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SENOFONTE EFESIO
II-III SECOLO


ABROCOME E ANZIA
ROMANZO GRECO



ADALINDA GASPARINI                 PSICOANALISI E FAVOLE





DA ABROCOME E ANZIA
EPITOME E COMMENTO

LIBRO I

Il latino africano Apuleio, vissuto fra il 125 e il 170 della nostra era, scrittore, filosofo e mago, aveva scritto le sue Metamorfosi, più conosciute col titolo Asino d'oro, all'interno delle quali, al centro del libro, si raccontava la meravigliosa favola di Amore e Psiche. Senofonte Efesio, scrittore greco vissuto nell'odierna Campania meno di un secolo dopo Apuleio, scrisse un romanzo nel quale due amanti attraversavano una serie quasi infinita di peripezie prima di riunirsi per sempre: Abrocome e Anzia. Le vicende erano ambientate nello stesso tempo dello scrittore, in vari luoghi del Mediterraneo che poteva aver visitato di persona.

Racconta Senofonte che viveva ad Efeso un giovane talmente bello che persino le statue del dio dell'amore sembravano brutte se confrontate con lui. Abrocome, come il più antico Narciso, disdegnava tutti i giovani e le giovani del suo tempo, perché erano inferiori a lui, e non amando non teneva in alcun conto Eros, che non considerava neppure un dio, certo che non si sarebbe mai piegato al suo potere.
Nella fabella di Apuleio la dea Venere si era adirata con la fanciulla Psiche, tanto bella che i mortali rivolgevano a lei le loro preghiere, trascurando il suo culto, qui Eros si adirò con Abrocome, e decise di fargli provare la sua potenza, da sempre capace di piegare esseri umani e divini.
Viveva a quei tempi una fanciulla, di appena quattordici anni, tanto bella che i cittadini di Efeso pensavano che le avesse dato forma la dea Artemide a sua somiglianza, o che la dea stessa fosse venuta ad abitare tra gli uomini. Alla dea era dedicato il grande tempio di Efeso che era una delle sette meraviglie del mondo, del quale oggi resta solo una colonna. Nel romanzo del quinto secolo Apollonio re di Tiro nello stesso tempio si ritroveranno finalmente il re e la sua sposa che aveva creduto morta molti anni prima. 
Abrocome continuava a credersi superiore al dio d'amore, quando, per le feste di Artemide, giunse al tempio alla guida degli efebi, proprio quando giungeva Anzia a capo delle fanciulle. Mentre gli abitanti di Efeso ammirati non riuscivano a decidere chi dei due fosse più bello, i due giovani si accesero d'amore uno per l'altro. Tornati nelle loro case, cercarono di resistere alla passione, ma siccome Amore non lo permetteva, si arresero. Abrocome pregò per la prima volta il dio:

- Hai vinto, Eros! - disse - gran trofeo ti sei eretto per la vittoria sul casto Abrocome; eccotelo supplice. Fagli almeno grazia della vita, ché si è rifugiato presso di te, signore di tutti gli esseri viventi. Abbi cura di me e non protrarre a lungo la punizione di un insolente qual io sono. Ti disprezzavo, Amore, perché ancora inesperto del tuo potere. Dammi ora Anzia: non essere soltanto un dio amaro per chi ti resiste, ma benevolo anche verso chi è stato vinto. (Abrocome e Anzia; pp. 190-191)

Eros, deciso a vendicarsi del miscredente, non cedette alle preghiere, e i due giovani cominciarono a deperire, impallidendo e smagrendosi, come tutti i malati d'amore. E come nelle favole di ogni tempo i medici e gli indovini chiamati dai genitori non riuscirono a scoprire né la causa del male, né il rimedio. Allora i genitori si recarono allora al santuario di Apollo chiedendo un responso, e il dio rispose a entrambe le coppie nello stesso modo:

A che bramate del male indagare il principio e la fine?
Un solo male entrambi tormenta, donde nasce rimedio,
Vedo per essi patimenti crudeli e infinite vicende:
Fuggiranno entrambi cacciati dai predoni sul pelago,
Soffriranno, imposte da genti del mare, catene,
E talamo ad essi sarà la tomba ed il fuoco vorace.
Quindi presso le sacre correnti del Nilo ad Iside
Santa soccorritrice offrite splendidi doni.
Dopo i travagli ancora più lieta sorte vedranno.
(Ivi., p. 192)

Non avendo compreso neppure dall'oracolo di che malattia si trattasse, e come potesse nascerne la cura, né quali fossero i pericoli che avrebbero dovuto affrontare, o come potessero evitarli, né quale lieto fine potessero sperare per i loro giovani, i genitori decisero di farli sposare, per poi mandarli a fare un lungo viaggio in terre straniere, sperando così di allontanarli dai pericoli.

In tante favole si racconta che alla nascita dell'erede i regali genitori chiamano indovini e i sapienti a predire la sua sorte. E sapendo del pericolo che corre, ad esempio di morire per un fuso o una lisca di lino, il padre sovrano bandisce dal reame ogni attività di filatura. O sapendo, come il padre di Renza ne Lo viso, che un osso sarà causa della sua rovina, la fa chiudere in una torre dove le vengono serviti solo cibi affatto privi di ossi. In entrambi i casi il rimedio si rivela inutile, se non dannoso: non avendo mai visto girare un fuso, le Belle appena cresciute lo toccano e si addormentano di un sonno simile alla morte. Così accade nella più famosa Bella Addormentata, come 
in  Sole, Luna e Talia, dove si trova la sua antenata secentesca. 
Abbiamo osservato un'analogia fra la storia di Abrocome e Anzia e la fabella di Amore e Psiche: là tutta la storia si origina da una fanciulla mortale la cui bellezza eclissa quella della dea d'amore che decide di vendicarsi, qua da un giovane la cui bellezza gli fa disprezzare il dio d'amore, con le stesse conseguenze. In entrambi i racconti accadono lunghe peripezie e pericoli mortali, simili a quelli delle fiabe che ancora si raccontano, e che si cominceranno a pubblicare più di mille anni dopo, quando ancora i romanzi antichi venivano letti e rinarrati in tutta l'Europa. Come nel romanzo di Apuleio in quello di Senofonte la salvezza verrà da Iside, grande dea che riuniva in sé le prerogative delle divinità femminili, che nel Cristianesimo sarebbero state attribuite a Maria.

Il rifiuto delle nozze, che accomuna Abrocome a Narciso, altrettanto bello e orgoglioso della sua bellezza, prima di vedere Anzia, è il motivo d'inizio di tante fiabe, al quale segue una specie di innamoramento eccezionale. Può accadere perché il principe-Narciso si innamora di un'accidentale combinazione di colori (ricotta e sangue, ai quali talora si aggiunge il nero dell'ala del corvo) che fa immaginare e desiderare al protagonista, fino a quel momento deciso a non sposarsi, una donna bianca come la ricotta, rossa come il sangue e con i capelli neri come l'ala del corvo (vedi: I tre cedri, e La ricotta janca). In altri casi il principe-Narciso si innamora per un incantesimo o per la maledizione di una vecchia, e come nel primo caso non potrà far altro che mettersi in cammino per cercare la bella impossibile fra mille pericoli (vedi: L'amor dei tre naranzi). Un desiderio violento come quello al quale cerca inutilmente di resistere Abrocome e Anzia dopo essersi visti consacra gli attanti alla ricerca dell'amore ignoto, o a cercare di ritrovare l'amata o l'amato dopo una violenta separazione. La storia finirà solo col ricongiungimento degli amanti.
Se il principe-Narciso ferma il tempo, ignorando il bisogno dell'altro, pago della propria bellezza, l'innamoramento dissolve in un batter d'occhio la fissità enunciata come archè: la storia comincia a muoversi col principe cercatore. Si racconta della necessaria e ardua accettazione del tempo, che scorre verso la nuova unione, la successione al trono, la generazione, destituendo l'immobilità iniziale, dove non c'è storia da raccontare. Generare significa sentire la mancanza dell'altro, e poi, insieme all'altro, dar vita a nuovi esseri umani, simili e diversi da se stessi. Significa non essere più padroni di sé: la resistenza al movimento del tempo, espressa da Narciso e da tutti i suoi simili, che ha il suo corrispettivo nella nevrosi ossessiva, cerca di fare in modo che nulla cambi, che tutto si conservi com'è. Fermare il tempo significa mantenere l'illusione di non avvicinarsi alla morte ogni giorno che passa, e se l'illusione domina non c'è storia che si possa raccontare. Se si cerca di escludere la morte si esclude però preso la vita stessa.
Ricordiamo che per Esiodo la prima opera cattiva, kakòn èrgon (Teogonia, vv. 152 sgg.) è il tentativo, inizialmente riuscito, di Urano/Cielo, quando impedisce di venire alla luce ai potenti figli, i Titani, comprimendoli in seno alla madre Gaia/Terra. Come lui il figlio Crono/Tempo cercherà di impedire incorporandoli ai figli suoi e di Re/Fluente di venire alla luce, e come lui sarà spodestato.
Il tentativo di bloccare il Tempo, nel quale si dispiega la vita e con la vita il destino, fallisce nel mito greco come fallisce nella favola il tentativo del re padre della Bella Addormentata.
Fra stasi, conservazione, e movimento, trasformazione e morfogenesi, esiste il racconto.
La tragedia, che segna tante storie d'amore e di morte senza lieto fine (vedi, ad esempio, tra le fiabe, Lo viso, e tra le novelle Lisabetta da Messina) mostra il danno irreparabile e universale che si subisce quando l'istanza della fissità vince su quella della mutazione. Ma anche in questo caso la storia viene raccontata, e la disgrazia si trasforma, nella narrazione o nel canto, in una celebrazione degli amanti che hanno preferito la morte al tradimento del loro movimento uno verso l'altro.

Lasciamo il grande tema dell'avvicendamento delle generazioni che è lo stesso scorrere della vita, per tornare ad Abrocome e Anzia. I due giovani erano tanto felici alla prospettiva delle nozze che non si diedero pena di capire cosa significasse il responso oracolare: di fronte alla realizzazione del desiderio tutto il resto diventava insignificante o trascurabile.
Le nozze furono celebrate con una grande festa notturna, al culmine della quale Abrocome e Anzia alla luce delle torce furono accompagnati al letto nuziale, che era d'oro massiccio, coperto di porpora e sormontato da un baldacchino babilonese ricamato con Amorini. Alcuni di questi giocavano, altri volavano a cavallo di passerotti, altri ancora intrecciavano ghirlande; su un lato onoravano Afrodite, sull'altro Ares, non armato e pronto a raggiungere la dea mentre Eros dipinto con una torcia gli mostrava la strada.

Abrocome abbracciava Anzia dicendole tutto il suo amore, e la fanciulla baciando gli occhi di lui disse:

- Possiate sempre vedere ciò che vedete ora, e non fate sembrar bella ad Abrocome alcun'altra fanciulla, né a me sembri bello alcun altro. Voi possedete le anime che avete infiammato d'amore: siatene, alla stessa maniera, custodi. -
Così disse, e abbracciati si coricarono, e per la prima volta godettero le gioie d'Afrodite: e tutta la notte fecero a gara a chi fosse il più focoso amante. (Ivi, pp. 194-195)

Dopo breve tempo i genitori di entrambi fecero allestire per loro una nave che li conducesse in Egitto, sperando così di evitare le sofferenze predette dall'oracolo, e i due giovani, pensando al responso, giurarono che non si sarebbero mai traditi.
A questo punto Senofonte racconta il primo sogno del suo romanzo: sogni solo in parte allegorici, che come i veri sogni notturni non sono completamente comprensibili. Abrocome dunque, quando la nave era nel porto di Rodi, sognò una terribile gigantessa con una veste scarlatta, che si avvicinava a loro e incendiava la nave, provocando la morte di tutti tranne quella della bellissima coppia e della coppia formata dai loro fedeli servitori, Leucone e Rode. Prima di lasciare Rodi la giovane coppia si recò nel tempio del Sole e offrì al dio un'armatura tutta d'oro.
Pochi giorni dopo la nave fu in effetti assalita dai pirati, attratti dalle ricchezze di cui la sapevano carica, e dopo aver ucciso tutti fecero schiavi i quattro giovani. Li portarono nel loro rifugio presso Tiro, dove un pirata si innamorò di Abrocome, e un altro di Anzia. I due pirati si confidarono e decisero di aiutarsi, parlando ciascuno all'oggetto d'amore dell'altro. Entrambi i giovani, che temevano per la loro sorte, risposero che avevano bisogno di tempo per decidere se accettare i pirati come amanti.


LIBRO II

Quando si ritrovarono nella loro stanza, Abrocome e Anzia piangendo si dissero pronti a morire piuttosto che cedere alle brame dei due pirati, che rinunciarono forzatamente alle loro brame: il loro capo infatti, avendo visto Abrocome e Anzia li prese con sé per venderli come schiavi, pensando di ricavarne una grande somma.
La bellezza dei due giovani era tale che molti pirati li consideravano divini, e la figlia del capo, Manto, si innamorò perdutamente di Abrocome e chiese a Rode, la serva di Anzia di intercedere per lei, portandogli una lettera,  minacciandola di morte se non lo avesse convinto. La serva parlò a Leucone, servo di Abrocome, e insieme si chiesero come uscire da questa situazione. Decisero di svelare tutto ad Abrocome, che si adirò per il solo fatto che un'altra donna venisse nominata di fronte a lui e alla sua amatissima sposa. Anzia a sua volta chiese allo sposo di salvare i loro fedeli servitori: lei si sarebbe uccisa per rendergli possibile accettare la proposta di Manto. Abrocome invece mandò a dire a Manto che per quanto fosse padrona del suo corpo, non aveva alcun potere sulla sua anima, e che lui sarebbe morto prima di tradire con lei la sua sposa.
Il capo dei pirati giunse dalla figlia portandole uno sposo dalla Siria, ma Manto per vendicarsi si era stracciata le vesti, e gli disse che Abrocome aveva cercato di violentarla. Il capo dei pirati credette alla figlia: così il giovane fu torturato tanto da essere ridotto in fin di vita, e poi imprigionato. Anzia fu data a Manto come schiava insieme ai due servitori, e partì con lei per la Siria, mentre Abrocome era certo che pensava che sarebbe morto in carcere. Ma una notte sognò:

Gli parve di vedere suo padre Licomede in nere vesti, errare per tutte le terre e per tutti i mari e, presentandosi in carcere, scioglierlo e farlo uscire dalla cella: lui poi, diventato un cavallo, andava in giro per gran tratto di terra inseguendo una cavalla e infine, trovatala, tornava uomo. (Ivi, p. 208)

Né Abrocome né altri nel romanzo di Senofonte hanno alcuna metamorfosi animale, ma questo cavallo nel quale, solo in sogno, si trasforma il protagonista ci ricorda l'asino di Apuleio, nel quale è trasformato il protagonista Lucio per quasi tutto il libro. Se intendiamo come un cammino di umanizzazione 
le innumerevoli peripezie di Abrocome, che dalla condizione iniziale di Narciso perverrà a un'unione feconda e felice, la sua onirica condizione equina è simile a quella del romanzo di Apuleio.
Il senso di queste non irreversibili metamorfosi in animali, che ricorrono in tante fiabe del tipo de La Bella e la bestia (vedi, ad esempio, Belindu lu mostru, Il Re porco, Lu re Pesce) può essere colto se intendiamo l'umanizzazione come l'accettazione della mutevolezza della vita, e della successione delle generazioni come successione imprevedibile di forme, come imprevedibili sono i figli rispetto ai genitori. I mostri repellenti e gli animali stanno anzitutto a significare ciò che per antonomasia si oppone all'umano: il bestiale. Anzitutto: non si tratta tanto di applicare un'ermeneutica che legga come animali simbolici l'asino, il porco, il pesce o il mostro in genere, per quanto ogni interpretazione possa vere senso, quanto di intendere la condizione animale come condizione non umana per eccellenza. Attraversarla e superarla ha la funzione di porre l'umanizzazione come una meta, non come una condizione data in partenza.
Ricordiamo ora, in estrema sintesi, il dibattito tra Ernest Jones e Sigmund Freud sul femminile: all'asserzione del primo - donna si nasce - Freud replica: donna si diventa. E con Lacan il discorso procede: donna si inventa. Vorremmo fare un altro passo con le fiabe e i miti: uomo si inventa. Nel senso che le favole raccontano di protagonisti maschili che hanno natura bestiale, mentre le protagoniste femminili assumono la forma ferina come travestimento, alla maniera di Pelle d'asino, oppure, se si tratta di una metamorfosi (vedi L'Orsa) è una condizione che la protagonista assume e dismette volontariamente.
Il successivo passo è semplice: nell'interazione delle due forme identitarie, maschile e famminile, chi fra i due attanti non ha ancora, o ha perduto, forma umana, o deve nasconderla sotto un carcere di pelo (come si dice nella fiaba di Basile
 L'orsa, già citata), sia maschio, sia femmina, per vie che pure hanno significative variazioni, ritrova o scopre la propria dfinitiva umanità solo nell'interazione erotica con l'altro. Proponiamo quindi una nuova formula: essere umano, maschile e femminile, si inventa, e l'invenzione si articola nel racconto.
Il discorso richiede un tempo e uno spazio ben più ampi di quelli che in questa pagina possiamo dedicargli, viene perciò ripreso e riarticolato, più o meno esplicitamente, in tutte le pagine di questo sito, perché tutte le favole dispiegano percorsi di peregrinatio e periclitatio che rendono pensabile in molte varianti questa invenzione identitaria, articolandone e rendendone pensabili le bellezze, le tragedie, i fallimenti e i finali felici.

Tornando alla storia dell'umanizzazione di Abrocome e Anzia, che essendo bellissimi bastavano a se stessi come coppia, come prima di incontrarsi bastavano ciascuno a se stesso, non avevano superato il rischio di finire come Narciso. Per evitare questo pericolo valeva - e vale - certo la pena di affrontare tante prove. Quando Manto con lo sposo giunse in Siria col marito, ordinò ai suoi uomini di portare lontano i due fedeli servitori e di venderli come schiavi, e consegnò Anzia al più misero dei suoi servi, un capraio, perché la tenesse come moglie. Per serbarsi fedele ad Abrocome Anzia si gettò ai piedi del capraio e gli raccontò piangendo tutta la sua storia; lo impietosì a tal punto che il capraio le promise che non l'avrebbe violata e che si sarebbe preso cura di lei.
Intanto il capo dei pirati trovò la lettera che sua figlia Manto aveva scritto ad Abrocome per costringerlo a unirsi a lei, e avendo scoperto l'inganno della figlia fece liberare il giovane, lo nominò suo sovrintendente, e gli offrì una giovane sposa. Abrocome però non si dava pace, non curandosi dell'agio di cui ora godeva, perché non aveva la sua amata.
Quanto ai due servi fedeli erano stati venduti a un vecchio senza figli, che essendosi affezionato a loro li trattava come un vero padre.
Anzia però non era al sicuro, perché lo sposo di Manto, vedendola dal pastore, se ne innamorò e quando Manto lo seppe ordinò al capraio di portarla nel folto del bosco e di ucciderla. A Manto nella funzione della matrigna di Anzia/Biancaneve corrisponde esattamente il capraio nella funzione del servitore della regina: portò la giovane nel bosco, ma le svelò la trama crudele della rivale. Pronta a morire, certa com'era che Abrocome fosse morto nel carcere, Anzia chiese al pastore di seppellirla ripetendo il nome del suo amato, che così le avrebbe resa dolce la morte e la sepoltura.
E come accade in tante fiabe del tipo Biancaneve (vedi Maria 'e su boscu) l'appello al servitore della regina cattiva, figura paterna subordinata alla potentissima rivale, salva la vita, anche se lascia la povera protagonista in condizioni disperate. [link disegno Usai] La protagonista si trova in un luogo selvaggio, in balia di ogni pericolo, ma la sua vita è salva, e questo deve bastare. Nelle fiabe, come nella vita, come in una vicenda analitica ben condotta, può bastare per riprendere la peregrinatio e la peregrinatio umanizzanti.
Per salvare la fanciulla senza mettere in pericolo la propria vita, il capraio pensò bene di vendere Anzia come schiava a dei mercanti della Cilicia, e la fanciulla, grata, invocò su di lui la benedizione della dea Artemide. Ma la nave dei mercanti che avevano comprato Anzia fece naufragio, e pochi si misero in salvo, portando con sé la fanciulla, finendo in un fitto bosco, dove vennero sorpresi e catturati dall'ennesima banda di briganti.

Intanto Manto con una lettera aveva scritto al padre una lettera per informarlo su quanto era accaduto ad Anzia, dicendogli che per ordine suo la fanciulla era stata venduta dal capraio come schiava. Il romanzo non spiega come Manto avesse saputo quel che aveva fatto il capraio, né perché avesse voluto informarne il padre: incongruenza o lacuna sulla quale sorvoliamo, per raccontare che Abrocome, di cui non si dice se fosse venuto a sapere le ultime peripezie di Anzia, fuggì dal capo dei pirati e giunse in Siria, dove trovò il capraio. Senza farsi riconoscere seppe da lui tutto quello che era successo, fino al momento in cui Anzia era stata venduta ai mercanti della Cilicia.
Anzia, nelle mani dei briganti, correva ora un nuovo mortale pericolo: i malviventi avevano infatti deciso di offrirla al loro dio come vittima sacrificale, ma quando il rito stava per compiersi era arrivato il magistrato della Cilicia a capo degli armati che tutelavano l'ordine nella regione. Al magistrato che aveva vinto i briganti Anzia raccontò la sua storia, e lui ne ebbe pietà e la condusse con sé a Tarso, dove in breve si innamorò di lei. Quando le impone di sposarlo, Anzia riuscì solo a ottenere che attendesse un mese prima di consumare il matrimonio.
Intanto Abrocome peregrinando capità nei pressi della grotta dei briganti e incontrò il loro capo, che era scampato alla cattura del magistrato e invitò il giovane a viaggiare con lui: senza svelare la sua identità, Abrocome accettò, con la speranza di ritrovare Anzia.


LIBRO III

Abrocome raccontò tutta la sua storia, e il capo dei briganti gli raccontò di come avesse perduto il giovane che amava, poi pianse, dicendo che il suo dolore era più grande, perché non aveva nemmeno la speranza di ritrovare l'oggetto del su amore. Quando poi gli raccontò della bella giovane che intendevano sacrificare al loro dio, Abrocome capì che si trattava proprio di Anzia e supplicò il capo dei briganti di cercarla insieme a lui. Il brigante sentimentale acconsentì.
Mentre i due innamorati infelici si preparavano a partire, scadevano a Tarso i trenta giorni al termine dei quali Anzia aveva tenuto lontano il magistrato. Era giunto nella città era giunto un medico di Efeso che avendo fatto naufragio viveva di elemosine, e il magistrato, pensando che un suo concittadino avrebbe potuto rallegrarla, lo mandò da Anzia, che gli raccontò tutta la sua storia. Poi la giovane gli fece dono di molte ricchezze, con le quali avrebbe potuto tornare in patria, in cambio delle quali gli chiese di procurarle del veleno e di portare ai suoi genitori la notizia della sua fine.

Poco dopo, Eudoxo torna, portando non un farmaco mortale, bensì un sonnifero, in modo che la fanciulla nulla abbia a soffrire... (Ivi, p. 219)

Fatto questo, il medico si imbarcò per tornare a Efeso. Come previsto si celebrarono le nozze, ma Anzia, dopo il banchetto, prima che giungesse lo sposo:

Simulando di essere stata presa dalla sete per l'agitazione, si fa portare dell'acqua da un servo, per bere: gliene portano una tazza, l'afferra e, poiché nel talamo non c'era nessuno, vi versa il veleno e piangendo dice:
- O anima di Abrocome a me carissimo, ecco che ti mantengo le promesse e mi metto per la strada che mi porta a te, strada sfortunata, ma necessaria: accoglimi lietamente e rendemi lieto, nell'Ade, il soggiorno con te.
Dette queste parole, bevve il veleno, e subito il sonno la prese e cadde a terra: il farmaco faceva il suo effetto. (Ivi, p. 220)

Quando il magistrato aprì la camera nuziale gettò un grido vedendo Anzia a terra, ma non poté fare altro che piangere la triste sorte della fanciulla e la sua propria.

Quindi la fa ornare di preziose vesti e ricoprire di molto oro; e non potendo più sostenerne la vista, a giorno, fa porre in un feretro Anzia, che giaceva inanimata, e la porta alle tombe che sono nei pressi della città; qui la mette in una cappella. sopra la quale sacrifica molte vittime, brucia molte vesti e ornamenti di vario genere. (Ivi, p. 221; corsivo nostro)

Nel romanzo di Apollonio re di Tiro il parto sulla nave aveva causato la morte apparente della sua sposa, che il re aveva messo in mare in una cassa con molti gioielli e la preghiera di seppellirla, per chi ne avesse ritrovato il corpo. La cassa era giunta sulla spiaggia di Efeso e il giovane aiutante di un medico, accorgendosi che la bella giovane non era morta, si era adoperato a rianimarla, massaggiandola tanto che rinvenendo la bella addormentata aveva chiesto al medico di non attentare al suo onore regale.
Nella favola di Basile Sole Luna e Talia, già citata a proposito del responso che ne aveva predetto il cattivo destino, possiamo leggere del padre re, che di fronte al corpo esanime della figlia, dopo averla molto pianta, decide di allontanarla per sempre dai suoi occhi, come il magistrato di Tarso:

E lo nigro patre, 'ntiso la desgrazia soccessa, dapo' avere pagate co varrile de lagreme sto cato d'asprinio, la pose, dintro a lo medesimo palazzo che steva 'n campagna, seduta a na seggia de velluto, sotta a no bardacchino de 'mbroccato, e, chiuso le porte, abbannonaie pe sempre chillo palazzo, causa de tanto danno suio, pe scordarese 'n tutto e pe tutto la memoria de sta desgrazia. (Cit.)

La morte apparente più celebre è quella di Biancaneve, tanto bella anche se esanime che i nani, all'opposto del magistrato di Tarso e del re padre della favola di Basile, vogliono continuare a guardarla, e per questo la pongono in una cassa di cristallo, tempestata di pietre preziose. L'urna che non nasconde il corpo incorrotto di queste attanti di fiaba rimanda al culto dei santi, i cui corpi si offrono ancora alla venerazione dei fedeli nelle cripte e sotto gli altari delle chiese a loro consacrate.
La resistenza del corpo al dissolvimento che segue alla morte testimonia, non solo per i cristiani, non solo medievali, della santità del defunto: la vita trionfa sulla morte, lo spirito sulla materia, che non si decompone, a dispetto delle leggi naturali. Si ripete nel santo il cui corpo resta intatto per secoli, o il cui sangue torna a fluidificarsi, o dalle cui spoglie si leva profumo di fiori, il miracolo della resurrezione del Salvatore, trionfo della vita eterna sulla morte che sta al centro della Buona Novella cristiana. La stessa promessa di una felice vita ultraterrena era, molto prima del Crisitanesimo, al centro dei misteri eleusini
In questo contesto ci basta accennare all'importanza del culto dei morti nella civiltà umana, e ricordare la tensione umanissima contro la perdita delle persone amate, quando ci resta solo il loro corpo esanime, per osservare come il culto del corpo dell'amante e dell'amata, o della protagonista delle favole del tipo di Biancaneve sia la declinazione favolosa, in tono minore ma non meno ricco di senso, del culto religioso delle spoglie dei santi, che ancora oggi attrae tanti fedeli. Nelle novelle questo amore per il corpo oltre la morte assume talora un carattere quasi feticistico, che non manca di corrispondenze nel culto delle reliquie dei santi
 (vedi Lisabetta da Messina, anche le note sul culto dei santi). Nelle favole il tratto feticistico non è presente, o è umoristicamente accennato (vedi La scatola di cristallo), perché alla fine il corpo dell'amata torna alla vita, essendo stato solo immerso in un sonno comatoso, secolare o di durata indefinita. Allo stesso modo era tornata in vita Giulietta, che si sarebbe poi uccisa vedendo accanto a sé Romeo irreversibilmente morto: il motivo shakespeariano del farmaco che dà alla protagonista una morte apparente per evitare nozze indesiderate era già noto da almeno dodici secoli.

Nel romanzo di Senofonte Efesio, quando la bella protagonista si sveglia, si lamenta del veleno che l'ha ingannata, perché non ha esaudito il suo desiderio di morire:

Mi è però possibile, restando nella tomba, completare colla fame l'opera del veleno! Poiché  nessuno mi toglierà di qui, né rivedrò il sole, né tornerò alla luce. (Cit., p. 221)

In questa storia i ladri e i pirati, per quanto animati da intenzioni poco raccomandabili, hanno una funzione spesso salvifica: dei ladri appunto, che avevano saputo che in una tomba erano stati portati vesti sontuose e ricchi gioielli, vi penetrarono per depredarla, e quando videro Anzia viva vollero condurla con sé per venderla per l'ennesima volta come schiava, ignorando le sue suppliche di lasciarla là nel buio a morire.

Mentre Anzia sulla nave dei ladri non toccava cibo se non costretta, Abrocome era giunto a Tarso, dove sentì raccontare tutta la storia dal magistrato, sconvolto per la profanazione della tomba e la scomparsa del corpo di Anzia. Certo che la sua amata fosse morta, e che i ladri ne avessero rubato il corpo, Abrocome si stracciò le vesti e pianse:

Io, misero, sono stato privato perfino delle tue spoglie, che costituivano il mio unico conforto. Ho deciso dunque che morrò, ma prima mi farò forza, finché non troverò in qualche parte il tuo corpo e, abbracciatolo, mi seppellirò con esso (Ivi, p. 223)

Invece Anzia era giunta ad Alessandria, dove fu venduta a un re indiano che cercò di usarle violenza: Anzia quesat volta si difese dicendogli che suo padre l'aveva consacrata alla dea Iside finché non fosse giunta all'età da marito, e che la dea l'avrebbe punito il re indiano se le avesse tolto la verginità: doveva pertanto attendere ancora un anno. Temendo la potenza di Iside il re indiano portò rispetto alla fanciulla e la trattò con ogni cura.
Per parte sua Abrocome, che si era imbarcato a Tarso su una nave diretta ad Alessandria, finì invece sulle foci del Nilo, dove fu fatto schiavo di un vecchio, che aveva una moglie vecchia e laida che si innamorò del giovane al punto di uccidere il proprio marito per sposarlo. Abrocome fuggì inorridito, ma lei si vendicò accusandolo dell'omicidio: il bel giovane fu arrestato e portato in catene ad Alessandria, dal governatore d'Egitto.


LIBRO IV

Abrocome condannato ad essere crocifisso in riva al Nilo, su un dirupo volto verso la corrente: pregò allora il dio del fiume che non volesse contaminare le sue acque col corpo di un uomo condannato ingiustamente. Il Nilo lo aascoltò e un vento sollevò la croce e la depose nelle acque del fiume, che senza fargli alcun male lo trasportarono fino alle foci, dove però le guardie lo catturarono come fuggiasco e lo riportarono davanti al governatore. Senza nemmeno interrogarlo il dignitario ordinò che preparassero una pira perché morisse col fuoco. Trovandosi sulla pira Abrocome pregò ancora il Nilo, e quando già le fiamme lambivano il suo corpo un'onda del fiume abbandonò il letto e salì a spengere il fuoco. Allora il governatore ordinò che il giovane restasse in prigione trattato con ogni cura finché non si sapesse come mai il dio Nilo aveva voluto soccorrerlo.

Chi abbia qualche familiarità con l'agiografia antica, ad esempio con la Legenda aurea di Jacopo da Varagine, vedrà come la doppia salvezza dalla pena di morte dell'innocente Abrocome sia la stessa che caratterizza il martirio di tanti santi cristiani, che da una graticola ardente si rialzano con la pelle più liscia e morbida di quando vi sono stati posti, le cui carni restano intatte dopo la ruota, ai quali l'olio bollente fa l'effetto di un bagno rigeneratore, e che infine, come San Miniato, quando viene loro tagliata la testa nel centro di Firenze, la prendono sottobraccio e salendo sulla vicina collina vanno a posare il loro corpo indicando il luogo dove dovrà essere eretta una chiesa dedicata a loro. Cefaloforo, come San Dionigi di Parigi, il martire Miniato morì finalmente dove ora sorge la basilica che porta il suo nome, nella cui cripta si conserva ancora il suo corpo.

Mentre Abrocome si era salvato dalla morte, siccome era arrivato per Anzia il tempo di partire col re indiano che l'aveva comprata, la giovane supplicò la dea Iside di mantenerla fedele al suo sposo, a costo della vita. Questa volta il capo dei banditi che l'avevano per primi catturata assalì la ricca carovana e l'ebbe nuovamente in suo potere, senza però riconoscerla e senza essere riconosciuto da lei. E di nuovo uno dei banditi si innamorò di lei e cercò di convincerla ad essere sua, ma lei ripeteva che si sarebbe mantenuta sempre fedele ad Abrocome, col risultato di accrescere il desiderio di lui, che tentò di violentarla: reagendo in maniera nuova, Anzia questa volta prese una spada e lo uccise.
Quando il capo dei briganti scoprì l'accaduto ordinò che Anzia fosse posta in una fossa con due cani feroci, che certo l'avrebbero dilaniata, se il bandito che faceva la guardia alla fossa, anche lui innamorato della fanciulla, non avesse preso a gettare pane per nutrire i cani e acqua per dissetarli, esortandola a non perdere le speranze. I due grossi cani egizi, diventati mansueti, non le facevano alcun male, mentre lei continuava a piangere e il bandito innamorato a rincuorarla e a sfamare e dissetare gli animali.

Nel Peregrinaggio dei tre giovani figliuoli del re di Serendippo (Cristoforo Armeno, Venezia, 1557),  libera traduzione di un'opera sapienziale persiana, si racconta di una donna che il sovrano irato gettò in una fossa nella quale teneva cento cani feroci. Ma la donna li aveva nascostamente nutriti e carezzati, e così non le fecero alcun male. Allo stesso modo, grazie ai suoi tre animaletti fatati che li ammansiscono, Nardiello (vedi: Lo scarrafone, lo sorece e lo grillo) non viene toccato dai leoni della fossa nella quale è stato gettato, come il profeta Daniele, che ai leoni era stato dato in pasto dai cortigiani invidiosi, dopo essere stato oniromante del re babilonese Nabucodonosor e poi consigliere del re persiano Dario. Nell'episodio biblico, nel romanzo antico e nelle fiabe animali solitamente feroci si ammansiscono, e altri animali forniscono un aiuto magico e determinante al loro signore.
Pensando ancora alla fiaba come a una struttura narrativa che descrive labirinti e itinerari di umanizzazione, struttura analoga a quella di tanti miti e romanzi, questa mansuetudine delle bestie feroci e questo aiuto dato indicare un momento avanzato nel percorso di umanizzazione degli attanti protagonisti: le belve li rispettano, riconoscendoli come gerarchicamente superiori a loro. La superiorità dell'umano sul bestiale è una conquista graduale, e se nel Paradiso Terrestre era data da Dio, sulla terra è frutto della caccia e dell'addomesticamento, attività intelligenti dell'uomo. Un altro esempio della signoria sugli animali degli esseri umani giunti quasi al termine della peregrinatio di umanizzazione, è nelle fiabe del tipo dei Tre re animali: i regali protagonisti, pur avendo ancora forma animale, hanno sentimenti e voce umana, e sono in grado di convocare a loro piacimento tutti gli animali della terra, se il re animale è un cervo, dell'acqua se è un delfino, dell'aria se è un falco: giungendo in numero immenso, gli animali eseguono i loro ordini in un batter d'occhio. In questo senso possiamo comprendere l'intervento degli animali aiutanti di Psiche quando è sottoposta a prove durissime da Venere, che non la vuole come nuora.


LIBRO V

Abbiamo lasciato Abrocome in prigione ad Alessandria, e lo ritroviamo su una nave diretta in Italia, e precisamente in Sicilia, a Siracusa. Il romanzo non dice come si è liberato né come è salito su una nave, ma questa lacuna, come altre, potrebbe dipendere dal fatto che i nostri cinque libri sono il riassunto dell'opera perduta, che comprendeva dieci libri. Interpretare le lacune è insidioso come interpretare i simboli mitici e fiabeschi, soprattutto questi racconti hanno origine o destinazione popolare. Come nei sogni notturni, anche se in misura più contenuta, la lacuna da una parte e la ripetizione dall'altra vi hanno pieno diritto di cittadinanza, e il principio di non contraddizione è spesso sospeso, come nelle formazioni dell'inconscio. Nella Teogonia di Esiodo, per ricordare un antico esempio, le Chere o Fate Nere, Cloto, Lachesi e Atropo, al verso 215 nascono per partenogenesi dalla Notte, mentre poco meno di settecento versi dopo nascono dall'unione fra Zeus e Norma.
Quel che conta è procedere, vincere l'inerzia che cerca di fermare il tempo e la successione delle generazioni, quel che si privilegia è la fecondità del racconto: che importa un errore o una ripetizione?

Abrocome in Sicilia cercava ovunque notizie di Anzia, e trovò un povero vecchio pescatore, simile per descrizione e funzone al pescatore che accolse Apollonio naufrago sulla spiaggia di Cirene, che raccontò al giovane la sua storia. Originario di Sparta, aveva avuto come amante una fanciulla, giovanissima come lui, all'insaputa dei genitori di entrambi. Quelli di lei a un certo punto vollero farla sposare a un altro, e allora i due giovani amanti erano fuggiti su una nave e si erano fermati in Sicilia, per non fare più ritorno a Sparta, dove li avevano condannati a morte:
 
- Qui passavamo la nostra vita, con scarsa disponibilità di mezzi per vivere, è vero, ma felici e convinti di godere di tutti i beni del mondo perché stavamo l'uno accanto all'altro. E qui non molto tempo fa è morta Telxinoe: il suo corpo non è stato sepolto, ma lo tengo con me e sempre la bacio e con lei vivo. (Ivi, p. 233)

Poi ne mostrò il corpo mummificato ad Abrocome, che vide come fosse vecchia, ma il vecchio pescatore gli disse che si rendeva conto di come il giovane la vedeva, asicurandogli però che per lui era sempre giovane e bella come il giorno in cui si erano giurati amore eterno.
Commosso da quell'amore che andava oltre la morte, Abrocome lamentò la sua lontananza da Anzia, e ricordando l'oracolo di Apollo supplicò il dio di guidarli al finale felice che aveva predetto loro, dopo tante peripezie e tanti pericoli.

Anzia intanto era passata dalle mani del capo dei banditi a quelle di Polyido, fiduciario del governatore che gli aveva affidato il comando di un contingente di uomini per sgominare la banda che con le sue scorrerie aveva infestato l'Egitto. Anzia si era rifugiata nel tempio di Iside, supplicando la dea di consentirle di conservarsi fedele all'amato. Giunta a Menfi, Anzia andò a pregare il dio Api nel suo santuario, chiedendogli di aiutarla a incontrarlo, se ancora viveva, o a morire, se Abrocome era morto. All'uscita dal tempio, alcuni giovani ministri del dio esclamarono con una sola voce:

- Anzia avrà Abrocome suo marito. (Ivi, p. 236)

Confortata dal felice presagio, partì col fiduciario del governatore egizio verso Alessandria, dove la moglie di lui scoprì che si era innamorato di Anzia: le riservò quel trattamento feroce che è proprio di ogni rivale femminile, infierendo contro la giovane innocente come Venere con Psiche nell'Asino d'oro di Apuleio. Dopo averle tagliato la splendida chioma e averla incatenata, la diede a un servo perché la portasse in Italia e la vendesse al padrone di un bordello, imponendole la stessa condizione che aveva subito Tarsia, figlia di Apollonio re di Tiro, nel loto romanzo.

Il tenutario del bordello di Taranto padrone di Anzia, la mette in mostra, e tanti sono i cittadini disposti a pagare una grossa somma per stare con lei. A questo punto Anzia si getta a terra, fingendo una specie di crisi epilettica, e quando si riprende parla così al suo ultimo padrone:

Quando ero bambina, nel corso di una festa e di una veglia notturna, allontanatami dai miei giunsi presso la tomba di un uomo morto da poco: e lì, balzando su dal sepolcro, mi apparve un'ombra che tentò di afferrarmi: io, gridando, cominciai a scappare. Era una figura d'uomo orribile a vedersi, ma ancora più spaventosa aveva la voce. Quando finalmente fu giorno, nel lasciarmi, mi colpì al petto e disse di avermi messo addosso questa malattia. Da allora ne sono vittima, e il male si manifesta ora in un modo, ora in un altro. (Ivi, p. 239-240) [Vedi particolare analogo nelle Sette Effigi di Nezami]

Gli chiese poi di rivenderla per non perdere la somma che aveva investito, ma il tenutario del bordello, che aveva creduto alla sua  storia raccontata, volle prendersi cura di lei.
Abrocome si trovava ora a Nuceria, una città i cui resti esistono ancora, fra Nocera Superiore e Nocera Inferiore, e si era ridotto a fare il lavorante di pietre, mestiere pesante che non si confaceva alla sua delicata complessione. Ma nemmeno allora dubitò mai della fedeltà della sua sposa, della quale non sapeva se fosse morta o ancora in vita. Mentre si trovava a Taranto Anzia fece un sogno, il terzo di questa storia:

Le sembrò di essere con Abrocome, lei nel fiore della bellezza, con lui parimenti bello, nei primi tempi del loro amore; ma ecco apparire un'altra donna, bella essa pure, e portarle via Abrocome. Infine, alle grida e alle invocazioni di lui che la chiamava per nome, fece un sobbalzo e il sogno finì. (Ivi, pp. 240-241)

Ancora una volta pianse per la dolorosa separazione, immaginando che Abrocome fosse stato costretto a seguire un'altra: quanto a lei, avrebbe scelto ancora la morte pur di non tradire il suo amore.
Intanto il capo dei banditi sgominati dal fiduciario del governatore d'Egitto, che era sfuggito alla cattura era riuscito ad armare una nave, con la quale andava in cerca dell'amico Abrocome. Capitò a Taranto il giorno in cui il tenutario del bordello aveva messo in vendita Anzia: la riconobbe e la comprò, ed essendo finalmente venuto a sapere dal suo racconto che era proprio lei l'amatissima sposa dell'amico, la rispettò e se ne prese cura. Poi si rimise in mare insieme a lei per cercare Abrocome, il quale nel frattempo aveva deciso di tornare ad Efeso, domandando lungo il viaggio se qualcuno avesse notizie di Anzia. Sbarcò a Rodi, e ormai vicino alla sua patria immaginò la tristezza del suo ritorno solitario. Avrebbe continuato a vivere solo per il tempo necessario a innalzare un tumulo ad Anzia e offrirle solenni onoranze funebri, poi l'avrebbe raggiunta nel regno delle ombre.

I servi fedeli non sono mai stati separati. Forse, a differenza dei loro padroni, data la condizione servile, non possono rappresentare quel bastare a sé, quell'eccesso narcisistico, che caratterizza dapprima Abrocome, poi la coppia che forma con l'altrettanto bella Anzia. Di lei non viene detto nulla che ce la faccia pensare come Narciso, del resto l'illusione della perfezione e della completezza riguarda il soggetto maschile, perché il femminile è mancante per definizione, a partire dall'asenza del referente corporeo del fallo. Le favole sono forme in movimento dell'identità umana, verso il farsi umano dell'essere, non di persone reali, si tratta di vicende della soggettivazione maschile e femminile, distinte e intrecciate, non delle loro storie realistiche. Le favole sono schemi rivestiti di parole per pensare la realtà, la propria come quella degli altri, realtà interiore e realtà esterna, ma non descrivono la realtà. Per questo chi le ascolta e le rinarra non può che variarle: ciascuno variando usa lo schema disponibile, come lo varia ogni narratore.
La bellezza perfetta delle protagoniste femminili che ferma le nozze e la successione è frequente quanto quella maschile, a partire dalla Bella Addormentata o da Cenerentola, che ne viene privata, ma innesca altre vicende. Pensiamo in particolare a favole del tipo Turandot, dove la principessa, per definizione perfetta per bellezza e sapienza, impone al padre sovrano, del quale è la sola erede, la sua volontà: sposerà solo colui che mostrerà di non essere inferiora lei, risolvendo i suoi enigmi, o ponendole enigmi ai quali lei non sappia rispondere.
La coppia dei servi devoti come quella dei protagonisti viene trasportata qua e là dai pirati che li vendono come schiavi, mai separata. Fino a questo punto del romanzo invece Abrocome e Anzia vengono portati in direzioni diverse, e se il primo riesce a raggiungere il luogo nel quale ha saputo che si trovava la sua amata, vi giunge quando questa è ormai lontana.

I servi devoti, mai separati, mai bastanti a se stessi, arricchiti per l'affetto di padroni generosi che li avevao adottati e liberati, giunti a Rodi alla fine delle loro peripezie, vi si stabiliscono: non per caso la donna ha lo stesso nome della città. E proprio a Rodi fa scalo la nave sulla quale Abrocome è in viaggio per Efeso.

Leucone e Rode, durante il loro soggiorno a Rodi, avevano offerto dei doni votivi nel tempio del Sole, accanto all'armatura d'oro che a suo tempo avevano offerto Anzia ed Abrocome: l'offerta consisteva in una stele incisa a caratteri d'oro in onore d'Abrocome e d'Anzia, recante anche i nomi dei donatori, cioè di Leucone e Rode. Davanti a questa stele capitò Abrocome, che si era recato al tempio per pregare il dio. La lesse dunque, si rese conto di chi l'aveva donata e della dedizione dei suoi servi e, al vedere vicino anche l'armatura, si sedette ai peidi della stele e proruppe in un gran pianto... (Ivi, p. 244)

Mentre il giovane disperato piangeva e si lamentava, entravano nel tempio Leucone e Rode per la loro preghiera quotidiana. Chiesero al giovane perché piangesse accanto a quella colonna, quando disse loro il suo nome lo riconobbero, e si raccontarono quel che era loro successo dal principio alla fine. I due servi devoti lo condussero nella loro casa e misero a sua disposizione ogni loro bene, ma il solo bene che Abrocome desiderasse era Anzia, e pensando a lei piangeva sempre.
 
Quante volte, nel corso del romanzo, della favola di Abrocome e Anzia, i protagonisti hanno raccontato la loro storia? quante storie hanno ascoltato da coloro che hanno incontrato durante le loro peripezie? Ora la storia, nel racconto reciproco di Abrocome e dei servi fedeli è più completa che mai, come il loro ritrovarsi mette fine al disegno centrifugo delle loro peripezie. Ed è il mito, la parola, che nel mito lega e rende possibile ritrovare se stessi, l'oggetto del proprio amore, la patria: qui al racconto si aggiunge l'iscrizione sulla stele donata da Leucone e Rode. Nei sogni la parola scritta appare quasi come iscrizione, con la stessa valenza misteriosa e magica che ha nelle fiabe. Si tratta della magia della scrittura, che conserva nel tempo quanto il tempo stesso se non fosse scritto, disperderebbe, si tratta della magia di secondo grado della memoria umana, che nel linguaggio verbale conserva e trasforma, con lo stesso procedimento col quale si trasforma una pianta, affetti e nodi e desideri che finirebbero altrimenti, con una stagione, come per gli animali. Nell'umanizzazione per peregrinatio e periclitatio il racconto e la scrittura hanno una funzione determinante: una storia può salvare una vita, o anche molte vite, sia quando si racconta all'interno della storia stessa, sia perché immenso è il valore delle favole, se le pensiamo come strumenti per pensare se stessi e il mondo

Quanto all'ennesimo pianto di Abrocome, ennesimo perché si perde il conto dei pianti, come dei rapimenti, delle invocazioni della morte, degli innamoramenti violenti e indesiderati di tutti coloro che si trovano accanto ai due giovani, dobbiamo dire che suona un po' ridondante, anche per chi abbia dimestichezza con questi romanzi antichi.
Se la ripetizione dei pianti e dei lamenti per la separazione ad ogni disgrazia quasi mortale come ad ogni liberazione parziale ci fa sorridere, e può anche suonare irritante, dobbiamo ricordare che in queste narrazioni regna incontrastato il motto repetita juvant. Se siamo tentati di considerarle caratteristiche di una modalità narrativa arcaica, forse gradita solo nelle filastrocche care all'infanzia, dobbiamo osservare che nelle telenovelas e nei reality contemporanei, popolari oggi come questi romanzi antichi son ostati popolari dai primi secoli della nostra era all'età dei Lumi, regna lo stesso motto. Potremmo liquidare questo gusto per le ripetizioni attribuendolo a una condizione infantile, a una cultura povera e a un gusto poco raffinato, ammesso che non ci sia mai capitato nella vita di sederci ogni giorno davanti alla televisione per seguire un serial o un reality, con un giudizio sulla loro misera banalità pochezza che non scalfisce il piacere di seguirlo.

Esiste un'altra possibilità, che ha il vantaggio di non assestarsi in un'illusione di superiorità che ci porta a guardare ai milioni di persone che seguono telenovelas e reality, o a noi stessi quando lo facciamo, come minus habentes. In psicoanalisi le differenze fra persone colte e ignoranti, grezze e raffinate, si rivelano insignificanti riguardo alle dinamiche inconsce. Accostiamo alla ripetizione che caratterizza certe forme narrative, come il romanzo di Abrocome e Anzia, la ripetizione, che Freud ha teorizzato come Thanatos e coazione a ripetere nel saggio che ha impresso una direzione nuova alla teoria e al lavoro psicoanalitico (1920, Al di là del principio di piacere). In termini lacaniani dalla coazione a ripetere teorizzata da Freud nel 1920 si teorizza la juissance, il godimento, insistenza quasi irresistibile del sintomo nella vita di ciascuno di noi.
Nella letteratura alta, per esempio nel Decameron di Boccaccio, che pure amò questo genere di romanzi, al suo tempo molto popolari, non si trova certo la ripetizione come un principio sovrano. Boccaccio ce la racconta enunciandola, come nella novella di Lisabetta da Messina, quando la giovane, recuperata e nascosta nella grasta la testa dell'amante:

...[P]er usanza avea preso di sedersi sempre a questo testo vicina, e quello con tutto il suo disidero vagheggiare, sì come quello che il suo Lorenzo teneva nascoso; e poi che molto vagheggiato l’avea, sopr’esso andatasene, cominciava a piagnere, e per lungo spazio, tanto che tutto il bassilico bagnava, piagnea. (Lisabetta da Messina; corsivo nostro)

Non faceva altro Lisabetta, fissata nella sua perdita intollerabile e in quel disperato e poetico bagnare di lacrime il vaso, mentre ne godeva sanamente la pianta di basilico, che cresceva meravigliosamente bella e florida e profumata:

La giovane non restando di piagnere e pure il suo testo addimandando, piagnendo si morì; e così il suo disavventurato amore ebbe termine. Ma poi a certo tempo divenuta questa cosa manifesta a molti, fu alcuno che compuose quella canzone la quale ancora oggi si canta, cioè:

Quale esso fu lo malo cristiano,
che mi furò la grasta, ecc. (Ivi; corsivo nostro)

Come tanti amanti le cui storie sono d'amore tombale, la cui testa di serie è da qualche secolo la coppia di Giulietta e Romeo, Lisabetta è fissata nella ripetizione, mortale come i sintomi, totalizzanti come la juissance. Questi romanzi antichi, queste novelle, queste fiabe, non fanno altro che elevare un monumento di parole al desiderio impossibile.
Questo lavoro narrativo e poetico ha il suo antecedente nel gesto inaugurale dell'umano col quale i nostri progenitori paleolitici, già settantamila anni fa, hanno cosparso di ocra rossa, rossa come il sangue, i corpi esangui dei morti. Lo stesso gesto col quale più tardi, nel neolitico, gli uomini hanno elevato grandi pietre perché nel tempo durasse un sepolcro. Questa ribellione alla morte è il gesto sorgivo della condizione umana, realizzando un desiderio impossibile, che non ha sbocco nella realtà fisica che ci accomuna agli animali.
Nella memoria e nella psiche il monumento al desiderio irrealizzato e irrealizzabile è il passo verso l'umanizzazione, perché nelle sue lacrime incessanti Lisabetta di Boccaccio, come Mirra di Ovidio, allo stesso tempo muore e rinasce  nella poesia, nel canto della grasta che ancora ci turba leggendo la sua storia.

Nel lavoro analitico, come ha osservato Elvio Fachinelli, la ripetizione ha molte sfaccettature, e solo uno sguardo che ignora la poesia, e le valenze femminili ed estatiche della psiche, mente, anima, può semplificare queste variazioni. La psicoanalisi vive e prospera nelle brecce che la vita suggerisce continuamente fra malattia e normalità, fra sublime e volgare. Per questo nulla nella letteratura è estraneo alla psicoanalisi: entrambe dispiegano potenza e fecondità di passaggi fra culture e generazioni, sia nella risonanza che offre loro il singolo soggetto, sia in quel che ne fanno sotto ogni cielo e in ogni tempo le culture umane: storie sempre uguali perché sempre diverse. La permanenza della forma si realizza attraverso la sua illimitata variabilità. La stabilità strutturale è solo apparentemente un'istanza opposta alla pregnanza morfogenetica: appare tale a chi intenda realizzare l'una a scapito dell'altra. Stabilità e morfogenesi realizzano intrecciandosi la fecondità umanizzante, nella quale la vita scorre e torna: il loro intreccio si esprime nel racconto, come nelle storie che si narrano all'interno del racconto stesso, salvando la vita.

Le ripetizioni  di bellezza, di disgrazie, di tentate violenze, di pericoli mortali, stanno ormai per finire.
Dopo un certo tempo anche la nave sulla quale viaggia Ippotoo, il capo dei banditi, per portare Anzia ad Efeso, si ferma a Rodi, e ricorrendo la festa del dio Sole i due vanno al tempio, e Anzia si ferma accanto all'armatura d'oro e alla stele con l'iscrizione per piangere e pregare:

O Sole, che vedi i casi di tutti gli uomini, e che me sola hai lasciato da parte, qui a Rodi, una volta, nella buona ventura, ti adorai e ti offrii sacrifici insieme ad Abrocome. Allora mi credevo felice: ora invece sono schiava anziché libera, prigioniera anziché felice! Torno ad Efeso sola e dovrò mostrarmi ai miei senza Abrocome.
Dopodiché, piangendo a dirotto, ed ebbe detto così, pregò Ippotoo di consentirle di recidersi una ciocca di capelli e di consacrarla al Sole, formulando una preghiera per Abrocome. Ippotoo acconsentì ed essa, tagliatisi quanti riccioli poteva e còlto il momento adatto, quando tutti gli estranei se ne erano andati, li consacrò con questa dedica: "Per suo marito Abrocome Anzia consacrò la sua chioma". (Ivi, pp. 245-246; corsivo nostro)


Il sacrificio dei capelli è presente nella consacrazione delle novizie a Dio nell'ordinazione delle suore, e in quella dei sacerdoti, anche se nella forma attenuata nella chierica, rasura tonda sul cocuzzolo della testa. L'offerta della verginità come consacrazione alla divinità consisteva prima nella deflorazione rituale della futura sacerdotessa, ad opera dei sacerdoti nel tempio del dio o della dea, poi nella castità, analoga consacrazione della propria vitalità erotica al dio. I capelli, parte del corpo che continuando a crescere per tutta la vita è analoga alla variabilità di forma dei genitali, vengono sacrificati con lo stesso significato.
Allora mi credevo felice, dice Anzia nella sua preghiera: intendiamo che parla al passato di una felicità perfetta, dello stesso eccesso, übris, che caratterizza ogni principe-Narciso, che la protagonista femminile vive nell'unione felice, come Anzia con Abrocome, come Alcione con Ceice, come in tante fiabe, che possono finire tragicamente (vedi Lo viso) o felicemente (vedi, fra le tante storie di questo genere, Prezzemolina).
La consapevolezza che nessuna felicità è duratura dissolve l'eccesso di Anzia, e il sacrificio della chioma al dio Sole,  perché protegga la sua fedeltà, portano Anzia alla riunione con Abrocome. I due servi fedeli, entrati nel tempio dopo di lei, trovano accanto alla stele i riccioli e la dedica e dopo aver chiesto inutilmente agli abitanti di Rodi se sapessero dove si trovava Anzia, corrono a casa per informarne Abrocome...

...questi alla notizia inaspettata provò un tuffo al cuore, ma incominciò a sperare di poter trovare Anzia. (Ivi, p. 246)

Quando, il giorno dopo, Anzia tornò a piangere nel tempio e a pregare, i servitori la videro, la riconobbero e si fecero riconoscere da lei, dicendole infine che il suo Abrocome si trovava nella loro casa, sano e salvo. Si avviarono allora tutti verso casa:
 
Ma Abrocome, appena saputo da un rodiese che Anzia era stata ritrovata, gridando: "Anzia", si mise a correre come un pazzo attraverso la città.
La incontrò appunto presso il tempio di Iside, ed una gran folla di Rodi la seguiva. Vedersi e riconoscersi fu tutt'uno, ché questo era ciò che le loro anime desideravano. Si strinsero l'uno all'altro e nell'abbraccio caddero a terra: molti sentimenti contemporaneamente li dominavano, gioia, dolore, timore, ricordo del passato, preoccupazione dell'avvenire. (Ivi, p. 247)

La folla li acclamava, e loro entrarono nel tempio gettandosi grati ai piedi dell'altare di Iside, comprendendo l'oracolo di Apollo.
Più tardi i due amanti andarono a ristorarsi nella ricca casa dei loro fedeli servitori. Dopo aver offerto sacrifici e aver banchettato, si raccontarono tutto quello che era loro successo: la coppia degli amanti protagonisti, quella dei servi devoti, e quella formata dal capo dei banditi col giovane amante che era con lui da tempo, e a notte andarono a riposare coppia per coppia:

Quando tutti gli altri si furono addormentati, e regnava il più assoluto silenzio, Anzia, abbracciando Abrocome, piangendo gli diceva:
- Mio marito e signore, ecco che ti ho ritrovato dopo tanto errare per terra e per mare, dopo essere sfuggita alle minacce dei briganti, alle insidie dei pirati, agli oltraggi dei lenoni, alle catene, alle fosse, ai ceppi, al veleno, alla tomba: ma son tornata da te, Abrocome, signore dell'anima mia, tale quale mi separai da te per andare da Tiro in Siria; e nessuno ha potuto indurmi a peccare, né Meris in Siria, né Perilao in Cilicia, né Psammis e Polyido in Egitto, né Anchialao in Etiopia, né il mio padrone a Taranto, ma, ricorrendo ad ogni espediente in difesa della mia castità, ti sono rimasta pura. E tu, Abrocome, rimanesti puro o qualche altra bella donna fu da te considerata da più di me? e non ci fu donna che ti costrinse a dimenticarti dei giuramenti e di me?
Così gli diceva baciandolo senza dargli respiro. Rispose Abrocome:
- Per questo giorno tanto sospirato che con tanta difficoltà abbiamo potuto vedere, ti giuro che né vergine mi sembrò bella, né alcun'altra donna, che io abbia visto, mi piacque, ma tale hai ritrovato Abrocome, quale lo lasciasti nel carcere di Tiro.
Così per tutta la notte si dichiaravano l'uno all'altro il proprio amore e facilmente credevano alle parole che si dicevano, perché erano proprio quelle che desideravano sentire. (Ivi, p. 248)

Il giorno dopo le tre coppie di amanti salparono mentre la folla festante degli abitanti di Rodi li salutava acclamandoli, e in pochi giorni giunsero ad Efeso. Anche qui tutti gli abitanti della città accorsero a festeggiarli. Loro si recarono anzitutto al tempio di Artemide dove si erano incontrati la prima volta, offrirono alla dea sacrifici e preghiere, e un'iscrizione di tutta la loro storia con le loro sofferenze e tutto quello che era loro successo. Poi innalzarono splendide tombe ai loro genitori, che erano morti di vecchiaia e di crepacuore.

Quanto ad essi, trascorsero insieme il resto della loro vita passando di gioia in gioia: Leucone e Rode prendevano parte in tutto alla vita dei loro compagni ed anche Ippotoo [il capo dei banditi] decise di passare ad Efeso quanto gli rimaneva di vita. Recatosi subito a Lesbo, innalzò uno splendido tumulo ad Iperante, quindi, adottato Clistene, visse ad Efeso con Abrocome e Anzia. (Ivi, p. 249)

Il dialogo notturno degli amanti ritrovati ha il suo antecedente più illustre nella notte di Ulisse e Penelope, che si raccontano abbracciati tutto quello che è loro accaduto durante la separazione, e di come la volontà di riunirsi abbia loro fatto superare ogni ostacolo e ogni pericolo.

Una storia laica, dove l'intervento divino mette a torsione il desiderio degli amanti, seguendo il quale i soggetti maschili e femminili acquisiscono una splendida consistenza. Dall'Odissea in poi il soggetto si forma e si trasforma in relazione all'altro,  sposo e sposa, in una fedeltà che non deve nulla agli dei o ai genitori, anche se non c'è storia a lieto fine nella quale le figure genitoriali divine o umane non vengano ricordate, pregate, onorate.
Abbiamo rinarrato una favola di umanizzazione, fra latre favole nelle quali i soggetti, maschili e femminili, assumono consistenza nella peregrinatio e nella periclitatio, fra rapimenti e naufragi, seduzioni e fughe, rovesci di fortuna e ricchezze ritrovate. Dal cielo governato da divinità invisibili, molteplici, une o trine, lo sguardo degli abitanti della terra si abbassa mirando l'orizzonte umanissimo dove Eros accende gli amanti costringendoli prima a rinunciare a quella condizione di verginità nella quale pensavano di bastare ciascuno a se stesso, poi a quella felicità perfetta nella quale gli amanti credevano di bastare a se stessi. Il resto non riguarda più gli dei, nemmeno il dio d'amore, ma la determinazione dei protagonisti a non perdersi, a qualunque costo: la tomba è sfiorata più volte da Abrocome e Anzia come unico luogo dove riunirsi, ed è la condizione per l'unione di tanti amanti infelici, come Giulietta e Romeo.

Le favole e i racconti potrebbero insegnare come giungere a un finale felice anziché alla morte? è improbabile. In ogni caso la morte unirà gli amanti, più tardi, oltre la pagina bianca che conclude la storia, se il finale è felice, prima se il finale è tragico. Quel che sappiamo, la sola cosa certa, oltre alla morte, che conosciamo bene e presto, senza tante storie, è la possibilità del racconto che da questi amori sgorga, e si manifesta, fin da Penelope e Ulisse, che inaugurano il racconto in prima persona. Il destinatario finale del racconto nel racconto è l'amato, o l'amata, mentre tutti i personaggi ne sono testimoni, come noi.




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TESTO
Epitome e commento di Adalinda Gasparini, 2012.

Abrocome e Anzia Le citazioni sono tratte da: "Senofonte Efesio, Abrocome e Anzia (Racconti efesii). Traduzione e note di Renzo Nuti"; ne: Il romanzo antico greco e latino; a cura e con introduzione di Quintino Cataudella; Firenze: Sansoni Editore, 1981; pp. 181-249.

Senofonte Efesio
Senofonte, scrittore e filosofo, visse nell'attuale Campania al tempo degli imperatori Marco Aurelio e Commodo. Potrebbe essersi chiamato Efesio perché nato ad Efeso, nell'odierna Turchia, o perché la sua opera si intitolava Racconti efesii intorno ad Abrocome e Anzia (Katà Anthèian kai Abrokòmen Efesiaikòi lògoi). Il romanzo ci è pervenuto in cinque libri, forse il riassunto dell'opera completa, se è vero, come attestano scrittori antichi, che sarebbe stata composta di dieci libri. A differenza degli autori di romanzi antichi Senofonte non ambienta la sua favola in tempi lontani e in terre ignote, ma al suo tempo, e nei Paesi del Mediterraneo che aveva probabilmente visitato. Nella sua storia l'intervento divino si manifesta nella volontà di Eros, di far pagare cara ad Abrocome la sua indifferenza e nella salvezza che il dio Nilo offre due volte ad Abrocome. Come nel romanzo di Apollonio re di Tiro, i due amanti non potrebbero ritrovarsi se non fosse per la loro incredibile determinazione a lottare, anche a rischio della vita, per restare fedeli.
Scritto con stile semplice, il popolare romanzo fu in parte tradotto nel Rinascimento da Agnolo Poliziano, che considerava l'autore pari all'altro Senofonte, lo storico greco: Sic utique Xenophon scribit, non quidem Atheniensis ille, sed alter eo non insuavior Efesius.  (Fonte: http://books.google.it; consultato il 13 luglio 2012).
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NOTE
Freud, 1920
Freud, Jenseits der Lustprinzips (1920, Lipsia-Vienna-Zurigo: Internationaler Psychoanalytischer Verlag 1920); Al di là del principio di piacere; tr. it. Anna Maria Marietti e Renata Colorni; Torino: Boringhieri 1977, OSF, IX; pp. 187-249.

Stabilità struttura e pregnanza morfogenetica
René Thom, Stabilité Structurelle et Morphogénèse. Essai d'une théorie générale des modèles; Paris: InterEditions 1972. Stabilità strutturale e morfogenesi. Saggio di una teoria generale dei modelli, tr. it. Giulio C. Lepschy; Torino: Einaudi 1977.
Pensiamo che il grande matematico, offra, come afferma, una teoria rigorosamente monistica del vivente, che non è però pensabile come ontologia. Dal suo lavoro traiamo i termini che ricorrono fin dal titolo.


Ma ecco che durante la festa della dea Abrocome guidava gli efebi e Anzia le fanciulle: mentre gli efesini non riuscivano a decidere chi dei due fosse più bello, i due giovani si incontrarono e furono immediatamente presi da amore l'uno per l'altro. Vedi, di Jacopo Amigoni, L’incontro di Anzia ed Abrocome al festino di Diana (1744); committente Francesco Algarotti, scrittore, saggista e collezionista d'arte veneziano, per la Galleria di Augusto III a Dresda.
Fonte: http://www.copia-di-arte.com/kunst/giovanni_battista_tiepolo/anzia_and_abrocome_meet_at_the_hi.jpg; nel sito il dipinto appare erroneamente attribuito a Giovanni Battista Tiepolo; ultimo accesso, 12 luglio 2012.
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IMMAGINE ©2010 Mike Logsdon - Illustrator.


online dal 13 luglio 2012
ultima revisione 18 marzo 2024
© Adalinda Gasparini