insistette a chiederle di fargli provare la paura, che da tanto cercava, la vecchia brutta Vita lo accontentò. Gli tagliò la testa e gliela riattaccò, girata però all'indietro: quando il giovane si vide il di dietro ebbe una gran paura e piangendo supplicava la Vita di farlo tornare come prima. Dopo averlo lasciato così per un certo tempo, la vita gli tagliò di nuovo la testa per riattaccargliela nel modo giusto. Allora Flamminio: [a]vendo veduto la paura e per
isperienzia provato quanto brutta e paventosa era la
morte, senza altro commiato prendere dalla
vechiarella, per la più breve ed ispedita via
ch'egli seppe e puoté ad Ostia se ne ritornò,
cercando per lo innanzi la vita e fuggendo la morte,
dandosi a miglior studi di quelli che per lo adietro
fatto aveva. (Tomo I, p. 318) [Nota
11]
Sotto la superficie bizzarra di questa vicenda possiamo scorgere il tema cruciale del lutto e della melanconia. La depressione è una sorta di epidemia psichica del nostro tempo, dominato da un mito che ci spinge a vivere senza sofferenza, cercando di cancellare dal nostro corpo i segni del tempo, riducendo a quasi nulla i segni del lutto, come se non si dovesse attendere a lungo per elaborare la perdita. È come se il nostro percorso fosse opposto e complementare a quello di Flamminio: se cerchiamo la vita rimuovendo la morte, andiamo verso una fine peggiore di quella della fiaba cinquecentesca. Come psicoanalista, se mai qualcuno lo chiedesse, potrei consigliare Il bus si è fermato come antidoto a questa rimozione: sul bus di Tabish Khair possiamo sentire un'esperienza di lutto crescente, alla quale ogni personaggio porta la sua nota particolare. Per nessuno di loro c'è un lieto fine, perché il romanzo non è una fiaba, come la vita non è un romanzo. Ma la vecchia brutta vita continua, e porta ancora la sua grande borsa piena di impiastri capaci di curare ogni dolore, come i fiori profumati del Sita Ashok, ai quali il guidatore Mangal Singh non crede più. Nella grande borsa ci sono anche fiabe, racconti. C'è anche questo romanzo. BIBLIOGRAFIA Albertazzi, Silvia, e Gasparini, Adalinda, Il romanzo new-global. Storie di intolleranza, fiabe di comunità. Pisa: ETS Edizioni, 2002. Benjamin, Walter (1923), Il compito del traduttore; in: Angelus Novus. Saggi e frammenti; traduzione e introduzione di Renato Solmi; Torino: Einaudi 1976. Fornari, Franco, Psicoanalisi della guerra; Milano: Feltrinelli 1966. Gasparini, Adalinda, From a Murdering Gaandu to Another day. Beyond the Phallic Axis in Vikram Chandra's Sacred Games. In: Postcolonial Indian Fiction in English
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Versione italiana: Addio Padre Edipo.
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Exceptionally
Sensitive. Travelling within The Bus
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Dwivedi. Versione italiana: Straordinariamente
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Giovanni di Salisbury (Joannis Saresberiensis), Metalogicon, edidit J.B. Hall , auxiliata K.S.B. Keats-Rohan in Corpus Christianorum - Continuatio Mediaevalis XCVIII; http://www.abaelard.de/abaelard/060013metalogicon.htm; consultato il 20 febbraio 2011. Glissant, Édouard, Traité du tout-monde; Paris: Gallimard 1997. Khair, Tabish, The Bus Stopped, London: Palgrave 2004; Il bus si è fermato, tr. it. A. Gasparini; Roma: Nova Delphi 2010. Filming, London: Picador 2007. The Thing about Thugs, New Delhi: Fourth Estate, HarperCollins Publishers 2010. Proust, Marcel, A la recherche du temps perdu; Texte intégral de l'édition originale de A la recherche du temps perdu, découpé en 78 épisodes, et indexé (moteur de recherche interne) http://intexto.org/opus/fr/proust/recherche/; consultato il 2 febbraio 2011. Alla ricerca del tempo perduto; tr. it. Giovanni Raboni; Milano: Mondadori 1883-1993; 4 voll. Straparola, Giovan Francesco (Venezia, 1551-1553), Le piacevoli notti. A cura di Donato Pirovano. Roma: Salerno Editrice 2000. 2 Tomi. Vedi anche: http://www.liberliber.it/biblioteca/s/straparola/le_piacevoli_notti/pdf/le_pia_p.pdf; consultato il 30 marzo 2011. |
Nota 1 Questa e tutte le successive citazioni da Il bus si è fermato saranno seguite dall'indicazione del capitolo (Case, Viaggi, col relativo numero, Ancora case) e dalla pagina dell'edizione italiana (Roma: Nova Delphi, 2010). Le eventuali piccole difformità fra la citazione e il testo pubblicato dipendono da modifiche apportate dall'Editore al momento di dare alle stampe la traduzione e dalla traduttrice stessa dopo la pubblicazione. Si può intendere il lavoro di traduzione come un lavoro infinito: la pubblicazione è un'istantanea che lo fissa a un certo punto della sua storia. Nota 2 I saggi di Adalinda Gasparini sui romanzi angloindiani figurano in questa Bibliografia. Nota 3 Édouard Glissant, Traité du tout-monde; p. 176. Nota 4 Can my language dare to choose between the options? Can my language claim to tell all of Amir Ali? Or should I let the squall blow in the blind whitenessof a sea fog behind which I can hide my choice of words, the fact that what I have chosen, what I can choose is never enough, never complete? (Trad. it. nostra). Nota 5 A la recherche du temps perdu, Chapitre III, Matinée chez la princesse de Guermantes. Tr it.: Alla ricerca del tempo perduto, vol. IV, p. 571. Nota 6 http://www.santuariomontenero.org/index.php. Nota 7 Vedi: A. Gasparini, Exceptionally Sensitive. Travelling within The Bus Stopped by Tabish Khair. Nota 8 Uno studio attento potrebbe mostrare come molti personaggi di Filming e di The Thing About Thugs abbiano la loro matrice in questo nostro Bus. Si vedano, ad esempio, la serva Zeenat in The Bus Stopped e Durga, la protagonista di Filming, o Shankar in The Bus Stopped e John May in The Thing about Thugs. Nota 9 Giovanni di Salisbury, Metalogicon, 1159: Dicebat Bernardus Carnotensis nos esse quasi nanos, gigantium humeris insidentes, ut possimus plura eis et remotiora videre, non utique proprii visus acumine, aut eminentia corporis, sed quia in altum subvenimur et extollimur magnitudine gigantea (Bernardo di Chartres diceva che noi somigliamo a nani seduti sulle spalle di giganti, che possiamo vedere più cose più lontane, non per una nostra maggiore acutezza o altezza, ma perchè siamo sollevati in alto e ci godiamo della loro gigantesca grandezza). Nota 10 Notte Quarta, favola V, Tomo I, pp. 309-319. Nota 11 Questa storia è diffusa in tutta Europa, con molte varianti. In Italia è nota soprattutto come la fiaba di Giovannin senza paura. In una versione di questa fiaba il protagonista, dopo aver affrontato senza battere ciglio apparizioni terrificanti, incontra un mago, che gli propone di tagliare e riattaccare la testa. Come nella versione cinquecentesca il protagonista, che si chiama Giovannino, si ritrova con la testa girata all'indietro, e, diversamente da questa, muore letteralmente di paura. Così accade nella versione scelta da Italo Calvino per aprire le sue Fiabe italiane, intitolata Giovannin senza paura (Torino: Einaudi 1956 e successive edizioni). |
Vedi anche, in questo sito, il seguente saggio dedicato a Tabish Khair: Straordinariamente sensibile. Viaggiando con Il bus si è fermato di Tabish Khair (2013) Exceptionally Sensitive. Travelling within The Bus Stopped by Tabish Khair (2013) Vedi le seguenti traduzioni dei romanzi di Tabish Khair: Il bus si è fermato (2010) (traduzione di The Bus Stopped, 2004) Jihadi Jane. Da Londra alla Siria. Storia di una foreign fighter (2018) (traduzione italiana di Jihadi Jane, 2016) Vedi anche, in questo sito, i seguenti saggi dedicati a Tabish Khair: Straordinariamente sensibile. Viaggiando con Il bus si è fermato di Tabish Khair (2013) Exceptionally Sensitive. Travelling within The Bus Stopped by Tabish Khair (2013) Vedi le seguenti traduzioni dei romanzi di Tabish Khair: Il bus si è fermato (2010) (traduzione di The Bus Stopped, 2004) Jihadi Jane. Da Londra alla Siria. Storia di una foreign fighter (2018) (traduzione italiana di Jihadi Jane, 2016) La notte della felicità (2020) (traduzione di Night of Happiness, 2018) Vedi un estratto dal romanzo: Tabish Khair’s unsettling new novel asks what secrets Ahmed is keeping from his boss Anil Mehrotra. |