ADALINDA GASPARINI              PSICOANALISI E FAVOLE



L'AMOROSA VISIONE DI GIOVANNI BOCCACCIO
OVVERO L'ACROSTICO PIÙ GRANDE DI OGNI TEMPO E PAESE
PRIMA PARTE





Sonetto I, dedicato all'amata
Sonetto caudato con una terzina
1-26
27-51
52-78
79-106

107-132
133-159
160-185
186-215

216-243
244-269
270-292

293-319
320-348
349-380

381-407
408-433
434-463
A
B
B
A

A
B
B
A

C
D
C

C
D
C

E
F
E
Mirabil cosa forse la presente
Visïon vi parrà, donna gentile,
A riguardar, sì per lo nuovo stile,
Sì per la fantasia ch’è nella mente.

Rimirandovi un dì subitamente
Bella, leggiadra et in abit’umíle,
In volontà mi venne con sottile
Rima tractar parlando brievemente.

Adunque a voi, cui tengo Donna mia,
Et chui sempre disio di servire,
La raccomando, madama Maria:

E prieghovi, se fosse nel mio dire
Difecto alcun, per vostra cortesia
Correggiate amendando il mio fallire.

     Cara Fiamma, per cui ’l core ó caldo,
     Que’ che vi manda questa Visïone
     Giovanni è di Boccaccio da Certaldo.











CANTO I, 29 terzine dantesche e coda di un verso

Incomincia l'Amorosa Visione: come all'autore gli par di vedere in visione le presenti cose come per innanzi è scritto

1-26
Mirabil cosa forse la presente - prima quartina, primo verso, 26 lettere

1
2
3


1


M


Move nuovo disio la nostra mente,
Donna gentile, a volervi narrare
quel che Cupido grazïosamente

4
5
6

2
i In vision li piacque di mostrare
all'alma mia, per voi, bella, ferita
con quel piacer che ne' vostri occhi appare.
Il somnium Scipionis per Cicerone era Visio. Come Er nella Repubblica di Platone, così Scipione nella Repubblica di Cicerone.
7
8
9

3
r Recando adunque la mente, smarrita
per la vostra virtù, pensieri al core,
che già temea della sua poca vita,

10
11
12

4
a accese lui di sì fervente ardore,
che uscita di sé la fantasia
subito entrò in non usato errore.

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15

5
b Ben ritenne però il pensier di pria
con fermo freno, ed oltre a ciò ritenne
quel che più caro di nuovo sentia.

16
17
18

6
i In ciò vegghiando, in le membra mi venne
non usato sopor tanto soave,
ch'alcun di loro in sé non si sostenne.

19
20
21

7
l Lì mi posai, e ciascun occhio grave
al sonno diedi, per lo qual gli agguati
conobbi chiusi sotto dolce chiave.
Così si addormenta Dante nella Vita Nova, così si addormenta Psiche lasciata al suo crudo destino quando la rapisce Amore.

22
23
24

8
c Così dormendo, in su liti salati
mi vidi correr, non so che temendo,
pavido e solo in quelli abbandonati

25
26
27

9
o or qua or là, null'ordine tenendo;
quando Donna gentil, piacente e bella,
m'apparve, umil pianamente dicendo:

28
29
30

10
s « Se questo luogo solo a gire a quella
somma felicità, che alcun dire
non poté mai con intera favella,

31
32
33

11
a abbandonar ti piace, il me seguire
ti poserà in sì piacente festa,
ch'avrai sicuro e pieno ogni disire ».

34
35
36

12
f
Fiso pareva a me rimirar questa
ed ascoltare intento sue parole,
quando s'alzò alla sua bionda testa,

37
38
39


13
o
ornata di corona più che 'l sole
fulgida, l'occhio mio, e mi parea
il suo vestire in color di viole:

40
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42

14
r
ridente era in aspetto e 'n man tenea
reale scettro, ed un bel pomo d'oro
la sua sinistra vidi sostenea.

43
44
45

15
s
Sopra 'l piè grave, non sanza dimoro,
moveva i passi; e lei tacendo ed io
pensato di volere suo aiutoro:

46
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48

16
e
« Ecco », risposi, « Donna, il mio disio
è di cercar quel ben che tu prometti,
se a' tuoi passi di dietro m'invio.

49
50
51

17
l
Lascia », diss'ella, « adunque i van diletti
e seguitami verso quell'altura
ch'opposta vedi qui a' nostri petti ».

52
53
54

18
a
Allor lasciar pareami ogni paura
e darmi tutto a seguitar costei,
abbandonando la strana pianura.

55
56
57

19
p
Poi che salito fui dietro a costei
non già per molto spazio, il viso alzai
istato basso infin lì verso i piei:

58
59
60

20
r
rimirandomi avanti, i' mi trovai
venuto a piè d'un nobile castello,
sopra al sogliar del quale io mi fermai.

61
62
63

21
e
Egli era grande ed altissimo e bello
e spazioso, avvegna che alquanto
tenebroso paresse entrando in quello:

64
65
66

22
s
« Siam noi ancora là dove cotanto
ben mi prometti, Donna graziosa,
di dovermi mostrar? » diss'io intanto.

67
68
69

23
e
Ed ella allora: « Più mirabil cosa
veder vuoi prima che giunghi lassuso,
dove l'anima tua fia glorïosa

70
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72

24
n
Noi cominciammo pur testé quaggiuso
ad entrar a quel ben: quest'è la porta:
entra sicuro omai nel cammin chiuso.

73
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75

25
t
Tosto ti mostrerò la via scorta,
per la qual fia ad andarvi diletto
se non ti volta coscïenza torta

76
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78

26
e
Ed io: « Adunque andiam, ché già m'affretto,
già mi cresce il disio, sì ch'io non posso
tenerlo ascoso più dentro nel petto.

27-51 Visïon vi parrà, donna gentile, - prima quartina, secondo verso, 25 lettere
79
80
81

27
V
Vedi com'io mi son sicuro mosso,
vedi ch'io vegno e trascorro di voglia,
d'ogni altra cura nella mente scosso

82
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84

28
i
« Ir si conviene qui di soglia in soglia
con voler temperato, che chi corre
talor tornando convien che si doglia

85
86
87

29
s
Sì era il suo dir vero, che apporre
né contro andarvi io non arei potuto,
né dal piacer di lei potuto torre

88

30
i
in ciò, ancor ch'io avessi saputo.





CANTO II
29 terzine dantesche e coda di un verso

Dove l'autore tratta come seguendo una bella Donna perviene a una porta d’uno nobile castello.

1
2
3

31
o
« O somma e grazïosa intelligenza
che muovi il terzo cielo, o santa dea,
metti nel petto mio la tua potenza;

4
5
6

32
n
non sofferir che fugga, o Citerea,
a me l'ingegno all'opera presente,
ma più sottile e più in me ne crea.

7
8
9

33
v
Venga il tuo valor nella mia mente,
tal che 'l mio dir d'Orfeo risembri il suono,
che mosse a racquistar la sua parente.

10
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12

34
i
Infiamma me tanto più ch'io non sono,
che 'l tuo ardor, di ch'io tutto m'invoglio,
faccia piacere quel di ch'io ragiono.

13
14
15

35
p
Poi che condotto m'ha a questo soglio
costei, che cara seguir mi si face,
menami tu colà ov'io ir voglio,

16
17
18

36
a
acciò ch' e passi miei, che van per pace,
seguendo il raggio della tüa stella,
vengano a quello effetto che ti piace

19
20
21

37
r
Ragionando con tacita favella
così m'andava nel nuovo sentiero
seguendo i passi della Donna bella.

22
23
24

38
r
Ruppemi tal parlar nuovo pensiero,
ch'un muro antico nella mente mise,
apparitoci avanti tutto intero.

25
26
27

39
à
Allor la bella Donna un poco rise,
me stupefatto e d'ammirazion pieno
veggendo, e disse: « Forse tu divise

28
29
30

40
d
Del camin nostro che qui venga meno:
o se più è, non vedi da qual loco
li passi nostri su salir porriéno.

31
32
33

41
o
Oltre convien che venghi ancora un poco?
ed io mostrandol, vederai la via
che ci merrà al grazioso gioco

34
35
36

42
n
Non fummo guari andati che la pia
Donna mi disse: « Vedi qui la porta
che la tua alma cotanto disia. »

37
38
39

43
n
Nel suo parlar mi volsi, e poi che scorta
l'ebbi, la vidi piccioletta assai,
istretta ed alta, in nulla parte tòrta.

40
41
42

44
a
A man sinistra allora mi voltai
volendo dir: « Chi ci potrà salire
o passar dentro, che pàr che giammai

43
44
45

45
g
gente non ci salisse? » e nel mio dire
vidi una porta grande aperta stare,
e festa dentro mi vi parve udire.

46
47
48

46
e
E dissi allor:« Di qua fia meglio andare,
al mio parere, e credo troveremo
quel che cerchiam, che già udir mel pare ».

49
50
51

47
n
« Non è così rispuose », « ma anderemo
su per la scala che tu vedi stretta
e 'n su la sommità ci poseremo.

52
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54

48
t
Tu guardi là, e forse ti diletta
il cantar che tu odi, il qual piuttosto
pianto si dovria dire in lingua retta.

55
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57

49
i
Il corto termine alla vita posto
non è da consumare in quelle cose
che 'l bene etterno vi fanno nascosto.

58
59
60

50
l
Levarsi ad alto, alle gloriose,
utilemente s'acquista virtute,
che lascia le memorie poi famose.

61
62
63

51
e
E s' tu non credi forse che a salute
questa via stretta meni, alza la testa:
ve' che dicon le lettere scolpute. »

52-78
A riguardar, sì per lo nuovo stile, - prima quartina, terzo verso, 27 lettere
64
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66

52
A
Alzai allora il viso, e vidi: «  Questa
piccola porta mena a via di vita;
posto che paia nel salir molesta,

67
68
69

53
r
riposo etterno dà cotal salita;
dunque salite su sanza esser lenti,
l'animo vinca la carne impigrita. »

70
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54
i
Io dissi: « Donna, molto mi contenti
col ver parlar che tua bocca produce,
e più m'accertan le cose parventi,

73
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55
g
guardando quelle; ma dimmi, che luce
è quella ch'io veggio là entr'ora?
perché in questa così non riluce? »

76
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78

56
u
« Voi che nel mondo state, vostra mora
fate in loco tenebroso e vano:
e però gli occhi alla dolce aurora

79
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57
a
alzare non potete, a mano a mano
che voi di quella uscite, a veder quanta
sia la chiarezza del Fattor sovrano:

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84

58
r
Rompesi poi la nebbia che v'ammanta
quando ad entrar nel vero incominciate,
e conoscete poi la luce santa.

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87

59
d
Dirizza i piedi alle scale levate;
su non sarai che vie maggior chiarezza
vedrai che là non è mille fiate:

88

60
a
adunque che fia in capo dell'altezza?





CANTO III
29 terzine dantesche e coda di un verso

Nel quale si contiene come l’autore vede scritto sopra la porta lettere d’oro, e come due giovani li si fanno incontro, ed è un con loro.

1
2
3

61
r
Ristata era la Donna di parlare
e rimirava ch'io entrassi dentro
di rietro a lei, che già volea montare.

4
5
6

62
s
« Sed e' vi piace, prima andiam là entro »,
diss'io a lei. E quella: « Tu disii
di ruinar con doglia al tristo centro.

7
8
9

63
ì
Io dico insino a qui: se là t'invii,
in cose vane l'anima disposta
a bene oprar convien che si disvii

10
11
12

64
p
Pon l'intelletto alla scritta ch'è posta
sopra l'alto arco della porta, e vedi
come 'l suo dar val poco e molto costa ».

13
14
15

65
e
Ed io allora a riguardar mi diedi
la scritta in alto che pareva d'oro,
tenendo ancora in là voltati i piedi.

16
17
18

66
r
« Ricchezze, dignità, ogni tesoro,
gloria mondana copiosamente
do a color che passan nel mio coro:

19
20
21

67
l
Lieti li fo nel mondo, e similmente
do quella gioia che Amor promette
a' cor che senton suo dardo pugnente. »

22
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24

68
o
« Or hai vedute ed amendune lette
le scritte, e vedi chi maggior promessa
e più utile fa: dunque che aspette?

25
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69
n
Non istian più omai, ché 'l tempo cessa
e 'l perder quello spiace a' più saputi;
adunque omai sagliam », mi dicev'essa.

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29
30

70
u
« Ver è, Donna gentil, ch'io ho veduti »,
risposi, « scritti i dón, però vedere
vorre' provando qua' son posseduti.

Dante chiede mai di prendere una via diversa da quella indicata da chi lo accompagna?
Mi pare di no, da verificare.

31
32
33

71
o
Ogni cosa del mondo a sapere
non è peccato, ma la iniquitate
si dee lasciare e quel ch'è ben tenere.

34
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72
v
Venite adunque qua, ché pria provate
devono esser le cose leggieri
ch'entrare in quelle c'han più gravitate.

37
38
39

73
o
Ora che siamo quasi nel sentieri,
andiam, vediamo questi ben fallaci:
più caro fia poi l'affannar pe' veri. »

40
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74
s
« Se tu sapessi quanto e' son tenaci
e quanto traggon l'uom di via diritta,
non parleresti sì come tu faci.

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45

75
t
Toglianci quinci », disse, « che già fitta
veggo la mente tua, se più ci stai,
a quel che dice la seconda scritta.

46
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48

76
i
Il che lasciar, a chi il prende, mai
impossibile par fin che si more,
e per que' va poi agli etterni guai ».

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51

77
l
La Donna giva già. Ed ecco fore
della gran porta due giovini uscire;
l'uno era corto e bianco in suo colore

52
53
54

78
e
e l'altro rosso; e incominciaro a dire:
« Dove cercando vai gravoso affanno?
vien dietro a noi, se vuoi il tuo disire.

79-106
Sì per la fantasia ch'è nella mente - prima quartina, quarto verso, 28 lettere





55
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57

79
S
Sollazzi e festa, come molti fanno,
qua non ti falla, e poi il salir suso
potrai ancor nell'ultimo tuo anno.

58
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ì
Il luogo è chiaro e di tenebre schiuso:
vien, vedi almeno, e saliratten poi,
se ti parrà noioso esser quaggiuso ».

61
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81
p
Piacevami il dir loro, e già: « Con voi »,
dir voleva, «  io verrò »: ma mi diceva
colei: « Lascia costoro, andiam su noi ».

Bianco e rosso non sono i colori simbolici nella Vita nova?

64
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66

82
e
E per la destra man preso m'aveva,
seco tirando me in su; e l'uno
la mia sinistra e l'altro ancor teneva,

67
68
69

83

r
ridendosene insieme, e ciascheduno
tirandomi diceva: « Vienne, vienne!
cerchi sola costei il cammin bruno ».

70
71
72

84

l
Lì d'una parte e d'altra mi ritenne
l'esser tirato; dond'io: « Ben sapete »,
volto alla Donna, « che io non ho penne

73
74
75

85
a
a poter su volar, come credete,
né potrei sostener questi travagli
a' quai dispormi subito volete ».

76
77
78

86
f
Fermata allor mi disse: « Tu t'abbagli
nel falso immaginar, e credi a questi
ch'a dritta via son pessimi serragli.

79
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81

87
a
A trarti fuor d'errore e di molesti
disii discesi, e per voler mostrarti
le vere cose che prima chiedesti;

82
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84

88
n
né mai avrei lasciato d'aiutarti
col mio veder nelle battaglie avverse.
Ma poi che ad altro t'è piaciuto darti,

85
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87

89
t
truova il cammino dell'opere perse,
ch'io non ti lascerò, mentre che io
vedrò non darti tra quelle diverse

88

90
a
a voler seguitar bestial disio ».





CANTO IV
29 terzine dantesche e coda di un verso

Dove l'autore dimostra in una sala una storia, dove vede dipinte le sette scienze, e assai filosofi





1
2
3

91
s
Seguendomi la Donna, com'io lei
pria seguitava, co' due giovinetti
a man sinistra volsi i passi miei.

4
5
6

92
i
Intra lor due avean noi due ristretti,
e con più spesso passo n'andavamo
a riguardare i men cari diletti.

7
8
9

93
a
Andando in tal maniera, noi entramo
per la gran porta insieme con costoro,
ed in una gran sala ci trovamo.

10
11
12

94
c
Chiara era e bella e risplendente d'oro,
d'azzurro e di color tutta dipinta
maestrevolmente in suo lavoro.
Descrizione del palazzo di Amore quando vi giunge Psiche. Il viaggio di Boccaccio nel sonno è un'iniziazione sia cristiana, come quella di Dante, sia poetica, come quella di Petrarca, senza i vincoli della dottrina religiosa, sia classica, come quella di Apuleio/Psiche, che è anche quella di Lucio, protagonista del suo romanzo.  Più avanti Boccaccio attribuisce all'autore, non al suo protagonista, la metamorfosi in asino. (Vedi Canto V, vv. 37-38)
13
14
15

95
h'
Humana man non credo che sospinta
mai fosse a tanto ingegno quanto in quella
mostrava ogni figura lì distinta, 

16
17
18

96
è
eccetto se da Giotto, al qual la bella
Natura parte di sé somigliante
non occultò, nell'atto in che suggella.

19
20
21

97
n
Noi ci traemmo nella sala avante,
quasi nel mezzo d'essa, e quivi stando
vedevam le figure tutte quante.

22
23
24

98
e
Ell'era quadra: ond'io che riguardando
giva per tutto, dirizzai il viso
ver l'una delle facce, in piede stando.

25
26
27

99
l
Là vid'io pinta con sottil diviso
una Donna piacente nell'aspetto,
soave sguardo avea e dolce riso.

28
29
30

100
l
La man sinistra teneva un libretto,
verga real la destra, e' vestimenti
porpora gli estimai nell'intelletto.

31
32
33

101
a
A piè di lei sedevan molte genti
sopra un fiorito e pien d'erbette prato,
alcuni più e alcun meno eccellenti.

Non c'è una reminiscenza dell'antiparadiso, o come si chiama, quando Dante vede la donna che precede Beatrice?

34
35
36

102
m
Ma dal sinistro e dal suo destro lato
sette donne vid'io, dissimiglianti
l'una dall'altra in atto ed in parato.

37
38
39

103
e
Elle eran liete e lor letizia in canti
pareami dimostrassero, ma io
con l'occhio alquanto più mi trassi avanti,

40
41
42

104
n
Nel verde prato a man destra vid'io
di questa Donna, in più notabil sito,
Aristotile star con atto pio:

43
44
45

105
t
tacito riguardando, in sé unito,
pensoso mi pareva; e poi appresso
Socrate sedea quasi smarrito.

46
47
48

106

e
Eravi quivi ancor Platon con esso,
Melisso, Alessandro v'era e Tale,
Speseusippo lei mirando spesso;

107-132
Rimirandovi un dì subitamente - seconda quartina, primo verso, 26 lettere





49
50
51

107
R
Raclito ancora e Ipocràs, il qual
in abito mostrava d'aver cura
ancora di sanare il mondan male.

52
53
54

108
i
Ivi sedeva con sembianza pura
Galieno, e con lui era Zenone
e 'l geometra ch'a dritta misura

55
56
57

109
m
mosse lo 'ngegno, sì che con ragione
oggi s'adovra seguendo suo stile;
e dopo lui Democrito e Solone.

58
59
60

110
i
Insieme con costoro in atto umile
si sedea Tolomeo, e speculava
i ciel con intelletto assai sottile,

61
62
63

111
r
riguardando una spera che li stava
ferma davanti; e Tebìth con lui
ed Abracìs ancora in ciò mirava.

64
65
66

112
a
Averroìs e Fedron dopo lui
sedevan rimirando la bellezza
di quella donna che onora altrui.

67
68
69

113
n
Nassagora ancor quella chiarezza
mirava fiso insieme con Timeo,
mostrando in atto di sentir dolcezza.

70
71
72

114
d
Diascoride ancor v'era ed Orfeo,
Ambepece e Temistio, e poi un poco
Essiodo almo e Timoteo.

73
74
75

115
o
Oh quanto quivi in grazioso gioco
Pitagora onorato si vedea
e Diogene in sì beato loco!

76
77
78

116
v
Vie dopo questi ancora mi parea
Seneca riguardando ragionare
con Tulio insieme, che con lui sedea.

79
80
81

117
i
Innanzi a loro un poco, ciò mi pare,
Parmenide sedea e Teofrasto,
lieto ciascun della donna mirare.

82
83
84

118
u
Vestito d'umiltà, pudico e casto,
Boezio si sedeva ed Avicena,
ed altri molti, i qua' s'a dir m'adasto,
Dante: Benignamente d'umiltà vestuta.
Qui come altrove cià che è della donna è dell'uomo e viceversa: la guida è una donna, non un uomo come Virgilio. Così la coppia di parole dal sonetto di Dante si applica al filosofo.
Non solo sono gli uni accanto agli altri greci e latini, ma filosofi arabi con loro, e tutti insieme filosofi e medici.

85
86
87

119
n
non fosse troppo rincrescevol pena
dubbio a' lettor; però mi taccio omai
e dirò di color che seco mena

88
120
d
dalla man manca, ov'io mi rivoltai.





CANTO V 
29 terzine dantesche e coda di un verso

Come l'autore vede dipinto nella detta sala appiè delle donne, Vergilio, e molti altri poeti, e Dante.

1
2
3

121
ì
Io dico che dalla sinistra mano
di quella donna vidi un'altra gente,
l'abito della qual non guari strano

4
5
6

122
s
sembrava da color che primamente
contati abbiam, ben che la vista loro
si stenda ver le donne più fervente.

7
8
9

123
u
Vergilio mantovano infra costoro
conobb'i' quivi più ch'altro esaltato,
sì come degno, per lo suo lavoro:

10
11
12

124
b
ben mostrava nell'atto che a grato
gli eran le sette donne per le quali
sì altamente avea già poetato:

13
14
15

125
i
il ruinar di Troia ed i suoi mali,
di Dido, di Cartagine e d'Enea,
lavorar terre e pascere animali,

16
17
18

126
t
trattar negli atti suoi ancor parea.
Omero e Orazio quivi dopo lui,
ciascun mirando quelle, si sedea.

19
20
21

127
a
A' quai Lucan seguitava, ne' cui
atti parea ch'ancora la battaglia
di Cesare narrasse e di colui,

22
23
24

128
m
Magno Pompeo chiamato, che 'n Tesaglia
perdé il campo; e quasi lagrimando
mostra che di Pompeo ancor li caglia.

25
26
27

129
e
Eravi Ovidio, lo qual poetando
iscrisse tanti versi per amore,
com' acquistar si potesse mostrando.

28
29
30

130
n
Non guari dopo lui fatt'era onore
a Giovenal, che ne' su' atti ardito
a' mondan falli ancor facea romore.

31
32
33

131
t
Terenzio dopo lui aveva sito
non men crucciato, e Panfilo e Pindaro,
ciascun per sé sopra 'l prato fiorito.

34
35
36

132
e
E Stazio di Tolosa ancora caro
quivi pareva avesse l'aver detto
del teban male e del suo pianto amaro.

133-159
Bella, leggiadra et in abit'umile - seconda quartina, secondo verso





37
38
39

133
B
Bell'uom tornato d'asino, soletto
si sedea Apolegio, cui seguiva
Varro e Cecilio lieti nell'aspetto.
Apuleio è tornato uomo da asino, coincidendo per Boccaccio con Lucio, il protagonista delle Metamorfosi o Asino d'oro.
40
41
42

134
e
Euripide mi par che poi veniva;
Antifonte, Simonide ed Archita
parea dicesser ciò ch'ognun sentiva

43
44
45

135
l
lì di diletto e di gioconda vita,
insieme ragionando; e dopo questi
Sallustio, quasi in sembianza smarrita,

46
47
48

136
l
là parea che narrasse de' molesti
congiuramenti che fé Catilina
contra' Roman, ch'a lui cacciar fur presti.

49
50
51


137
a
Al qual Vegezio quivi s'avvicina,
Claudiano, Persio e Catone,
e Marzïale in vista non meschina.

52
53
54

138
l
L'antico e valoroso e buon Catone
quivi era nel sembiante assai pensoso,
tenendo con Antigono sermone.

55
56
57

139
e
E, vago ne' suoi atti di riposo,
da una parte mi parve vedere
quel Livio che fu sì copïoso,

58
59
60

140
g
guardando que' che 'nanzi a sé sedere
tanti vedea, nell'aspetto contento
d'avere scritte tante storie vere.

61
62
63

141
g
Goloso di cotal contentamento
Valerio appresso parea che dicesse:
« Breve mostrai il mio intendimento ».

64
65
66

142
i
Ivi con lor mi parve ch'io vedesse
Paolo Orosio stare ed altri assai,
de' qua' non v'era alcun ch'io conoscesse.

67
68
69


143
a
Allora gli occhi alla Donna tornai
a cui le sette davanti e dintorno
stavano tutte in atti lieti e gai.

70
71
72

144
d
Dentro dal coro delle donne adorno,
in mezzo di quel loco ove facieno
li savi antichi contento soggiorno,

73
74
75

145
r
riguardando, vid'io di gioia pieno
onorar festeggiando un gran poeta,
tanto che 'l dire alla vista vien meno.

76
77
78

146
a
Aveali la gran Donna mansueta
d'alloro una corona in su la testa
posta, e di ciò ciascun'altra era lieta.

79
80
81

147
e
E vedend'io così mirabil festa,
per lui raffigurar mi fé vicino,
fra me dicendo: « Gran cosa fia questa ».

82
83
84

148
t
Trattomi così innanzi un pocolino,
non conoscendol, la Donna mi disse:
« Costui è Dante Alighier fiorentino,

85
86
87

149
i
il qual con eccellente stil vi scrisse
il sommo ben, le pene e la gran morte:
gloria fu delle Muse mentre visse,

88


150
n
né qui rifiutan d'esser sue consorte ».





CANTO VI
29 terzine dantesche e coda di un verso

Come l'autore vede dipinto nella bella sala la Gloria del mondo in atto d’una donna.

1
2
3

151
a
Al suon di quella voce graziosa
che nominò il maestro dal qual io
tengo ogni ben, se nullo in me sén posa:

4
5
6

152
b
« Benedetto sia tu, etterno Iddio,
c'hai conceduto ch'io possa vedere
in onor degno ciò ch'avea in disio »,

7
8
9

153
i
incominciai allora; né potere
aveva di partir gli occhi dal loco
dove parea il signor d'ogni savere,

10
11
12

154
t'
tra me dicendo: « Deh, perché il foco
di Lachesis per Antropos si stuta
in uomo sì eccellente e dura poco?
Più classiche che cristiane le parole di rammarico di Boccaccio, per il potere di Atropo che toglie la vita a un precocemente a uomo così grande.
13
14
15

155
u
Viva la fama tua, e ben saputa,
gloria de' Fiorentin, da' quali ingrati
fu la tua vita assai mal conosciuta!

16
17
18

156
m
Molto si posson riputar beati
color che già ti seppero e colei
che 'n te si 'ncinse, onde siamo avvisati ».

19
20
21

157
i
I' 'l riguardava, e mai non mi sarei
saziato di mirarlo, se non fosse
che quella Donna, che i passi miei

22
23
24

158
l
là entro con que' due insieme mosse,
mi disse: « Che pur miri? Forse credi
renderli col mirar le morte posse?

25
26
27

159
e
E' c'è altro a veder che tu non vedi!
Tu hai costì veduto, volgi omai
gli occhi a que' del mondan romore eredi;

160-185

in volontà mi venne con sottile - seconda quartina, terzo verso, 26 lettere






28
29
30

160
i
i quali quando riguardati avrai
di quinci andrenci, ché lo star mi sgrata ».
A cui io dissi: « Donna, tu non sai

31
32
33

161
n
neente perché tal mirar m'aggrata
costui cui miro, ché se tu il sapessi
non parleresti forse sì turbata ».

34
35
36

162
v
« Veramente se tu il mi dicessi
nol saprei me' » rispose quella allora,
« ma perder tempo è pur mirare ad essi ».

37
38
39

163
o
Oltre passai, sanza più far dimora,
con gli occhi a riguardar, lasciando stare
quel ch'io disio di rivedere ancora,

40
41
42

164
l
là dove a colei piacque che voltare
io mi dovessi; e vidi in quella parte
cosa ch'ancor mirabile mi pare.



43
44
45

165
o
Odi, ché mai Natura con sua arte
forma non diede a sì bella figura:
non Citarea, allor ch'ell'amò Marte.

Nemmeno a Dante Boccaccio dedica l'elogio che dedica a Venere. Oggi penso che l'artefice dell'identità moderna, ovvero di un'identità che si assoggetta alle... (Vedi la nota completa)
 
46
47
48

166
n
né quando Adon le piacque, con sua cura
si fé sì bella, quanto infra gran gente
donna pareva lì leggiadra e pura.

49
50
51

167
t
Tutti li soprastava veramente,
di ricche pietre coronata e d'oro,
nell'aspetto magnanima e possente.

52
53
54

168
à
Ardita sopra un carro tra costoro
grande e triunfal lieta sedea,
ornato tutto di frondi d'alloro.

55
56
57

169
m
Mirando questa gente in man tenea
una spada tagliente, con la quale
che 'l mondo minacciasse mi parea.

58
59
60

170
i
Il suo vestire a guisa imperiale
era, e teneva nella man sinestra
un pomo d'oro, e 'n trono alla reale,

61
62
63

171
v
vidi, sedeva; e dalla sua man destra
due cavalli eran che col petto forte
traeano il carro fra la gente alpestra.

64
65
66

172
e
Ed intra l'altre cose che iscorte
quivi furon da me intorno a questa
sovrana Donna, nimica di morte

67
68
69

173
n
nel magnanimo aspetto, fu ch'a sesta
un cerchio si movea grande e ritondo,
da' piè passando a lei sopra la testa.

70
71
72

174
n
Né credo che sia cosa in tutto 'l mondo,
villa, paese, dimestico o strano,
che non paresse dentro da quel tondo.

73
74
75

175
e
Era sopra costei, e non invano,
scritto un verso che dicea leggendo:
« Io son la Gloria del popol mondano ».

76
77
78

176
c
Così mirando questa e provedendo
ciò che di sopra, dintorno e di sotto
le dimorava e chi la gia seguendo

79
80
81

177
o
o lei mirava, sanza parlar motto
per lungo spazio inver di lei sospeso
tanto stett'io, che d'altra cura rotto

82
83
84

178
n
nella mente sentimmi: il viso steso
diedi a mirar il popolo che andava
dietro a costei, chi lieto e chi offeso,

85
86
87

179
s
sì come nel mio credere estimava.
E quivi più e più ne vidi, i quali
conobbi, se 'l parer non m'ingannava;

88

180
o
onde al disio di mirar crebbi l'ali.





CANTO VII
29 terzine dantesche e coda di un verso

Dove si contiene chi seguì la fama del mondo, fra’ quali fu Giano, Saturno, Nembrotto e altri assai.  

1
2
3

181
t
Tra gli altri che io vidi presso a questa
fu Giano, ch'esser stato abitatore
dell'italici regni facea festa.

4
5
6

182
t
Turbato nell'aspetto e di furore
pien seguiva Saturno, cui il figlio
mandò mendico per esser signore.

7
8
9

183
i
Il superbo Nembròt, che il gran fé impiglio
in Senaàr per voler gire a Dio,
stordito v'era sanza alcun consiglio.

10
11
12

184
l
Lunghesso Fauno e Pico lor vid'io
seguire, ed il gran Belo dopo loro,
mirando ognun la Donna con disio.

13
14
15

185
e
Elettra ed Atalante con costoro
givano insieme, e dopo lor seguire
Itali vidi sanza alcun dimoro.

186-215
rima tractar parlando brievemente - seconda quartina, quarto verso, 30 lettere





16
17
18

186
r
Robusto si mostrava e pien d'ardire
Dardano quivi con un freno in mano,
e nell'atto parea volesse dire:

19
20
21

187
i
« Io fui colui, nel mondo primerano,
il qual col freno in Tessaglia domai
il caval primo, in uso ancora strano,

22
23
24

188
m
mirabilmente, e sì edificai
primo quella città, che poscia Troia
chiamaro i successor ch'io vi lasciai ».

25
26
27

189
a
Appresso il qual, mostrando in atto gioia,
seguia Sicul, che l'isola del foco
prima abitò in pace e sanza noia.

28
29
30

190
t
Troiolo ancora in quel medesmo loco
coverto d'oro tutto risplendea,
facendosi alla Donna a poco a poco.

31
32
33

191
r
Rigido e fiero quivi si vedea
Nino, che prima il suo natural sito
per battaglia maggior fé, che parea

34
35
36

192
a
ancor che minacciasse insuperbito.
e dopo lui seguiva la sua sposa
con sembiante non men che 'l suo ardito:   

37
38
39

193
c
così rubesta e così furiosa
vi si mostrava, come quando a lui
succedette nel regno valorosa.

40
41
42

194
t
Tamiris poi seguitava, nel cui
viso superbia saria figurata,
con gli occhi ardenti spaventando altrui.

43
44
45

195
a
Anfion poi con labbia consolata
vi conobb'io, al suon del cui liuto
fu Tebe pria di muri circumdata.

46
47
48

196
r
Retro a lui Niobè, il cui arguto
parlar fu prima cagion del suo male
e del danno de' figli ricevuto.

49
50
51

197
p
Poi seguitava Danao, dal quale
l'antico popol greco veramente
trasse il suo principio originale.

52
53
54

198

a
A cui di dietro quel Serse possente,
che fé sopra Ellesponto il lungo ponte,
venia, freno all'orgoglio della gente.

55
56
57

199
r
Riguardando la Donna, con la fronte
alzata venia Ciro poco appresso,
di cui l'opere furo altiere e conte.

58
59
60

200
l
Laumedon sen veniva dopo esso,
con molti successor dietro alle spalle,
de' qua' giva Priamo oltre con esso.

61
62
63

201
a
Anchise seguitava nel lor calle:
appresso il qual colui venia correndo
che le dee vide nella scura valle:

64
65
66

202
n
Nello aspetto parea ch'ancor ridendo
andasse di ciò ch'elli aveva fatto,
quando di Grecia si partì fuggendo

67
68
69

203
d
Dopo costui Enea seguia con atto
pietoso molto, e non molto distante
Giulio Ascanio il seguitava ratto.

70
71
72

204
o
Oh quanto ardito e fiero nel sembiante
quivi parea Ettòr sopra un destriere
tra tutti i suoi, di molto oro micante.

73
74
75

205
b
Bello e gentil nell'aspetto a vedere
era, con una lancia in mano andando
ver quella Donna lieto, al mio parere.
Dante:
Biondo era e bello e di gentile aspetto
Ma l'un de' cigli un colpo avea diviso.
(Purg. III, vv. 107-108)
76
77
78

206
r
Risplendea quivi ancora cavalcando
Alessandro, che 'l mondo assalì tutto
con forza lui a sé sotto recando;

79
80
81

207
i
il qual con fretta voleva al postutto
toccare il cerchio ove colei posava,
cui questi disiavan per lor frutto.

82
83
84

208
e
E 'l re Filippo e Nettanab gli andava
ciascuno appresso rimirando quello,
e nello aspetto se ne glorïava.

85
86
87

209
v
Veniva in su un caval corrente e snello
Dario crucciato nello aspetto
e con sembiante dispettoso e fello,

88

210
e
E sanza aver di tale andar diletto.





CANTO VIII
29 terzine dantesche e coda di un verso

Della medesima Fama, e come dopo costoro seguita Salomone, Assalonne e altri.

1
2
3

211
m
Mirando avanti con ferma intenzione,
veder mi parve quel re eccellente
che fu sì savio, io dico Salamone.

4
5
6

212
e
Eravi ancora Sanson, che possente
di forza corporal più ch'altro mai
fu che nascesse fra l'umana gente.

7
8
9

213
n
Nel riguardar più innanzi affigurai
il viso d'Ansalon, che più bellezza
ebbe che altro nel mondo giammai.

10
11
12

214
t
Tra questi pien d'orgoglio e di fierezza
seguendo cavalcava Campaneo,
che ne' suoi atti ancora Iddio sprezza.

13
14
15

215
e
Etiocle era quivi con Tideo,
Adastro re pensante e doloroso
del perder che dintorno a Tebe feo.


216-243
Adunque a voi, cui tengo Donna mia, prima terzina, primo verso, 28 lettere





16
17
18

216
A
Ancora si mostrava il valoroso
Pollinice; broccando il seguitava
el re Ligurgo e Giansone animoso.



19
20
21

217
d
Di rietro al quale Pelleo cavalcava,
con quella lancia in man che prima morte
poi medicina a sua ferita dava.
Bernart de Ventadorn, canzone Ab joi mou lo vers e·l comens, strofa VI: metafora della bocha ridens, che baciando ferisce tanto da condurre a morte l’amato. Come un altro bacio basta per...
22
23
24

218
u
Veniva appresso vigoroso e forte
Achille col figliuol, che sì spietata
vendetta fé quando l'antiche porte

25
26
27

219
n
non serraron più Troia, che l'entrata
aveva data al gran caval ripieno
della nimica gente tutta armata.


28
29
30

220
q
Questo crudel sanza mezzo seguieno
Diomede ed Ulisse, e ad agguati
andare ancor pensando mi parieno.

31
32
33

221
u
Vigoroso di dietro a loro armati
Patrocolo veniva ed Antenore,
ciascun con gli occhi ver la Donna alzati.

34
35
36

222
e
Ercule v'era, il cui sommo valore
lungo saria a voler recitare,
per ch'ebbe già d'assai battaglie onore.

37
38
39

223
a
Anteo dopo lui vi vidi stare,
ch'ancor parea che 'n atto si dolesse
di ciò che già li fé Ercule provare.

40
41
42

224
v
Veniva poi Minòs, come se stesse
ancor davanti Atene tutto armato,
né d'Androgeo parea più li dolesse.


43
44
45

225
o
Oh quanto d'ira pareva infiammato,
d'ira e di mal talento Menelao
seguendo Agamenòn dal destro lato!

46
47
48

226
i
Il qual seguiva poi Protesselao,
bello e grazioso nello aspetto;
e dopo lui cavalcava Anfiarao,

49
50
51

227
c
ch'e suoi lasciò ad oste nel conspetto
di Tebe, ruvinando a' dolorosi
c'hanno perduto il ben dello 'ntelletto.

52
53
54

228
u
Venian dopo costui, molto animosi,
insieme con Teseo Demofonte,
di toccar quella Donna disïosi.

55
56
57

229
i
I qua' seguia con dolorosa fronte
Egeo, che per veder le vele nere
si gittò in mar dell'alta torre sponte.

58
59
60

230
t
Turno pareva quivi che di vere
lagrime avesse tutto molle il viso,
dogliendose del troian forestiere.

61
62
63

231
e
Ed Eurialo ancora v'era e Niso,
mostrandosi piagati come foro
ciascun di lor, l'un per l'altro conquiso.

64
65
66

232
n
Non molto spazio poi dietro a costoro
Latino sen veniva a piccol passo,
Pallante e Creso poi, e dopo loro

67
68
69

233
g
Giarba veniva nello aspetto lasso,
andandosi di Dido ancor dolendo
perché ad altro om di lui fece trapasso.

70
71
72

234
h
Helena dopo lui portava ardendo
di foco un gran tizzone, e pur costei
miravan molti se stessi offendendo.

73
74
75

235
o
Oreste niquitoso dopo lei
con un coltello in man seguiva fello,
nell'atto minacciando ancor colei

76
77
78

236
d
del corpo a cui uscì; e poi dop'ello
venia broccando la Pantasilea,
lieta nel viso grazioso e bello.

79
80
81

237
o
Oh quanto ardita e fiera mi parea,
armata tutta, con un arco in mano,
con più compagne ch'ella seco avea!

82
83
84

238
n
Non era lì alcun che del sovrano
ed altier portamento maraviglia
non si facesse, tenendolo strano.

85
86
87

239
n
Non molto dopo lei venia la figlia
del re Latino lieta, e dopo Iole;
poi Deianira con bassate ciglia

88

240
a
ancora quivi d'Ercule si dole.





CANTO IX
29 terzine dantesche e coda di un verso

Dove conta della medesima Fama,  e massimamente di Dido, e d' Ecuba e d'altre.

1
2
3

241
m
Moveasi dopo queste quella Dido
cartaginese, che credendo avere
in braccio Giulio vi tenne Cupido:


4
5
6

242
i
isconsolata giva, al mio parere,
chiamando in boci ancora: « Pio Enea,
di me, ti priego, deggiati dolere ».

7
8
9

243
a
Ancora, com'io vidi, in man tenea
tutta smarrita quella spada aguta
che 'l petto le passò, che mi facea,

244-269
Et chui sempre disio di servire, prima terzina, secondo verso, 26 lettere
10
11
12

244
E
essendole lontan, nella veduta
ancor paura, non ch'a lei ch'ardita
fu dar di quella a sé mortal feruta.


13
14
15
245
t
Trista piangendo, in abito smarrita
e come can nella voce latrare,
Ecuba vidi con poca di vita.


16
17
18
246
c
Con lei la mesta Pulisena stare
quivi parea, in aspetto ancor sì bella
che me ne fé in me maravigliare.


19
20
21
247
h
Hoeta poi seguitava dop'ella,
piangendo a' Greci aver piaciuto mai,
quand'elli andar per le dorate vella.


22
23
24
248
u
Vedevasi colei che sentì guai
Ercule partorendo, e dopo lei
Isifile dolente affigurai.


25
26
27
249
i
In abito crucciato con costei
seguia Medea crudele e dispietata;
con voce ancor parea dicere: « Omei,


28
29
30
250
s
se io più savia alquanto fossi stata
né sì avessi tosto preso amore,
forse ancor non sarei suta ingannata ».


31
32
33
251
e
Eravi ancor Camilla che 'l dolore
della morte sentì, per Turno fiera,
mostrando ne' sembianti il suo vigore.


34
35
36
252
m
Non molto dopo lei ancora v'era,
col capo basso ed umil nel sembiante,
Ilia vestale vestita di nera,


37
38
39
253
p
portando in ciascun braccio un piccol fante,
Romolo e Remolo amendue nomati,
traendo lor quanto potea avante.


40
41
42
254
r
Ratto tra gli altri di sopra contati
si facea Foroneo, che prima diede
legge civile, acciò che ordinati


43
44
45
255
e
e suoi vivesser, sì come si crede;
e dopo lui venia Numa Pompilio
che lieta ne fé Roma, com' si vede.


46
47
48
256
d
Dop'esso cavalcava Tulio Ostilio
ed Anco Marco ed il Prisco Tarquino,
e dopo lui seguia Tulio Servilio.


49
50
51
257
i
Ivi Tarquin Superbo e Collatino
pareano, e 'l re Porsenna che andando
ferocemente seguia lor camino.


52
53
54
258
s
Seguivali Cornelio ancor mostrando
l'inarsicciata man ch'uccise altrui,
che 'l core non volea, nescio fallando.


55
56
57
259
i
Il valoroso Bruto, per lo cui
ardir fu Roma da giogo reale
diliberata, seguiva; e con lui


58
59
60
260
o
Orazio Cocle v'era, per lo quale,
tagliato il ponte a lui dietro alle spalle,
libera Roma fu dal truscian male.


61
62
63
261
d
Dietro veniva quel Curzio ch'a valle
armato si gittò per la fessura,
in forse di sua vita o di suo calle,


64
65
66
262
i
intendendo a voler render sicura
piuttosto Roma e i suoi abitatori,
che di se stesso aver debita cura.


67
68
69
263
s
Seguia Fabrizio che gli eccelsi onori
più disiò che posseder ricchezza,
avendo que' per più cari e maggiori.


70
71
72

264
e
Eravi quel Metel ch'alla fierezza
di Giulio Tarpea tanto difese,
mostrando non curar la sua grandezza.


73
74
75
265
r
Riguardando oltre mi si fé palese
Curio, che diede per consiglio
ch'al presto sempre lo 'ndugiare offese.


76
77
78
266
v
Vedevavisi Mario che lo 'mpiglio
con Lucio Silla fé nella cittate,
mettendo a' colpi il padre contro al figlio.


79
80
81
267
i
Iuba ed Amilcare e Mitridate,
Manastabal e Codro v'era ancora,
e poi Giugurta voto di pietate.


82
83
84
268
r
Rigido nello aspetto vi dimora
Catelina, e pensando par che vada
allo essilio, che 'n vista ancor l'accora.


85
86
87

269
e
Evvi Cloelia appresso, che la strada
fece a' Roman quand'ella si fuggio
per lo Tevero in parte u' non si guada,

270-292 la raccomando madama Maria, prima terzina terzo verso, 23 lettere





88
270
l

lo cui tornar Roma rinvigorio.






CANTO X
29 terzine dantesche e coda di un verso

Dove tratta della medesima Fama, e come la seguita Annibale, Cornelia, Cleopatra e Giulia e molti altri

1
2
3

271
a
Ahi quivi fiero ed orgoglioso quanto
vi vid'io Annibal sopra un destriere,
ch'alli Roman levò riposo tanto!


4
5
6

272
r
Rubesto lì parea ancor tenere
Cartagine sub sé, col viso alzato
inver la Donna andando a suo potere.


7
8
9

273
a
Asdrubal gli era dal sinistro lato
con non men di fierezza nello aspetto,
con una lancia cavalcando armato.


10
11
12

274
c
Coriolan, che lo 'nfiammato petto
ebbe contra' Romani, e giustamente,
quando leal cacciar lui per sospetto,


13
14
15

275
c
come vedendo quella umilemente,
che 'l generò, piegando la sua ira
a' preghi suoi, era quivi presente;


16
17
18

276
o
oltre con gli altri andava ver la mira
bellezza della Donna: dopo il quale,
come colui che tristo ancor sospira,


19
20
21

277
m
Massinissa seguiva, del suo male,
a freno abandonato cavalcando,
se stesso avendo poco a capitale.


22
23
24

278
a
Allegro Cincinnato seguitando
l'andava, e Persio poi, come potea,
giocondo sé nel sembiante mostrando.


25
26
27

279
n
Nobile nello aspetto si vedea
possente oltre venir intra costoro
Cesare, che in vista ancor ridea


28
29
30

280
d
d'avere a forza avuto da coloro
nome d'impero, che real dignitate
per istatuto avean cassa fra loro.


31
32
33

281
o
Ornato di bell'arme e coronate
le tempie avea di quelle fronde care,
che fur da Febo già cotanto amate.


34
35
36

282
M
Mirabilmente bell'a campeggiare
in uno scudo lo divino uccello
nero nell'or li vidi, ciò mi pare;

37
38
39

283
a
ancora in una lancia un pennoncello
che 'n man portava vidi, e simigliante
vi vidi quella ventilarsi in quello.


40
41
42

284
d
Di quanti a lui ve n'andasser davante
nullo ne fu che tanto mi piacesse
né tanto valoroso nel sembiante.


43
44
45

285
a
Appresso poi parea che li corresse
volonteroso e sì forte Ottaviano,
che dentro al cerchio già parea ch'avesse


46
47
48

286
m
messa più che nessun la destra mano:
bello era e nello aspetto grazioso
quanto alcun altro fosse mai mondano.


49
50
51

287
a
A lui seguiva poi molto pensoso,
pallido nello aspetto, il gran Pompeo,
tal che di lui mi fé tornar pietoso,


52
53
54

288
M
mirando dietro a sé a Tolomeo
che il seguiva, cui fé re d'Egitto,
che poi uccider là vilmente il feo.


55
56
57

289
a
a loro Marco Antonio quivi ritto
seguiva e Cleopatra ancor con esso,
che, in Cicilia, fuggì sanza rispitto,


58
59
60

290
r
ridottando Ottavian, perché commesso
le parea forse aver sì fatta offesa,
che non sperava mai perdon da esso.


61
62
63

291
i
Ivi non potend'ella far difesa
al fuoco che l'ardeva forse il core
di libidine e d'ira, ond'era accesa,


64
65
66

292
a
a fuggir quello oltraggioso furore
con due serpenti in una sepoltura
sofferse sostener mortal dolore;


293-319
e prieghovi, se fosse nel mio dire, seconda terzina, primo verso, 27 lettere
67
68
69

293
e
ed ancor quivi nella sua figura
pallida, si vedeano i due serpenti
alle sue zizze dar crudel morsura.


70
71
72

294
p
Prima che questi, credo più di venti,
era 'l primo Africano Scipione,
ch'a Roma fé con sua forza ubbidenti


73
74
75

295
r
ritornar già, con degna punizione,
que' di Cartago che insuperbiti
eran per Annibal lor campione.


76
77
78

296
i
Ivi Cornelia in sembianti smarriti
seguia dietro a color, cui dissi suso
ch'avanti a Scipïon non erano iti.


79
80
81

297
e
E poi che dopo ad essa, gli occhi in giuso,
Traian vidi venir e dopo lui
Marzia col viso di lagrime infuso,


82
83
84

298
g
Giulia veniva poi dietro; con cui,
in atti riposati e mansueta,
quasi alle spalle a Cesare, di cui


85
86
87

299
h
honesta sposa fu, Calpurnia lieta
venia, sanza parer che disiasse
altro veder che lui, e in lui quieta


88

300
o
ogni altra voglia che la stimolasse.





CANTO XI
29 terzine dantesche e coda di un verso

Conta di que’ della Tavola ritonda, che seguitano la Fama del mondo, e delle gesta di Mongrana e altri.

1
2
3

301
v
Venian dopo costor gente gioconda
ne' loro aspetti, tutti cavalieri
chiamati della Tavola ritonda.

4
5
6

302
i
Il re Artù quivi era de' primieri,
a tutti armato avanti cavalcando
ardito e fiero sopra un gran destrieri.


7
8
9

303
s
Seguialo appresso Bordo spronando
e con lui Prezivalle e Galeotto
a picciol passo insieme ragionando.


10
11
12

304
e
E dietro ad essi venia Lancillotto,
armato e nello aspetto grazïoso,
con una lancia in man, sanza far motto,


13
14
15

305
f
ferendo spesso il caval poderoso
per appressarsi alla Donna piacente,
di cui toccar pareva disïoso.


16
17
18

306
o
Oh quanto adorna quivi ed eccellente
allato a lui Ginevra seguitava,
in su un palafreno orrevolmente!


19
20
21

307
s
Stella mattutina somigliava
la luce del suo viso, ove biltate
quanto fu mai tututta si mostrava.


22
23
24

308
s
Sorridendo negli atti, di pietate
piena e parlando a consiglio segreto
con tacite parole ed ordinate,


25
26
27

309
e
era con que' che già ne visse lieto
lunga fiata, lei sanza misura
amando, ben che poi n'avesse fleto.


28
29
30

310
n
Non molto dietro ad esso con gran cura
seguiva Galeotto, il cui valore
più ch'altro de' compagni si figura.   


31
32
33

311
e
E lui seguiva Chedino ed Astore
di Mare, insieme con messer Ivano,
disiosi ciascuno di più onore.   


34
35
36

312
l
L'Amoroldo d'Irlanda ed Agravano,
Palamidès seguiva e Lionello,
e Polinoro con messer Calvano.


37
38
39

313
m
Mordretto appresso e con lui Dodinello,
e 'l buon Tristan seguiva poi appresso
sopra un cavallo poderoso e snello.


40
41
42

314
i
Isotta bionda allato allato ad esso
venia, la man di lui con la sua presa
e rimirandol nella faccia spesso.


43
44
45

315
o
Oh quanto ella parea nel viso offesa
dalla forza d'amor, di che parea
ch'avesse l'alma dentro tutta accesa,


46
47
48

316
d
di che negli atti fuor tutta lucea!
« Tu se' colui cui io sola disio »,
timida nello aspetto li dicea;


49
50
51

317
i
« in qua ti priego ch'alquanto, amor mio,
tu ti rivolghi, acciò ch'io vegga il viso
per cui vedere in tal camin m'invio ».


52
53
54

318
r
Retro a costor sopra un cavallo assiso
rubesto e fiero Brunoro venia,
ed altri molti, i qua' qui non diviso,


55
56
57

319
e
eran con lui; ma io, la vista mia
dopo la lunga schiera discendendo,
conobbi più mirabil baronia.


320-348
difecto alcun per vostra cortesia, seconda terzina, secondo verso, 29 lettere
58
59
60
320
d
Di porpore vestito, oltre correndo,
quel Carlo Magno sen veniva avante
ch'al mondo fu cotanto reverendo,


61
62
63
321
i
in su un forte e gran destrier ferrante,
ancora de' triunfi coronato
ch'egli acquistò sopra le terre sante,


64
65
66
322
f
fiero ed ardito e tutto quanto armato,
co' gigli d'oro nel campo cilestro
e 'l nero uccel davanti nel dorato.


67
68
69
323
e
Eravi Orlando dal lato sinestro
con una spada in man fiero ed ardito,
ed Ulivier lo seguiva dal destro.


70
71
72
324
c
Cavalcando tra questi oltre pulito,
da Montalban Rinaldo giva avanti
intra due suoi fratelli reverito.


73
74
75
325
t
Tra loro era Dusnamo con sembianti
lieti, e molti altri ancor v'eran li quali
io non pote' conoscer tutti quanti.


76
77
78
326
o
Oltre venia, che parea ch'avesse ali,
il duca Gottifré dopo costoro
per volere esser pur de' principali.


79
80
81
327
a
Appresso lui seguiva con coloro
umilemente Ruberto Guiscardo,
che fu signor già in Terra di Lavoro.


82
83
84
328
l
Lui seguitava frontiero e gagliardo
Federigo secondo; e 'l Barbarossa
sopr'un forte roncion di pel leardo,


85
86
87
329
c
cavalleroso e di persona grossa,
dritto sovra le strieve in atto altiero,
nel sembiante avvilendo ogni altra possa,


88

330
u
via se ne giva per esser primiero.






CANTO XII
29 terzine dantesche e coda di un verso

Dove tratta della medesima Gloria mondana, e come poi la seguita Carlo di Puglia, e Gottifri, e Curradino, e molti altri.

1
2
3

331
n
Non sanza molta ammirazion mirando
m'andava riguardando quella gente,
fra me di lor pensier nuovi recando.

4
5
6

332
p
Parevami, nel creder, veramente
che loro eccelsa fama gloriosi
far li dovesse sempiternamente.


7
8
9

333
e
E fra gli altri che molto disiosi
negli atti si mostravan di venire
a quella Donna per esser famosi,


10
11
12

334
r
robustamente in aspetto seguire,
armato tutto sopra un gran destriere,
vid'io quivi un grandissimo sire,


13
14
15
335
v
vestito di cilestro, al mio parere,
lucente tutto di be' gigli d'oro
ch'ogni altra luce facean trasparere.


16
17
18

336
o
Ognun, qualunque fosse di coloro
che gian davanti, rimirava lui,
sì fiero andava fuggendo dimoro.


19
20
21
337
s
Se ben ricordo, e' mi parve costui
quel Carlo ardito ch'ebbe il maschio naso
insieme con virtù molta, da cui


22
23
24
338
t
tutto il pugliese regno fu invaso
e conquistato, e fanne coronato;
del qual signore il suo seme è rimaso:


25
26
27
339
r
rimirandosi innanzi quasi irato,
con una spada che in man tenea
da ogni parte si facea far lato.


28
29
30
340
a
Appresso a lui, al mio parer, vedea
il Saladin risplender tutto quanto
entro ad un drappo ad or che 'ndosso avea.


31
32
33
341
c
Costui seguiva dal sinistro canto
tututto armato Ruggier di Loria,
che in arme ebbe già valor cotanto.


34
35
36
342
o
Ontoso tutto appresso li venia
il re Manfredi e con dolente aspetto,
e con lui Curradino in compagnia.


37
38
39
343
r
Rietro a costoro assai che io non metto
qui ne seguien, però che troppo avrei
a fare a dirti tutti ed il mio detto


40
41
42
344
t
tireria lungo più ch'io non vorrei,
posto ch'alla man manca ed alla dritta,
ch'io non ne conto, più ne conoscei.   


43
44
45
345
e
E la mia mente dal disio trafitta
di vedere oltre pur mi stimolava,
per che la vista non teneva fitta.


46
47
48
346
s
Similemente quella con cui andava,
con le parole sue faccendo fretta,
sovente all'altre cose mi chiamava.


49
50
51
347
i
Il dir ch'io le faceva: « Un poco aspetta »
non mi valeva, per ch'io mi voltai
verso la terza faccia a man diretta.


52
53
54
348
a
Aveavi certo da mirare assai
più ch'io dir non potrò, tal che 'n me stesso
assai fiate men maravigliai:


349-380
correggiate amendando il mio fallire; seconda terzina, terzo verso; lettere 32
55
56
57
349
c
con gli occhi alzati mi feci più presso
al detto luogo, acciò ch'io conoscessi
chi e che cose vi stessero in esso.


58
59
60
350
o
Oro ed argento, un gran monte, e con essi
zaffiri ed ismeraldi con rubini
ed altre pietre assai credo vedessi.


61
62
63
351
r
Riguardando più basso, con uncini,
chi con picconi e chi avea martello
e chi con pale e chi con gran bacini,


64
65
66
352
r
ronconi alcuni ed altri intorno ad ello
con l'unghie e chi coi dente, uno infinito
popol vi vidi per pigliar di quello.


67
68
69
353
e
E ciaschedun parea pronto ed ardito,
non onorando il piccolo il maggiore,
a suo poter fornia suo appetito.


70
71
72
354
g
Gente v'avea di molto gran valore
in vista, avvegna che la lor viltate
pur si scopria, veggendo con romore


73
74
75
55
g
gli altri, che quivi per cupiditate
givan, cacciarli con duoli e con morte
per prendern'essi maggior quantitate,


76
77
78
356
i
iniqua tirannia rubesta e forte
usando, chi con fatti e chi con detti,
prendendo più che la dovuta sorte.


79
80
81
357
a
Alcun v'avea che i loro mantelletti
se n'avean pieni, e per volerne ancora
abbandonavan tutti altri diletti.


82
83
84

358
t
Tra quella gente che quivi dimora
conobb'io molti, e vidivene alcuno
ch'aver preso di quello ora ne plora


85
86
87
359
e
e forse ne vorrebbe esser digiuno;
ma, cosa fatta, penter non vi vale,
né puolla adietro ritornar nessuno:


88

360
a
adunque ogni uom si guardi di far male.






CANTO XIII   
29 terzine dantesche e coda di un verso

Contiene di coloro che già acquistaron tesoro per avarizia, fra'  quali racconta Mida, e Marco Crasso, e Attila.

1
2
3
361
m
Mirand'io quella turba sì gulosa
di quel per che s'affanna la più gente,
per esserne nel mondo copiosa,


4
5
6
362
e
entrato infra 'l tesoro più fervente
vi vid'io Mida, in vista che sazia
saria di tutto appena possedente,


7
8
9
363
n
non bastandoli avere avuta grazia
dall'iddii che ciò che e' toccasse
ritornasse oro ver sanza fallazia.


10
11
12
364
d
Di rietro a lui parea che ne tirasse
giù Marco Crasso assai, avvegnadio
che della bocca ancor li traboccasse.


13
14
15
365
a
Allato a lui con isciolto disio
quell'Attila, che 'n terra fu flagello
s'affaticava forte, al parer mio,


16
17
18
366
n
nelle sue man tenendo uno scarpello
con un martel, fierendo sopra 'l monte,
gran pezzi e grossi levando di quello.


19
20
21
367
d
Dall'altra parte con superba fronte
era Epasto, con un piccone in mano
con punte agute bene ad entrar pronte.


22
23
24
368
o
Ognor che su vi dava non invano
tirava il colpo a sé, ma gran cantoni
giù ne faceva ruvinare al piano,


25
26
27
369
i
impiendo di quel sé e' suoi predoni
ed ogni sciolta voglia adoperando,
dannando le giustizie e le ragioni.


28
29
30
370
l
Là vi vid'io ancora furiando
Nerone imperadore, ed avea tesa
sopra 'l monte una rete e già tirando


31
32
33

371
m
molta gran quantità n'aveva presa
di quel tesoro, e qual gittava via
e qual mettea in disordinata spesa.


34
35
36
372
i
Ivi di dietro un poco a lui seguia
con una scure in man Polinestore,
e quanto più potea quivi feria,


37
38
39
373
o
ora col colpo faccendo romore,
ora mettendo biette alla fessura
quando la scure sua tirava fore,


40
41
42

374
f
forse temendo che non l'apritura
si richiudesse; e molto ne levava
continovando pur con la sua cura.


43
44
45
375
a
Appresso lui tutto 'l monte graffiava
Pigmaleon con uno uncino aguto,
e molto giuso a sé ne ritirava.


46
47
48
376
l
L'acerbo Dionisio conosciuto
v'ebbi mirando fra la gente folta,
ch'a tor dell'oro non voleva aiuto.


49
50
51
377
l
Là si ficcava tra la turba molta
con un roncone in man tagliando, e presto
di quello a piè si faceva raccolta,


52
53
54

378
i
impiendo con affanno il suo molesto
voler, cacciando misura e piatate
in modo sconcio assai e disonesto.


55
56
57
379
r
Rubesto appresso la sua crudeltate
Fallarìs dimostrava, ricidendo
con una accetta una gran quantitate


58
59
60
380
e
e via di quindi di quel trasferendo;
poi, arrotata la 'ngrossata accetta,
ancora quivi tornava correndo,


381-407
Cara Fiamma per cui 'l core ò caldo; coda (terzina), primo verso, 27 lettere





61
62
63
381
C
con furïosa e minaccevol fretta.
Quivi si vedea Pirro, accompagnato
con mal disposta e dispiacevol setta;


64
65
66
382
a
a molti lì per forza avean levato
a cui cesta di collo, a cui di seno
avean rubato l'or ch'avean cavato,


67
68
69
383
r
ridendo poi fra lor se ne facieno
beffe ed istrazio di que' cattivelli,
ch'a cavar quel fatica avuta aviéno.


70
71
72
384
a
Ancora vid'io star presso di quelli
il dispietato ed iniquo Tereo,
di quel tesoro prender nel quale elli


73
74
75
385
F
fatica non durò mai come feo
quelli a cui il toglieva; e dopo lui
pien d'oro dimorava Tolomeo.


76
77
78
386
i
Ivi era Fisistrato, per la cui
cura più scrigni ripieni e calcati
quivi ne vidi tirati da lui.


79
80
81
387
a
Avea in un lembo de' panni piegati
Siragusan Geronimo tesoro:
egli e molti altri ne gian caricati.


82
83
84
388
m
Ma di Novara Azzolin con costoro
con molto se ne giva, per tornare
con maggior forza a sì fatto lavoro.


85
86
87
389
m
Molti altri ancora vi vidi cavare
ed isforzarsi per volerne avere,
ma niente era il loro adoperare,


88

390
a
anzi oziosi stavano a vedere.






CANTO XIV
29 terzine dantesche e coda di un verso

Dove si contiene di coloro che seguitano l'Avarizia, dei quali racconta gente ecclesiastica.

1
2
3
391
p
Più altra gente ancor v'avea, fra' quali
gran quantità di nuovi Farisei
ad aver del tesoro battean l'ali,


4
5
6
392
e
e sconfortando gli altri e come rei
erano a posseder nel lor parlare
mostrando; e s'io nel rimirar potei


7
8
9
393
r
riguardar vero il loro adoperare,
per possederne maggior quantitate
li vi vedeva forte affaticare.


10
11
12
394
c
Correndo sen portavan caricate
le some, e con iscrigni e piene ceste
si ritornavan quivi molte fiate.


13
14
15

395
u
Ver è che ben ch'avesser lunghe veste
non gli ingombrava però, ma parea
che più che gli altri avesser le man preste.


16
17
18
396
i
Infra lor riguardando, assai v'avea
di quelli cui altra volta avea veduti
e ch'io per nome ben riconoscea.


19
20
21
397
l
Li quali, però che son conosciuti,
non bisogna ch'io nomi, ben che pari
potrebbono esser tututti tenuti.


22
23
24
398
c
Con questi avanti, al mio parer non guari,
quasi tra quei ch'erano più eccellenti
e che parean de' su detti vicari,


25
26
27
399
o
ornato di be' drappi e rilucenti
il nipote vid'io di quel Nasuto,
che gloriarsi va co' precedenti,


28
29
30
400
r
recarsi in mano un forte biccicuto,
dando ta' colpi sopra 'l monte d'oro,
che di ciascun saria un mur caduto;


31
32
33
401
e
e d'esso assai levava, e quel tesoro
in parte oscura tutto si serbava,
e quasi più n'avea ch'altro di loro.


34
35
36
402
ò
Oltre grattando il monte dimorava
con aguta unghia un, ch'al mio parere
in molte volte poco ne levava.


37
38
39
403
c
Con questo tanto forte quel tenere
in borsa li vedea, ch'a pena esso,
non ch'altro alcun, ne potea bene avere.


40
41
42
404
a
Al qual faccendom'io un poco appresso
per conoscer chi fosse apertamente,
vidi che era colui che me stesso


43
44
45

405
l
libero e lieto avea benignamente
nudrito come figlio, ed io chiamato
aveva lui e chiamo mio parente.


46
47
48
406
d
Davanti e poi e d'uno e d'altro lato
tanti su per lo monte e giù scendieno
a prender del tesoro disiato:


49
50
51
407
o
ogni lingua verrebbe a dirlo meno,
peïrò qui m'aggia lo lettore alquanto
scusato s'io non gli ritraggo a pieno.


408-433
que che vi manda questa Visione; coda (terzina), secondo verso, 26 lettere





52
53
54
408
q
Quand'io ebbi costor mirati tanto
ch'a me stesso increscea, io mi voltai,
com'altri volle, verso il destro canto.


55
56
57
409
u
Ver è che disiato avrei assai
d'essere stato della loro schiera,
se con onor potesse esser giammai.


58
59
60
410
e
E s'io vi fossi stato, come v'era
alcun ch'io vi conobbi, io avrei fatto
sì che veduta fora la mia cera


61
62
63
411
c
credo più volentier da tal che matto
or mi riputa, però che i' ho poco,
e più caro m'avrebbe in ciascun atto.


64
65
66
412
h
Hai lasso, quanto nelli orecchi fioco
risuona altrui il senno del mendico!
né par che luce o caldo abbia 'l suo foco,


67
68
69
413
e
e 'l più caro parente gli è nimico;
ciascun lo schifa, e se non ha moneta
alcun non è che 'l voglia per amico.


70
71
72
414
v
Unque s'ogni uomo pur di quello asseta,
mirabile non è, poiché virtute
sanza danari nel mondo si vieta;


73
74
75
415
i
il cui valor se fosse alla salute
di quel pensato che uom pensar dee,
non le ricchezze sarian sì volute.


76
77
78
416
m
Ma io mi credo che parole ebree
parrebbono a ciascun chiaro intelletto
il dir che le ricchezze fosser ree,


79
80
81
417
a
avvegna che in me questo difetto
piuttosto che in altro caderia,
tanto disio d'averne con effetto.


82
83
84
418
n
Né da tal disiderio mi trarria
alcun, tanto il pregar mi par noioso
che di danar sovvenuto mi sia.


85
86
87
419
d
Dopo molto pensar, disideroso
di veder tutto, dirizzai il viso:
e vidi figurato poderoso


88
420
a
Amor, sì come qui sotto diviso.





CANTO XV
29 terzine dantesche (endecasillabi, rima ABA, BCB, CDC ...) e coda di un verso

Dove l'autore conta d'una bella storia dipinta nella bella sala dov'è figurato l’Amore e Venus, e assai gente che li seguitano.

1
2
3
421
q
Quella parte dov'io or mi voltai
con gli occhi riguardando e con la mente,
di storie piena la vidi e d'assai.


4
5
6

422
u
Volendo adunque d'esse pienamente,
almen delle notabili, parlare,
rallungar sì convien l'opra presente.


7
8
9
423
e
E però dico che, nel riguardare
ch'io feci, a guisa d'un giovane prato
tutta la parte vidi verdeggiare,


10
11
12
424
s
similemente fiorito e adornato
d'alberi molti e di nuove maniere,
e l'esservi parea gioioso e grato.


13
14
15
425
t
Tra' quali, in mezzo d'esso, al mio parere,
un gran signor di mirabile aspetto
vid'io sopra due aquile sedere;


16
17
18
426
a
al qual mentre io mirava con effetto,
sopra due lioncelli i piè tenea
ch'avean del verde prato fatto letto.


19
20
21
427
V
Una bella corona in capo avea
e li biondi cape' sparti sott'essa,
che un fil d'oro ciaschedun parea.


22
23
24
428
i
il viso suo come neve mo' messa
parea, nel qual mescolata rossezza
aveva convenevolmente ad essa.


25
26
27

429
s
Sanza comparazion la sua bellezza
era, ed aveva due grandi ali d'oro
alle sue spalle, stese inver l'altezza


28
29
30
430
i
In man tenea una saetta d'oro
ed un'altra di piombo, alla reale
vestito, al mio parer, d'un drappo ad oro.


31
32
33
431
o
Orrevolmente là il vedea cotale,
tenendo un arco nella man sinestra,
la cui virtù sentir già molti male.


34
35
36
432
n
Né però era sua sembianza alpestra
ma giovinetta e di mezzana etate,
dimestica e piatosa e non silvestra.


37
38
39

433
e
E 'ntorno avea sanza fine adunate
genti, le qua' parea che ciascheduno
mirasse pure a sua benignitate.


434-463
Giovanni è di Boccaccio da Certaldo; coda (terzina) terzo verso, 30 lettere





40
41
42

434
G
Gai e giocondi ve ne vidi alcuno,
tristi e dolenti sospirando gire
altri vi vidi, in isperanza ognuno.


43
44
45

435
i
Io che mirava il grazioso sire,
immaginando molto il suo valore
per molti ch' io vidi a lui servire,


46
47
48

436
o
ornata come lui, con grande onore
li vidi allato una Donna gentile,
la qual pareva sì com'elli Amore,


49
50
51

437
v
vaga nelli occhi, piatosa ed umile;
ver è ch'era d'alloro coronata,
ed in tanto era ad Amor dissimile.


52
53
54

438
a
Angiola mi pareva nel ciel nata,
e in me più volte pensai ch'ella fosse
quella che in Cipri già fu adorata.


55
56
57

439
n
Non so quel che il cor mi si percosse
mirando lei, se non che l'alma mia
pavida dentro tutta si riscosse,


58
59
60

440
n
Né sanza a lei pensar fu poi né fia:
sì eccellente e tanto graziosa
quivi allato ad Amor vidi lucia.


61
62
63

441
i
In fronte a lei, più ch'a altra valorosa,
due belli occhi lucean sì che fiammetta
parea ciascuno d'amor luminosa;


64
65
66

442
è
e la sua bocca bella e piccioletta
vermiglia rosa e fresca simigliava,
e parea si movesse sanza fretta.


67
68
69

443
d
Dintorno a sé tutto il prato allegrava,
come se stata fosse primavera,
col raggio chiar che 'l suo bel viso dava.


70
71
72

444
i
Io non credo ch'al mondo mai pantera
col suo odor già anima' tirasse,
faccendoli venir dovunque s'era

Riferimento alla pantera profumata di Dante? Distinguendo nel De vulgari eloquentia il volgare dalla grammatica, Dante ... (Vedi la nota completa)
73
74
75

445
B
blandi e quieti, ch'a lei simigliasse;
e sì parean mirabili i suoi atti,
ch'Amor pareva lì s'innamorasse.


76
77
78

446
o
Oh come nello aspetto, in detti e 'n fatti,
savia parea, con alto intendimento,
pensando a' suo' sembianti ed a' suoi tratti!


79
80
81

447
c
Contemplando ad Amore il suo talento
parea fermasse en la sua chiara luce:
com'aquila a' figliuo' nel nascimento


82
83
84

448
c
con amor mostra ond'ella li produce
a seguir sua natura, così questa
credo che faccia a chi la si fa duce.


85
86
87

449
a
A rimirar contento questa onesta
Donna mi stava, che in atti dicesse
parea parole assai piene di festa,


88

450
c
come lo 'mmaginar par che intendesse.





CANTO XVI,  versi 1-39
29 terzine dantesche e coda di un verso

Dove tratta d'amore, e quando Giove si congiunse con Europa in forma di toro.

1
2
3

451
c
Costei pareva dir negli atti soi:
«  Io son discesa della somma altezza
e son venuta per mostrarmi a voi.


4
5
6

452
i
Il viso mio, chi vuol somma bellezza
veder, riguardi, là dove si vede
accompagnata lei e gentilezza.


7
8
9

453
o
Ò pietà per sorella e di merzede       
fontana sono: Iddio mi v'ha mandata
per darvi parte del ben che possiede.

[Or pietà di sorella or di mercede]
10
11
12

454
d
Donna più ch'altra sono innamorata
e ma' isdegno in me non ebbe loco,       
però Amor m'ha cotanto onorata.


[e mai disdegno in me non ebbe loco]
13
14
15

455
a
Ancor risplende in me tanto il suo foco,
che molti credon talor ch'io sia ello,
avvegna che da lui a me sia poco.


16
17
18

456
C
Cortese e lieta son di lui vasello,
né mai mi parran duri i suoi martiri
pensando al dolce fin che vien da quello.


19
20
21

457
e
E bene è cieco quei che' suoi disiri   
si crede sanza affanno aver compiuti
e sanza copia di dolci sospiri.

[E bene è cieco quei, che i suoi disiri]
22
23
24

458
r
Riceva in pace dunque i dardi aguti,
ch'alcun piacer di belli occhi saetta
que' che attendon d'esser proveduti.


[quelli che attendon d'esser provveduti.]

25
26
27

459
t
Tal, qual vedete, giovane angioletta
qui accompagno Amor che mi disia:
poi tornerò al cielo a chi m'aspetta. »


28
29
30

460
a
Ancor più intesi, ma la fantasia
nol mi ridice, sì gran parte presi
di gioia dentro nella mente mia


31
32
33

461
l
lei rimirando e' suoi atti cortesi,
il chiaro aspetto e la mira biltate,   
della qual mai a pien dir non porriesi.   

[il chiaro aspetto e la mira beltate,]
[della qual mai a pien dir non porriési]
34
35
36

462
d
Dallato Amor con tanta volontate
vidi mirarla, che nel bello aspetto
tutto si dipingeva di pietate.

[Da lato Amor con tanta volontate]
37
38
39

463
o
Ognora a sé con la sua mano il petto
tastando, quasi non si avesse offeso
perché a guardarla avea tanto diletto.








NOTE


165
Nemmeno a Dante Boccaccio dedica l'elogio che dedica a Venere. Boccaccio può esser considerato l'artefice dell'identità moderna, ovvero di un'identità che si assoggetta alle gerarchie prima genitoriali, poi religiose e civili, per divenire adulta dissoggettandosi. Dante osa descriverlo come un percorso che tende a Dio, lungo il quale la donna Beatrice è conduttrice, che delega la prima parte a Virgilio, poeta assoggettato all'imperatore. Petrarca dedica la poesia in volgare alla donna, grazie al fatto che le cose grandi sono altrove, in latino. Boccaccio si fa erede di entrambi e va oltre: sua è l'invenzione dell'identità moderna. Se Campbell l'avesse conosciuto avrebbe attribuito a lui l'apertura di una nuova identità, lasciando a Eloisa solo un annuncio. L'appello di Eloisa ad Abelardo, in cui gli dice che non può chiedergli di volgersi a Dio e dimenticarlo, e dimenticare il loro amore, viene ascoltato duecento anni dopo da Boccaccio, che è il primo non tanto a non farsi guidare nella nekya o nella grandezza poetica dalla donna, per arrivare a Dio o all'immortalità intellettuale, men che meno a dimenticare l'amore terreno per volgersi a quello divino, come Abelardo, ma a volgersi alla donna nell'Amorosa Visione, e a tutte le donne col Decameron. L'opera di Boccaccio ha la stessa  implicazione divinatoria di quella di Wagner, e guarda caso chi la utilizza, come Chaucer – controlla! - o Straparola, o Tolkien riceve riconoscimenti che ignorano l'autore dell'operazione rivoluzionaria. Quel che però mi ha fatto brillare qualcosa nella testa è l'idea che l'identità moderna passi per l'innamoramento eterosessuale, che assoggetta dissoggettando, e viceversa. Mentre il tranfert genitoriale ha innumerevoli repliche nelle successive relazioni gerarchiche, senza minare la coazione a ripetere, l'amore fra i sessi, e forse anche quello di transfert, operano un dissoggettamento grazie alla condizione di parità gerarchica fra i due attanti della relazione. L'incontro erotico pieno, quello che fa scoprire Afrodite generata dal membro reciso di Urano, è paritario, perché il piacere che non fa invidiare né l'estasi mistica né l'infanzia, o è reciproco o non è. Nell'analisi il dispositivo paritario è il diritto di annientare l'analista, abbandonandolo dopo averlo pagato, che bilancia la potenza transferale tutta dalla parte dell'analista. Per questo Lacan dice che l'amore vero è quello di transfert, perché è l'amore dissoggettante. In effetti chi impazzisce per amore crede di rendere attuale un piacere infantile, quindi di attivare una dipendenza reciproca, per questo l'abbandono può portare al suicidio, perché pare a chi è abbandonato come il primo e ultimo fallimento nel primo e ultimo tentativo – in realtà apparente – di allontanarsi dall'infanzia, da quel primo amore totalizzante, al quale il soggetto per crescere ha finto di rinunciare per la prima e ultima volta. Da riprendere Campbell su Abelardo ed Eloisa, per allargare il discorso a Boccaccio, con l'eredità di Dante e Petrarca. Da riconoscere che l'esperienza dell'alterità erotica del partner – che non necessariamente avviene nel rapporto eterosessuale – è necessaria ma non sufficiente per il dissoggettamento che inaugura un soggetto non più padrone di casa sua ma capace al massimo grado di prendersene cura, di uscirne e rientrarvi, di accogliere gli altri e di invitarli ad allontanarsi in quanto ospiti sgraditi. In questa chiave mi viene in mente una revisione radicale delle regole analitiche. Una per cominciare: l'importo fisso dell'onorario e della durata della seduta accentuano l'estraneità, la distanza fra i due attanti, ogni eccezione è vissuta come una ripetizione fortunata del desiderio infantile. Ma mi chiedo se queste eccezioni non siano in realtà utili se il soggetto non ha superato il lutto della loro mancanza o interruzione. Per esempio la rinuncia a essere il massimo amore dei genitori quando nasce un fratello minore. Sofia ha rinunciato, e dice : però so di essere la preferita dei nonni. Nel mio caso la tratto come figlia unica, ma amo egualmente Ettore e Greta, e come nonna non ho difficiltà a far sentire egualmente prezioso ciascuno di loro. E' la stessa cosa che vivo con Luna dopo aver amato di più sua figlia Cannella, e con Nina dopo aver amato di più per anni sua figlia Mia. Direi che è normale fare un passo indietro per lasciare il posto a chi ha più bisogno, per qualunque ragione, nell'infanzia o da adulti, purché sia presente anche la fiducia che esista una via per tornare in primo piano, per vivere e veder riconosciuta – è la stessa cosa! - la propria unicità. La magia dell'arte, pienamente riconosciuta da Freud, che secondo me la usava senza teorizzare esplicitamente questo suoi dispositivo, è la stessa della magia di una relazione erotica che implica tutto l'essere nella quale il grado massimo di particolarità e unicità dell'attante si realizza simultaneamente al riconoscimento e all'accoglienza dell'alterità irriducibile dell'altro. Nella relazione analitica questo riconoscimento da part dello psicoanalista avviene quando nel lavoro incontra l'inciampo, il dribbling, quando destituisce alla velocità della luce, o in un batter d'occhio che dir si voglia, la sua precedente rappresentazione del paziente e della loro relazione. Se questa nota non è un discorso delirante dovuto alla mia età non fresca, è una scoperta che dà conto della coazione a ripetere e della sublimazione. Ha a che fare con la coppia assoggettamento/dissoggettamento: si possono teorizzare entrambe, ma il passaggio dall'una condizione all'altra è impossibile da teorizzare. E' quanto testimonia Fachinelli On the beach. E i mistici quando parlano dell'estasi e della fine dell'estasi. Infine osservo che dopo Dante le nekye sono soltanto quelle del passato. Quel che Orfeo, Ercole, Ulisse, Dante, vivevano, da Boccaccio in poi, passando per Polyphilo, si sognano. La porta fra realtà di veglia e realtà onirica, come tra la vita e la morte, si apre da Boccaccio in poi - più o meno -  solo nel sogno, notturno o a occhia aperti, nella superstizione o nella follia. La grandezza della psicoanalisi è interrogare il sogno senza abbassare la veglia. La pratica dell'ipnosi non è rivoluzionaria. Il fatto che Freud affermi che non tutti erano ipnotizzabili, e che i risultati benefici erano instabili, come ragioni della rinuncia al'ipnosi stessa, è una ragione apparente. Il passaggio ipotizza che il soggetto della veglia possa farsi carico del soggetto del sogno, del alpsus, del delirio, della somatizzazione e del sintomo di conversione. Se con Boccaccio si apre un orizzonte umano sottratto al divino, con la visione poetica oniriroide che sostituisce la nekya, grazie alla chiusura della membrana osmotica fra coscienza e inconscio - con  Freud si apre una galleria scientifica che ricorda la magia permettendo di considerare a occhi aperti quanto prima esigeva la sospensione della coscienza. La sospensione che opera l'analista e che il paziente dovrebbe imparare è il giudizio vero/falso riguardo alle figure del sogno che ricordiamo al risveglio. Questa sospensione – avrà a che fare con l'epochè husserliana? - non è nèkya né superstizione né regressione, ma apertura all'altro – in questo caso allo psicoanalista, e al paziente, perché l'apertura è una necessità per entrambi. Il passaggio dall'assoggettamento al dissoggettamento è come la grazia nella dottrina cattolica, accostato correttamente da Fornari alle gocce di latte buono che per Klein sono condizione perché non si sviluppi la psicosi. Le stesse gocce nutrono nella relazione erotica come nella relazione analitica. (29 giugno 2024)


217
Bernart de Ventadorn, canzone Ab joi mou lo vers e·l comens, strofa VI: metafora della bocha ridens, che baciando ferisce tanto da condurre a morte l’amato.
Come un altro bacio basta per sanare la piaga, così dal colpo inferto con la lancia di Peleo, si poteva guarire solo attraverso una nuova ferita, inferta dalla stessa arma.
Anc sa bela bocha rizens
non cuidei, baizan me träis,
car ab un doutz baizar m’aucis,
si ab autre no m’es guirens;
c’atretal m’es per semblansa 45
com de Peläus la lansa
que del seu colp no podi’ om garir,
si autra vetz no s’en fezes ferir.
Bernard de Ventadorn probabilmente attinge dalle Fabulae di Igino, che nella Fabula CI racconta di Telefo, figlio di Ercole e Auge, che difendeva la Misia dai Greci che vi erano sbarcati e l'assalivano credendo fosse la Troade. Telefo cadde inciampando in un tralcio di vite – non rendeva onore a Dioniso! - e fu ferito da Achille con la lancia magica di Chirone. Ad Agamennone che doveva cercare la cura per Telefo, Achille rispose di non consocere l'arte medica, ma Ulisse aggiunse che si parlava della sua lancia, non di lui. Allora ne raschiarono la ruggine con la quale fu preparato un farmaco, che guarì Telefo.
Si racconta inoltre di Ificlo che vedendo il padre Filaco castrare montoni e ne rimase scovolto, allora il padre piantò il coltello in un albero e andò a consolare il bambino: il coltello penetrò col tempo nell'albero. Ificlo era così veloce da correre su un campo di grano senza piegare le spighe (Esiodo, fr. 62 Merkelbach-West), ma era impotente: la malattia venne curata ritrovando quel coltello con la cui ruggine si fece il farmaco che guarì Ificlo.
Come Edipo anche Ulisse ha nella sua storia la ferita al polpaccio inferta da un cinghiale: ferita guarita con un incantesimo dal nonno Autolico, che secondo Guidorizzi, nota 939, è un vero trickster, pari a Sisifo. Nella stessa nota Guidorizzi riferisce come Autolico avesse rubato ad Amintore l'elmo decorato con zanne di cinghiale che portava Ulisse. 
La lancia magica era stata di Chirone, centauro inventore dell'arte medica, figlio di Filira, figlia di Oceano, e di Saturno, che sedusse Filira in forma di cavallo. Accorgendosi di aver dato alla luce Chirone, una creatura mai vista, Filira chiese a Giove di cambiare la sua natura e venne trasformata in tiglio, filyra in greco.
Questi i miti greci dell'arma che ferisce e guarisce, ai quali seguirà il mito nordico del Graal e della Lancia sacra. Vedi anche il Lohengrin e il Parsifal di Wagner.


444
Riferimento alla pantera profumata di Dante? Distinguendo nel De vulgari eloquentia il volgare dalla grammatica, Dante (leggi la nota intera)ha posto l’origine della poesia italiana sotto il segno del bilinguismo. A questo primo bilinguismo, Dante ne ha aggiunto subito un altro, quello fra volgare municipale e volgare illustre, cioè la lingua della poesia, che paragona a una pantera profumata, la quale «effonde la propria fragranza in ogni città, ma non dimora in alcuna». Non identificandosi né con il momento puramente orale della lingua, né con la lingua grammaticale, la lingua della poesia sembra dimorare, piuttosto, nella tensione fra i due poli.


















As
Soon
As
Possible

Prima
Possibile










online dal 18 luglio 2024
lavori in corso