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CORNIFICIA |
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GIOVANNI BOCCACCIO DE MULIERIBUS CLARIS |
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Che
Cornificia fosse donna romana o piuttosto straniera non
mi ricordo haver ritruovato, nondimeno secondo il
testimonio de gli antichi, fu molto degna di memoria.
Imperocché, essendo Imperatore Ottaviano Cesare,
risplese di tantadottrina Poetica, che fu giudicata
nodrita non di latte italiano, ma di bevanda Castalia,
et a Cornificio suo fratello carnale in quel medesimo
tempo poeta eccellente, parimente accrebbe molto gloria.
Né contenta di haver avuto in parole così gran potere,
giudico guidata dalle sacre Muse, spessissime fiate
gettata la rocca, pigliò con le dotte mani la penna, et
scrisse versi d'Elicona. Ma compose molti notabili
epigrammi, i quali al tempo di Girolamo prete, et huomo
santissimo, com'egli testimonia era il prezzo, ma
quello, che ne sia venuto dappoi non ne ho molta
certezza. [...] Poche costei, non sprezzate le forze di natura con l'ingegno, e con le fatiche avanzare il sesso femminile, e con lecita fatica acquistarsi nome eterno, non facendo quello, a che communemente tutti sono atti ma oprando cose, che a gli huomini illustri sono rare et eccellenti. (pag. 100) |
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GAIO
VALERIO CATULLO |
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A me pare uguale a un dio Carme 51 |
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Ille mi par esse deo videtur, ille, si fas est, superare divos,c, qui sedens adversus identidem te spectat et audit dulce ridentem, misero quod omnis eripit sensus mihi: nam simul te, Lesbia, aspexi, nihil est super mi <vocis in ore> lingua sed torquet, tenuis sub artus flamma demanat, sonitu suopte tintinnant aures, gemina teguntur lumina nocte. Otium, Catulle, tibi molestum est: otio exsultas nimiumque gestis: otium et reges prius et beatas perdidit urbes. |
A me pare uguale a
un dio, e anche, se oso, più degli dei, lui che si siede di fronte a te e guarda e ascolta te che ridi dolcemente, e allora, povero me, quasi perdo tutti i sensi: perché ogni volta che ti guardo Lesbia, non ho più <voce nella gola> mi s'impasta la lingua, sottile una fiamma corre sotto le mie membra, di un suono tutto loro vibrano le orecchie, e gli occhi mi si coprono di notte. L'ozio, Catullo, ti fa male: nell'ozio ti esalti e ti agiti troppo l'ozio ha già distrutto sovrani e città felici. |
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Viviamo, Lesbia mia, e amiamo Carme 5 |
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Vivamus, mea Lesbia,
atque amemus, rumoresque senum severiorum omnes unius aestimemus assis. Soles occidere et redire possunt: nobis cum semel occidit brevis lux, nox est perpetua una dormienda. Da mi basia mille, deinde centum, dein mille altera, dein secunda centum, deinde usque altera mille, deinde centum, Dein, cum milia multa fecerimus, conturbabimus illa, ne sciamus, aut ne quis malus invidere possit, cum tantum sciat esse basiorum. |
Viviamo,
Lesbia mia, e amiamo e le chiacchiere dei vecchi troppo severi consideriamole meno di un centesimo. I soli possono morire e tornare: noi, una volta che si sarà spenta la breve luce abbiamo una notte eterna da dormire. Dammi mille baci, e poi cento poi altri mille. poi di nuovo cento, poi ancora altri mille, poi cento. Poi, quando ne avremo molte migliaia li confonderemo, per non sapere, e perché un cattivo non possa farci il malocchio sapendo che ci sono tanti baci. |
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Odi et amo Elegia 85 |
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Odi et amo. Quare id faciam, fortasse
requiris. Nescio, sed fieri sentio, et excrucior. |
Odio e amo. Mi
chiedi, forse, come possa farlo. Non lo so, ma lo sento accadere, e mi crocifigge. |
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ORAZIO |
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Vides
ut alta stet nive candidum Carme I, 9 |
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Vides ut alta stet nive candidum Soracte nec iam sustineant onus silvae laborantes geluque flumina constiterint acuto. Dissolve frigus ligna super foco large reponens atque benignius deprome quadrimum Sabina o Thaliarche, merum diota. Permitte divis cetera, qui simul stravere ventos aequore fervido deproeliantes, nec cupressi nec veteres agitantur orni. Quid sit futurum cras, fuge quaerere et, quem Fors dierum cumque dabit, lucro adpone nec dulces amores sperne, puer, neque tu choreas, donec virenti canities abest morosa. Nunc et campus et areae lenesque sub noctem susurri composita repetantur hora, nunc et latentis proditor intimo gratus puellae risus ab angulo pignusque dereptum lacertis aut digito male pertinaci. |
Vedi come si erge candido di neve il Soratte, vedi come le selve si piegano sotto il peso, e per il gelo rigido i fiumi siano fermi. Dissolvi il freddo mettendo legna sul fuoco in abbondanza, e generoso attingi dall'anfora sabina vino di quattro anni, o Taliarco. Lascia il resto agli dei: appena placano i venti che si combattono sul mare infuriato, non si scuotono più i cipressi né gli orni antichi. Quale sia il futuro domani, evita di chiederlo e quanti siano i giorni che la Sorte darà, scrivili dalla parte dei guadagni, giovane, e non disprezzare i dolci amori, né le danze, ora che l'uggiosa canizie sta lontana dalla folta chioma. Ora il campo e le piazze e i lievi bisbigli tornino nella notte all'ora serena, torni la cara risata traditrice della fanciulla nascosta nell'angolo, e torni il pegno, rubato dal braccio, o dal dito che un poco resiste. |
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Carpe
diem Carme I, 11 |
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Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios temptaris numeros. Ut melius, quidquid erit, pati! Seu pluris hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam, quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare Tyrrhenum, sapias: vina liques et spatio brevi spem longam reseces. Dum loquimur, fugerit invida aetas: carpe diem, quam minimum credula postero. |
Non chiedere, o Leuconoe - male sapere! - che fine abbiano destinato a me, a te, gli dei; e non consultare i numeri babilonesi. Quant’è meglio vivere quel che viene! Sia che Giove ci conceda molti inverni, o solo questo che debilita il Tirreno sbattendo le onde contro gli scogli, impara: versa il vino e taglia la speranza lunga a misura del tempo breve. Mentre parliamo il tempo vola invidioso: carpe diem, credi nel futuro meno che puoi. |
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Non
omnis moriar Carme III, 30 |
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Exegi monumentum aere perennius regalique situ pyramidum altius, quod non imber edax, non Aquilo impotens possit diruere aut innumerabilis annorum series et fuga temporum. Non omnis moriar multaque pars mei vitabit Libitinam: usque ego postera crescam laude recens, dum Capitolium scandet cum tacita virgine Pontifex. Dicar qua violens obstrepit Aufidus et qua pauper aquae Daunus agrestium regnavit populorum, ex humili potens, princeps Aeolium carmen ad Italos deduxisse modos. Sume superbiam quaesitam meritis et mihi Delphica lauro cinge volens, Melpomene, comam. |
Ho eretto un
monumento più duraturo del bronzo e più alto del sito regale delle piramidi, che non possa distruggerlo la pioggia vorace, né l'Aquilone sfrenato né l'innumerabile serie degli anni e i tempi fuggitivi. Non tutto morirò e buona parte di me eviterà Libitina: continuamente io crescerò mantenuto in vita dalla lode dei posteri, finché un Pontefice salirà al Campidoglio con la vergine silenziosa. Si dirà che io, dove vorticoso rumoreggia l'Ofanto e dove Dauno povero d'acqua ha regnato su popoli agresti, da umile potente, io, per primo, ho portato la poesia greca nei modi italici. Goditi l'eccellenza ottenuta per merito tuo, Melpomene, e lieta cingimi il capo con l'alloro Delfico. |
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PUBLIO OVIDIO
NASONE |
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HEROIDES |
EROIDI |
IV |
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Phaedra Hippolyto |
Fedra a Ippolito |
Venit
amor gravius, quo serius. urimur intus; urimur et caecum pectora vulnus habent. Scilicet ut teneros laedunt iuga prima iuvencos frenaque vix patitur de grege captus equus, sic male vixque subit primos rude pectus amores sarcinaque haec animo non sedet apta meo. Ars fit, ubi a teneris crimen condiscitur annis; quae venit exacto tempore, peius amat. |
Quanto più è
tardivo tanto più l'amore giunge violento. Brucio nel
profondo, brucio e il mio cuore ha una ferita
nascosta. Come il primo giogo ferisce i teneri
giovenchi e il cavallo catturato dal branco mal
sopporta il morso, così il mio animo inesperto con
difficoltà e con pena si lascia soggiogare dal primo
amore e questo è un peso molesto per il mio cuore.
L'amore diviene arte, quando la colpa è appresa in
tenera età; ma la donna che giunge ad amare quando
ormai il tempo è passato, ama con maggiore sofferenza. |
Per
Venerem, parcas, oro, quae plurima mecumst. Sic numquam, quae te spernere possit, ames; sic tibi secretis agilis dea saltibus adsit silvaque perdendas praebeat alta feras; sic faveant Satyri montanaque numina Panes et cadat adversa cuspide fossus aper; sic tibi dent nymphae, quamuis odisse puellas diceris, arentem quae levet unda sitim. Addimus his precibus lacrimas quoque. verba precantis perlegis, at lacrimas finge videre meas. |
Ti prego per
Venere, che tutta mi pervade, risparmiami; che mai tu
debba amare una donna che ti respinga; che l'agile dea
ti sia accanto nei recessi selvosi ed il bosco
profondo ti offra animali da uccidere; che ti siano
propizi i Satiri, le paniche divinità montane e il
cinghiale cada trafitto dalla lancia che gli hai
rivolto contro; che le ninfe, sebbene si dica che tu
odi le fanciulle, ti offrano acqua che dia ristoro
alla tua sete ardente! A queste preghiere aggiungo anche le lacrime; leggi le parole di colei che ti prega, ma le mie lacrime, immagina di vederle. |
V |
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OENONE PARIDI |
ENONE A PARIDE |
Ipse,
ratus dignam, medicas mihi tradidit artes admisitque meas ad sua dona manus. Quaecumque herba potens ad opem radixque medendo utilis in toto nascitur orbe, meast. Me miseram, quod amor non est medicabilis herbis. Deficior prudens artis ab arte mea. Ipse repertor opis vaccas pavisse Pheraeas fertur, et e nostro saucius igne fuit. Quod nec graminibus tellus fecunda creandis nec deus, auxilium tu mihi ferre potes. Et potes, et merui. dignae miserere puellae. Non ego cum Danais arma cruenta fero; sed tua sum tecumque fui puerilibus annis, et tua, quod superest temporis, esse praecor. |
Proprio lui, ritenendomi degna, mi
ha insegnato le arti mediche e mi ha concesso di mettere le mie mani sui suoi doni. Ogni erba e ogni radice dotata di virtù utili all'opera medica in qualunque regione della terra cresca, è mia. Povera me! l'amore non si può medicare con le erbe. Maestra nell'arte, l'arte stessa mi tradisce. Si racconta che lo stesso scopritore pascolando le vacche di Fere, e fu ferito dal mio stesso fuoco. Quell'aiuto che né la terra feconda nel generare erbe, né un altro dio, tu me lo puoi dare. Tu puoi, e io lo merito, povera innocente fanciulla Non sono io che porto una guerra cruenta con i Greci; ma sono tua, e con te abbiamo passato l'età più tenera, e tua prego di essere per il tempo che ci resta. |
VI |
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HYPSYPILE IASONI |
IPSIPILE A GIASONE |
Dic
age, si ventis, ut oportuit, actus iniquis intrasses portus tuque comesque meos obviaque exissem fetu comitante gemello, hiscere nonne tibi terra roganda fuit? Quo vultu natos, quo me, scelerate, videres? Perfidiae pretio qua nece dignus eras? Ipse quidem per me tutus sospesque fuisses, non quia tu dignus, sed quia mitis ego; paelicis ipsa meos implessem sanguine vultus, quosque veneficiis abstulit illa suis. Medeae Medea forem. quodsi quid ab alto iustus adest votis Iuppiter ille meis, quod gemit Hypsipyle, lecti quoque subnuba nostri maereat et leges sentiat ipsa suas, utque ego destituor coniunx materque duorum, a totidem natis orba sit aque viro; nec male parta diu teneat peiusque relinquat; exulet et toto quaerat in orbe fugam. Quam fratri germana fuit miseroque parenti filia, tam natis, tam sit acerba viro; cum mare, cum terras consumpserit, aëra temptet: erret inops, exspes, caede cruenta sua. Haec ego, coniugio fraudata Thoantias oro. Vivite devoto nuptaque virque toro! |
Su, dimmi, se spinto da venti
sfavorevoli, come sarebbe stato giusto, avessi fatto
ingresso nel mio porto, tu e la tua compagna, ed io ti
fossi venuta incontro accompagnata dai gemelli - certo
avresti dovuto chiedere alla terra di spalancarsi! -
con quale faccia, disgraziato, avresti guardato i tuoi
figli, con quale me? Di quale morte saresti stato
degno, come prezzo del tuo tradimento? Ma, per quanto
mi riguarda tu saresti stato salvo e al sicuro, non
perché tu ne sia degno, ma perché io sono clemente; ma
io in persona avrei saziato del sangue della tua
concubina i miei occhi e i tuoi, che lei mi ha portato
via con le sue stregonerie. Con Medea sarei stata
Medea! Se, dall'alto, Giove stesso, dio di giustizia,
accoglie in qualche modo le mie preghiere, anche
l'usurpatrice del mio letto provi a sua volta le
sofferenze per cui Ipsipile piange e sia colpita dalle
sue stesse leggi. E come io, sposa e madre di due
figli, sono abbandonata, anche lei, avuti i figli, sia
privata del marito; e ciò che avrà partorito malamente
non possa conservarlo a lungo, e ancor peggio lo
perda; sia esule e cerchi rifugio per tutto il mondo!
E quanto, come sorella, fu crudele con il fratello e,
come figlia, con il povero padre, altrettanto lo sia
con i figli e altrettanto con il marito. E dopo aver
esaurito terra e mare, cerchi la via del cielo; vada
errando povera e disperata, macchiata del sangue della
sua strage. Queste le punizioni che io, figlia di
Toante, defraudata delle mie nozze, invoco. Vivete,
moglie e marito, in un talamo maledetto! |
IX |
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DEIANIRA HERCULI |
DEIANIRA A ERCOLE |
Quem
non mille ferae, quem non Stheneleius hostis, non potuit Iuno vincere, vincit Amor. At bene nupta feror, quia nominer Herculis uxor sitque socer rapidis qui tonat altus equis. Quam male inaequales veniunt ad aratra iuvenci, tam premitur magno coniuge nupta minor; non honor est sed onus species laesura ferentes: siqua voles apte nubere, nube pari. Vir mihi semper abest, et coniuge notior hospes monstraque terribiles persequiturque feras; ipsa domo vidua votis operata pudicis torqueor, infesto ne vir ab hoste cadat; inter serpentes aprosque avidosque leones iactor et hausuros terna per ora canes. Me pecudum fibrae simulacraque inania somni omniaque arcana nocte petita movent. Aucupor infelix incertae murmura famae, speque timor dubia spesque timore cadit. Mater abest queriturque deo placuisse potenti, nec pater Amphitryon nec puer Hyllus adest; arbiter Eurystheus irae Iunonis iniquae sentitur nobis iraque longa deae. Haec mihi ferre parum. peregrinos addis amores et mater de te quaelibet esse potest. Non ego Partheniis temeratam vallibus Augen, nec referam partus, Ormeni nympha, tuos; non tibi crimen erunt, Teuthrantia turba, sorores, quarum de populo nulla relicta tibist; una, recens crimen, referetur adultera nobis, unde ego sum Lydo facta noverca Lamo. Maeandros, terris totiens errator in isdem, qui lassas in se saepe retorquet aquas, vidit in Herculeo suspensa monilia collo, illo, cui caelum sarcina parva fuit. |
L'uomo che mille belve non furono
in grado di vincere, né il figlio di Stenelo, suo
nemico, né Giunone, lo vince Amore. Ma si dice che io
sono felicemente sposata, perché sono chiamata moglie
di Ercole e mio suocero è colui che tuona dall'alto
con i suoi veloci destrieri. Quanto malamente si
adattano all'aratro due buoi di diversa mole, tanto
resta schiacciata una moglie inferiore da un marito
prestigioso. Non è un privilegio, ma un peso, la
bellezza che danneggia chi la possiede; se vuoi
sposarti adeguatamente, sposa un tuo pari. Mio marito
sta sempre lontano, e mi è più familiare come ospite
che come sposo, e si dà all'inseguimento di mostri e
belve spaventose. Io, nella casa vuota, intenta in
caste preghiere, mi tormento nel timore che mio marito
cada per mano di un nemico pericoloso. Mi agito fra
serpenti, cinghiali, leoni insaziabili e cani che
azzannano senza mollare la presa con triplici fauci.
Mi turbano le viscere degli animali sacrificati e gli
evanescenti fantasmi dei sogni e i presagi cercati nel
segreto della notte. Infelice, cerco di captare gli
incerti sussurri della fama e la paura si perde nella
speranza vacillante, la speranza nella paura. Tua
madre è lontana e si duole di essere piaciuta a un dio
potente; non c'è tuo padre, Anfitrione, né nostro
figlio Illo. Sento gravare su di me Euristeo,
strumento dell'ingiusto odio di Giunone e la collera
inesauribile della dea. Ed è ancora poco per me
sopportare tutto questo; aggiungi gli amori per
femmine straniere e che una donna qualsiasi può essere
resa madre da te. Non dirò di Auge, violentata nelle
valli del Partenio, né della tua prole, o ninfa nipote
di Ormeno; non verrai incolpato per le sorelle,
discendenti di Teutrante: della loro schiera non ne
hai trascurata nessuna; ricorderò una sola come
amante, ultimo affronto nel tempo, per colpa della
quale sono diventata matrigna di Lamo di Lidia. Il
Meandro, che attraversa tante volte il medesimo
territorio, e che continuamente ripiega su se stesso
le sue acque stanche, ha visto collane pendere dal
collo di quell'Ercole, per il quale la volta celeste
fu piccolo peso. |
X |
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ARIADNE THESEO |
ARIANNA A TESEO |
Tempus erat, vitrea quo
primum terra pruina spargitur et tectae fronde queruntur aves. Incertum vigilans, a somno languida, movi Thesea prensuras semisupina manus; nullus erat. referoque manus iterumque retempto perque torum moveo bracchia; nullus erat. Excussere metus somnum; conterrita surgo, membraque sunt viduo praecipitata toro. Protinus adductis sonuerunt pectora palmis, utque erat e somno turbida, rapta comast. Luna fuit; specto siquid nisi litora cernam; quod videant oculi, nil nisi litus habent. Nunc huc, nunc illuc, et utroque sine ordine, curro; alta puellares tardat harena pedes. Interea toto clamavi in litore "Theseu"; reddebant nomen concava saxa tuum, et quotiens ego te, totiens locus ipse vocabat; ipse locus miserae ferre volebat opem. |
Era l'ora in cui la terra inizia ad
essere coperta da un strato di brina, come di vetro e
gli uccelli, al riparo delle fronde, emettono il loro
canto lamentoso; non ancora del tutto sveglia,
illanguidita dal sonno, sollevandomi appena mossi le
mani per toccare Teseo: non c'era nessuno! Ritraggo le
mani e riprovo una seconda volta, e muovo le braccia
per tutto il letto: non c'era nessuno. La paura
scacciò il sonno; in preda al terrore mi alzo ed il
mio corpo si precipita fuori dal letto vuoto. Subito
il mio petto risuonò, percosso dalle mani; mi strappai
i capelli così com'erano, ingarbugliati dal sonno.
C'era la luna; scruto se vedo qualcosa oltre alla
spiaggia; ma i miei occhi non riescono a scorgere
nulla oltre alla spiaggia. Corro disordinatamente ora
qua e ora là, in ogni direzione. La sabbia fonda
ostacola il mio passo di fanciulla. Intanto mentre
gridavo per tutta la spiaggia "Teseo!", le rocce dalle
loro cavità mi rimandavano indietro il tuo nome e
quante volte ti chiamavo, altrettante il luogo stesso
chiamava; anche il luogo voleva recare aiuto a me
sventurata. |
XI |
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CANACE MACAREO |
CANACE A MACAREO |
His mea muneribus, genitor,
conubia donas? Hac tua dote, pater, filia dives erit! Tolle procul de caede faces, Hymenaee, maritas et fuge turbato tecta nefanda pede. Ferte faces in me, quas fertis, Erinyes atrae, et meus ex isto luceat igne rogus. Nubite felices Parca meliore sorores, amissae memores sed tamen este mei. Quid puer admisit tam paucis editus horis? Quo laesit facto vix bene natus avum? Si potuit meruisse necem, meruisse putetur. A! miser admisso plectitur ille meo. Nate, dolor matris, rapidarum praeda ferarum, ei mihi! natali dilacerate tuo, nate, parum fausti miserabile pignus amoris, haec tibi prima dies, haec tibi summa fuit. Non mihi te licuit lacrimis perfundere iustis, in tua non tonsas ferre sepulcra comas, non super incubui, non oscula frigida carpsi. Diripiunt avidae viscera nostra ferae. Ipsa quoque infantis cum vulnere prosequar umbras nec mater fuero dicta nec orba diu. Tu tamen, o frustra miserae sperate sorori, sparsa, precor, nati collige membra tui et refer ad matrem socioque impone sepulcro, urnaque nos habeat quamlibet arta duos. Vive memor nostri lacrimasque in vulnere funde neve reformida corpus amantis amans; tu, rogo, dilectae nimium mandata sororis perfer; mandatum persequar ipsa patris. |
Sono questi i doni, genitore, che
mi offri per le mie nozze? Di questa dote, padre, tua
figlia sarà ricca? Allontana, Imeneo tradito, le
fiaccole nuziali e fuggi agitando il passo da questa
casa esecrabile! Fosche Erinni, volgete verso di me le
fiaccole che impugnate ed il mio rogo si illumini del
vostro fuoco! Siate spose felici, sorelle, abbiate un
destino migliore; ma conservate, tuttavia il mio
ricordo, dopo morta! Che male ha commesso un bimbo
venuto al mondo da così poche ore? Appena nato, che
cosa ha fatto per offendere il nonno? Se ha potuto
meritare la morte, si pensi pure che l'abbia meritata;
ah, infelice, è punito lui per la mia colpa! Figlio,
dolore di tua madre, preda di belve rapaci, sbranato,
ahimè, nel giorno della tua nascita, figlio, pegno
sventurato di un amore infausto, questo per te è stato
il primo giorno, questo per te l'ultimo. Non mi fu
concesso di versare su di te giuste lacrime, non di
deporre sulla tua tomba i miei capelli recisi; non
vegliai su di te, non colsi da te freddi baci; fiere
voraci dilaniano le mie viscere. Anch'io, con la mia
ferita, seguirò l'ombra del mio bambino e non sarò
stata detta a lungo né madre, né priva di lui. Ma tu,
inutilmente sperato dall'infelice sorella, raccogli,
ti prego, i resti di tuo figlio, riportali a sua madre
e ponili in una sepoltura comune ed un'unica urna, per
quanto stretta, ci accolga entrambi! Vivi nel mio
ricordo e versa lacrime sulle mie ferite, tu che mi
ami, non temere il corpo di chi ti ama. Ti supplico,
porta a compimento le volontà della sorella troppo
amata! Io adempirò a mia volta la volontà del padre. |
XV |
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SAPPHO PHAONI |
SAFFO
A FAONE |
Tu
mihi cura, Phaon; te somnia nostra reducunt, somnia formoso candidiora die. Illic te invenio, quamquam regionibus absis; sed non longa satis gaudia somnus habet. Saepe tuos nostra cervice onerare lacertos, saepe tuae videor supposuisse meos. Oscula cognosco, quae tu committere linguae aptaque consueras accipere, apta dare. Blandior interdum, verisque simillima verba eloquor, et vigilant sensibus ora meis. Ulteriora pudet narrare, sed omnia fiunt, et iuvat, et siccae non licet esse mihi. At cum se Titan ostendit et omnia secum, tam cito me somnos destituisse queror. Antra nemusque peto tamquam nemus antraque prosint; conscia deliciis illa fuere meis. Huc mentis inops, ut quam furialis Enyo attigit, in collo crine iacente, feror. Antra vident oculi scabro pendentia topho, quae mihi Mygdonii marmoris instar erant. Invenio silvam, quae saepe cubilia nobis praebuit et multa texit opaca coma. At non invenio dominum silvaeque meumque: vile solum locus est; dos erat ille loci. Agnovi pressas noti mihi caespitis herbas; de nostro curvum pondere gramen erat. Incubui, tetigique locum qua parte fuisti; grata prius lacrimas combibit herba meas; quin etiam rami positis lugere videntur frondibus, et nullae dulce queruntur aves. Sola virum non ulta pie maestissima mater concinit Ismarium Daulias ales Ityn. Ales Ityn, Sappho desertos cantat amores. Hactenus ut media cetera nocte silent. |
Tu sei il mio
pensiero assillante, Faone, e i miei sogni ti
riconducono a me, sogni più radiosi di una bella
giornata. Là io ti trovo, anche se sei in un paese
lontano; ma il sonno non reca gioie sufficientemente
lunghe. Spesso mi sembra che la mia testa posi sulle
tue braccia, spesso che le mie braccia sostengano la
tua. Riconosco i baci che tu eri solito affidare alla
tua lingua, baci che tu eri sempre esperto nel dare e
nel ricevere. Talvolta ti accarezzo e pronuncio parole
del tutto simili alla realtà e la mia bocca è desta
per i miei sensi. Mi vergogno a raccontare il resto,
ma accade tutto e provo piacere e non riesco a restare
insensibile. Ma quando il Titano si offre alla vista e
ogni cosa con lui, allora mi lamento che il sonno mi
abbia abbandonata tanto presto; vado in cerca di
boschi e caverne, come se il bosco e le caverne
potessero aiutarmi: sono stati testimoni delle mie
gioie d'amore. Sono trascinata là, fuori di senno, con
i capelli sparsi sul collo, come una donna posseduta
dalla furiosa Enio. I miei occhi vedono le grotte
scavate nel tufo poroso, che per me erano simili a
marmo Migdonio; ritrovo il bosco, che spesso ci offrì
un giaciglio e ci protesse ombroso, con la sua fitta
chioma, ma non trovo il signore e del bosco e mio;
quel posto è ormai diventato terreno senza valore: era
lui la ricchezza del luogo. Ho riconosciuto l'erba
schiacciata delle zolle a me note: l'erba era
afflosciata per il nostro peso; mi lasciai cadere
sopra e toccai il terreno dalla parte dove stavi tu:
l'erba, un tempo a me cara, si impregnò delle mie
lacrime. Persino i rami, spogliati delle foglie,
sembrano piangere e nessun uccello fa sentire il suo
dolce lamento. Solo l'uccello di Daulide, la madre
colma di tristezza che si vendicò scelleratamente del
marito, canta l'ismario Iti. L'uccello canta Iti,
Saffo l'amore non più ricambiato; solo questo: il
resto tace, come a mezzanotte. |
PSITTACUS
OCCIDIT AMORES, II, 6 |
È MORTO IL
PAPPAGALLO AMORI, II, 6 |
Psittacus, Eois imitatrix ales ab Indis, occidit: exsequias ite frequentes, aves; ite, piae volucres, et plangite pectora pinnis et rigido teneras ungue notate genas; 5 horrida pro maestis lanietur pluma capillis, pro longa resonent carmina vestra tuba. Quod scelus Ismarii quereris, Philomela, tyranni, expleta est annis ista querela suis; alitis in rarae miserum devertere funus: 10 magna sed antiquam est causa doloris Itys. Omnes, quae liquido libratis in aëre cursus, tu tamen ante alios, turtur amice, dole. Plena fuit vobis omni concordia vita et stetit ad finem longa tenaxque fides. 15 Quod fuit Argolico iuvenis Phoceus Orestae, hoc tibi, dum licuit, psittace, turtur erat. Quid tamen ista fides, quid rari forma coloris, qui vox mutandis ingeniosa sonis, quid iuvat, ut datus es, nostrae placuisse puellae? 20 Infelix avium gloria nempe iaces. Tu poteras fragiles pinnis hebetare zmaragdos tincta gerens rubro Punica rostra croco. Non fuit in terris vocum simulantior ales: reddebas blaeso tam bene verba sono. 25 Raptus es invidia: non tu fera bella movebas; garrulus et placide pacis amator eras. Ecce, coturnices inter sua proelia vivunt, forsitan et fiant inde frequenter anus. Plenus eras minimo, nec prae sermonis amore 30 in multos poteras ora vacare cibos: nux erat esca tibi causaeque papavera somni, pellebatque sitim simplicis umor aquae. Vivit edax vultur ducensque per aëra gyros milvus et pluviae graculus auctor aquae; 35 vivit et armiferae cornix invisa Minervae, illa quidem saeclis vix moritura novem. Occidit ille loquax humanae vocis imago psittacus, extremo munus ab orbe datum. Optima prima fere Manibus rapiuntur avaris; 40 implentur numeris deteriora suis: tristia Phylacidae Thersites funera vidit iamque cinis vivis fratribus Hector erat. Quid referam timidae pro te pia vota puellae, vota procelloso per mare rapta Noto? 45 Septima lux venit non exhibitura sequentem, et stabat vacuo iam tibi Parca colo; nec tamen ignavo stupuerunt verba palato: clamavit moriens lingua «Corinna, vale.» Colle sub Elysio nigra nemus ilice frondet 50 udaque perpetuo gramine terra viret. Si qua fides dubiis, volucrum locus ille piarum dicitur, obscaenae quo prohibentur aves: illic innocui late pascuntur olores et vivax phoenix, unica semper avis; 55 explicat ipsa suas ales Iunonia pinnas, oscula dat cupido blanda columba mari. Psittacus has inter nemorali sede receptus convertit volucres in sua verba pias. Ossa tegit tumulus, tumulus pro corpore magnus, 60 quo lapis exiguus par sibi crimen habet: «Colligor ex ipso dominae placuisse sepulcro. Ora fuere mihi plus ave docta loqui.» |
1 È morto il pappagallo, l’uccello imitatore che veniva dall’India: partecipate numerosi, uccelli, al suo funerale, battetevi il petto con le ali, uccelli pii, graffiatevi le tenere guance con le unghie dure, 5 strappatevi, anziché i capelli, le piume irte, e invece della lunga tromba risuonino i vostri canti. Per il delitto che piangi, Filomela, del re di Ismaro, il tuo pianto si è già consumato negli anni; stornalo sulla morte infelice di questo uccello prezioso: 10 grande ma troppo antica causa di pianto è Iti. Voi tutti, che librate il volo nell’aria limpida, piangete, e tu più di tutti, amica tortora. La vostra vita fu piena di ogni concordia, fedeltà lunga e tenace rimase fino alla fine. 15 Quello che Pilade fu per Oreste argivo, la tortora, finché poté, fu per te, pappagallo. Ma a che serve la fedeltà, la bellezza del colore prezioso, la voce abilissima nel variare i toni, l’essere piaciuto, appena le fosti dato, alla mia donna? 20 Ora giaci morto, gloria infelice di tutti gli uccelli! Con le tue piume oscuravi il colore degli smeraldi e avevi il becco tinto di croco. Non ci fu uccello in terra che sapesse meglio imitare i suoni che riproducevi con la tua voce blesa, alla perfezione 25 Ti ha rapito l’invidia, non facevi guerra a nessuno, chiacchieravi ed amavi la quiete e la pace. Invece le quaglie vivono sempre in mezzo alle liti, e sarà per questo che spesso diventano vecchie. Ti saziavi con poco, e per il piacere della parola 30 il tuo becco non era libero per molti cibi: solo una noce e il papavero che induce il sonno, e semplice acqua ti scacciava la sete. Vive l’avvoltoio vorace e il nibbio che compie volute nell’aria e il gracchio che chiama la pioggia – 35 vive la cornacchia invisa a Minerva armata, e anzi a stento muore dopo nove generazioni. È morto il pappagallo, eco della voce umana, il pappagallo, dono arrivato dai confini del mondo. Le cose migliori per prime cadono in preda all’avida morte, 40 le peggiori compiono fino in fondo il loro ciclo, Tersite vide le tristi esequie di Protesilao, Ettore divenne cenere quando i fratelli vivevano ancora. Perché dire i pii voti fatti per te dalla mia donna paurosa, dispersi nel mare dalle burrasche di Noto? 45 Arrivò il settimo giorno, che non avrebbe avuto un successivo, e già la Parca ti stava accanto con la conocchia esaurita, e tuttavia le parole non ti si fermarono nel palato inerte: morendo la lingua disse: “Addio, Corinna”! Sotto il colle Elisio c’è un bosco di lecci neri, 50 e la terra umida verdeggia sempre di erbe perenni. Se si può prestar fede all’incertezza, è quello il luogo, si dice, degli uccelli pii, e ne sono cacciati gli uccelli di malaugurio; là vivono in larghi spazi i cigni innocenti, e la fenice che risorge, uccello unico sempre, 55 l’uccello di Giunone apre là le sue ali, e la dolce colomba bacia il compagno voglioso. Il pappagallo, accolto in questo bosco, chiama gli uccelli pii a sentire le sue parole: un tumulo copre le ossa, grande rispetto al suo piccolo corpo, 60 e una piccola lapide ha un’epigrafe anch’essa piccola: “Il sepolcro stesso mostra che piacqui alla mia padrona, ebbi una voce esperta a parlare più che non tocca a un uccello”. |
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