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In corsivo i brani e i titoli dal Decameron |
PROEMIO |
COMINCIA IL LIBRO CHIAMATO DECAMERON
COGNOMINATO PRENCIPE GALEOTTO
![]() Ma quantunque cessata sia la pena, non per ciò è la memoria fuggita de’ benifici già ricevuti, datimi da coloro a’ quali per benivolenza da loro a me portata erano gravi le mie fatiche; né passerà mai, sì come io credo, se non per morte. E per ciò che la gratitudine, secondo che io credo, trall’altre virtù è sommamente da commendare e il contrario da biasimare, per non parere ingrato ho meco stesso proposto di volere, in quel poco che per me si può, in cambio di ciò che io ricevetti, ora che libero dir mi posso, e se non a coloro che me atarono, alli quali per avventura per lo lor senno o per la loro buona ventura non abisogna, a quegli almeno a’ quali fa luogo, alcuno alleggiamento prestare. E quantunque il mio sostentamento, o conforto che vogliam dire, possa essere e sia a’ bisognosi assai poco, nondimeno parmi quello doversi più tosto porgere dove il bisogno apparisce maggiore, sì perché più utilità vi farà e sì ancora perché più vi fia caro avuto. E chi negherà questo, quantunque egli si sia, non molto più alle vaghe donne che agli uomini convenirsi donare? Esse dentro a’ dilicati petti, temendo e vergognando, tengono l’amorose fiamme nascose, le quali quanto più di forza abbian che le palesi coloro il sanno che l’hanno provate: e oltre a ciò, ristrette da’ voleri, da’ piaceri, da’ comandamenti de’ padri, delle madri, de’ fratelli e de’ mariti, il più del tempo nel piccolo circuito delle loro camere racchiuse dimorano e quasi oziose sedendosi, volendo e non volendo in una medesima ora, seco rivolgendo diversi pensieri, li quali non è possibile che sempre sieno allegri. E se per quegli alcuna malinconia, mossa da focoso disio, sopraviene nelle lor menti, in quelle conviene che con grave noia si dimori, se da nuovi ragionamenti non è rimossa: senza che elle sono molto men forti che gli uomini a sostenere; il che degli innamorati uomini non avviene, sì come noi possiamo apertamente vedere. Essi, se alcuna malinconia o gravezza di pensieri gli affligge, hanno molti modi da alleggiare o da passar quello, per ciò che a loro, volendo essi, non manca l’andare a torno, udire e veder molte cose, uccellare, cacciare, pescare, cavalcare, giucare o mercatare: de’ quali modi ciascuno ha forza di trarre, o in tutto o in parte,l’animo a sé e dal noioso pensiero rimuoverlo almeno per alcuno spazio di tempo, appresso il quale, con un modo o con altro, o consolazion sopraviene o diventa la noia minore. Adunque, acciò che in parte per me s’amendi il peccato della fortuna, la quale dove meno era di forza, sì come noi nelle dilicate donne veggiamo, quivi più avara fu di sostegno, in soccorso e rifugio di quelle che amano, per ciò che all’altre è assai l’ago e ‘l fuso e l’arcolaio, intendo di raccontare cento novelle, o favole o parabole o istorie che dire le vogliamo, raccontate in diece giorni da una onesta brigata di sette donne e di tre giovani nel pistelenzioso tempo della passata mortalità fatta, e alcune canzonette dalle predette donne cantate al lor diletto. Nelle quali novelle piacevoli e aspri casi d’amore e altri fortunati avvenimenti si vederanno così ne’ moderni tempi avvenuti come negli antichi; delle quali le già dette donne, che queste leggeranno, parimente diletto delle sollazzevoli cose in quelle mostrate e utile consiglio potranno pigliare, in quanto potranno cognoscere quello che sia da fuggire e che sia similmente da seguitare: le quali cose senza passamento di noia non credo che possano intervenire. Il che se avviene, che voglia Idio che così sia, a Amore ne rendano grazie, il quale liberandomi da’ suoi legami m’ha conceduto il potere attendere a’ lor piaceri. |
È
vero, come dice Freud, che siamo i discendenti di una
lunga catena di assassini, ma è altrettanto vero che
siamo i discendenti di una lunga catena di curatori. È
vero che diamo la morte a noi stessi e ai nostri simili
o ai nostri diversi, ed è vero che scampiamo dalla morte
noi stessi, i nostri simili e i nostri diversi. Un filo delicato come il gambo di un fiore e forte come l'adamante lega Boccaccio e Freud. Il filo ha la potenza e la delicatezza della favole, la stessa delle apparizioni con le quali Prospero conclude i suoi magici giochi sull'isola. |
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INTRODUZIONE
ALLA PRIMA GIORNATA |
DOVE SI
RACCONTA LA PESTE DELL'ANNO 1348 IN FIRENZE |
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Quantunque
volte, graziosissime donne, meco pensando riguardo
quanto voi naturalmente tutte pietose siate, tante
conosco che la presente opera al vostro giudicio avrá
grave e noioso principio, sí come è la dolorosa
ricordazione della pestifera mortalitá trapassata,
universalmente a ciascuno che quella vide o altramenti
conobbe dannosa e lagrimevole molto, la quale essa
porta nella sua fronte. Ma non voglio per ciò che
questo di piú avanti leggere vi spaventi, quasi sempre
tra’ sospiri e tra le lagrime leggendo dobbiate
trapassare. Questo orrido cominciamento vi fia non
altramenti che a’ camminanti una montagna aspra ed
erta, appresso la quale un bellissimo piano e
dilettevole sia riposto, il quale tanto piú viene loro
piacevole quanto maggiore è stata del salire e dello
scendere la gravezza. E sí come la stremitá
dell’allegrezza il dolore occupa, cosí le miserie da
sopravvegnente letizia sono terminate. A questa brieve
noia; dico brieve in quanto in poche lettere si
contiene; seguirá prestamente la dolcezza ed il
piacere il quale io v’ho davanti promesso e che forse
da cosí fatto inizio non sarebbe, se non si dicesse,
aspettato. E nel vero, se io potuto avessi onestamente
per altra parte menarvi a quello che io disidero che
per cosí aspro sentiero come fia questo, io l’avrei
volentier fatto: ma per ciò che qual fosse la cagione
per che le cose che appresso si leggeranno
avvenissono, non si poteva senza questa rammemorazion
dimostrare, quasi da necessitá costretto a scriverle
mi conduco. |
LA PESTE DELL'ANNO 1348 IN FIRENZE
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L'ONESTA BRIGATA IN SANTA MARIA NOVELLA |
![]() — Donne mie care, voi potete, cosí come io, molte volte avere udito che a niuna persona fa ingiuria chi onestamente usa la sua ragione. Natural ragione è, di ciascun che ci nasce, la sua vita, quanto può, aiutare e conservare e difendere: e concedesi questo, tanto che alcuna volta è giá addivenuto che, per guardar quella, senza colpa alcuna si sono uccisi degli uomini. E se questo concedono le leggi, nelle sollecitudini delle quali è il ben vivere d’ogni mortale, quanto maggiormente, senza offesa d’alcuno, è a noi ed a qualunque altro onesto alla conservazione della nostra vita prendere quegli rimedi che noi possiamo! Ognora che io vengo ben ragguardando alli nostri modi di questa mattina ed ancora a quegli di piú altre passate, e pensando chenti e quali li nostri ragionamenti sieno, io comprendo, e voi similemente il potete comprendere, ciascuna di noi di se medesima dubitare: né di ciò mi maraviglio niente, ma maravigliomi forte, avveggendomi ciascuna di noi aver sentimento di donna, non prendersi per noi a quello di che ciascuna meritamente teme alcun compenso. Noi dimoriamo qui, al parer mio, non altramenti che se essere volessimo o dovessimo testimonie di quanti corpi morti ci sieno alla sepoltura recati o d’ascoltare se i frati di qua entro, de’ quali il numero è quasi venuto al niente, alle debite ore cantino i loro ufici, o a dimostrare a qualunque ci apparisce, ne’ nostri abiti, la qualitá e la quantitá delle nostre miserie. E se di quinci usciamo, o veggiamo corpi morti o infermi trasportarsi da torno, o veggiamo coloro li quali per li loro difetti l’autoritá delle publiche leggi giá condannò ad esilio, quasi quelle schernendo per ciò che sentono gli esecutori di quelle o morti o malati, con dispiacevoli impeti per la terra discorrere, o la feccia della nostra cittá, del nostro sangue riscaldata, chiamarsi becchini ed in istrazio di noi andar cavalcando e discorrendo per tutto, con disoneste canzoni rimproverandoci i nostri danni. Né altra cosa alcuna ci udiamo, se non «I cotali son morti» e «Gli altrettali sono per morire»; e se ci fosse chi fargli, per tutto dolorosi pianti udiremmo. E se alle nostre case torniamo, non so se a voi cosí come a me addiviene: io, di molta famiglia, niuna altra persona in quella se non la mia fante trovando, impaurisco e quasi tutti i capelli addosso mi sento arricciare, e parmi, dovunque io vado o dimoro per quella, l’ombre di coloro che sono trapassati vedere, e non con quegli visi che io soleva, ma con una vista orribile non so donde in loro nuovamente venuta spaventarmi. Per le quali cose, e qui e fuori di qui ed in casa mi sembra star male, e tanto piú ancora quanto egli mi pare che niuna persona, la quale abbia alcun polso e dove possa andare, come noi abbiamo, ci sia rimasa altri che noi. Ed ho sentito e veduto piú volte, se pure alcuni ce ne sono, quegli cotali, senza fare distinzione alcuna dalle cose oneste a quelle che oneste non sono, solo che l’appetito le cheggia, e soli ed accompagnati, di dí e di notte, quelle fare che piú di diletto lor porgono; e non che le solute persone, ma ancora le racchiuse ne’ monisteri, faccendosi a credere che quello a lor si convenga e non si disdica che all’altre, rotte dell’obedienza le leggi, datesi a’ diletti carnali, in tal guisa avvisando scampare, son divenute lascive e dissolute. E se cosí è, che essere manifestamente si vede, che facciam noi qui? che attendiamo? che sognamo? Perché piú pigre e lente alla nostra salute che tutto il rimanente de’ cittadini siamo? Reputianci noi men care che tutte l’altre? o crediamo, la nostra vita con piú forti catene esser legata al nostro corpo che quella degli altri sia, e cosí di niuna cosa curar dobbiamo la quale abbia forza d’offenderla? Noi erriamo, noi siamo ingannate, ché bestialitá è la nostra se cosí crediamo; quante volte noi ci vorrem ricordare chenti e quali sieno stati i giovani e le donne vinte da questa crudel pestilenza, noi ne vedremo apertissimo argomento. E per ciò, acciò che noi per ischifiltá o per trascutaggine non cadessimo in quello di che noi per avventura per alcuna maniera volendo potremmo scampare, non so se a voi quello se ne parrá che a me ne parrebbe: io giudicherei ottimamente fatto che noi, sì come noi siamo, sì come molti innanzi a noi hanno fatto e fanno, di questa terra uscissimo, e fuggendo come la morte i disonesti esempli degli altri, onestamente a’ nostri luoghi in contado, de’ quali a ciascuna di noi è gran copia, ce n’andassimo a stare, e quivi quella festa, quell’allegrezza, quello piacere che noi potessimo, senza trapassare in alcuno atto il segno della ragione, prendessimo. Quivi s’odono gli uccelletti cantare, veggionvisi verdeggiare i colli e le pianure, ed i campi pieni di biade non altramenti ondeggiare che il mare, e d’alberi ben mille maniere, ed il cielo piú apertamente, il quale, ancora che crucciato ne sia, non per ciò le sue bellezze eterne ne nega, le quali molto piú belle sono a riguardare che le mura vote della nostra cittá. Ed òvvi, oltre a questo, l’aere assai piú fresco, e di quelle cose che alla vita bisognano in questi tempi v’è la copia maggiore, e minore il numero delle noie: per ciò che, quantunque quivi cosí muoiano i lavoratori come qui fanno i cittadini, v’è tanto minore il dispiacere, quanto vi sono piú che nella cittá rade le case e gli abitanti. E qui d’altra parte, se io ben veggio, noi non abbandoniam persona, anzi ne possiamo con veritá dire molto piú tosto abbandonate: per ciò che i nostri, o morendo o da morte fuggendo, quasi non fossimo loro, sole in tanta afflizione n’hanno lasciate. Niuna riprensione adunque può cadere in cotal consiglio seguire; dolore e noia e forse morte, non seguendolo, potrebbe avvenire. E per ciò, quando vi paia, prendendo le nostre fanti e con le cose opportune faccendoci seguitare, oggi in questo luogo e domane in quello quella allegrezza e festa prendendo che questo tempo può porgere, credo che sia ben fatto a dover fare; e tanto dimorare in tal guisa, che noi veggiamo, se prima da morte non siam sopraggiunte, che fine il cielo riserbi a queste cose. E ricordivi che egli non si disdice piú a noi l’onestamente andare, che faccia a gran parte dell’altre lo star disonestamente. L’altre donne, udita Pampinea, non solamente il suo consiglio lodarono, ma disiderose di seguitarlo avevan giá piú particularmente tra sé cominciato a trattar del modo, quasi, quindi levandosi da sedere, a mano a mano dovessero entrare in cammino. Ma Filomena, la quale discretissima era, disse: — Donne, quantunque ciò che ragiona Pampinea sia ottimamente detto, non è per ciò cosí da correre a farlo, come mostra che voi vogliate fare. Ricordivi che noi siamo tutte femine, e non ce n’ha niuna sí fanciulla, che non possa ben conoscere come le femine sien ragionate insieme e senza la provvedenza d’alcuno uomo si sappiano regolare. Noi siamo mobili, riottose, sospettose, pusillanime e paurose, per le quali cose io dubito forte, se noi alcuna altra guida non prendiamo che la nostra, che questa compagnia non si dissolva troppo piú tosto e con meno onor di noi che non ci bisognerebbe: e per ciò è buono a provvederci avanti che cominciamo. — Disse allora Elissa: — Veramente gli uomini sono delle femine capo, e senza l’ordine loro rade volte riesce alcuna nostra opera a laudevole fine: ma come possiam noi aver questi uomini? Ciascuna di noi sa che de’ suoi son la maggior parte morti, e gli altri che vivi rimasi sono chi qua e chi lá in diverse brigate, senza saper noi dove, vanno fuggendo quello che noi cerchiamo di fuggire: ed il pregare gli strani non saria convenevole; per che, se alla nostra salute vogliamo andar dietro, trovare si convien modo di sí fattamente ordinarci, che, dove per diletto e per riposo andiamo, noia e scandalo non ne segua. Mentre tra le donne erano cosí fatti ragionamenti, ed ecco entrar nella chiesa tre giovani, non per ciò tanto, che meno di venticinque anni fosse l’etá di colui che piú giovane era di loro; ne’ quali né perversitá di tempo né perdita d’amici o di parenti né paura di se medesimi avea potuto amor, non che spegnere, ma raffreddare. De’ quali l’uno era chiamato Panfilo e Filostrato il secondo e l’ultimo Dioneo, assai piacevole e costumato ciascuno: ed andavan cercando per loro somma consolazione, in tanta turbazione di cose, di vedere le lor donne, le quali per ventura tutte e tre erano tra le predette sette, come che dell’altre alcune ne fossero congiunte parenti d’alcuni di loro. Né prima esse agli occhi corsero di costoro, che costoro furono da esse veduti; per che Pampinea allor cominciò sorridendo: — Ecco che la fortuna a’ nostri cominciamenti è favorevole, ed hacci davanti posti discreti giovani e valorosi, li quali volentieri e guida e servidor ne saranno se di prendergli a questo uficio non schiferemo. — Neifile allora, tutta nel viso divenuta per vergogna vermiglia, per ciò che l’una era di quelle che dall’un de’ giovani era amata, disse: — Pampinea, per Dio, guarda ciò che tu dichi. Io conosco assai apertamente, niuna altra cosa che tutta buona dir potersi di qualunque s’è l’un di costoro, e credogli a troppo maggior cosa che questa non è sufficienti, e similmente avviso, loro buona compagnia ed onesta dover tenere, non che a noi, ma a molto piú belle e piú care che noi non siamo: ma per ciò che assai manifesta cosa è, loro essere d’alcune che qui ne sono innamorati, temo che infamia e riprensione, senza nostra colpa o di loro, non ce ne segua se gli meniamo. — Disse allora Filomena: — Questo non monta niente; lá dove io onestamente viva né mi rimorda d’alcuna cosa la coscienza, parli chi vuole in contrario: Iddio e la veritá l’armi per me prenderanno. Ora, fossero essi pur giá disposti a venire, ché veramente, come Pampinea disse, potremmo dire, la fortuna essere alla nostra andata favoreggiarne. — L’altre, udendo costei cosí fattamente parlare, non solamente si tacquero, ma con consentimento concorde tutte dissero che essi fosser chiamati e loro si dicesse la loro intenzione, e pregassersi che dovesse lor piacere in cosí fatta andata lor tener compagnia. Per che, senza piú parole, Pampinea, levatasi in piè, la quale ad alcun di loro per consanguinitá era congiunta, verso loro che fermi stavano a riguardarle si fece, e con lieto viso salutatigli, loro la lor disposizione fe’ manifesta e pregògli per parte di tutte che con puro e fratellevole animo a tener lor compagnia si dovessero disporre. I giovani si credettero primieramente essere beffati, ma poi che videro che da dovero parlava la donna, risposero lietamente, sé essere apparecchiati: e senza dare alcuno indugio all’opera, anzi che quindi si partissono, diedono ordine a ciò che a fare avessono in sul partire. |
![]() RAI RADIO 3. AD ALTA VOCE. LEGGERE IL DECAMERON. LETTURA I. PROEMIO E INTRODUZIONE |
INTRODUZIONE ALLA QUARTA GIORNATA (PRIMA PARTE) |
Carissime
donne, sì per le parole de’ savi uomini udite e sì per
le cose da me molte volte e vedute e lette estimava io
che lo ’mpetuoso vento ed ardente della ’nvidia non
dovesse percuotere se non l’alte torri o le piú levate
cime degli alberi: ma io mi truovo della mia
estimazione ingannato. Per ciò che, fuggendo io e
sempre essendomi di fuggire ingegnato il fiero impeto
di questo rabbioso spirito, non solamente pe’ piani,
ma ancora per le profondissime valli mi sono ingegnato
d’andare; il che assai manifesto può apparire a chi le
presenti novellette riguarda, le quali non solamente
in fiorentin volgare ed in prosa scritte per me sono e
senza titolo, ma ancora in istilo umilissimo e rimesso
quanto il piú si possono: né per tutto ciò l’essere da
cotal vento fieramente scrollato, anzi presso che
diradicato, e tutto da’ morsi della ’nvidia esser
lacerato non ho potuto cessare, per che assai
manifestamente posso comprendere, quello esser vero
che sogliono i savi dire, che sola la miseria è senza
invidia nelle cose presenti. Sono adunque, discrete
donne, stati alcuni che, queste novellette leggendo,
hanno detto che voi mi piacete troppo e che onesta
cosa non è che io tanto diletto prenda di piacervi e
di consolarvi, ed alcuni han detto peggio: di
commendarvi, come io fo. Altri, piú maturamente
mostrando di voler dire, hanno detto che alla mia etá
non istá bene l’andare omai dietro a queste cose, cioè
a ragionar di donne o a compiacer loro. E molti, molto
teneri della mia fama mostrandosi, dicono che io farei
piú saviamente a starmi con le Muse in Parnaso che con
queste ciance mescolarmi tra voi. E son di quegli
ancora che, piú dispettosamente che saviamente
parlando, hanno detto che io farei piú discretamente a
pensare donde io dovessi aver del pane che dietro a
queste frasche andarmi pascendo di vento. E certi
altri, in altra guisa essere state le cose da me
raccontatevi che come io lo vi porgo, s’ingegnano in
detrimento della mia fatica di dimostrare. Adunque, da
cotanti e da cosí fatti soffiamenti, da cosí atroci
denti, da cosí aguti strali, valorose donne, mentre io
ne’ vostri servigi milito, sono sospinto, molestato ed
infino nel vivo trafitto. Le quali cose io con
piacevole animo, sallo Iddio, ascolto ed intendo; e
quantunque a voi in ciò tutta appartenga la mia
difesa, nondimeno io non intendo di risparmiar le mie
forze: anzi, senza rispondere quanto si converrebbe,
con alcuna leggera risposta tôrmegli dagli orecchi, e
questo far senza indugio, per ciò che, se giá, non
essendo io ancora al terzo della mia fatica venuto,
essi sono molti e molto presummono, io avviso che
avanti che io pervenissi alla fine essi potrebbono in
guisa esser multiplicati, non avendo prima avuta
alcuna repulsa, che con ogni piccola lor fatica mi
metterebbono in fondo, né a ciò, quantunque elle sien
grandi, resistere varrebbero le forze vostre. Ma
avanti che io venga a far la risposta ad alcuno, mi
piace in favor di me raccontare, non una novella
intera, acciò che non paia che io voglia le mie
novelle con quelle di così laudevole compagnia quale
fu quella che dimostrata v’ho, mescolare, ma parte
d’una, acciò che il suo difetto stesso sé mostri non
esser di quelle; ed a’ miei assalitori favellando dico
che |
LA NOVELLA DELLE PAPERE |
INTRODUZIONE ALLA QUARTA GIORNATA (ULTIMA
PARTE)
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Ma avere infino a qui detto della presente novella voglio che mi basti, ed a coloro rivolgermi alli quali l’ho raccontata. Dicono adunque alquanti de’ miei riprensori che io fo male, o giovani donne, troppo ingegnandomi di piacervi, e che voi troppo piacete a me. Le quali cose io apertissimamente confesso, cioè che voi mi piacete e che io m’ingegno di piacere a voi; e domandogli se di questo essi si maravigliano, riguardando, lasciamo stare all’aver conosciuti gli amorosi basciari ed i piacevoli abbracciari ed i congiugnimenti dilettevoli che di voi, dolcissime donne, sovente si prendono, ma solamente ad aver veduto e veder continuamente gli ornati costumi e la vaga bellezza e l’ornata leggiadria ed oltre a ciò la vostra donnesca onestá: quando colui che, nudrito, allevato, accresciuto sopra un monte salvatico e solitario, infra li termini d’una piccola cella, senza altra compagnia che del padre, come vi vide, sole da lui disiderate foste, sole addomandate, sole con l’affezion seguitate. Riprenderannomi, morderannomi, lacererannomi costoro se io, il corpo del quale il cielo produsse tutto atto ad amarvi, ed io dalla mia puerizia l’anima vi disposi sentendo la vertú della luce degli occhi vostri, la soavitá delle parole melliflue e la fiamma accesa da’ pietosi sospiri, se voi mi piacete o se io di piacervi m’ingegno: e spezialmente guardando che voi prima che altro piaceste ad un romitello, ad un giovanetto senza sentimento, anzi ad uno animal salvatico? Per certo chi non v’ama e da voi non disidera d’essere amato, sí come persona che i piaceri né la vertú della naturale affezione né sente né conosce, cosí mi ripiglia: ed io poco me ne curo. E quegli che contro alla mia etá parlando vanno, mostra mal che conoscano che, perché il porro abbia il capo bianco, che la coda sia verde; a’ quali, lasciando il motteggiar dall’un de’ lati, rispondo che io mai a me vergogna non reputerò infino nello stremo della mia vita di dover compiacere a quelle cose alle quali Guido Cavalcanti e Dante Alighieri giá vecchi e messer Cino da Pistoia vecchissimo onor si tennero, e fu lor caro il piacer loro. E se non fosse che uscir sarebbe del modo usato del ragionare, io producerei le istorie in mezzo, e quelle tutte piene mostrerei d’antichi uomini e valorosi, ne’ loro piú maturi anni sommamente avere studiato di compiacere alle donne; il che se essi non sanno, vadano e si l’apparino. Che io con le Muse in Parnaso mi debba stare, affermo che è buon consiglio: ma tuttavia né noi possiamo dimorar con le Muse né esse con essonoi. E quando avviene che l’uomo da lor si parte, dilettarsi di veder cosa che le somigli, questo non è cosa da biasimare: le Muse son donne, e benché le donne quel che le Muse vagliono non vagliano, pure esse hanno nel primo aspetto simiglianza di quelle, sí che, quando per altro non mi piacessero, per quello mi dovrebber piacere; senza che, le donne giá mi fûr cagione di comporre mille versi, dove le Muse mai non mi furono di farne alcun cagione. Aiutaronmi elle bene e mostraronmi comporre que’ mille: e forse a queste cose scrivere, quantunque sieno umilissime, si sono elle venute parecchie volte a starsi meco, in servigio forse ed in onore della simiglianza che le donne hanno ad esse; per che, queste cose tessendo, né dal monte Parnaso né dalle Muse non mi allontano quanto molti per avventura s’avvisano. Ma che direm noi a coloro che della mia fame hanno tanta compassione, che mi consigliano che io procuri del pane? Certo io non so, se non che, volendo meco pensare quale sarebbe la loro risposta se io per bisogno loro ne domandassi, m’avviso che direbbono: — Va’ cercane tra le favole. — E giá piú ne trovarono tra le loro favole i poeti, che molti ricchi tra’ loro tesori, ed assai giá, dietro alle loro favole andando, fecero la loro etá fiorire, dove in contrario molti nel cercar d’aver piú pane che bisogno non era loro, perirono acerbi. Che piú? Caccinmi via questi cotali qualora io ne domando loro: se non che, la Dio mercé, ancora non mi bisogna; e quando pur sopravvenisse il bisogno, io so, secondo l’Apostolo, abbondare e necessitá sofferire: e per ciò a niun caglia piú di me che a me. Quegli che queste cose cosí non essere state dicono, avrei molto caro che essi recassero gli originali, li quali se a quel che io scrivo discordanti fossero, giusta direi la lor riprensione e d’ammendar me stesso m’ingegnerei: ma infino che altro che parole non apparisce, io gli lascerò con la loro oppinione, seguitando la mia, di loro dicendo quello che essi di me dicono. E volendo per questa volta assai aver risposto, dico che dell’aiuto di Dio e del vostro, gentilissime donne, nel quale io spero, armato, e di buona pazienza, con esso procederò avanti, dando le spalle a questo vento e lasciandol soffiar, per ciò che io non veggio che di me altro possa avvenire che quello che della minuta polvere avviene, la quale, spirante turbo, o egli di terra non la muove, o se la muove, la porta in alto e spesse volte sopra le teste degli uomini, sopra le corone dei re e degl’imperadori, e talvolta sopra gli alti palagi e sopra le eccelse torri la lascia; delle quali se ella cade, piú giú andar non può che il luogo onde levata fu. E se mai con tutta la mia forza a dovervi in cosa alcuna compiacere mi disposi, ora piú che mai mi vi disporrò, per ciò che io conosco che altra cosa dir non potrá alcuno con ragione, se non che gli altri ed io, che v’amiamo, naturalmente operiamo; alle cui leggi voler contrastare troppo gran forze bisognano, e spesse volte non solamente invano, ma con grandissimo danno del faticante s’adoperano. Le quali forze io confesso che io non l’ho né d’averle disidero in questo, e se io l’avessi, piú tosto ad altrui le presterei che io per me l’adoperassi. Per che tacciansi i morditori, e se essi riscaldar non si possono, assiderati si vivano, e ne’ lor diletti, anzi appetiti corrotti, standosi, me nel mio questa brieve vita che posta n’è lascino stare. Ma da ritornare è, per ciò che assai vagati siamo, o belle donne, lá onde ci dipartimmo, e l’ordine cominciato seguire. |
CONCLUSIONE DELL'AUTORE |
Nobilissime
giovani, a consolazion delle quali io a cosí lunga
fatica messo mi sono, io mi credo, aiutantemi la
divina grazia, sí come io avviso, per li vostri
pietosi prieghi, non giá per li miei meriti, quello
compiutamente aver fornito che io nel principio della
presente opera promisi di dover fare; per la qual
cosa, Iddio primieramente ed appresso voi
ringraziando, è da dare alla penna ed alla man
faticata riposo. Il quale prima che io le conceda,
brievemente ad alcune cosette, le quali forse alcuna
di voi o altri potrebbe dire; con ciò sia cosa che a
me paia esser certissimo, queste non dovere avere
spezial privilegio piú che l’altre cose, anzi non
averlo mi ricorda nel principio della quarta giornata
aver mostrato; quasi a tacite quistion mosse, di
rispondere intendo. Saranno per avventura alcune di
voi che diranno che io abbia nello scriver queste
novelle troppa licenza usata, sí come in fare alcuna
volta dire alle donne e molto spesso ascoltare cose
non assai convenienti né a dire né ad ascoltare ad
oneste donne. La qual cosa io nego, per ciò che niuna
sí disonesta n’è, che, con onesti vocaboli dicendola,
si disdica ad alcuno; il che qui mi pare assai
convenevolmente bene aver fatto. Ma presuppognamo che
cosí sia, ché non intendo di piatir con voi, che mi
vincereste: dico che, a rispondere perché io abbia ciò
fatto, assai ragion vengon prontissime. Primieramente,
se alcuna cosa in alcuna n’è, le qualitá delle novelle
l’hanno richesta, le quali se con ragionevole occhio
da intendente persona fien riguardate, assai aperto
sará [p. 324 modifica]conosciuto, se io quelle della
lor forma trar non avessi voluto, altramenti raccontar
non poterle. E se forse pure alcuna particella è in
quelle, alcuna paroletta piú liberale che forse a
spigolistra donna non si conviene, le quali piú le
parole pesan che i fatti e piú d’apparer s’ingegnan
che d’esser buone, dico che piú non si dèe a me esser
disdetto d’averle scritte che generalmente si disdica
agli uomini ed alle donne di dir tuttodí «fóro» e
«caviglia» e «mortaio» e «pestello» e «salsiccia» e
«mortadello», e tutto pien di simigliami cose. Senza
che, alla mia penna non dèe essere meno d’autoritá
conceduta che sia al pennello del dipintore, il quale
senza alcuna riprensione, o almen giusta, lasciamo
stare che egli faccia a san Michele ferire il serpente
con la spada o con la lancia ed a san Giorgio il
dragone, dove gli piace, ma egli fa Adamo maschio ed
Eva femina, ed a Lui medesimo che volle per la salute
dell’umana generazione sopra la croce morire, quando
con un chiovo e quando con due i piè gli conficca in
quella. Appresso, assai ben si può conoscere che
queste cose non nella chiesa, delle cui cose e con
animi e con vocaboli onestissimi si convien dire;
quantunque nelle sue istorie d’altramenti fatte che le
scritte da me si truovino assai; né ancora nelle
scuole de’ filosofanti, dove l’onestá non meno che in
altra parte è richesta, né tra chericj né tra filosofi
in alcun luogo, ma ne’ giardini, in luogo di sollazzo,
tra persone giovani, benché mature e non pieghevoli
per novelle, in tempo nel quale andar con le brache in
capo per iscampo di sé era alli piú onesti non
disdicevole, dette sono. Le quali, chenti che elle si
sieno, e nuocere e giovar possono, sí come possono
tutte l’altre cose, avendo riguardo all’ascoltatore.
Chi non sa che è il vino ottima cosa a’ viventi,
secondo Cinciglione e Scolaio ed assai altri, ed a
colui che ha la febbre è nocivo? Direm noi, per ciò
che nuoce a’ febricitanti, che sia malvagio? Chi non
sa che il fuoco è utilissimo, anzi necessario a’
mortali? Direm noi, per ciò che egli arde le case e le
ville e le cittá, che sia malvagio? L’armi similmente
la salute difendon di coloro che paceficamente di
viver disiderano: ed anche uccidon gli uomini molte
volte, non per malizia di loro, ma di coloro che
malvagiamente [p. 325 modifica]l’adoperano. Niuna
corrotta mente intese mai sanamente parola: e così
come l’oneste a quella non giovano, così quelle che
tanto oneste non sono la ben disposta non posson
contaminare se non come il loto i solari raggi o le
terrene brutture le bellezze del cielo. Quali libri,
quali parole, quali lettere son più sante, più degne,
più reverende che quelle della divina Scrittura? E si
sono egli stati assai che, quelle perversamente
intendendo, sé ed altrui a perdizione hanno tratto.
Ciascuna cosa in se medesima è buona ad alcuna cosa, e
male adoperata può essere nociva di molte; e così dico
delle mie novelle. Chi vorrà da quelle malvagio
consiglio o malvagia operazion trarre, elle nol
vieteranno ad alcuno, se forse in sé l’hanno, e torte
e tirate fieno ad averlo; e chi utilità e frutto ne
vorrà, elle nol negheranno, né sarà mai che altro che
utili ed oneste sien dette o tenute, se a que’ tempi o
a quelle persone si leggeranno per cui e pe’ quali
state son raccontate. Chi ha a dir paternostri o a
fare il migliaccio o la torta al suo divoto, lascile
stare; elle non correranno di dietro a niuna a farsi
leggere: benché e le pinzochere altressi dicono ed
anche fanno delle cosette otta per vicenda! Saranno
similmente di quelle che diranno, qui esserne alcune
che, non essendoci, sarebbe stato assai meglio.
Concedasi: ma io non potea né doveva scrivere se non
le raccontate, e per ciò esse che le dissero le
dovevan dir belle, ed io l’avrei scrìtte belle. Ma se
pur presuppor si volesse che io fossi stato di quelle
e lo ’nventore e lo scrittore, che non fui, dico che
io non mi vergognerei che tutte belle non fossero, per
ciò che maestro alcun non si truova, da Dio in fuori,
che ogni cosa faccia bene e compiutamente: e Carlo
Magno, che fu il primo facitor di paladini, non ne
seppe tanti creare, che esso di lor soli potesse fare
oste. Conviene, nella moltitudine delle cose, diverse
qualità di cose trovarsi. Niun campo fu mai sì ben
coltivato, che in esso o ortica o triboli o alcun
pruno non si trovasse mescolato tra l’erbe migliori.
Senza che, ad avere a favellare a semplici giovanette,
come voi il più siete, sciocchezza sarebbe stata
l’andar cercando e faticandosi in trovar cose molto
esquisite e gran cura porre di molto misuratamente
parlare. [p. 326 modifica]Tuttavia chi va tra queste
leggendo, lasci star quelle che pungono, e quelle che
dilettano legga: elle, per non ingannare alcuna
persona, tutte nella fronte portan segnato quello che
esse dentro dal loro seno nascoso tengono. Ed ancora,
credo, sará tal che dirá che ve ne son di troppo
lunghe; alle quali ancora dico che chi ha altra cosa a
fare, follia fa a queste leggere, eziandio se brievi
fossero. E come che molto tempo passato sia da poi che
io a scriver cominciai infino a questa ora che io alla
fine vengo della mia fatica, non m’è per ciò uscito di
mente, me avere questo mio affanno offerto all’oziose
e non all’altre: ed a chi per tempo passar legge,
niuna cosa puote esser lunga, se ella quel fa per che
egli l’adopera. Le cose brievi si convengon molto
meglio agli studianti, li quali non per passare ma per
utilmente adoperare il tempo faticano, che a voi
donne, alle quali tanto del tempo avanza quanto negli
amorosi piaceri non ispendete; ed oltre a questo, per
ciò che né ad Atene né a Bologna o a Parigi alcuna di
voi non va a studiare, piú distesamente parlarvi si
conviene che a quegli che hanno negli studi gl’ingegni
assottigliati. Né dubito punto che non sien di quelle
ancor che diranno, le cose dette esser troppo piene e
di motti e di ciance, e mal convenirsi ad uno uomo
pesato e grave aver cosí fattamente scritto. A queste
sono io tenuto di render grazie e rendo, per ciò che,
da buon zelo movendosi, tènere sono della mia fama. Ma
cosí alla loro opposizion vo’ rispondere: io confesso
d’esser pesato, e molte volte de’ miei di essere
stato; e per ciò, parlando a quelle che pesato non
m’hanno, affermo che io non son grave, anzi sono io sì
lieve, che io sto a galla nell’acqua: e considerato
che le prediche fatte da’ frati per rimorder delle lor
colpe gli uomini, il piú oggi piene di motti e di
ciance e di scede si veggiono, estimai che quegli
medesimi non istesser male nelle mie novelle, scritte
per cacciar la malinconia delle femine. Tuttavia, se
troppo per questo ridessero, il lamento di Geremia, la
passione del Salvatore ed il ramarichio della
Maddalena ne le potrá agevolmente guerire. E chi stará
in pensiero che ancor di quelle non si truovino che
diranno che io abbia mala lingua e velenosa, per ciò
[p. 327 modifica]che in alcun luogo scrivo il ver de’
frati? A queste che così diranno si vuol perdonare,
per ciò che non è da credere che altro che giusta
cagione le muova, per ciò che i frati son buone
persone e fuggono il disagio per l’amor di Dio, e
macinano a raccolta e nol ridicono: e se non che di
tutti un poco vien del caprino, troppo sarebbe piú
piacevole il piato loro. Confesso nondimeno, le cose
di questo mondo non avere stabilitá alcuna, ma sempre
essere in mutamento, e cosí potrebbe della mia lingua
essere intervenuto; la quale, non credendo io al mio
giudicio, il quale a mio potere io fuggo nelle mie
cose, non ha guari mi disse una mia vicina che io
l’aveva la migliore e la piú dolce del mondo: ed in
veritá, quando questo fu, egli erano poche a scrivere
delle soprascritte novelle. E per ciò che animosamente
ragionan quelle cotali, voglio che quello che è detto
basti lor per risposta. E lasciando omai a ciascuna e
dire e credere come le pare, tempo è da por fine alle
parole, Colui umilmente ringraziando che dopo sì lunga
fatica col suo aiuto m’ha al disiderato fine condotto:
e voi, piacevoli donne, con la sua grazia in pace vi
rimanete, di me ricordandovi, se ad alcuna forse
alcuna cosa giova l’averle lette. QUI FINISCE LA DECIMA E ULTIMA GIORNATA
DEL LIBRO CHIAMATO DECAMERON |