I mortali dicono una cosa e ne fanno
un'altra |
Così il lupo, che trova sorprendente
l'ambiguità della nonna mortale, dalla quale si
aspettava che gli avrebbe dato il bambino, visto che non
aveva smesso di piangere. La differenza fra l'essere umano
e l'animale, ma anche fra l'umano e il divino è la
capacità di contraddirsi. Gli animali e gli dei non
raccontano storie di se stessi: agiscono, coerentemente e
senza preoccuparsi delle conseguenze. Di fronte alla
sofferenza come alla gioia dell'essere umano intervengono
se vogliono, distruggendo che ha offeso la divinità,
comparandosi a un dio, o asterizzando, trasformando in
divino l'umano che ha mostrato una parentela con un dio.
Ulisse rifiuta il dono dell'immortalità, e per questo è il
primo narratore in prima persona. Ulisse trae dase stesso
le proprie storie, non invoca le muse né Apollo, sia
quando racconta il suo viaggio ai Feaci, sia quando
racconta il suo viaggio fingendosi il mercante cretese
nella capanna di Eumeo. Non nega il valore della relazione
con l'animale, che lo riconosce senza storie,
quando Argo è la sola creatura che non è inibita nella
conoscenza né dal suo travestimento metamorfico, né dai
vent'anni passati da quando formava col suo cane la coppia
il cui valore e il cui senso è ignoto a chi non abbia mai
avuto il proprio cane. Ricordo quando guardavo mio padre
che batteva leggermente la testa di Diana, il nostro
setter da penna, e sapevo che io non avrei mai avuto con
lui un'intimità così grande. Diana è morta quando io ne
avevo nove, e nel mio ricordo il babbo la uccide col
fucile, cosa che ora mi sembra impossibile, ma così è nel
mio ricordo, scena che ha luogo nella piccola serra
interna alla casa, dove il babbo teneva i suoi richiami.
Ma ecco che tornando a Ulisse, e tornando alla rivoluzione
anarchica di Freud, che rischia di perdere la propria vis
essendo normalizzata, la possibilità di contraddirsi, di
non completare il discorso, di descrivere un paesaggio che
non si è mai visitato, né mai si potrà visitare - si dice
l'inconscio, per definizione inaccessibile, né le tracce
che lascia nella coscienza sono più affidabili della loro
assenza - considero la potenza del racconto, non la poesia
ispirata dalle Muse o da Apollo o, più tardi, da uno dei
membri della Trinità, con il completamento di Maria
Vergine e Madre. Il racconto di Ulisse ad Eumeo non serve
a nulla, se non a Ulisse che ripete l'efficacia della sua
parola, mythos, racconto, dopo essere stato preso in giro
da Athena, che sa già tutto. A Dio, e agli dei, non si può
raccontare nulla, perché lo sanno già. Loro ispirano i
profeti o il profeta, nell'ultima fra le religioni del
libro, e la loro parola vale di più, come quella del
giudice quando emette la sentenza. Ma nelle istituzioni
dopo l'Illuminismo la parola umana vale di più per un
accordo, non per decreto divino, perché l'investimento
dell'autorità religiosa non ha più valore. Eppure sembra
che senza una legittimazione superiore, finita cioè quella
divina, non riusciamo a procedere, al punto che fra noi
cinque intorno a un tavolo in via delle Belle Donne, tre
lustri fa e più, Sebastiano ha evocato per sé e per
Silvana - Massimo parla poco ma anche lui era compreso
- questo maggior valore della parola, battendo il
piccolo pugno sul tavolo a imitazione del tuono col quale
Giove rendeva inopponibili i suoi decreti, visto che al
tuono poteva seguire il fulmine. Ma al pugno Sebastiano
non poteva far seguire nessun fulmine, già minacciato
vanamente da Silvana quando mi aveva detto che se non le
davo retta, o ragione che dir si voglia, la mia analisi
non valeva. Per quanto immaginari fossero gli strali di
Zeus, almeno venivano dal cielo, da qualcuno che abitava
in cima all'Olimpo, quelli di Silvana non avevano altra
potenza che minacciare una patologia conseguente alla
rottura con la sua persona. Argomento che Silvana
sottendeva ma non esplicitava, mentre Sebastiano ci aveva
provato, non con me, ma ai tempi dell'emorragia di persone
che avevano seguito Silvana Lelli come il pifferaio
magico. Né Sebastiano e Silvana potevano fermarli, perché
anche loro non avevano che un piffero. Sebastiano, così
ricordo, aveva messo in guardia una di loro dicendo che
poteva trovarsi in pericolo andandosene in quel modo. A me
aveva fatto per telefono un discorso diverso: "Vedi com'è
oggi, guarda i freudiani e anche i lacaniani, ormai ci
siamo solo noi a portarla avanti". Pensai che se
Sebastiano avesse avuto ragione la psicoanalisi sarebbe
stata ormai finita, perché di certo noi cinque non
potevamo rappresentarla a nessun livello. Ma mi viene in
mente Dio che di fronte all'iniziativa di Eva contattata
dal serpente, iniziativa subito condivisa dal gregario
Adamo - con una costola o un lato in meno è ab ovo
incapace di opporsi alla creatura formata dalla sua
costola o fianco - si preoccupa di cacciare le due
creature più simile a lui, dotate di spirito, fiato, alito
prima che gustino il frutto dell'albero della vita,
diventando come lui immortali, dopo aver gustato una volta
per tutte quello della conoscenza. Conoscenza trasmessa ai
discendenti, che però per paura dei fulmini si rifiutano
di gustarne la polpa, e continuano ad accusare Eva di
averli rovinati, come se credessero, leggendo
frettolosamente la Genesi, che altrimenti gli esseri umani
sarebbero stati nell'Eden, il miglior villaggio vacanze
del mondo, dalla nascita alla morte. Dio padre avrebbe
certo regolato le nascita come voleva, ed è francamente
difficile immaginare otto miliardi di esseri umani
nell'Eden fosse pure più capiente del Grand Hotel di
Hilbert. Questa partecipazione all'autorevolezza divina
l'ho vista in tutte le comunità psicoanalitiche, piccole o
grandi, che ho avuto modo di assaggiare, nelle quali non
mi sono mai sentita rifiutata. Ho sempre saputo entrare, e
forse per questo ho sempre saputo uscire. Traumaticamente
la prima volta, con Sebastiano e Silvana, senza problemi
tutte le volte seguenti. La difficoltà del distacco da
Gradiva è quella che non avevo vissuto nel distacco dai
miei genitori, cominciato a quindici anni, con la
determinazione a continuare gli studi a Firenze,
andandomene quindi da casa. La continuazione di questo
allontanamento furbo ha richiesto, appena arrivata a
Firenze, il matrimonio e i figli. Ogni tragedia, ogni
difficoltà le ho sopportate, anche se per la bambina,
perché vivesse, avrei sacrificato il mio desiderio di
diventare psicoanalista. Anche se non ho rotto il
matrimonio dopo la sua morte per amare a nome suo mio
marito e mio figlio, mentre per amare il mio marito il mio
amore non bastava più, ci voleva quello di lei che era
sotto terra. Quanto a mio figlio, che ha tre figli, tre
piante dalla sua pianta, ma per me anche tre germogli del
mio germoglio, accanto al quale resta quello piccolissimo
della bambina, nata due anni dopo di lei, perché se un
figlio muore, essendo un germoglio della madre, resta
piccolo come lei, appena nata, o grande come i figli delle
mie nonne, morti partigiani o per un attentato dei
partigiani. Un figlio è con noi per sempre, anche se
muore, perché i figli devono organizzare la nostra
sepoltura, e fare qual che credono dei nostri beni, pochi
o tanti, in ordine o in disordine. Altrimenti esistono
finché noi esistiamo, a qualunque età siano morti, accanto
come i figli vivi, germogli evanescenti e bellissimi,
anche se la nostra memoria, e la loro, è lesa dall'orrore
della morte, della sepoltura, dell'ingiuria del tempo e
del destino.
Ma possiamo sapere, come Ulisse, che dal destino nessuno
ci salva, e per questo conviene sempre, in mancanza di
meglio, mettersi in mare con una zattera autoprodotta, e
attraversare tutto il Mediterraneo, dalle Colonne d'Ercole
a Corfù, ma sì! Che differenza fa attraversare tutto il
mare o solo dalla Sicilia alla Grecia? La geometria umana
è qualitativa, l'ho capito io leggendo René Thom, e poi ho
scoperto che l'aveva già capito anche Lacan, ma non i
lacaniani, e men che meno gli altri, tutti occupati a
rendere coerente la psicoanalisi, come se fosse una
scienza galileiana e non una di quelle nate a Vienna tra
la fine del XIX e l'inizio del XX secolo - Ulisse
fingendosi il mercante cretese annuncia come un indovino
che tornerà tra la fine di una stagione e l'inizio di
un'altra, ma in realtà racconta il futuro con sicurezza,
visto che è già tornato, ma non è neanche tutto bugiardo,
perché quel che annuncia è il momento in cui Athena lo
ritrasformerà nell'Ulisse quarantenne, ben allenato dopo
in viaggio in zattera nel Mediterraneo, e ben pasciuto
dopo l'ospitalità dei Feaci, conquistati dalla principessa
Nausicaa alla regina Arete, con il re Alcinoo e tutti i
nobili di Scheria in mezzo. Senza pensare al dono divino
di ringiovanire e abbellire i mortali con la loro volontà,
più potenti delle maghe Circe e Medea, che avevano bisogno
della bacchetta e dei fàrmakoi, e a volte anche di
complicate bolliture. Così le fate avevano bisogno della
bacchetta, e le orchesse di oggetti magici da nascondere
alle loro prigioniere, mentre gli orchi, veri eredi di
Polifemo, se credevano di ingannare l'essere umano che
profumava di cristianuccio finivano inevitabilmente
sconfitti. Ah, se sapessimo imparare da Ulisse come la
fiabe continuano a raccontare! Se capissimo che nessun dio
ci protegge dal destino, al quale la divinità stessa è
sottomessa, e usassimo mètis, l'intelligenza che non cede
al cospetto dell'orco e della maga, e nemmeno alle soglie
dell'inferno, come don Giovanni!
Si muore di malattia, di incidente, di vecchiaia, o perché
qualcuno ci uccide, che si usi l'intelligenza o no. Si
soffre per amore che si sia artisti, come Maria Callas o
Dante Alighieri, o impiegati o contadini o operai. La
libertà non aumenta le sofferenza, implica solo la perdita
della certezza fantasmatica che qualcuno voglia salvarci.
Se non si accede alla libertà, esito desiderabile della
perdita di questa certezza, che la religione chiama fede e
considera molto desiderabile - come i responsabili di
tutte le associazioni il cui cibo ho assaggiato, come in
riti analoghi alla messa - si cade nella patologia,
che ha una parte di verità, nella sfiducia che qualcuno
verrà a salvarci, prima o poi. Siccome nessuno verrà a
salvarmi, tanto vale che mi levi di mezzo da me,
liberandomi col suicidio da questa condizione
insopportabile. Oppure per evitare di essere levato di
mezzo, devo eliminare qualcuno a mia volta, uccidere, un
familiare o qualche oppositore per qualunque motivo,
compresa gente innocente, rappresentanti dei miei giudici
crudeli perché esseri umani. La guerra allevia le nostre
componenti depresse o paranoiche legittimando e anzi
celebrando la certezza di dover agire per riconquistare la
certezza che qualcuno verrà a salvarmi, nunc et in ora
mortis nostrae. Amen.
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Se intendessimo l'asino come una dote
personale - nella scrittura, nella ricerca scientifica,
nella pittura, nella musica, ecc. - potremmo intendere il
figlio e il padre come parte giovane e parte vecchia,
quella in crescita e quella che affida il proprio
patrimonio a quella giovane e gli insegna a metterla a
frutto. Nessuna delle due parti mette in valore l'asino,
che non viene sfruttato, quando cammina senza essere
gravato a pesi, né protetto, quando giovane e vecchio
salgono sulla sua groppa. Pensiamo quindi a una dote
inutilizzata, che per questo si vorrebbe vendere. Il
valore e la funzione della dote sono alienate dal soggetto
vecchio-e-giovane, al punto che dall'esterno vengono
accolte le indicazioni contrastanti e messe in atto
immediatamente.
(Si potrebbe pensare alla storia del tonto, in cui il
personaggio ripete, senza riflettere, tutto quanto gli
viene consigliato. SI potrebbe quindi osservare come
l'ingiunzione del compito possibile sia fatale per
i discendenti, quindi non generativa: Cappuccetto rosso
nella prima versione di Perrault muore, come il tonto
della favola umbra, rendendo così prive di futuro le madri
di entrambi i personaggi. Allo stesso modo Giovannin senza
paura nelle versioni come quella di Calvino non vede alcun
pericolo in ciò che sperimenta, come il suo analogo nelle
versioni che hanno un lieto fine, che però fin
dall'esordio della favola è inquieto perché sente la
mancanza della paura, o della pelle d'oca che ne rivela
nel corpo la presenza e la relativa percezione. L'attante
genitoriale indica una realtà priva di difficoltà o
contraddizioni minacciose, e l'attante filiale agisce di
conseguenza. Quando si trova solo e scopre che quel che sa
non basta, e qualcuno mette in evidenza la sua mancanza,
chiede come porvi rimedio, e applica immediatamente le
indicazioni ricevute, fino a morirne, nel caso di
Cappuccetto che finisce con Perrault nella pancia del
lupo, o come in quello di Giovannino che muore per
qualcosa che tutti conoscono, come la propria ombra o il
proprio posteriore)
Il solo modo di mettere in atto letteralmente le
indicazioni che vengono dall'esterno è privarsi della
propria stessa dote, sacrificandola insieme alla propria
capacità critica: così interpretiamo l'atto di disfarsi
dell'asino. D'altra parte l'accoglimento letterale delle
indicazioni che vengono dall'esterno, se non porta al
sacrificio della propria dote - gettare l'asino nel fiume
- porta alla morte - il tonto umbro ucciso dalla
martellata del fabbro, Giovannino che vede la propria
ombra o il proprio posteriore. La sapienza della fiaba è
da osservare: Giovannino, come Cappuccetto e il tonto non
hanno contezza dell'ambiguità della realtà o delle proprie
percezioni, non sanno che quel che si sa o si percepisce è
sempre mancante di qualcosa, che va cercato, di cui tener
sempre conto.
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