GABRIELE FAERNO

IL LUPO E LA DONNA
IL PADRE, IL FIGLIO E L'ASINO

DA CENTO FAVOLE
1564


  ADALINDA  GASPARINI       PSICOANALISI E FAVOLE





FABULAE CENTUM

ET ANTIQUIS AUCTORIBUS DELECTAE
ET A GABRIELE FAERNO CREMONENSI
CARMINIBUS EXPLICATAE
 



FABULAE CENTUM

SCELTE DA AUTORI ANTICHI
E DA GABRIELE FAERNO DI CREMONA
ESPOSTE IN VERSI
 






LXXVI
LUPUS, ET MULIER
76
IL LUPO E LA DONNA

Arva cum ieiunus pervagaretur Lupus,
ad tugurium venit, unde vagientem puerculum
huicque matrem comminantem sane acerbe exaudiit,
flere si desineret, illum tradituram se Lupo.
Serio istaec elocutam Mulierem ratus Lupus,
iam sibi expectabat obici contumacem puerculum.
Multam in oras sic moratus, rursus audit Mulierem
voce blanda, et ad soporem provocandum tinnula,
dicere infanti: - Bono animo es nate mi dulcissime:
nam Lupum, si raptor ille huc venerit, mactabimus -.
Hic Lupus tum denique omni destitutus spe sua,
tristis in silvas recedens: - Pro supreme Iuppiter,
alia dicunt, alia faciunt hice mortales - ait. 


Un lupo affamato che se ne andava vagando per la campagna
, giunse a una capanna, dove udì un bambino che piangeva e la madre che lo minacciava duramente, se non avesse smesso di piangere, di darlo al lupo. Il lupo, prese sul serio le parole della donna, aspettava con fiducia che gli fosse gettato il bimbo riottoso. Atteso così molto tempo, di nuovo udì la donna che, cercando di indurlo al sonno con voce suadente e sonora, diceva al bambino: - Stai tranquillo, figlio mio dolcissimo: se verrà il lupo a rapirti, lo uccideremo -. Allora il lupo, abbandonata ogni speranza, e tornando deluso nel bosco, disse: - Per il sommo Giove, i mortali dicono una cosa e ne fanno un'altra -.



Gabriele Faerno, Le favole. A cura di Luca Marcozzi, Salerno Editrice: Roma 2005; pp. 254-255.




C
PATER, FILIUS ED ASINUS
100

Pater senex, et gnatus adolescentulus
venales Asellum ad proximae urbis nundinas 
nulla gravatum prae se agebant sarcina.
Hos intuens qui forte proxime viam
arabat, irridere coepit rusticus:
quod, ut tenellos paedagogi heros solent,
ita ipsi Asellum feriatum ducerent,
alter senex plane, alter adolescentulus,
aetate uterque, cui vehiculo opus foret.
Haec perpulere obnoxium dictis Patrem,
uti iuberet Filum conscendere.
Ecce alius illis obvius reprehendere
senem institit, quod obsequere nimis Pater
iuvenem, atque validum Filium sinere vehi,
iter ipse pedibus facere infirmus senex.
Haec vera visa, hic Filio iusso Pater
descendere, ipse insedit usque ad transitum
vici ad viam iacentis. Eius incolae
notare pro se quisque coeperunt senem,
qud adhuc virenti aetate vir, alacer, vigens
veheretur ips; at Filum tenellulum,
per tantum itineris, cogere pedibus sequi.
Hanc ille tantam sustinere non valens
invidiam, Aselli clunibus gnatum iubet
post se insilire, atque onere duplicato vehi.
Ibi tum viator, forte misericordia
commotus Asini: - Valde - ait - vile hoc tibi est
animal Pater, qui id tam sinistre perdere
vasta duorum mole tendis corporum -.
Hisille tot pugnantibus sententiis
distractus animum, incertus haesit consili:
cum, non inani, non onusto tot modis
Asino, per omnes reprehendentum vices,
sine lite posset, aut querella progredi.
Tandem experiri et hanc quoque placuit viam:
inter supini ut collegatos indito
pedes Aselli palo, eum ipsi pendulum
ferrent; ita humilis praegrave attolunt onus.
Tum vero ad illud tam insolens spectaculum
affusa multitudo commeantium
risa emoriri, insanum utruque dicere,
vexare salibus, sed magis multo senem.
Tum denique ille ira impotenti percitus,
praecipitem Asellum in maximam malam crucem
ad aggere alto in proximum flumen dedit.

PLERUMQUE QUI PLACET SE CUNCTIS STUDET,
ET IPSE LAEDIT, NEC SATIS CUIQUAM PLACET
.
   

Un vecchio padre, e il figlio adolescente, conducevano al mercato della vicina città, per venderlo, un asinello gravato di nessun altro peso che il suo. Vedendoli, un tale che arava vicino alla strada, iniziò a irridere il contadino, proprio come sogliono fare i maestri con i giovani signori, così essi portavano l'asinello scarico, benché potesse servire a entrambi come veicolo, in grazia della loro età, essendo l'uno vecchio e l'altro giovane. A queste parole il padre si sentì tanto in colpa che ordinò al figli odi salire in groppa. Ed ecco un altro passante prese a rimproverare il vecchio perché, padre troppo accomodante, aveva permesso che il figlio giovane e forte fosse portato in groppa, e lui, vecchio infermo, facesse la strada a piedi. Sembrandogli che questo fosse vero, il padre, ordinato al figlio di scendere, salì lui in groppa, fino a quando passarono in un villaggio che si trovava lungo la strada. Gli abitanti del villaggio, ciascuno in cuor suo, iniziaron oa rimarcare come il vecchio, ancora in forze per l'età, robusto e vigoroso, fosse portato in groppa; ma costringeva il figlio giovinetto a seguirlo a piedi per una strada così lunga. Il padre, non riuscendo a sostenere tanta maldicenza, comandò al figlio disalire in groppa all'asinello, dietro di sé, e che li portasse, raddoppiato il peso. A quel punto un viandante, spinto dalla compassione per l'asino: - Certo questa bestia - disse - non ha proprio alcun valore per te, padre, che vuoi rimettercela, crudelmente gravata del gran peso di due corpi -. Quegli, tormentato per le tante opinioni discordi, dubbioso volse l'animo a questa deliberazione, poiché non poteva andare avanti senza dispute o lagnanze, né con l'asino libero dal peso, né con l'asino carico, per tutte queste sentenze contrastanti di coloro che li biasimavano. Infine, volle prender questa strada: messa una pertica fra le gambe dell'asinello capovolto, in modo da legargli i piedi, lo portano appeso: così si caricano il gran fardello sulle spalle. Allora, riversatasi ad ammirare questo strano spettacolo, la folla dei passanti moriva dal ridere, e diceva che i due erano pazzi, e iniziò ad accanirsi con sarcasmi contro entrambi, ma molto più contro il padre. Infine quegli, infiammato da un'intensa collera, con tutte le maledizioni possibili, precipitò l'asino dall'alto di un argine nel fiume vicino.

CHI CERCA DI PIACERE A TUTTI, NUOCE A SÉ STESSO,
E NON
PIACE ABBASTANZA A NESSUNO.
Gabriele Faerno, Le favole. cit. pp. 336-337.
Vedi anche: https://en.wikipedia.org/wiki/The_miller,_his_son_and_the_donkey





                         
                   




NOTE

I mortali dicono una cosa e ne fanno un'altra Così il lupo, che trova sorprendente l'ambiguità della nonna mortale, dalla quale si aspettava che gli avrebbe dato il bambino, visto che non aveva smesso di piangere. La differenza fra l'essere umano e l'animale, ma anche fra l'umano e il divino è la capacità di contraddirsi. Gli animali e gli dei non raccontano storie di se stessi: agiscono, coerentemente e senza preoccuparsi delle conseguenze. Di fronte alla sofferenza come alla gioia dell'essere umano intervengono se vogliono, distruggendo che ha offeso la divinità, comparandosi a un dio, o asterizzando, trasformando in divino l'umano che ha mostrato una parentela con un dio. Ulisse rifiuta il dono dell'immortalità, e per questo è il primo narratore in prima persona. Ulisse trae dase stesso le proprie storie, non invoca le muse né Apollo, sia quando racconta il suo viaggio ai Feaci, sia quando racconta il suo viaggio fingendosi il mercante cretese nella capanna di Eumeo. Non nega il valore della relazione con l'animale, che lo riconosce senza storie, quando Argo è la sola creatura che non è inibita nella conoscenza né dal suo travestimento metamorfico, né dai vent'anni passati da quando formava col suo cane la coppia il cui valore e il cui senso è ignoto a chi non abbia mai avuto il proprio cane. Ricordo quando guardavo mio padre che batteva leggermente la testa di Diana, il nostro setter da penna, e sapevo che io non avrei mai avuto con lui un'intimità così grande. Diana è morta quando io ne avevo nove, e nel mio ricordo il babbo la uccide col fucile, cosa che ora mi sembra impossibile, ma così è nel mio ricordo, scena che ha luogo nella piccola serra interna alla casa, dove il babbo teneva i suoi richiami. Ma ecco che tornando a Ulisse, e tornando alla rivoluzione anarchica di Freud, che rischia di perdere la propria vis essendo normalizzata, la possibilità di contraddirsi, di non completare il discorso, di descrivere un paesaggio che non si è mai visitato, né mai si potrà visitare - si dice l'inconscio, per definizione inaccessibile, né le tracce che lascia nella coscienza sono più affidabili della loro assenza - considero la potenza del racconto, non la poesia ispirata dalle Muse o da Apollo o, più tardi, da uno dei membri della Trinità, con il completamento di Maria Vergine e Madre. Il racconto di Ulisse ad Eumeo non serve a nulla, se non a Ulisse che ripete l'efficacia della sua parola, mythos, racconto, dopo essere stato preso in giro da Athena, che sa già tutto. A Dio, e agli dei, non si può raccontare nulla, perché lo sanno già. Loro ispirano i profeti o il profeta, nell'ultima fra le religioni del libro, e la loro parola vale di più, come quella del giudice quando emette la sentenza. Ma nelle istituzioni dopo l'Illuminismo la parola umana vale di più per un accordo, non per decreto divino, perché l'investimento dell'autorità religiosa non ha più valore. Eppure sembra che senza una legittimazione superiore, finita cioè quella divina, non riusciamo a procedere, al punto che fra noi cinque intorno a un tavolo in via delle Belle Donne, tre lustri fa e più, Sebastiano ha evocato per sé e per Silvana - Massimo parla poco ma anche lui era compreso -  questo maggior valore della parola, battendo il piccolo pugno sul tavolo a imitazione del tuono col quale Giove rendeva inopponibili i suoi decreti, visto che al tuono poteva seguire il fulmine. Ma al pugno Sebastiano non poteva far seguire nessun fulmine, già minacciato vanamente da Silvana quando mi aveva detto che se non le davo retta, o ragione che dir si voglia, la mia analisi non valeva. Per quanto immaginari fossero gli strali di Zeus, almeno venivano dal cielo, da qualcuno che abitava in cima all'Olimpo, quelli di Silvana non avevano altra potenza che minacciare una patologia conseguente alla rottura con la sua persona. Argomento che Silvana sottendeva ma non esplicitava, mentre Sebastiano ci aveva provato, non con me, ma ai tempi dell'emorragia di persone che avevano seguito Silvana Lelli come il pifferaio magico. Né Sebastiano e Silvana potevano fermarli, perché anche loro non avevano che un piffero. Sebastiano, così ricordo, aveva messo in guardia una di loro dicendo che poteva trovarsi in pericolo andandosene in quel modo. A me aveva fatto per telefono un discorso diverso: "Vedi com'è oggi, guarda i freudiani e anche i lacaniani, ormai ci siamo solo noi a portarla avanti". Pensai che se Sebastiano avesse avuto ragione la psicoanalisi sarebbe stata ormai finita, perché di certo noi cinque non potevamo rappresentarla a nessun livello. Ma mi viene in mente Dio che di fronte all'iniziativa di Eva contattata dal serpente, iniziativa subito condivisa dal gregario Adamo - con una costola o un lato in meno è ab ovo incapace di opporsi alla creatura formata dalla sua costola o fianco - si preoccupa di cacciare le due creature più simile a lui, dotate di spirito, fiato, alito prima che gustino il frutto dell'albero della vita, diventando come lui immortali, dopo aver gustato una volta per tutte quello della conoscenza. Conoscenza trasmessa ai discendenti, che però per paura dei fulmini si rifiutano di gustarne la polpa, e continuano ad accusare Eva di averli rovinati, come se credessero, leggendo frettolosamente la Genesi, che altrimenti gli esseri umani sarebbero stati nell'Eden, il miglior villaggio vacanze del mondo, dalla nascita alla morte. Dio padre avrebbe certo regolato le nascita come voleva, ed è francamente difficile immaginare otto miliardi di esseri umani nell'Eden fosse pure più capiente del Grand Hotel di Hilbert. Questa partecipazione all'autorevolezza divina l'ho vista in tutte le comunità psicoanalitiche, piccole o grandi, che ho avuto modo di assaggiare, nelle quali non mi sono mai sentita rifiutata. Ho sempre saputo entrare, e forse per questo ho sempre saputo uscire. Traumaticamente la prima volta, con Sebastiano e Silvana, senza problemi tutte le volte seguenti. La difficoltà del distacco da Gradiva è quella che non avevo vissuto nel distacco dai miei genitori, cominciato a quindici anni, con la determinazione a continuare gli studi a Firenze, andandomene quindi da casa. La continuazione di questo allontanamento furbo ha richiesto, appena arrivata a Firenze, il matrimonio e i figli. Ogni tragedia, ogni difficoltà le ho sopportate, anche se per la bambina, perché vivesse, avrei sacrificato il mio desiderio di diventare psicoanalista. Anche se non ho rotto il matrimonio dopo la sua morte per amare a nome suo mio marito e mio figlio, mentre per amare il mio marito il mio amore non bastava più, ci voleva quello di lei che era sotto terra. Quanto a mio figlio, che ha tre figli, tre piante dalla sua pianta, ma per me anche tre germogli del mio germoglio, accanto al quale resta quello piccolissimo della bambina, nata due anni dopo di lei, perché se un figlio muore, essendo un germoglio della madre, resta piccolo come lei, appena nata, o grande come i figli delle mie nonne, morti partigiani o per un attentato dei partigiani. Un figlio è con noi per sempre, anche se muore, perché i figli devono organizzare la nostra sepoltura, e fare qual che credono dei nostri beni, pochi o tanti, in ordine o in disordine. Altrimenti esistono finché noi esistiamo, a qualunque età siano morti, accanto come i figli vivi, germogli evanescenti e bellissimi, anche se la nostra memoria, e la loro, è lesa dall'orrore della morte, della sepoltura, dell'ingiuria del tempo e del destino.
Ma possiamo sapere, come Ulisse, che dal destino nessuno ci salva, e per questo conviene sempre, in mancanza di meglio, mettersi in mare con una zattera autoprodotta, e attraversare tutto il Mediterraneo, dalle Colonne d'Ercole a Corfù, ma sì! Che differenza fa attraversare tutto il mare o solo dalla Sicilia alla Grecia? La geometria umana è qualitativa, l'ho capito io leggendo René Thom, e poi ho scoperto che l'aveva già capito anche Lacan, ma non i lacaniani, e men che meno gli altri, tutti occupati a rendere coerente la psicoanalisi, come se fosse una scienza galileiana e non una di quelle nate a Vienna tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo - Ulisse fingendosi il mercante cretese annuncia come un indovino che tornerà tra la fine di una stagione e l'inizio di un'altra, ma in realtà racconta il futuro con sicurezza, visto che è già tornato, ma non è neanche tutto bugiardo, perché quel che annuncia è il momento in cui Athena lo ritrasformerà nell'Ulisse quarantenne, ben allenato dopo in viaggio in zattera nel Mediterraneo, e ben pasciuto dopo l'ospitalità dei Feaci, conquistati dalla principessa Nausicaa alla regina Arete, con il re Alcinoo e tutti i nobili di Scheria in mezzo. Senza pensare al dono divino di ringiovanire e abbellire i mortali con la loro volontà, più potenti delle maghe Circe e Medea, che avevano bisogno della bacchetta e dei fàrmakoi, e a volte anche di complicate bolliture. Così le fate avevano bisogno della bacchetta, e le orchesse di oggetti magici da nascondere alle loro prigioniere, mentre gli orchi, veri eredi di Polifemo, se credevano di ingannare l'essere umano che profumava di cristianuccio finivano inevitabilmente sconfitti. Ah, se sapessimo imparare da Ulisse come la fiabe continuano a raccontare! Se capissimo che nessun dio ci protegge dal destino, al quale la divinità stessa è sottomessa, e usassimo mètis, l'intelligenza che non cede al cospetto dell'orco e della maga, e nemmeno alle soglie dell'inferno, come don Giovanni!
Si muore di malattia, di incidente, di vecchiaia, o perché qualcuno ci uccide, che si usi l'intelligenza o no. Si soffre per amore che si sia artisti, come Maria Callas o Dante Alighieri, o impiegati o contadini o operai. La libertà non aumenta le sofferenza, implica solo la perdita della certezza fantasmatica che qualcuno voglia salvarci. Se non si accede alla libertà, esito desiderabile della perdita di questa certezza, che la religione chiama fede e considera molto desiderabile - come i responsabili di tutte le associazioni il cui cibo ho assaggiato, come in riti analoghi alla messa  - si cade nella patologia, che ha una parte di verità, nella sfiducia che qualcuno verrà a salvarci, prima o poi. Siccome nessuno verrà a salvarmi, tanto vale che mi levi di mezzo da me, liberandomi col suicidio da questa condizione insopportabile. Oppure per evitare di essere levato di mezzo, devo eliminare qualcuno a mia volta, uccidere, un familiare o qualche oppositore per qualunque motivo, compresa gente innocente, rappresentanti dei miei giudici crudeli perché esseri umani. La guerra allevia le nostre componenti depresse o paranoiche legittimando e anzi celebrando la certezza di dover agire per riconquistare la certezza che qualcuno verrà a salvarmi, nunc et in ora mortis nostrae. Amen.      
 
Se intendessimo l'asino come una dote personale - nella scrittura, nella ricerca scientifica, nella pittura, nella musica, ecc. - potremmo intendere il figlio e il padre come parte giovane e parte vecchia, quella in crescita e quella che affida il proprio patrimonio a quella giovane e gli insegna a metterla a frutto. Nessuna delle due parti mette in valore l'asino, che non viene sfruttato, quando cammina senza essere gravato a pesi, né protetto, quando giovane e vecchio salgono sulla sua groppa. Pensiamo quindi a una dote inutilizzata, che per questo si vorrebbe vendere. Il valore e la funzione della dote sono alienate dal soggetto vecchio-e-giovane, al punto che dall'esterno vengono accolte le indicazioni contrastanti e messe in atto immediatamente.
(Si potrebbe pensare alla storia del tonto, in cui il personaggio ripete, senza riflettere, tutto quanto gli viene consigliato. SI potrebbe quindi osservare come l'ingiunzione del compito possibile sia fatale per i discendenti, quindi non generativa: Cappuccetto rosso nella prima versione di Perrault muore, come il tonto della favola umbra, rendendo così prive di futuro le madri di entrambi i personaggi. Allo stesso modo Giovannin senza paura nelle versioni come quella di Calvino non vede alcun pericolo in ciò che sperimenta, come il suo analogo nelle versioni che hanno un lieto fine, che però fin dall'esordio della favola è inquieto perché sente la mancanza della paura, o della pelle d'oca che ne rivela nel corpo la presenza e la relativa percezione. L'attante genitoriale indica una realtà priva di difficoltà o contraddizioni minacciose, e l'attante filiale agisce di conseguenza. Quando si trova solo e scopre che quel che sa non basta, e qualcuno mette in evidenza la sua mancanza, chiede come porvi rimedio, e applica immediatamente le indicazioni ricevute, fino a morirne, nel caso di Cappuccetto che finisce con Perrault nella pancia del lupo, o come in quello di Giovannino che muore per qualcosa che tutti conoscono, come la propria ombra o il proprio posteriore)
Il solo modo di mettere in atto letteralmente le indicazioni che vengono dall'esterno è privarsi della propria stessa dote, sacrificandola insieme alla propria capacità critica: così interpretiamo l'atto di disfarsi dell'asino. D'altra parte l'accoglimento letterale delle indicazioni che vengono dall'esterno, se non porta al sacrificio della propria dote - gettare l'asino nel fiume - porta alla morte - il tonto umbro ucciso dalla martellata del fabbro, Giovannino che vede la propria ombra o il proprio posteriore. La sapienza della fiaba è da osservare: Giovannino, come Cappuccetto e il tonto non hanno contezza dell'ambiguità della realtà o delle proprie percezioni, non sanno che quel che si sa o si percepisce è sempre mancante di qualcosa, che va cercato, di cui tener sempre conto. 













 Online dal 15 marzo 2024
    Ultimo aggiornamento: 17 febbraio 2025