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PRESENTAZIONE |
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Ceice, figlio di
Eosforo, la Stella Mattutina, era sposato con Alcione,
figlia di Eolo, Signore dei Venti, e la loro unione era
tanto felice che, i due sposi, pensando di non essere da
meno dei sovrani degli dei, si chiamavano con i loro
nomi: Giove e Giunone. Gli dei greci erano molto vicini ai mortali, con i quali avevano in comune pregi e difetti, e spesso scendevano sulla terra, sia per combattere al loro fianco, sia per unirsi a loro, generando semidei come Eracle, Armonia, Perseo o Elena. Il confine fra dei e uomini poteva essere valicato, ma solo se erano gli dei a volerlo le conseguenze per i mortali non erano nefaste. Se gli esseri umani decidevano di violare questo confine, gli dei sfidati li punivano duramente. Agli uomini e alle donne non era concesso paragonarsi agli dei, né fare a meno di loro, né agire contro la loro volontà. Platone racconta per bocca di Aristofane, nel Simposio, che un tempo gli esseri umani erano dotati di quattro braccia e quattro gambe, di due volti e due sessi: erano doppiamente possenti e bastavano a se stessi. Quando fidando sulla loro forza tentarono di scalare l'Olimpo, Zeus li punì facendoli dimezzare da Efesto, mentre ad Apollo diede il compito di ricucire la loro ferita. Per ripristinare la completezza perduta ogni essere umano cerca la sua parte mancante, e quando la trova non vorrebbe più separarsene. Tutti i protagonisti dei miti e delle favole di amore tombale, tombale perché finisce e si eterna nella tomba, tombale perché definitivo, come un condono fiscale, sembrano comportarsi come questi esseri dimezzati, avendo trovato la loro esatta metà. È il caso di ricordare a questo punto che il discorso di Aristofane nel Simposio non è un inno all'amore eterosessuale, perché gli esseri interi erano di tre tipi: se discendevano dal Sole avevano due sessi maschili, se dalla Terra due sessi femminili, e se venivano dalla Luna avevano un sesso maschile e uno femminile. Le preferenze sessuali nel Simposio dipendono quindi dall'essere doppio di cui siamo la metà. Zeus fece inoltre sapere agli uomini che se nonostante la loro debolezza avessero di nuovo tentato di scalare l'Olimpo li avrebbe ulteriormente dimezzati, così che per spostarsi avrebbero dovuto saltellare su un piede solo e avrebbero avuto solo un profilo, come le teste sulle monete. Gli dei greci sembravano temere la ribellione dei mortali come i titani avevano, a ragione, temuto quella della generazione olimpica, che li aveva spodestati. Quando il titano Prometeo, al tempo della signoria di Giove, donò il fuoco agli uomini, dopo averne rubato una scintilla sull'Olimpo, Zeus lo punì e mandò agli uomini un flagello che li indebolisse, per equilibrare l'eccesso di potenza rappresentato dal possesso del fuoco. I greci avevano un nome preciso per il momento in cui un essere umano valicava di sua iniziativa il confine con gli dei: übris, che in italiano si può rendere übris con eccesso: gli uomini eccedono i loro confini per penetrare nella sfera divina, e la punizione è immancabilmente la perdita della loro umanità. Ogni volta che un uomo o una donna eccedono, si apre un racconto i cui protagonisti è respinto oltre il confine opposto a quello che intendeva superare, e alla fine diventa disumano. Ma al momento della morte, e solo allora, sembra che gli dei provino pietà, come se comprendessero l'eccesso del desiderio umano, e il colpevole diventa animale, pianta, assume una forma che disumanizzandolo lo lascia vivere fra gli esseri umani perr sempre. I nomi di tanti animali, di tante piante, vengono da queste storie di eccesso: l'eccesso dà luogo a una tragedia e a una metamorfosi che è anche una morfogenesi. Narciso perde la vita specchiandosi nel suo lago, ma il fiore nel quale si trasforma fiorisce ancora, ogni primavera, con la corolla volta come lui in una sola direzione. Mirra colpevole di aver amato il padre e di portare in grembo il figlio dell'incesto chiede e ottiene di non contaminare con la sua empietà il mondo umano, e diventa pianta: l'albero che ha il suo nome stilla le sue lacrime infinite, e dona la mirra, unguento degno dei re, dono dei Magi a Gesù. Le Metamorfosi di Ovidio sono una continua esplorazione di questa vicenda, dove gli dei sono indifferenti e spietati, fino a quando donano un'altra vita a chi si è macchiato di übris: vedremo in questa pagina come accadrà ad Alcione e a Ceice. A una lettura superficiale, vagamente moralistica, la colpa di Narciso era di amare solo se stesso, quella di Alcione e Ceice di essere tanto felici da paragonarsi agli dei, come la colpa di Aracne, che sfidò la Atena, sembra quella di essere stata abile almeno quanto la dea nell'arte del ricamo di cui aveva la signoria. La metamorfosi, che porta fuori dal regno umano, nel regno animale o vegetale, tocca anche a esseri incolpevoli che non hanno concesso i loro favori agli dei innamorati di loro: Siringa, amata e inseguita da Pan, supplica gli dei di sottrarla all'amplesso, e viene trasformata nelle canne palustri dalle quali il dio ricaverà lo strumento che porta il nome di lei. Siringa, come altri personaggi delle favole mitologiche, non ha colpa: ma sottrarsi al volere di un dio significa trascendere l'umano, considerarsi pari al dio stesso, e anche questo è un eccesso che porta alla stessa metamorfosi di cui abbiamo parlato. L'eccesso dei mortali che gli dei puniscono disumanizzandoli ha questo comune denominatore: un essere umano pensa di bastare a se stesso, di non essere mancante, di non aver bisogno del divino. Se volessimo utilizzare il lessico lacaniano, potremmo dire che chi eccede, nella übris, pensa dei poter fare a meno dell'Altro. L'Altro, dio o dea, lo disumanizza. Ma dobbiamo osservare che questo eccesso è morfogenetico: una nuova specie floreale o animale arricchisce la natura. Né una coppia di uomo e donna, che hanno fra i loro antenati Eosforo, la Stella Mattutina, ed Eolo, re dei Venti, re e regina, legittimamente uniti, può pensare di non aver bisogno di nulla: nello stesso momento in cui il desiderio appare saturato gli dei preparano la loro fine. Eppure... tamen... leggiamo nella poesia sublime di Ovidio, dopo due millenni insuperato per finezza psicologica, cosa accade ai due sposi troppo felici. Racconta Ovidio che il re Ceice morì in mare, mentre la sua sposa Alcione ne attendeva trepidante il ritorno. Pregava tutti gli dei, specialmente Giunone, regina dell'Olimpo e protettrice delle unioni legittime, perché lo preservasse dal pericolo e lo mantenesse fedele a lei. Non sopportando di essere pregata per un morto, né che le mani funeste di Alcione continuassero a posarsi sul suo altare, Giunone chiamò Iride, perché andasse a ordinare al Sonno di inviare ad Alcione uno dei suoi figli per informarla della morte di Ceice. Difficile per una psicoanalista, che considera i sogni come la via regia per l'inconscio, sottrarsi al fascino dei versi che raccontano della dimora del Sonno, dove giunge la messaggera degli dei, dopo aver tracciato l'arcobaleno come ogni volta che scende dal cielo alla terra. |
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LA CASA DEL SONNO E DEI SOGNI |
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592
Est prope Cimmerios longo spelunca recessu, mons cavus, ignavi domus et penetralia Somni, quo numquam radiis oriens mediusve cadensve 595 Phoebus adire potest; nebulae caligine mixtae exhalantur humo dubiaeque crepuscula lucis. Non vigil ales ibi cristati cantibus oris evocat Auroram, nec voce silentia rumpunt sollicitive canes canibusve sagacior anser; 600 non fera, non pecudes, non moti flamine rami humanaeve sonum reddunt convicia linguae: muta quies habitat; saxo tamen exit ab imo rivus aquae Lethes, per quem cum murmure labens invitat somnos crepitantibus unda lapillis. 605 Ante fores antri fecunda papavera florent innumeraeque herbae, quarum de lacte soporem Nox legit et spargit per opacas umida terras; ianua, ne verso stridores cardine reddit, nulla domo tota est, custos in limine nullus; 610 at medio torus est ebeno sublimis in antro, plumeus, atricolor, pullo velamine tectus, quo cubat ipse deus membris languore solutis. Hunc circa passim varias imitantia formas somnia vana iacent totidem, quot messis aristas, 615 silva gerit frondes, eiectas litus harenas. Quo simul intravit manibusque obstantia virgo somnia dimovit, vestis fulgore reluxit sacra domus, tardaque deus gravitate iacentes vix oculos tollens iterumque iterumque relabens 620 summaque percutiens nutanti pectora mento excussit tandem sibi se cubitoque levatus, quid veniat (cognovit enim), scitatur; at illa: « Somne, quies rerum, placidissime, Somne, deorum, pax animi, quem cura fugit, qui corpora duris 625 fessa ministeriis mulces reparasque labori, somnia, quae veras aequent imitamine formas, Herculea Trachine iube sub imagine regis Alcyonen adeant simulacraque naufraga fingant. Imperat hoc Iuno ». Postquam mandata peregit, 630 Iris abit (neque enim ulterius tolerare soporis vim poterat), labique ut somnum sensit in artus, effugit et remeat, per quos modo venerat arcus. |
(592) Nel paese dei Cimmeri c'è un monte
cavo, e una lunga spelonca vi si addentra, dimora e
rifugio del pigro Sonno, dove il Sole non può entrare
(595) quando sorge, né a mezzogiorno, né al tramonto:
esalano dal suolo nebbie miste a caligine e crepuscoli
di luce incerta. Non c'è il vigile uccello crestato a chiamare l'Aurora col canto, non rompono i silenzi i cani che fanno sempre la guardia, né l'oca più accorta dei cani; (600) non rompono il silenzio versi di bestie feroci, né belati di greggi, né lo stormire di alberi al vento, né suono di lingua umana: una muta quiete vi abita; ma un rivo d'acqua del Lete/Oblio sale dalle profondità della roccia, e la sua onda invita il sonno lambendo con un mormorio le pietre sconnesse. (605) Davanti alla bocca dell'antro rigogliosi fioriscono papaveri e innumerevoli erbe, quante la Notte ne raccoglie e dissemina per le terre umide di tenebra; in tutta la casa non c'è nemmeno una porta, perché muovendosi i cardini non mandino cigolii, né un solo custode sulla soglia; (610) ma al centro della grotta c'è un letto d'ebano sublime, piumato, d'un solo colore, coperto da un cupo velo, sul quale è disteso il dio stesso, le membra languidamente sciolte. Intorno a lui giacciono i sogni vani, innumerevoli, tanti quante sono le spighe del campo, (615) le fronde del bosco, i grani di rena sbattuti sulla spiaggia. Appena entrò la vergine scostò con le mani i Sogni che le stavano davanti, la sacra dimora rifulse del fulgore della sua veste di luce, e il dio con greve lentezza, alzando appena gli occhi chiusi, e (620) battendo il mento sulla sommità del petto vacillante, finalmente si scosse e si sollevò sui gomiti e, perché era venuta, le chiese, riconoscendola, ma lei: « O Sonno, quiete di tutte le cose, Sonno, il più placido degli dei, pace dell'animo, da te fugge ogni cura, tu che accarezzi i corpi (625) sfiniti dai duri servizi e li ristori per il lavoro, comanda ai Sogni, che imitandole eguagliano le forme vere, che vadano a Trachine, la città di Ercole, da Alcione, con l'aspetto del re e si mostrino con la figura del naufrago. Giunone lo vuole. » Appena riferito l'ordine (630) Iride va via: perché non avrebbe più potuto resistere al potere del torpore, e come sente il sonno che le penetra nelle articolazioni, fugge e torna indietro lungo lo stesso arco per il quale era venuta. |
MORFEO SI PRESENTA AD ALCIONE
COME CEICE
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At
pater e populo natorum mille suorum excitat artificem simulatoremque figurae 635 Morphea. Non illo quisquam sollertius alter exprimit incessus vultumque sonumque loquendi; adicit et vestes et consuetissima cuique verba, sed hic solos homines imitatur; at alter fit fera, fit volucris, fit longo corpore serpens: 640 hunc Icelon superi, mortale Phobetora vulgus nominat; est etiam diversae tertius artis Phantasos: ille in humum saxumque undamque trabemque, quaeque vacant anima, fallaciter omnia transit; regibus hi ducibusque suos ostendere vultus 645 nocte solent, populos alii plebemque pererrant. Praeterit hos senior cunctisque e fratribus unum Morphea, qui peragat Thaumantidos edita, Somnus eligit et rursus molli languore solutus deposuitque caput stratoque recondidit alto. 650 Ille volat nullos strepitus facientibus alis per tenebras intraque morae breve tempus in urbem pervenit Haemoniam, positisque e corpore pennis in faciem Ceycis abit sumptaque figura luridus, exanimi similis, sine vestibus ullis 655 coniugis ante torum miserae stetit; uda videtur barba viri madidisque gravis fluere unda capillis. Tum lecto incumbens fletu super ora profuso, haec ait: « Agnoscis Ceyca, miserrima coniunx? an mea mutata est facies nece? Respice: nosces 660 inveniesque tuo pro coniuge coniugis umbram. Nil opis, Alcyone, nobis tua vota tulerunt: occidimus! Falso tibi me promittere noli. Nubilus Aegaeo deprendit in aequore navem auster et ingenti iactatam flamine solvit, 665 oraque nostra tuum frustra clamantia nomen inplerunt fluctus. Non haec tibi nuntiat auctor ambiguus, non ista vagis rumoribus audis: ipse ego fata tibi praesens mea naufragus edo. Surge, age, da lacrimas lugubriaque indue nec me 670 indeploratum sub inania Tartara mitte ». Adicit his vocem Morpheus, quam coniugis illa crederet esse sui; fletus quoque fundere veros visus erat gestumque manus Ceycis habebat. Ingemit Alcyone; lacrimas movet atque lacertos 675 per somnum corpusque petens amplectitur auras exclamatque: «mane! Quo te rapis? Ibimus una.' |
Ecco
che il padre della stirpe dei suoi mille figli sveglia
Morfeo, artefice e imitatore della figura. Non c'è
nessuno più abile di lui nel fingere l'andatura, il
volto e l'accento nel parlare; ai quali poi aggiunge le
vesti e il lessico più tipici di ciascuno; lui però
imita soltanto gli esseri umani, un altro fa le bestie
feroci, fa gli uccelli, fa il serpente dal lungo corpo:
(640) gli dei celesti lo chiamano Icelo, la stirpe dei
mortali lo chiama Fobetore; ce n'è anche un terzo,
Fantaso, con un'altra arte ancora: trasformandosi si
finge terra, sasso, onda, legno, e ogni cosa che non ha
anima; sono soliti mostrare le loro forme di notte a re
(645) e condottieri, altri poi vanno errando fra il
popolo e la plebe. Il padre Sonno fra tutti i fratelli sceglie proprio Morfeo, perché esegua l'ordine della figlia di Taumante, poi, lasciandosi andare ancora al molle languore, poggia il capo e sprofonda nelle spesse coltri. (650) Quello vola nelle tenebre con le ali che non fanno il minimo rumore, in un breve lasso di tempo arriva alla città Emonia, e deposte dal corpo le ali piumate prende le forme di Ceice e con il suo aspetto si mette davanti al letto della sua povera sposa, (655) sporco di terra, come un cadavere, completamente senza vesti: la barba dello sposo sembrava bagnata, e dai capelli madidi e pesanti pareva cadere acqua di mare. Così allora, incombendo sul letto, col viso pieno di lacrime, parlava: « Riconosci Ceice, povera sposa mia, o il mio aspetto è tanto cambiato con la morte? Guardami: mi riconoscerai (660) e al posto del tuo sposo dello sposo troverai l'ombra! I tuoi voti, Alcione, non mi hanno portato fortuna: sono morto! Non voglio mentirti promettendoti di tornare! L'Austro nuvoloso si è impadronito della nave sul mare Egeo e col suo immane soffio l'ha disfatta, (665) e i flutti mi hanno riempito la bocca mentre invano chiamavo il tuo nome. Non è un testimone ambiguo chi ti dà queste notizie, non stai sentendo vaghe dicerie: sono io stesso, naufrago, che ti sto dinnanzi e ti rivelo la mia sorte. Alzati, muoviti, versa le tue lacrime e vestiti a lutto e non mandarmi (670) fra le ombre vane senza compianto! » Morfeo diceva queste parole fingendo anche la voce, perché lei credesse che a dirle fosse il suo sposo; le stesse lacrime che versava sembravano vere, e muoveva anche le mani coi gesti di Ceice. Alcione geme nel sonno; sgorgano le lacrime e muovendo le braccia (675) e protendendo il corpo abbraccia l'aria e grida: « Rimani! dove fuggi? ce ne andremo insieme. » |
IL RISVEGLIO DI ALCIONE |
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Voce
sua specieque viri turbata soporem excutit et primo, si sit, circumspicit, illic, qui modo visus erat; nam moti voce ministri 680 intulerant lumen. Postquam non invenit usquam, percutit ora manu laniatque a pectore vestes pectoraque ipsa ferit; nec crines solvere curat: scindit et altrici, quae luctus causa, roganti « Nulla est Alcyone, nulla est » ait, « occidit una 685 cum Ceyce suo. Solantia tollite verba! Naufragus interiit. Vidi agnovique manusque ad discedentem cupiens retinere tetendi. Umbra fuit, sed et umbra tamen manifesta virique vera mei. Non ille quidem, si quaeris, habebat 690 adsuetos vultus nec quo prius, ore nitebat: pallentem nudumque et adhuc umente capillo infelix vidi: stetit hoc miserabilis ipso, ecce, loco » (et quaerit, vestigia siqua supersint). « Hoc erat, hoc, animo quod divinante timebam, 695 et ne me fugeres, ventos sequerere, rogabam. At certe vellem, quoniam periturus abibas, me quoque duxisses tecum: fuit utile tecum ire mihi. Neque enim de vitae tempore quicquam non simul egissem, nec mors discreta fuisset. 700 Nunc absens perii, iactor quoque fluctibus absens, et sine me me pontus habet. Crudelior ipso sit mihi mens pelago, si vitam ducere nitar longius et tanto pugnem superesse dolori; sed neque pugnabo nec te, miserande, relinquam 705 et tibi nunc saltem veniam comes, inque sepulcro si non urna, tamen iunget nos littera: si non ossibus ossa meis, at nomen nomine tangam.' Plura dolor prohibet, verboque intervenit omni plangor, et attonito gemitus a corde trahuntur. |
Turbata
dall'apparizione dello sposo e dalla sua stessa voce, si
riscuote dal sopore e prima di tutto si guarda intorno,
per vedere se c'è quello che ha appena visto; perché i
servitori richiamati dalla sua voce (680) avevano
portato il lume. Poi, siccome non trova nessuno, si
percuote il viso con le mani e si strappa le vesti dal
petto e si ferisce anche il petto e non si cura di
sciogliersi i capelli: li strappa e alla nutrice, che le
chiede la ragione del pianto: « Alcione non c'è
più, non c'è nessuna Alcione », dice, « è morta col suo
Ceice. Risparmiatevi le parole di conforto! è morto
naufrago. L'ho visto e l'ho riconosciuto e ho teso le
mani cercando di trattenerlo mentre se ne andava
lontano. Era un'ombra, ma era il mio sposo ormai ombra
di se stesso, ne sono certa. Se ora me lo chiedi, non
aveva la sua espressione solita, il suo viso non
splendeva come prima: l'ho visto, povera me, pallido e
nudo e poi aveva i capelli madidi: ecco, il povero sposo
mio stava proprio qui » (e guarda se ne fosse rimasta
qualche traccia). « Era questo, questo, che temevo con animo presago, (695) e ti chiedevo di non fuggire via da me per andar dietro ai venti. Di certo avrei voluto, visto che partivi per morire, che tu portassi anche me: mi sarebbe convenuto venire con te. Così non avremmo vissuto un tempo della nostra vita senza essere insieme, e non avremmo avuto due morti separate. Ora sono morta lontano, e anche se io non ci sono le onde mi travolgono, e il mare mi tiene senza avermi. Ma più crudele del mare sarebbe con me la mia mente, se mi sforzassi di restare ancora in vita e se combattessi per superare un dolore come questo; ma non combatterò, né ti lascerò, mio povero amore, (705) e ti sarò se non altro compagna di viaggio, e nel sepolcro, se non l'urna, ci unirà l'iscrizione: se non toccherai le mie ossa con le tue, il nome almeno toccherò col nome. » Il dolore le proibisce altre cose, e il pianto si mescola a ogni parola, e i gemiti sgorgano dal cuore smarrito. |
LA METAMORFOSI |
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710
Mane
erat: egreditur tectis ad litus et illum maesta locum repetit, de quo spectarat euntem, dumque moratur ibi dumque « Hic retinacula solvit, hoc mihi discedens dedit oscula litore » dicit dumque notata locis reminiscitur acta fretumque 715 prospicit, in liquida, spatio distante tuetur nescio quid quasi corpus aqua, primoque, quid illud esset, erat dubium; postquam paulum adpulit unda, et, quamvis aberat, corpus tamen esse liquebat, qui foret, ignorans, quia naufragus, omine mota est 720 et, tamquam ignoto lacrimam daret, « Heu! Miser » inquit, « quisquis es, et siqua est coniunx tibi ». Fluctibus actum fit propius corpus; quod quo magis illa tuetur, hoc minus et minus est mentis sua, iamque propinquae admotum terrae, iam quod cognoscere posset, 725 cernit: erat coniunx! « Ille est! » exclamat et una ora, comas, vestem lacerat tendensque trementes ad Ceyca manus « Sic, o carissime coniunx, sic ad me, miserande, redis? » ait. Adiacet undis facta manu moles, quae primas aequoris iras 730 frangit et incursus quae praedelassat aquarum: insilit huc. Mirumque fuit potuisse: volabat percutiensque levem modo natis aera pennis stringebat summas ales miserabilis undas, dumque volat, maesto similem plenumque querellae 735 ora dedere sonum tenui crepitantia rostro. Ut vero tetigit mutum et sine sanguine corpus, dilectos artus amplexa recentibus alis frigida nequiquam duro dedit oscula rostro. |
(710)
Era
mattina: esce dalla casa verso la spiaggia e mesta
ritorna nel posto dal quale l'ha visto partire, e mentre
si ferma qui, dice: « Qui ha sciolto gli ormeggi, qui
sulla spiaggia mi ha baciata mentre partiva », e mentre
ricorda punto per punto quello che era accaduto in quei
posti, e guarda lontano sul mare, scorge qualcosa
sull'acqua, sembra un corpo, e in un primo momento non
aveva visto bene che cosa fosse; poi quando le onde lo
portarono più vicino, anche se era ancora distante, vide
bene che era un corpo, e anche non sapendo di chi fosse,
ma certo era di un nafrago, fu turbata dal presagio,
(720) e mentre piangeva per lo sconosciuto: « Oh! che
misera sorte, la tua! » disse, «chiunque tu sia, e
misera la tua sposa, se ne hai una! », il corpo spinto
dalle onde si avvicinò: più lo guarda, meno è padrona di
se stessa, e ora che è arrivato quasi sulla riva,
abbastanza vicino perché ne distingua la forma, lo
riconosce: (725) era il suo sposo! « È lui! » esclama e
si lacera il volto e i capelli e la veste e tendendo a
Ceice le mani tremanti, dice: « Così sposo carissimo,
così mi torni, povero amore? ». C'era fra le onde un molo costruito dall'uomo, (730) che frange la prima collera del mare e fiacca l'assalto delle acque: da questo spicca il salto. Per miracolo accadde: volava e battendo l'aria con le ali appena nate, lieve querulo uccello, fendeva il pelo dell'acqua, e volando la bocca emise col becco sottile un suono (735) simile al pianto e pieno di lamenti. E così accadde, che appena toccò il corpo muto ed esangue, abbracciando con le ali nuove le membra tanto amate, col becco rigido gli dava i freddi baci. |
Senserit hoc Ceyx an vultum motibus undae 740 tollere sit visus, populus dubitabat, at ille senserat, et, tandem superis miserantibus, ambo alite mutantur. Fatis obnoxius isdem tunc quoque mansit amor nec coniugiale solutum est foedus in alitibus: coeunt fiuntque parentes, 745 perque dies placidos hiberno tempore septem incubat Alcyone pendentibus aequore nidis. Tum via tuta maris: ventos custodit et arcet Aeolus egressu praestatque nepotibus aequor. |
Se Ceice lo sentisse, o se rivoltato dal movimento dell'onda sembrasse alzare il viso, (740) non si sa con certezza, ma lui aveva sentito: e gli dei celesti, provando finalmente pietà, li trasfomarono entrambi in uccelli. Allora l'amore li tenne legati a un solo destino, e fra le creature alate non si sciolse il nodo coniugale: si accoppiano e diventano genitori, (745) e per sette placidi giorni durante l'inverno Alcione cova in nidi sospesi sul mare. Allora è sicura la via del mare: Eolo trattiene i venti e ne impedisce l'uscita: distende il mare per i suoi nipoti. |
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RIFERIMENTI | ||
Testo latino |
Ovidio, Le metamorfosi. Traduzione
italiana di Guido Paduano e introduzione di
Alessandro Perutelli. Milano: Mondadori 2007 (Prima
edizione: Torino: Einaudi 2000). |
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Traduzione | © Adalinda
Gasparini, 2012 |
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IMMAGINE | ||
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Alcione e Ceice,
bassorilevo di marmo |
Alcyone and Ceyx, Thomas Banks (1735-1805). https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/a/a7/Alcyone_ceyx.jpg |
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Il naufragio di Ceice |
Vedi online l'incisione secentesca di Johannes
Bauer per le Metamorfosi,
http://www.uvm.edu/~hag/ovid/baur1703/baur1703b11p107.jpeg.
Questa e le altre incisioni di John Bauer di seguito citate citate sono online nel sito "The Ovid Project. Metamorphosing the Metamorphoses" (http://www.uvm.edu/~hag/ovid/; ultimo accesso: 12 luglio 2012). Il libro illustrato da John Bauer apparve a Vienna nel XVII secolo, e conobbe numerose ristampe e riedizioni; le immagini online sono tratte da un'edizione di Norimberga del 1703. |
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Alcione prega Giunone, e la dea ordina che sia informata della morte dello sposo. | John Bauer, cit., http://www.uvm.edu/~hag/ovid/baur1703/baur1703b11p108.jpeg. | |
Quo simul intravit manibusque obstantia virgo | somnia dimovit... | John Bauer, cit., http://www.uvm.edu/~hag/ovid/baur1703/baur1703b11p109.jpeg. | |
...Luridus, exanimi similis, sine vestibus ullis | coniugis ante torum miserae stetit; uda videtur | barba viri madidisque gravis fluere unda capillis... |
John Bauer, cit., http://www.uvm.edu/~hag/ovid/baur1703/baur1703b11p110.jpeg;
Questo passo delle Metamorfosi, universalmente note nel XIV secolo, potrebbe essere stato presenta a Boccaccio per il sogno di Lisabetta da Messina: Lorenzo l'apparve nel sonno,
pallido e tutto rabbuffato e con panni tutti
stracciati e fracidi indosso, e parvele che egli
dicesse:
- O Lisabetta, tu non mi fai altro che chiamare e della mia lunga dimora t’attristi, e me con le tue lagrime fieramente accusi; e per ciò sappi che io non posso più ritornarci, per ciò che l’ultimo dì che tu mi vedesti i tuoi fratelli m’uccisono. E disegnatole il luogo dove sotterrato l’aveano, le disse che più nol chiamasse né l’aspettasse, e disparve. La giovane destatasi, e dando fede alla visione, amaramente pianse. Come Ceice ad Alcione, Lorenzo appare in sogno a Lisabetta che aspetta il suo ritorno, e le rivela la sua morte. Visto che Lorenzo non è morto annegato, la ragione dei suoi panni bagnati potrebbe indicarne la parentela letteraria con Ceice. |
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...Si non | ossibus ossa meis, at nomen nomine tangam. | L'amore vince la morte grazie alla
congiunzione dei nomi: così Ovidio riconosce il senso
del desiderio degli amanti, che non si ferma con la
morte. Grazie al nome, alla parola, alla poesia di
Ovidio, l'unione degli amanti vince di mille secoli il silenzio. Le
Muse, nei Sepolcri di
Ugo Foscolo, Siedon custodi de' sepolcri, e quando il tempo con sue fredde ale vi spazza fin le rovine, le Pimplèe fan lieti di lor canto i deserti, e l'armonia vince di mille secoli il silenzio Mille, mille e una notte, millunanotte (D'Arrigo, Horcynus Orca), millanta,: numero magico. Per ora la storia di Alcione e Ceice ha vinto il silenzio di venti secoli. |
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Mane erat: egreditur tectis ad litus et illum | maesta locum repetit, de quo spectarat euntem, | dumque moratur... | Vedi, di Herbert James Draper, Halcyone (1915). http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/e/eb/Herbert_James_Draper_-_Halcyone_%281915%29.jpg;
ultimo accesso: 9 luglio 2012. Le vesti di Alcione hanno i colori del martin poescatore, e due martin pescatori, le creature più variopinte dell'avifauna italiana, volano sopra di lei, mentre sette ninfe emergono dalle acque per guardarla. |
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Mirumque
fuit potuisse: volabat... |
http://asset.dvjournal.ru/images/8/7/2/d/6/872d601a76098aae83f679fae2c14fa8_77.jpg; sito non più accessibile; ultimo accesso: 12 luglio 2012. | |
Ut vero tetigit
mutum et sine sanguine corpus, | dilectos artus |
Alcione e Ceice, bassorilievo marmoreo,
già a Parlington Hall, Aberford, spostato in data
imprecisata a Lotherton Hall dopo il 1905;
http://en.wikipedia.org/wiki/File:Alcyone_ceyx.jpg;
ultimo accesso: 5 febbraio 2024. |
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John Bauer, cit., http://www.uvm.edu/~hag/ovid/baur1703/baur1703b11p110.jpeg. | ||
Senserit hoc Ceyx an vultum motibus undae | tollere sit visus, populus dubitabat, at ille | senserat... | Età augustea, massimo splendore prima
della lunga decadenza dell'Impero di Roma: Ovidio non ha
illusioni sulla magia. Immaginando che Ceice, già morto,
abbia alzato il viso verso Alcione ci dice che potrebbe
essere stato l'effetto del moto ondoso sul cadavere. E
subito dopo la poesia sceglie il miracolo, la
metamorfosi di lui che quella appena avvenuta di lei
rende possibile: at
ille senserat... La verità della poesia non scaturisce dalla fede infantile nel prodigio, ma dalla grazia dell'evento desiderato e immaginato oltre le forme consuete, e sposta nell'orizzonte dove può vivere, infinito, consistente solo di parole, la realizzazione del desiderio. Così l'essere umano con la sua parola poetica estende lo spazio di vita che gli è concesso, e accogliendo l'eredità delle generazioni che lo hanno preceduto, abita con la parola, con la nuda parola, il futuro. Questa estensione, questo gesto che lancia la parola poetica come un cacciatore lancia una freccia, comprende tutto il dolore e tutta la gioia, tutta la speranza e tutta la disperazione della vita. |
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John Bauer, cit., http://www.uvm.edu/~hag/ovid/baur1703/baur1703b11p111.jpeg. |
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...Perque
dies placidos hiberno tempore septem... |
Il Sonno, fratello della Morte, è
salutato da Iride come il più placido degli dei (placidissime deorum)
all'inizio di questo brano, che segue il tragico
racconto dell'eccesso di felicità degli sposi e del
naufragio di lui. E la storia di Alcione e Ceice finisce
con i placidi giorni invernali, quando i naviganti non
devono temere venti o tempeste. Il fallimento dell'umano
che si spinge oltre il limite proibito del divino (Ceice
e Alcione perfettamente felici osavano chiamarsi Giove e
Giunone, come la coppia immortale che regna sugli dei),
è respinta oltre il limite opposto, quello animale. La
peregrinatio e la periclitatio umana fallisce, ma nella
tensione assoluta del loro desiderio Alcione e Ceice
meritano che il signore dei venti, padre di lei, renda
placido, mite e sereno, tutto il mare. Questo è il senso
che troviamo nelle Metamorfosi di Ovidio, come nella
storia incestuosa di Mirra, che per metamorfosi dà
origine all'albero che stilla le lacrime che medicano e
profumano. Regale dono dei magi alla nascita del
Salvatore, la mirra fu usata come unguento per ungere il
corpo dopo la crocifissione. Placido è il sonno, placida la morte, e amore sembra tendere alla morte: ricorrente in tutte queste storie di amore tombale, sia mortifero, sia definitivo, come un condono fiscale, la determinazione degli amanti a morire piuttosto che a vivere l'uno senza l'altro. Si racconta qui del desiderio infinito, del suo corpo a corpo con la legge, di come il soggetto maschile e femminile pongano la loro unione al di sopra di ogni altra realizzazione, di come accettino senza esitare la morte, se è per loro la sola possiiblità di restare uniti. Dalla tragedia lacrimosa di Lisabetta da Messina, che vive per il vaso di basilico nel quale ha sepolto in segreto la testa del suo amante, alla felicità della riunione di Abrocome e Anzia, dopo un numero strabiliante di peripezie, tutte queste storie raccontano di un impossibile che diventa possibile attraverso la fedeltà al desiderio e al farsi parola, canto storia, di una vicenda. Ma in ciascuna di queste storie c'è un oltre, sia la salvezza di alcuni, sia la morte degli altri: c'è un orizzonte dove la domanda che non ha trovato risposta entro il confine della vita concreta torna a porsi, e questa insistenza è più di una risposta. L'immagine di Giulietta e Romeo che abbiamo scelto per tutte queste storie evoca la morte e il sonno simile alla morte. Evoca il possibile risveglio, della sposa di Apollonio re di Tiro dalla cassa sulla spiaggia di Efeso, delle Belle Addormentate, o anche del principe protagonista della storia cornice del Cunto de li cunti, per la quale tutte le favole vengono raccontate. Evoca la fine di Giulietta e Romeo, che avrebbero potuto risvegliarsi, se un contrattempo non fosse loro stato fatale, evoca il compianto pieno di tenerezza dei genitori che li fanno seppellire insieme, facendo pace di fronte ai loro cadaveri, la stessa pace del mare duranti i giorni alcioni. Non lo racconta Ovidio, ma il mito dice che fu Zeus a placare i mari quando gli uccelli nutrivano i loro piccoli: senza la quiete marina i loro nidi penduli venivano staccati e trascinati via dalle onde. La vita, racconta il mito, procede anche passando per la morte, andando oltre la morte. Di salvezza e vita eterna dicono le religioni, ma in queste storie d'amanti si fa strada un'eternità laica, uno sguardo disincantato sul mondo, come quello di Ovidio che ci dice che resta dubbio se Ceice cadavere abbia sentito i freddi baci di Alcione o se abbia alzato il viso verso di lei perché un'onda lo aveva rivoltato (senserit... an... sit), per poi passare con un'avversativa dal congiuntivo al piuccheperfetto indicativo (at ille senserat) per riprendere la storia e portare a compimento la metamorfosi della coppia. Eros e Thanatos, certo, di loro si racconta, del corpo a corpo fra amore e morte che fece cambiare la sua teoria a Freud nel 1920. Ma nell'ostinazione che persegue un sintomo o un desiderio - che certo non coincidono - fino alla distruzione definitiva della vita c'è tutto l'umano, perchè è in questo modo che si lancia la parola, il mito, la favola, come una freccia verso il futuro. Il fatto che accada attraverso la parola definisce l'umano, ma le analogie col mondo animale e vegetale sono potenti: un fungo può attendere anni nel legno di un albero abbattuto prima di spuntare e spargere le sue spore, perché propagare la vita è il desiderio che la vita ha di se stessa, più forte di ogni intenzione umana. Per questo Eros già in Esiodo è il dio più bello, e doma i pensieri e i saggi proponimenti degli uomini come degli dei. Desiderio di immortalità, d'infinito: forse desiderio di generazione, perché si propaghi la vita, nei figli, o nelle storie, o nella poesia. Gli artisti sono sempre distratti, come gli innamorati, perché vivono una sorta di fregola perenne, seguendo l'impulso a mescolarsi con altre creature poetiche, contemporanee e passate, per spargere parole e storie e parole come i funghi spargono le loro spore. In questa chiave le storie di amore tombale ci dicono che l'umano non si ferma ai confini fisici della vita, e se non si ferma la creazione di nuove forme accade. Secondo Joseph Campbell la modernità comincia con la storia di Abelardo ed Eloisa, quando lei è in convento e risponde alla lettera con la quale Abelardo le chiede di non chiamarlo più al loro amore umano, perché devono ormai pensare solo a Dio, ciascuno penitente e orante nel proprio convento. Eloisa dice che lei lo ha amato, e amandolo ha accettato la sua richiesta, che scegliesse come lui il convento: ma non rinuncerà mai al loro amore, anche se lui sembra averlo fatto. Qui, scrive Campbell, l'allieva Eloisa lascia l'orizzonte della salvezza divina scelto dal grande filosofo e teologo Abelardo di Nantes, e supera il maestro, restando fedele all'incontro nel quale la sua soggettività ha assunto consistenza. La storia racconta che quando Eloisa morì, ventidue anni dopo Abelardo, secondo il suo desiderio venne sepolta nello stesso loculo. E trovarono che il corpo di lui aveva aperto le braccia per accoglierla. La modernità di cui parla Campbell, attribuendone la prima testimonianza a una donna, viene dopo secoli di amanti fedeli, che scelgono senza esitare la morte per non perdere la consistenza vitale che il loro essere, la soggettività di entrambi, ha assunto nell'incontro. Ipotizziamo che queste vicende, incessantemente rinarrate anche nelle contemporanee telenovelas, rendano pensabile un orizzonte laico per il costituirsi della soggettività maschile e femminile, entro il quale l'essere è disposto a restare, rinunciando alla salvezza delle religioni ufficiali, oltre il quale la memoria, il canto, la favola, il racconto, l'iscrizione, portano il senso di questa scelta in altri tempi e altri luoghi, comunque umanissimi. Sostanziale la differenza fra l'eternità della religione consensuale e quella di queste storie: solo la prima può fornire all'ordine legale strumenti per giustificare e consolidare la gerarchia, la piramide del dominio che privilegia il potere e la stabilità rispetto al movimento e alla libertà della scelta soggettiva. E mentre l'eternità della salvezza è promessa dalla religione al singolo soggetto, questa nuova eternità è cercata dalla coppia: nel primo caso si tratta della creatura che si dà al padre divino, con l'intercessione della sposa di dio, nel secondo due creature di sesso diverso si consacrano una all'altra. C'è ancora molto da imparare da questo amore tombale, che destituisce le gerarchie e libera la parola dalla soggezione a ogni ordine costituito. La nostra ipotesi è che queste storie, e le fiabe che si sono stabilite come genere dal XVI secolo, che pongono l'incontro fra femminile e maschile come meta assoluta, rendano pensabile con le loro potentissime e mobilissime strutture narrative, rendano pensabile una soggettività che si realizza fra pari, staccandosi dai garanti genitoriali come una nave si stacca dal porto. Forse i naufragi sono più degli approdi, perché si tratta di una ricerca, peregrinatio & periclitatio senza garanti. Aggiungiamo un'ultima notazione: le fiabe pongono la questione dei conti da fare con l'autorità genitoriale, e raccontano che solo i protagonisti che hanno fatto questi conti possono giungere al finale felice e vivere insieme per sempre. Agli altri, anche se vivono in una favola, tocca il destino tragico e sublime di Renza e Cecio in Bianco viso di Basile. Ceice, Cecio: osserviamo l'assonanza fra il nome del protagonista della favola di Basile e di quella di Ovidio che raccontiamo in questa pagina. |
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Alcyone |
In ornitologia, vedi per gli alcionidi:
http://en.wikipedia.org/wiki/Halcyon_(genus);
ultimo accesso, 12 luglio 2012; per gli uccelli che derivano il loro nome da Ceice:, vedi, ad esempio: http://en.wikipedia.org/wiki/Ceyx_(bird); ultimo accesso, 12 luglio 2012. |
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...Praestatque nepotibus aequor. | Alcione è figlia di Eolo, signore dei venti, mentre Ceice è figlio di Eosforo, la stella del mattino. |