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In corsivo i brani e i titoli dal Decameron |
PROEMIO |
COMINCIA IL LIBRO CHIAMATO DECAMERON
COGNOMINATO PRENCIPE GALEOTTO
UMANA
COSA è aver compassione degli afflitti: e come che
a ciascuna persona stea bene, a coloro è
massimamente richesto li quali già hanno di conforto
avuto mestiere e hannol trovato in alcuni; fra’
quali, se alcuno mai n’ebbe bisogno o gli fu caro o
già ne ricevette piacere, io sono uno di quegli. Per
ciò che, dalla mia prima giovanezza infino a questo
tempo oltre modo essendo acceso stato d’altissimo e
nobile amore, forse più assai che alla mia bassa
condizione non parrebbe, narrandolo, si richiedesse,
quantunque appo coloro che discreti erano e alla cui
notizia pervenne io ne fossi lodato e da molto più
reputato, nondimeno mi fu egli di grandissima fatica
a sofferire, certo non per crudeltà della donna
amata, ma per soverchio fuoco nella mente concetto
da poco regolato appetito: il quale, per ciò
che a niuno convenevole termine mi lasciava contento
stare, più di noia che bisogno non m’era spesse
volte sentir mi facea. Nella qual noia tanto
rifrigerio già mi porsero i piacevoli ragionamenti
d’alcuno amico e le sue laudevoli consolazioni, che io
porto fermissima opinione per quelle essere avenuto
che io non sia morto. Ma sì come a Colui piacque
il quale, essendo Egli infinito, diede per legge
incommutabile a tutte le cose mondane aver fine, il
mio amore, oltre a ogn’altro fervente e il quale
niuna forza di proponimento o di consiglio o di
vergogna evidente, o pericolo che seguir ne potesse,
aveva potuto né rompere né piegare, per se medesimo
in processo di tempo si diminuì in guisa, che sol di
sé nella mente m’ha al presente lasciato quel
piacere che egli è usato di porgere a chi troppo non
si mette ne’ suoi più cupi pelaghi navigando; per
che, dove faticoso esser solea, ogni affanno
togliendo via, dilettevole il sento esser rimaso.
Ma quantunque cessata sia la pena, non per ciò è la memoria fuggita de’ benifici già ricevuti, datimi da coloro a’ quali per benivolenza da loro a me portata erano gravi le mie fatiche; né passerà mai, sì come io credo, se non per morte. E per ciò che la gratitudine, secondo che io credo, trall’altre virtù è sommamente da commendare e il contrario da biasimare, per non parere ingrato ho meco stesso proposto di volere, in quel poco che per me si può, in cambio di ciò che io ricevetti, ora che libero dir mi posso, e se non a coloro che me atarono, alli quali per avventura per lo lor senno o per la loro buona ventura non abisogna, a quegli almeno a’ quali fa luogo, alcuno alleggiamento prestare. E quantunque il mio sostentamento, o conforto che vogliam dire, possa essere e sia a’ bisognosi assai poco, nondimeno parmi quello doversi più tosto porgere dove il bisogno apparisce maggiore, sì perché più utilità vi farà e sì ancora perché più vi fia caro avuto. E chi negherà questo, quantunque egli si sia, non molto più alle vaghe donne che agli uomini convenirsi donare? Esse dentro a’ dilicati petti, temendo e vergognando, tengono l’amorose fiamme nascose, le quali quanto più di forza abbian che le palesi coloro il sanno che l’hanno provate: e oltre a ciò, ristrette da’ voleri, da’ piaceri, da’ comandamenti de’ padri, delle madri, de’ fratelli e de’ mariti, il più del tempo nel piccolo circuito delle loro camere racchiuse dimorano e quasi oziose sedendosi, volendo e non volendo in una medesima ora, seco rivolgendo diversi pensieri, li quali non è possibile che sempre sieno allegri. E se per quegli alcuna malinconia, mossa da focoso disio, sopraviene nelle lor menti, in quelle conviene che con grave noia si dimori, se da nuovi ragionamenti non è rimossa: senza che elle sono molto men forti che gli uomini a sostenere; il che degli innamorati uomini non avviene, sì come noi possiamo apertamente vedere. Essi, se alcuna malinconia o gravezza di pensieri gli affligge, hanno molti modi da alleggiare o da passar quello, per ciò che a loro, volendo essi, non manca l’andare a torno, udire e veder molte cose, uccellare, cacciare, pescare, cavalcare, giucare o mercatare: de’ quali modi ciascuno ha forza di trarre, o in tutto o in parte,l’animo a sé e dal noioso pensiero rimuoverlo almeno per alcuno spazio di tempo, appresso il quale, con un modo o con altro, o consolazion sopraviene o diventa la noia minore. Adunque, acciò che in parte per me s’amendi il peccato della fortuna, la quale dove meno era di forza, sì come noi nelle dilicate donne veggiamo, quivi più avara fu di sostegno, in soccorso e rifugio di quelle che amano, per ciò che all’altre è assai l’ago e ‘l fuso e l’arcolaio, intendo di raccontare cento novelle, o favole o parabole o istorie che dire le vogliamo, raccontate in diece giorni da una onesta brigata di sette donne e di tre giovani nel pistelenzioso tempo della passata mortalità fatta, e alcune canzonette dalle predette donne cantate al lor diletto. Nelle quali novelle piacevoli e aspri casi d’amore e altri fortunati avvenimenti si vederanno così ne’ moderni tempi avvenuti come negli antichi; delle quali le già dette donne, che queste leggeranno, parimente diletto delle sollazzevoli cose in quelle mostrate e utile consiglio potranno pigliare, in quanto potranno cognoscere quello che sia da fuggire e che sia similmente da seguitare: le quali cose senza passamento di noia non credo che possano intervenire. Il che se avviene, che voglia Idio che così sia, a Amore ne rendano grazie, il quale liberandomi da’ suoi legami m’ha conceduto il potere attendere a’ lor piaceri. |
È
vero, come dice Freud, che siamo i discendenti di una
lunga catena di assassini, ma è altrettanto vero che
siamo i discendenti di una lunga catena di curatori. È
vero che diamo la morte a noi stessi e ai nostri simili
o ai nostri diversi, ed è vero che scampiamo dalla morte
noi stessi, i nostri simili e i nostri diversi. Un filo delicato come il gambo di un fiore e forte come l'adamante lega Boccaccio e Freud. Il filo ha la potenza e la delicatezza della favole, la stessa delle apparizioni con le quali Prospero conclude i suoi magici giochi sull'isola. |
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INTRODUZIONE
ALLA PRIMA GIORNATA |
DOVE SI
RACCONTA LA PESTE DELL'ANNO 1348 IN FIRENZE |
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Quantunque
volte, graziosissime donne, meco pensando riguardo
quanto voi naturalmente tutte pietose siate, tante
conosco che la presente opera al vostro giudicio avrá
grave e noioso principio, sí come è la dolorosa
ricordazione della pestifera mortalitá trapassata,
universalmente a ciascuno che quella vide o altramenti
conobbe dannosa e lagrimevole molto, la quale essa
porta nella sua fronte. Ma non voglio per ciò che
questo di piú avanti leggere vi spaventi, quasi sempre
tra’ sospiri e tra le lagrime leggendo dobbiate
trapassare. Questo orrido cominciamento vi fia non
altramenti che a’ camminanti una montagna aspra ed
erta, appresso la quale un bellissimo piano e
dilettevole sia riposto, il quale tanto piú viene loro
piacevole quanto maggiore è stata del salire e dello
scendere la gravezza. E sí come la stremitá
dell’allegrezza il dolore occupa, cosí le miserie da
sopravvegnente letizia sono terminate. A questa brieve
noia; dico brieve in quanto in poche lettere si
contiene; seguirá prestamente la dolcezza ed il
piacere il quale io v’ho davanti promesso e che forse
da cosí fatto inizio non sarebbe, se non si dicesse,
aspettato. E nel vero, se io potuto avessi onestamente
per altra parte menarvi a quello che io disidero che
per cosí aspro sentiero come fia questo, io l’avrei
volentier fatto: ma per ciò che qual fosse la cagione
per che le cose che appresso si leggeranno
avvenissono, non si poteva senza questa rammemorazion
dimostrare, quasi da necessitá costretto a scriverle
mi conduco. |
LA PESTE DELL'ANNO 1348 IN FIRENZE
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Dico
adunque che giá erano gli anni della fruttifera
Incarnazione del Figliuolo di Dio al numero pervenuti
di milletrecentoquarantotto, quando nell’egregia cittá
di Firenze, oltre ad ogni altra italica nobilissima,
pervenne la mortifera pestilenza, la quale o per
operazion de’ corpi superiori o per le nostre inique
opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata
sopra i mortali, alquanti anni davanti nelle parti
orientali incominciata, quelle d’innumerabile quantitá
di viventi avendo private, senza ristare d’un luogo in
uno altro continuandosi, inverso l’Occidente
miserabilmente s’era ampliata. Ed in quella non
valendo alcun senno né umano provvedimento, per lo
quale fu da molte immondizie purgata la cittá da
uficiali sopra ciò ordinati e vietato l’entrarvi
dentro a ciascuno infermo e molti consigli dati a
conservazione della sanitá, né ancora umili
supplicazioni non una volta ma molte ed in processioni
ordinate ed in altre guise a Dio fatte dalle divote
persone; quasi nel principio della primavera dell’anno
predetto orribilmente cominciò i suoi dolorosi
effetti, ed in miracolosa maniera, a dimostrare. E non
come in Oriente aveva fatto, dove a chiunque usciva
sangue del naso era manifesto segno d’inevitabile
morte: ma nascevano nel cominciamento d’essa a’ maschi
ed alle femine parimente o nell’anguinaia o sotto le
ditella certe enfiature, delle quali alcune crescevano
come una comunal mela ed altre come uno uovo, ed
alcuna piú ed alcuna meno, le quali li volgari
nominavan «gavoccioli». E dalle due parti predette del
corpo infra brieve spazio di tempo cominciò il giá
detto gavocciolo mortifero indifferentemente in ogni
parte di quello a nascere ed a venire: ed appresso
questo, si cominciò la qualitá della predetta
infermitá a permutare in macchie nere o livide, le
quali nelle braccia e per le cosce ed in ciascuna
altra parte del corpo apparivano a molti, a cui grandi
e rade ed a cui minute e spesse. E come il gavocciolo
primieramente era stato ed ancora era certissimo
indizio di futura morte, e cosí erano queste a
ciascuno a cui venivano. A cura delle quali infermitá
né consiglio di medico né vertú di medicina alcuna
pareva che valesse o facesse profitto: anzi, o che la
natura del malore nol patisse o che l’ignoranza de’
medicanti, de’ quali, oltre al numero degli
scienziati, cosí di femine come d’uomini senza avere
alcuna dottrina di medicina avuta mai, era il numero
divenuto grandissimo, non conoscesse da che si movesse
e per conseguente debito argomento non vi prendesse,
non solamente pochi ne guerivano, anzi quasi tutti
infra il terzo giorno dall’apparizione de’ sopraddetti
segni, chi piú tosto e chi meno, ed i piú senza alcuna
febbre o altro accidente morivano. E fu questa
pestilenza di maggior forza per ciò che essa
dagl’infermi di quella per lo comunicare insieme
s’avventava a’ sani, non altramenti che faccia il
fuoco alle cose secche o unte quando molto vi sono
avvicinate. E piú avanti ancora ebbe di male: ché non
solamente il parlare e l’usare con gl’infermi dava a’
sani infermitá o cagione di comune morte, ma ancora il
toccare i panni e qualunque altra cosa da quegli
infermi stata tócca o adoperata pareva seco quella
cotale infermitá nel toccator trasportare.
Maravigliosa cosa è ad udire quello che io debbo dire,
il che se dagli occhi di molti e da’ miei non fosse
stato veduto, appena che io ardissi di crederlo, non
che di scriverlo, quantunque da fede degna persona
udito l’avessi. Dico che di tanta efficacia fu la
qualitá della pestilenza narrata nell’appiccarsi da
uno ad altro, che non solamente l’uomo all’uomo, ma
questo, che è molto piú, assai volte visibilmente
fece, cioè che la cosa dell’uomo infermo stato, o
morto di tale infermitá, tócca da uno altro animale
fuori della spezie dell’uomo, non solamente della
’nfermitá il contaminasse, ma quello infra brevissimo
spazio uccidesse. Di che gli occhi miei, sí come poco
davanti è detto, presero tra l’altre volte, un dí,
cosí fatta esperienza, che, essendo gli stracci d’un
povero uomo da tale infermitá morto gittati nella via
publica ed avvenendosi ad essi due porci, e quegli,
secondo il lor costume, prima molto col grifo e poi
co’ denti presigli e scossiglisi alle guance, in
piccola ora appresso, dopo alcuno avvolgimento, come
se veleno avesser preso, ammenduni sopra li mal tirati
stracci morti caddero in terra. Dalle quali cose e da
assai altre a queste simiglianti o maggiori nacquero
diverse paure ed imaginazioni in quegli che rimanevano
vivi: e tutti quasi ad un fine tiravano assai crudele,
ciò era di schifare e di fuggire gl’infermi e le lor
cose; e cosí faccendo, si credeva ciascuno a se
medesimo salute acquistare. Ed erano alcuni, li quali
avvisavano che il viver moderatamente ed il guardarsi
da ogni superfluitá avesse molto a cosí fatto
accidente resistere: e fatta lor brigata, da ogni
altro separati viveano, ed in quelle case
ricogliendosi e racchiudendosi dove niuno infermo
fosse e da viver meglio, dilicatissimi cibi ed ottimi
vini temperatissimamente usando ed ogni lussuria
fuggendo, senza lasciarsi parlare ad alcuno o volere
di fuori, di morte o d’infermi alcuna novella sentire,
con suoni e con quegli piaceri che aver poteano si
dimoravano. Altri, in contraria oppinion tratti,
affermavano, il bere assai ed il godere e l’andar
cantando attorno e sollazzando ed il sodisfare d’ogni
cosa all’appetito, che si potesse, e di ciò che
avveniva ridersi e beffarsi esser medicina certissima
a tanto male: e cosí come il dicevano, il mettevano in
opera a lor potere, il giorno e la notte ora a quella
taverna ora a quella altra andando, bevendo senza modo
e senza misura, e molto piú ciò per l’altrui case
faccendo, solamente che cose vi sentissero che lor
venissero a grado o in piacere. E ciò potevan far di
leggeri, per ciò che ciascun, quasi non piú viver
dovesse, aveva, sí come sè, le sue cose messe in
abbandono, di che le piú delle case erano divenute
comuni, e cosí l’usava lo straniere, pure che ad esse
s’avvenisse, come l’avrebbe il proprio signore usate;
e con tutto questo proponimento bestiale sempre
gl’infermi fuggivano a lor potere. Ed in tanta
afflizione e miseria della nostra cittá era la
reverenda autoritá delle leggi, cosí divine come
umane, quasi caduta e dissoluta tutta per li ministri
ed esecutori di quelle, li quali, sí come gli altri
uomini, erano tutti o morti o infermi o sí di famiglie
rimasi stremi, che uficio alcuno non potean fare; per
la qual cosa era a ciascun licito quanto a grado gli
era, d’adoperare. Molti altri servavano, tra questi
due di sopra detti, una mezzana via: non istrignendosi
nelle vivande quanto i primi né nel bere e nell’altre
dissoluzioni allargandosi quanto i secondi, ma a
sufficienza secondo gli appetiti le cose usavano e
senza rinchiudersi andavano attorno, portando nelle
mani chi fiori, chi erbe odorifere e chi diverse
maniere di spezierie, quelle al naso ponendosi spesso,
estimando essere ottima cosa il cerebro con cotali
odori confortare, con ciò fosse cosa che l’aere tutto
paresse dal puzzo de’ morti corpi e delle ’nfermitá e
delle medicine compreso e puzzolente. Alcuni erano di
piú crudel sentimento, come che per avventura piú
fosse sicuro, dicendo niuna altra medicina essere
contro alle pestilenze migliore né cosí buona come il
fuggir loro davanti: e da questo argomento mossi, non
curando d’alcuna cosa se non di sè, assai ed uomini e
donne abbandonarono la propria cittá, le proprie case,
i lor luoghi ed i lor parenti e le lor cose, e
cercarono l’altrui o almeno il lor contado, quasi
l’ira di Dio, a punire l’iniquitá degli uomini, con
quella pestilenza non dove fossero procedesse, ma
solamente a coloro opprimere li quali dentro alle mura
della lor cittá si trovassero, commossa intendesse, o
quasi avvisando, niuna persona in quella dover
rimanere e la sua ultima ora esser venuta. E come che
questi cosí variamente oppinanti non morissero tutti,
non per ciò tutti campavano: anzi, intermandone di
ciascuna molti ed in ogni luogo, avendo essi stessi,
quando sani erano, esemplo dato a coloro che sani
rimanevano, quasi abbandonati per tutto languieno. E
lasciamo stare che l’un cittadino l’altro schifasse e
quasi niun vicino avesse dell’altro cura ed i parenti
insieme rade volte o non mai si visitassero e di
lontano, era con sí fatto spavento questa tribulazione
entrata ne’ petti degli uomini e delle donne, che l’un
fratello l’altro abbandonava ed il zio il nepote e la
sorella il fratello e spesse volte la donna il suo
marito, e che maggior cosa è e quasi non credibile, li
padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero,
di visitare e di servire schifavano. Per la qual cosa
a coloro, de’ quali era la moltitudine inestimabile, e
maschi e femine, che infermavano, niuno altro sussidio
rimase che o la caritá degli amici, e di questi fûr
pochi, o l’avarizia de’ serventi li quali da grossi
salari e sconvenevoli tratti servieno, quantunque per
tutto ciò molti non fossero divenuti: e quegli cotanti
erano uomini o femine di grosso ingegno, ed i piú, di
tali servigi non usati, li quali quasi di niuna altra
cosa servieno che di porgere alcune cose dagl’infermi
addomandate o di riguardare quando morieno; e servendo
in tal servigio, sé molte volte col guadagno perdeano.
E da questo essere abbandonati gl’infermi da’ vicini,
da’ parenti e dagli amici, ed avere scarsitá di
serventi, discorse uno uso quasi davanti mai non
udito, che niuna quantunque leggiadra o bella o gentil
donna fosse, infermando, non curava d’avere a’ suoi
servigi uomo, qual che egli si fosse, o giovane o
altro, ed a lui senza alcuna vergogna ogni parte del
corpo aprire non altramenti che ad una femina avrebbe
fatto, solo che la necessitá della sua infermitá il
richiedesse; il che in quelle che ne guerirono fu
forse di minore onestá, nel tempo che succedette,
cagione. Ed oltre a questo ne seguí la morte di molti
che per avventura, se stati fossero aiutati, campati
sarieno; di che, tra per lo difetto degli opportuni
servigi, li quali gl’infermi aver non poteano, e per
la forza della pestilenza, era tanta nella cittá la
moltitudine di quegli che di dí e di notte morieno,
che uno stupore era ad udir dire, non che a
riguardarlo. Per che, quasi di necessitá, cose
contrarie a’ primi costumi de’ cittadini nacquero tra
coloro li quali rimanean vivi. Era usanza, sì come
ancora oggi veggiamo usare, che le donne parenti e
vicine nella casa del morto si ragunavano, e quivi con
quelle che piú gli appartenevano piagnevano; e d’altra
parte dinanzi alla casa del morto co’ suoi prossimi si
ragunavano i suoi vicini ed altri cittadini assai, e
secondo la qualitá del morto vi veniva il chericato,
ed egli sopra gli omeri de’ suoi pari, con funeral
pompa di cera e di canti, alla chiesa da lui prima
eletta anzi la morte n’era portato. Le quali cose, poi
che a montar cominciò la ferocitá della pestilenza, o
in tutto o in maggior parte quasi cessarono ed altre
nuove in lor luogo ne sopravvennero. Per ciò che, non
solamente senza aver molte donne da torno morivan le
genti, ma assai n’eran di quegli che di questa vita
senza testimonio trapassavano: e pochissimi erano
coloro a’ quali i pietosi pianti e l’amare lagrime de’
suoi congiunti fossero concedute, anzi in luogo di
quelle s’usavano per li piú risa e motti e festeggiar
compagnevole; la quale usanza le donne, in gran parte
posposta la donnesca pietá per salute di loro, avevano
ottimamente appresa. Ed erano radi coloro i corpi de’
quali fosser piú che da un diece o dodici de’ suoi
vicini alla chiesa accompagnati; li quali non gli
orrevoli e cari cittadini, ma una maniera di
beccamorti sopravvenuti di minuta gente, che chiamar
si facevan «becchini», la quale questi servigi
prezzolata faceva, sottentravano alla bara, e quella
con frettolosi passi, non a quella chiesa che esso
aveva anzi la morte disposto, ma alla piú vicina le
piú volte il portavano, dietro a quattro o a sei
cherici con poco lume, e talfiata senza alcuno; li
quali con l’aiuto de’ detti becchini, senza faticarsi
in troppo lungo uficio o solenne, in qualunque
sepoltura disoccupata trovavano piú tosto il
mettevano. Della minuta gente, e forse in gran parte
della mezzana, era il ragguardamento di molto maggior
miseria pieno: per ciò che essi, il piú o da speranza
o da povertá ritenuti nelle lor case, nelle lor
vicinanze standosi, a migliaia per giorno infermavano,
e non essendo né serviti né aiutati d’alcuna cosa,
quasi senza alcuna redenzione tutti morivano. Ed assai
n’erano che nella strada publica o di dí o di notte
finivano, e molti, ancora che nelle case finissero,
prima col puzzo de’ lor corpi corrotti che altramenti
facevano a’ vicini sentire sé esser morti: e di questi
e degli altri che per tutto morivano, tutto pieno. Era
il piú da’ vicini una medesima maniera servata, mossi
non meno da tema che la corruzione de’ morti non gli
offendesse, che da caritá la quale avessero a’
trapassati. Essi, e per se medesimi e con l’aiuto
d’alcuni portatori, quando averne potevano, traevano
delle lor case li corpi de’ giá passati, e quegli
davanti alli loro usci ponevano, dove, la mattina
spezialmente, n’avrebbe potuti veder senza numero chi
fosse attorno andato: e quindi fatte venir bare, e
tali furono che per difetto di quelle sopra alcuna
tavola ne ponieno. Né fu una bara sola quella che due
o tre ne portò insiememente; né avvenne pure una
volta, ma se ne sarieno assai potute annoverare di
quelle che la moglie ed il marito, li due o tre
fratelli, o il padre ed il figliuolo, o cosí
fattamente ne contenieno. Ed infinite volte avvenne
che, andando due preti con una croce per alcuno, si
misero tre o quattro bare, da’ portatori portate, di
dietro a quella: e dove un morto credevano avere i
preti a sepellire, n’avevano sei o otto, e talfiata
piú. Né erano per ciò questi da alcuna lagrima o lume
o compagnia onorati, anzi era la cosa pervenuta a
tanto, che non altramenti si curava degli uomini che
morivano, che ora si curerebbe di capre; per che assai
manifestamente apparve che quello che il naturale
corso delle cose non avea potuto con piccoli e radi
danni a’ savi mostrare doversi con pazienza passare,
la grandezza de’ mali eziandio i semplici far di ciò
scorti e noncuranti. Alla gran moltitudine de’ corpi
mostrata, che ad ogni chiesa ogni dí e quasi ogni ora
concorreva portata, non bastando la terra sacra alle
sepolture, e massimamente volendo dare a ciascun luogo
proprio secondo l’antico costume, si facevano per li
cimiteri delle chiese, poi che ogni parte era piena,
fosse grandissime nelle quali a centinaia si mettevano
i sopravvegnenti: ed in quelle stivati, come si
mettono le mercatantie nelle navi a suolo a suolo, con
poca terra si ricoprieno infino a tanto che della
fossa al sommo si pervenia. Ed acciò che dietro ad
ogni particularitá le nostre passate miserie per la
cittá avvenute piú ricercando non vada, dico che cosí
inimico tempo correndo per quella, non per ciò meno
d’alcuna cosa risparmiò il circostante contado; nel
quale, lasciando star le castella, che simili erano
nella loro piccolezza alla cittá, per le sparte ville
e per li campi i lavoratori miseri e poveri e le loro
famiglie, senza alcuna fatica di medico o aiuto di
servidore, per le vie e per li loro cólti e per le
case, di dí e di notte indifferentemente, non come
uomini ma quasi come bestie morieno. Per la qual cosa
essi cosí nelli loro costumi come i cittadini divenuti
lascivi, di niuna lor cosa o faccenda curavano: anzi
tutti, quasi quel giorno nel quale si vedevano esser
venuti la morte aspettassero, non d’aiutare i futuri
frutti delle bestie e delle terre e delle loro passate
fatiche, ma di consumare quegli che si trovavano
presenti si sforzavano con ogni ingegno. Per che
addivenne che i buoi, gli asini, le pecore, le capre,
i porci, i polli ed i cani medesimi fedelissimi agli
uomini, fuori delle proprie case cacciati, per li
campi, dove ancora le biade abbandonate erano, senza
essere, non che raccolte, ma pur segate, come meglio
piaceva loro se n’andavano: e molti, quasi come
razionali, poi che pasciuti erano bene il giorno, la
notte alle lor case senza alcun correggimento di
pastore si tornavano satolli. Che piú si può dire,
lasciando stare il contado ed alla cittá ritornando,
se non che tanta e tal fu la crudeltá del cielo, e
forse in parte quella degli uomini, che infra il marzo
ed il prossimo luglio vegnente, tra per la forza della
pestifera infermitá e per l’esser molti infermi mal
serviti o abbandonati ne’ lor bisogni per la paura che
aveano i sani, oltre a centomilia creature umane si
crede per certo dentro alle mura della cittá di
Firenze essere stati di vita tolti, che forse, anzi
l’accidente mortifero, non si saria estimato, tanti
avervene dentro avuti? O quanti gran palagi, quante
belle case, quanti nobili abituri per addietro di
famiglie pieni, di signori e di donne, infino al
menomo fante rimaser vòti! O quante memorabili
schiatte, quante ampissime ereditá, quante famose
ricchezze si videro senza successor debito rimanere!
Quanti valorosi uomini, quante belle donne, quanti
leggiadri giovani, li quali non che altri, ma Galieno,
Ipocrate o Esculapio avrieno giudicati sanissimi, la
mattina desinarono co’ lor parenti, compagni ed amici,
che poi la sera vegnente appresso nell’altro mondo
cenaron con li lor passati! |
L'ONESTA BRIGATA IN SANTA MARIA NOVELLA |
A me medesimo incresce andarmi tanto tra tante miserie ravvolgendo; per che, volendo omai lasciare star quella parte di quelle che io acconciamente posso schifare, dico che, stando in questi termini la nostra cittá, d’abitatori quasi vòta, addivenne, sí come io poi da persona degna di fede sentii, che nella venerabile chiesa di Santa Maria Novella, un martedí mattina, non essendovi quasi alcuna altra persona, uditi li divini ufici in abito lugubre, quale a sí fatta stagione si richiedea, si ritrovarono sette giovani donne, tutte l’una all’altra o per amistá o per vicinanza o per parentado congiunte, delle quali niuna il ventiottesimo anno passato avea né era minor di diciotto, savia ciascuna e di sangue nobile e bella di forma ed ornata di costumi e di leggiadra onestá. Li nomi delle quali io in propria forma racconterei, se giusta cagione da dirlo non mi togliesse, la quale è questa, che io non voglio che per le raccontate cose da loro, che seguono, e per l’ascoltate, nel tempo avvenire alcuna di loro possa prender vergogna, essendo oggi alquanto ristrette le leggi al piacere, che allora, per le cagioni di sopra mostrate, erano, non che alla loro etá, ma a troppo piú matura larghissime; né ancora dar materia agl’invidiosi, presti a mordere ogni laudevole vita, di diminuire in niuno atto l’onestá delle valorose donne con isconci parlari. E però, acciò che quello che ciascuna dicesse senza confusione si possa comprendere appresso, per nomi alle qualitá di ciascuna convenienti o in tutto o in parte intendo di nominarle; delle quali la prima, e quella che di piú etá era, Pampinea chiameremo e la seconda Fiammetta, Filomena la terza e la quarta Emilia, ed appresso Lauretta diremo alla quinta ed alla sesta Neifile, e l’ultima Elissa non senza cagion nomeremo. Le quali, non giá da alcuno proponimento tirate, ma per caso in una delle parti della chiesa adunatesi, quasi in cerchio a seder postesi, dopo piú sospiri, lasciato stare il dir de’ paternostri, seco della qualitá del tempo molte e varie cose cominciarono a ragionare; e dopo alcuno spazio, tacendo l’altre, cosi Pampinea cominciò a parlare: — Donne mie care, voi potete, cosí come io, molte volte avere udito che a niuna persona fa ingiuria chi onestamente usa la sua ragione. Natural ragione è, di ciascun che ci nasce, la sua vita, quanto può, aiutare e conservare e difendere: e concedesi questo, tanto che alcuna volta è giá addivenuto che, per guardar quella, senza colpa alcuna si sono uccisi degli uomini. E se questo concedono le leggi, nelle sollecitudini delle quali è il ben vivere d’ogni mortale, quanto maggiormente, senza offesa d’alcuno, è a noi ed a qualunque altro onesto alla conservazione della nostra vita prendere quegli rimedi che noi possiamo! Ognora che io vengo ben ragguardando alli nostri modi di questa mattina ed ancora a quegli di piú altre passate, e pensando chenti e quali li nostri ragionamenti sieno, io comprendo, e voi similemente il potete comprendere, ciascuna di noi di se medesima dubitare: né di ciò mi maraviglio niente, ma maravigliomi forte, avveggendomi ciascuna di noi aver sentimento di donna, non prendersi per noi a quello di che ciascuna meritamente teme alcun compenso. Noi dimoriamo qui, al parer mio, non altramenti che se essere volessimo o dovessimo testimonie di quanti corpi morti ci sieno alla sepoltura recati o d’ascoltare se i frati di qua entro, de’ quali il numero è quasi venuto al niente, alle debite ore cantino i loro ufici, o a dimostrare a qualunque ci apparisce, ne’ nostri abiti, la qualitá e la quantitá delle nostre miserie. E se di quinci usciamo, o veggiamo corpi morti o infermi trasportarsi da torno, o veggiamo coloro li quali per li loro difetti l’autoritá delle publiche leggi giá condannò ad esilio, quasi quelle schernendo per ciò che sentono gli esecutori di quelle o morti o malati, con dispiacevoli impeti per la terra discorrere, o la feccia della nostra cittá, del nostro sangue riscaldata, chiamarsi becchini ed in istrazio di noi andar cavalcando e discorrendo per tutto, con disoneste canzoni rimproverandoci i nostri danni. Né altra cosa alcuna ci udiamo, se non «I cotali son morti» e «Gli altrettali sono per morire»; e se ci fosse chi fargli, per tutto dolorosi pianti udiremmo. E se alle nostre case torniamo, non so se a voi cosí come a me addiviene: io, di molta famiglia, niuna altra persona in quella se non la mia fante trovando, impaurisco e quasi tutti i capelli addosso mi sento arricciare, e parmi, dovunque io vado o dimoro per quella, l’ombre di coloro che sono trapassati vedere, e non con quegli visi che io soleva, ma con una vista orribile non so donde in loro nuovamente venuta spaventarmi. Per le quali cose, e qui e fuori di qui ed in casa mi sembra star male, e tanto piú ancora quanto egli mi pare che niuna persona, la quale abbia alcun polso e dove possa andare, come noi abbiamo, ci sia rimasa altri che noi. Ed ho sentito e veduto piú volte, se pure alcuni ce ne sono, quegli cotali, senza fare distinzione alcuna dalle cose oneste a quelle che oneste non sono, solo che l’appetito le cheggia, e soli ed accompagnati, di dí e di notte, quelle fare che piú di diletto lor porgono; e non che le solute persone, ma ancora le racchiuse ne’ monisteri, faccendosi a credere che quello a lor si convenga e non si disdica che all’altre, rotte dell’obedienza le leggi, datesi a’ diletti carnali, in tal guisa avvisando scampare, son divenute lascive e dissolute. E se cosí è, che essere manifestamente si vede, che facciam noi qui? che attendiamo? che sognamo? Perché piú pigre e lente alla nostra salute che tutto il rimanente de’ cittadini siamo? Reputianci noi men care che tutte l’altre? o crediamo, la nostra vita con piú forti catene esser legata al nostro corpo che quella degli altri sia, e cosí di niuna cosa curar dobbiamo la quale abbia forza d’offenderla? Noi erriamo, noi siamo ingannate, ché bestialitá è la nostra se cosí crediamo; quante volte noi ci vorrem ricordare chenti e quali sieno stati i giovani e le donne vinte da questa crudel pestilenza, noi ne vedremo apertissimo argomento. E per ciò, acciò che noi per ischifiltá o per trascutaggine non cadessimo in quello di che noi per avventura per alcuna maniera volendo potremmo scampare, non so se a voi quello se ne parrá che a me ne parrebbe: io giudicherei ottimamente fatto che noi, sì come noi siamo, sì come molti innanzi a noi hanno fatto e fanno, di questa terra uscissimo, e fuggendo come la morte i disonesti esempli degli altri, onestamente a’ nostri luoghi in contado, de’ quali a ciascuna di noi è gran copia, ce n’andassimo a stare, e quivi quella festa, quell’allegrezza, quello piacere che noi potessimo, senza trapassare in alcuno atto il segno della ragione, prendessimo. Quivi s’odono gli uccelletti cantare, veggionvisi verdeggiare i colli e le pianure, ed i campi pieni di biade non altramenti ondeggiare che il mare, e d’alberi ben mille maniere, ed il cielo piú apertamente, il quale, ancora che crucciato ne sia, non per ciò le sue bellezze eterne ne nega, le quali molto piú belle sono a riguardare che le mura vote della nostra cittá. Ed òvvi, oltre a questo, l’aere assai piú fresco, e di quelle cose che alla vita bisognano in questi tempi v’è la copia maggiore, e minore il numero delle noie: per ciò che, quantunque quivi cosí muoiano i lavoratori come qui fanno i cittadini, v’è tanto minore il dispiacere, quanto vi sono piú che nella cittá rade le case e gli abitanti. E qui d’altra parte, se io ben veggio, noi non abbandoniam persona, anzi ne possiamo con veritá dire molto piú tosto abbandonate: per ciò che i nostri, o morendo o da morte fuggendo, quasi non fossimo loro, sole in tanta afflizione n’hanno lasciate. Niuna riprensione adunque può cadere in cotal consiglio seguire; dolore e noia e forse morte, non seguendolo, potrebbe avvenire. E per ciò, quando vi paia, prendendo le nostre fanti e con le cose opportune faccendoci seguitare, oggi in questo luogo e domane in quello quella allegrezza e festa prendendo che questo tempo può porgere, credo che sia ben fatto a dover fare; e tanto dimorare in tal guisa, che noi veggiamo, se prima da morte non siam sopraggiunte, che fine il cielo riserbi a queste cose. E ricordivi che egli non si disdice piú a noi l’onestamente andare, che faccia a gran parte dell’altre lo star disonestamente. L’altre donne, udita Pampinea, non solamente il suo consiglio lodarono, ma disiderose di seguitarlo avevan giá piú particularmente tra sé cominciato a trattar del modo, quasi, quindi levandosi da sedere, a mano a mano dovessero entrare in cammino. Ma Filomena, la quale discretissima era, disse: — Donne, quantunque ciò che ragiona Pampinea sia ottimamente detto, non è per ciò cosí da correre a farlo, come mostra che voi vogliate fare. Ricordivi che noi siamo tutte femine, e non ce n’ha niuna sí fanciulla, che non possa ben conoscere come le femine sien ragionate insieme e senza la provvedenza d’alcuno uomo si sappiano regolare. Noi siamo mobili, riottose, sospettose, pusillanime e paurose, per le quali cose io dubito forte, se noi alcuna altra guida non prendiamo che la nostra, che questa compagnia non si dissolva troppo piú tosto e con meno onor di noi che non ci bisognerebbe: e per ciò è buono a provvederci avanti che cominciamo. — Disse allora Elissa: — Veramente gli uomini sono delle femine capo, e senza l’ordine loro rade volte riesce alcuna nostra opera a laudevole fine: ma come possiam noi aver questi uomini? Ciascuna di noi sa che de’ suoi son la maggior parte morti, e gli altri che vivi rimasi sono chi qua e chi lá in diverse brigate, senza saper noi dove, vanno fuggendo quello che noi cerchiamo di fuggire: ed il pregare gli strani non saria convenevole; per che, se alla nostra salute vogliamo andar dietro, trovare si convien modo di sí fattamente ordinarci, che, dove per diletto e per riposo andiamo, noia e scandalo non ne segua. Mentre tra le donne erano cosí fatti ragionamenti, ed ecco entrar nella chiesa tre giovani, non per ciò tanto, che meno di venticinque anni fosse l’etá di colui che piú giovane era di loro; ne’ quali né perversitá di tempo né perdita d’amici o di parenti né paura di se medesimi avea potuto amor, non che spegnere, ma raffreddare. De’ quali l’uno era chiamato Panfilo e Filostrato il secondo e l’ultimo Dioneo, assai piacevole e costumato ciascuno: ed andavan cercando per loro somma consolazione, in tanta turbazione di cose, di vedere le lor donne, le quali per ventura tutte e tre erano tra le predette sette, come che dell’altre alcune ne fossero congiunte parenti d’alcuni di loro. Né prima esse agli occhi corsero di costoro, che costoro furono da esse veduti; per che Pampinea allor cominciò sorridendo: — Ecco che la fortuna a’ nostri cominciamenti è favorevole, ed hacci davanti posti discreti giovani e valorosi, li quali volentieri e guida e servidor ne saranno se di prendergli a questo uficio non schiferemo. — Neifile allora, tutta nel viso divenuta per vergogna vermiglia, per ciò che l’una era di quelle che dall’un de’ giovani era amata, disse: — Pampinea, per Dio, guarda ciò che tu dichi. Io conosco assai apertamente, niuna altra cosa che tutta buona dir potersi di qualunque s’è l’un di costoro, e credogli a troppo maggior cosa che questa non è sufficienti, e similmente avviso, loro buona compagnia ed onesta dover tenere, non che a noi, ma a molto piú belle e piú care che noi non siamo: ma per ciò che assai manifesta cosa è, loro essere d’alcune che qui ne sono innamorati, temo che infamia e riprensione, senza nostra colpa o di loro, non ce ne segua se gli meniamo. — Disse allora Filomena: — Questo non monta niente; lá dove io onestamente viva né mi rimorda d’alcuna cosa la coscienza, parli chi vuole in contrario: Iddio e la veritá l’armi per me prenderanno. Ora, fossero essi pur giá disposti a venire, ché veramente, come Pampinea disse, potremmo dire, la fortuna essere alla nostra andata favoreggiarne. — L’altre, udendo costei cosí fattamente parlare, non solamente si tacquero, ma con consentimento concorde tutte dissero che essi fosser chiamati e loro si dicesse la loro intenzione, e pregassersi che dovesse lor piacere in cosí fatta andata lor tener compagnia. Per che, senza piú parole, Pampinea, levatasi in piè, la quale ad alcun di loro per consanguinitá era congiunta, verso loro che fermi stavano a riguardarle si fece, e con lieto viso salutatigli, loro la lor disposizione fe’ manifesta e pregògli per parte di tutte che con puro e fratellevole animo a tener lor compagnia si dovessero disporre. I giovani si credettero primieramente essere beffati, ma poi che videro che da dovero parlava la donna, risposero lietamente, sé essere apparecchiati: e senza dare alcuno indugio all’opera, anzi che quindi si partissono, diedono ordine a ciò che a fare avessono in sul partire. |
RAI RADIO 3. AD ALTA VOCE. LEGGERE IL DECAMERON. LETTURA I. PROEMIO E INTRODUZIONE |
INTRODUZIONE ALLA QUARTA GIORNATA (PRIMA PARTE) |
Carissime
donne, sì per le parole de’ savi uomini udite e sì per
le cose da me molte volte e vedute e lette estimava io
che lo ’mpetuoso vento ed ardente della ’nvidia non
dovesse percuotere se non l’alte torri o le piú levate
cime degli alberi: ma io mi truovo della mia
estimazione ingannato. Per ciò che, fuggendo io e
sempre essendomi di fuggire ingegnato il fiero impeto
di questo rabbioso spirito, non solamente pe’ piani,
ma ancora per le profondissime valli mi sono ingegnato
d’andare; il che assai manifesto può apparire a chi le
presenti novellette riguarda, le quali non solamente
in fiorentin volgare ed in prosa scritte per me sono e
senza titolo, ma ancora in istilo umilissimo e rimesso
quanto il piú si possono: né per tutto ciò l’essere da
cotal vento fieramente scrollato, anzi presso che
diradicato, e tutto da’ morsi della ’nvidia esser
lacerato non ho potuto cessare, per che assai
manifestamente posso comprendere, quello esser vero
che sogliono i savi dire, che sola la miseria è senza
invidia nelle cose presenti. Sono adunque, discrete
donne, stati alcuni che, queste novellette leggendo,
hanno detto che voi mi piacete troppo e che onesta
cosa non è che io tanto diletto prenda di piacervi e
di consolarvi, ed alcuni han detto peggio: di
commendarvi, come io fo. Altri, piú maturamente
mostrando di voler dire, hanno detto che alla mia etá
non istá bene l’andare omai dietro a queste cose, cioè
a ragionar di donne o a compiacer loro. E molti, molto
teneri della mia fama mostrandosi, dicono che io farei
piú saviamente a starmi con le Muse in Parnaso che con
queste ciance mescolarmi tra voi. E son di quegli
ancora che, piú dispettosamente che saviamente
parlando, hanno detto che io farei piú discretamente a
pensare donde io dovessi aver del pane che dietro a
queste frasche andarmi pascendo di vento. E certi
altri, in altra guisa essere state le cose da me
raccontatevi che come io lo vi porgo, s’ingegnano in
detrimento della mia fatica di dimostrare. Adunque, da
cotanti e da cosí fatti soffiamenti, da cosí atroci
denti, da cosí aguti strali, valorose donne, mentre io
ne’ vostri servigi milito, sono sospinto, molestato ed
infino nel vivo trafitto. Le quali cose io con
piacevole animo, sallo Iddio, ascolto ed intendo; e
quantunque a voi in ciò tutta appartenga la mia
difesa, nondimeno io non intendo di risparmiar le mie
forze: anzi, senza rispondere quanto si converrebbe,
con alcuna leggera risposta tôrmegli dagli orecchi, e
questo far senza indugio, per ciò che, se giá, non
essendo io ancora al terzo della mia fatica venuto,
essi sono molti e molto presummono, io avviso che
avanti che io pervenissi alla fine essi potrebbono in
guisa esser multiplicati, non avendo prima avuta
alcuna repulsa, che con ogni piccola lor fatica mi
metterebbono in fondo, né a ciò, quantunque elle sien
grandi, resistere varrebbero le forze vostre. Ma
avanti che io venga a far la risposta ad alcuno, mi
piace in favor di me raccontare, non una novella
intera, acciò che non paia che io voglia le mie
novelle con quelle di così laudevole compagnia quale
fu quella che dimostrata v’ho, mescolare, ma parte
d’una, acciò che il suo difetto stesso sé mostri non
esser di quelle; ed a’ miei assalitori favellando dico
che |
LA NOVELLA DELLE PAPERE |
Nella nostra cittá, giá è
buon tempo passato, fu un cittadino il quale fu
nominato Filippo Balducci, uomo di condizione assai
leggera, ma ricco e bene inviato ed esperto nelle cose
quanto lo stato suo richiedea: ed aveva una sua donna
la quale egli sommamente amava, ed ella lui, ed
insieme in riposata vita si stavano, a niuna altra
cosa tanto studio ponendo quanto in piacere
interamente l’uno all’altro. Ora, avvenne, sí come di
tutti avviene, che la buona donna passò di questa
vita, né altro di sé a Filippo lasciò che un solo
figliuolo di lui conceputo, il quale forse d’etá di
due anni era. Costui per la morte della sua donna
tanto sconsolato rimase quanto mai alcuno altro, amata
cosa perdendo, rimanesse; e veggendosi di quella
compagnia la quale egli piú amava rimaso solo, del
tutto si dispose di non volere piú essere al mondo, ma
di darsi al servigio di Dio, ed il simigliante fare
del suo piccol figliuolo. Per che, data ogni sua cosa
per Dio, senza indugio se n’andò sopra Monte Asinaio,
e quivi in una piccola celletta sé mise col suo
figliuolo, col quale, di limosine in digiuni ed in
orazioni vivendo, sommamente si guardava di non
ragionare, lá dove egli fosse, d’alcuna temporal cosa
né di lasciarnegli alcuna vedere, acciò che esse da
cosí fatto servigio nol traessero, ma sempre della
gloria di vita eterna e di Dio e de’ santi gli
ragionava, nulla altro che sante orazioni
insegnandogli: ed in questa vita molti anni il tenne,
mai della cella non lasciandolo uscire né alcuna altra
cosa che sé dimostrandogli. Era usato il valente uomo
di venire alcuna volta a Firenze, e quivi secondo le
sue opportunitá dagli amici di Dio sovvenuto, alla sua
cella tornava. Ora, avvenne che, essendo giá il
garzone d’etá di diciotto anni, e Filippo vecchio, un
dí il domandò ove egli andava. Filippo gliele disse;
al quale il garzon disse: — Padre mio, voi siete
oggimai vecchio e potete male durar fatica; perché non
mi menate voi una volta a Firenze, acciò che,
faccendomi conoscere gli amici e divoti di Dio e
vostri, io, che son giovane e posso meglio faticar di
voi, possa poscia pe’ nostri bisogni a Firenze andare
quando vi piacerá, e voi rimanervi qui? — Il valente
uomo, pensando che giá questo suo figliuolo era
grande, ed era si abituato al servigio di Dio, che
malagevolmente le cose del mondo a sé il dovrebbono
omai poter trarre, seco stesso disse: — Costui dice
bene. — Per che, avendovi ad andare, seco il menò.
Quivi il giovane, veggendo i palagi, le case, le
chiese e tutte l’altre cose delle quali tutta la cittá
piena si vede, sí come colui che mai piú per
ricordanza vedute non n’avea, si cominciò forte a
maravigliare, e di molte domandava il padre che
fossero e come si chiamassero. Il padre gliele diceva,
ed egli, avendolo udito, rimaneva contento e domandava
d’un’altra. E cosí domandando il figliuolo ed il padre
rispondendo, per ventura si scontrarono in una brigata
di belle giovani donne ed ornate, che da un paio di
nozze venieno; le quali come il giovane vide, cosí
domandò il padre che cosa quelle fossero. A cui il
padre disse: — Figliuol mio, bassa gli occhi in terra,
non le guatare, ché elle son mala cosa. — Disse allora
il figliuolo: — O come si chiamano? — Il padre, per
non destare nel concupiscibile appetito del giovane
alcuno inchinevole disidèro men che utile, non le
volle nominare per lo proprio nome, cioè «femine», ma
disse: — Elle si chiamano papere. — Maravigliosa cosa
ad udire! Colui che mai piú alcuna veduta non n’avea,
non curatosi de’ palagi, non del bue, non del cavallo,
non dell’asino, non de’ denari né d’altra cosa che
veduta avesse, subitamente disse: — Padre mio, io vi
priego che voi facciate che io abbia una di quelle
papere. — Oimè! figliuol mio, — disse il padre — taci:
elle son mala cosa. — A cui il giovane domandando
disse: — O son cosí fatte le male cose? — Sí — disse
il padre. Ed egli allora disse: — Io non so che voi vi
dite, né perché queste sieno mala cosa: quanto è a me,
non m’è ancora paruta vedere alcuna cosí bella né cosí
piacevole come queste sono. Elle son piú belle che gli
agnoli dipinti che voi m’avete piú volte mostrati.
Deh! se vi cal di me, fate che noi ce ne meniamo una
colá sú, di queste papere, ed io le darò beccare. —
Disse il padre: — Io non voglio; tu non sai donde elle
s’imbeccano! — E sentì incontanente piú aver di forza
la natura che il suo ingegno, e pentessi d’averlo
menato a Firenze. |
INTRODUZIONE ALLA QUARTA GIORNATA (ULTIMA
PARTE)
|
Ma avere infino a qui detto della presente novella voglio che mi basti, ed a coloro rivolgermi alli quali l’ho raccontata. Dicono adunque alquanti de’ miei riprensori che io fo male, o giovani donne, troppo ingegnandomi di piacervi, e che voi troppo piacete a me. Le quali cose io apertissimamente confesso, cioè che voi mi piacete e che io m’ingegno di piacere a voi; e domandogli se di questo essi si maravigliano, riguardando, lasciamo stare all’aver conosciuti gli amorosi basciari ed i piacevoli abbracciari ed i congiugnimenti dilettevoli che di voi, dolcissime donne, sovente si prendono, ma solamente ad aver veduto e veder continuamente gli ornati costumi e la vaga bellezza e l’ornata leggiadria ed oltre a ciò la vostra donnesca onestá: quando colui che, nudrito, allevato, accresciuto sopra un monte salvatico e solitario, infra li termini d’una piccola cella, senza altra compagnia che del padre, come vi vide, sole da lui disiderate foste, sole addomandate, sole con l’affezion seguitate. Riprenderannomi, morderannomi, lacererannomi costoro se io, il corpo del quale il cielo produsse tutto atto ad amarvi, ed io dalla mia puerizia l’anima vi disposi sentendo la vertú della luce degli occhi vostri, la soavitá delle parole melliflue e la fiamma accesa da’ pietosi sospiri, se voi mi piacete o se io di piacervi m’ingegno: e spezialmente guardando che voi prima che altro piaceste ad un romitello, ad un giovanetto senza sentimento, anzi ad uno animal salvatico? Per certo chi non v’ama e da voi non disidera d’essere amato, sí come persona che i piaceri né la vertú della naturale affezione né sente né conosce, cosí mi ripiglia: ed io poco me ne curo. E quegli che contro alla mia etá parlando vanno, mostra mal che conoscano che, perché il porro abbia il capo bianco, che la coda sia verde; a’ quali, lasciando il motteggiar dall’un de’ lati, rispondo che io mai a me vergogna non reputerò infino nello stremo della mia vita di dover compiacere a quelle cose alle quali Guido Cavalcanti e Dante Alighieri giá vecchi e messer Cino da Pistoia vecchissimo onor si tennero, e fu lor caro il piacer loro. E se non fosse che uscir sarebbe del modo usato del ragionare, io producerei le istorie in mezzo, e quelle tutte piene mostrerei d’antichi uomini e valorosi, ne’ loro piú maturi anni sommamente avere studiato di compiacere alle donne; il che se essi non sanno, vadano e si l’apparino. Che io con le Muse in Parnaso mi debba stare, affermo che è buon consiglio: ma tuttavia né noi possiamo dimorar con le Muse né esse con essonoi. E quando avviene che l’uomo da lor si parte, dilettarsi di veder cosa che le somigli, questo non è cosa da biasimare: le Muse son donne, e benché le donne quel che le Muse vagliono non vagliano, pure esse hanno nel primo aspetto simiglianza di quelle, sí che, quando per altro non mi piacessero, per quello mi dovrebber piacere; senza che, le donne giá mi fûr cagione di comporre mille versi, dove le Muse mai non mi furono di farne alcun cagione. Aiutaronmi elle bene e mostraronmi comporre que’ mille: e forse a queste cose scrivere, quantunque sieno umilissime, si sono elle venute parecchie volte a starsi meco, in servigio forse ed in onore della simiglianza che le donne hanno ad esse; per che, queste cose tessendo, né dal monte Parnaso né dalle Muse non mi allontano quanto molti per avventura s’avvisano. Ma che direm noi a coloro che della mia fame hanno tanta compassione, che mi consigliano che io procuri del pane? Certo io non so, se non che, volendo meco pensare quale sarebbe la loro risposta se io per bisogno loro ne domandassi, m’avviso che direbbono: — Va’ cercane tra le favole. — E giá piú ne trovarono tra le loro favole i poeti, che molti ricchi tra’ loro tesori, ed assai giá, dietro alle loro favole andando, fecero la loro etá fiorire, dove in contrario molti nel cercar d’aver piú pane che bisogno non era loro, perirono acerbi. Che piú? Caccinmi via questi cotali qualora io ne domando loro: se non che, la Dio mercé, ancora non mi bisogna; e quando pur sopravvenisse il bisogno, io so, secondo l’Apostolo, abbondare e necessitá sofferire: e per ciò a niun caglia piú di me che a me. Quegli che queste cose cosí non essere state dicono, avrei molto caro che essi recassero gli originali, li quali se a quel che io scrivo discordanti fossero, giusta direi la lor riprensione e d’ammendar me stesso m’ingegnerei: ma infino che altro che parole non apparisce, io gli lascerò con la loro oppinione, seguitando la mia, di loro dicendo quello che essi di me dicono. E volendo per questa volta assai aver risposto, dico che dell’aiuto di Dio e del vostro, gentilissime donne, nel quale io spero, armato, e di buona pazienza, con esso procederò avanti, dando le spalle a questo vento e lasciandol soffiar, per ciò che io non veggio che di me altro possa avvenire che quello che della minuta polvere avviene, la quale, spirante turbo, o egli di terra non la muove, o se la muove, la porta in alto e spesse volte sopra le teste degli uomini, sopra le corone dei re e degl’imperadori, e talvolta sopra gli alti palagi e sopra le eccelse torri la lascia; delle quali se ella cade, piú giú andar non può che il luogo onde levata fu. E se mai con tutta la mia forza a dovervi in cosa alcuna compiacere mi disposi, ora piú che mai mi vi disporrò, per ciò che io conosco che altra cosa dir non potrá alcuno con ragione, se non che gli altri ed io, che v’amiamo, naturalmente operiamo; alle cui leggi voler contrastare troppo gran forze bisognano, e spesse volte non solamente invano, ma con grandissimo danno del faticante s’adoperano. Le quali forze io confesso che io non l’ho né d’averle disidero in questo, e se io l’avessi, piú tosto ad altrui le presterei che io per me l’adoperassi. Per che tacciansi i morditori, e se essi riscaldar non si possono, assiderati si vivano, e ne’ lor diletti, anzi appetiti corrotti, standosi, me nel mio questa brieve vita che posta n’è lascino stare. Ma da ritornare è, per ciò che assai vagati siamo, o belle donne, lá onde ci dipartimmo, e l’ordine cominciato seguire. |
CONCLUSIONE DELL'AUTORE |
Nobilissime
giovani, a consolazion delle quali io a cosí lunga
fatica messo mi sono, io mi credo, aiutantemi la
divina grazia, sí come io avviso, per li vostri
pietosi prieghi, non giá per li miei meriti, quello
compiutamente aver fornito che io nel principio della
presente opera promisi di dover fare; per la qual
cosa, Iddio primieramente ed appresso voi
ringraziando, è da dare alla penna ed alla man
faticata riposo. Il quale prima che io le conceda,
brievemente ad alcune cosette, le quali forse alcuna
di voi o altri potrebbe dire; con ciò sia cosa che a
me paia esser certissimo, queste non dovere avere
spezial privilegio piú che l’altre cose, anzi non
averlo mi ricorda nel principio della quarta giornata
aver mostrato; quasi a tacite quistion mosse, di
rispondere intendo. Saranno per avventura alcune di
voi che diranno che io abbia nello scriver queste
novelle troppa licenza usata, sí come in fare alcuna
volta dire alle donne e molto spesso ascoltare cose
non assai convenienti né a dire né ad ascoltare ad
oneste donne. La qual cosa io nego, per ciò che niuna
sí disonesta n’è, che, con onesti vocaboli dicendola,
si disdica ad alcuno; il che qui mi pare assai
convenevolmente bene aver fatto. Ma presuppognamo che
cosí sia, ché non intendo di piatir con voi, che mi
vincereste: dico che, a rispondere perché io abbia ciò
fatto, assai ragion vengon prontissime. Primieramente,
se alcuna cosa in alcuna n’è, le qualitá delle novelle
l’hanno richesta, le quali se con ragionevole occhio
da intendente persona fien riguardate, assai aperto
sará [p. 324 modifica]conosciuto, se io quelle della
lor forma trar non avessi voluto, altramenti raccontar
non poterle. E se forse pure alcuna particella è in
quelle, alcuna paroletta piú liberale che forse a
spigolistra donna non si conviene, le quali piú le
parole pesan che i fatti e piú d’apparer s’ingegnan
che d’esser buone, dico che piú non si dèe a me esser
disdetto d’averle scritte che generalmente si disdica
agli uomini ed alle donne di dir tuttodí «fóro» e
«caviglia» e «mortaio» e «pestello» e «salsiccia» e
«mortadello», e tutto pien di simigliami cose. Senza
che, alla mia penna non dèe essere meno d’autoritá
conceduta che sia al pennello del dipintore, il quale
senza alcuna riprensione, o almen giusta, lasciamo
stare che egli faccia a san Michele ferire il serpente
con la spada o con la lancia ed a san Giorgio il
dragone, dove gli piace, ma egli fa Adamo maschio ed
Eva femina, ed a Lui medesimo che volle per la salute
dell’umana generazione sopra la croce morire, quando
con un chiovo e quando con due i piè gli conficca in
quella. Appresso, assai ben si può conoscere che
queste cose non nella chiesa, delle cui cose e con
animi e con vocaboli onestissimi si convien dire;
quantunque nelle sue istorie d’altramenti fatte che le
scritte da me si truovino assai; né ancora nelle
scuole de’ filosofanti, dove l’onestá non meno che in
altra parte è richesta, né tra chericj né tra filosofi
in alcun luogo, ma ne’ giardini, in luogo di sollazzo,
tra persone giovani, benché mature e non pieghevoli
per novelle, in tempo nel quale andar con le brache in
capo per iscampo di sé era alli piú onesti non
disdicevole, dette sono. Le quali, chenti che elle si
sieno, e nuocere e giovar possono, sí come possono
tutte l’altre cose, avendo riguardo all’ascoltatore.
Chi non sa che è il vino ottima cosa a’ viventi,
secondo Cinciglione e Scolaio ed assai altri, ed a
colui che ha la febbre è nocivo? Direm noi, per ciò
che nuoce a’ febricitanti, che sia malvagio? Chi non
sa che il fuoco è utilissimo, anzi necessario a’
mortali? Direm noi, per ciò che egli arde le case e le
ville e le cittá, che sia malvagio? L’armi similmente
la salute difendon di coloro che paceficamente di
viver disiderano: ed anche uccidon gli uomini molte
volte, non per malizia di loro, ma di coloro che
malvagiamente [p. 325 modifica]l’adoperano. Niuna
corrotta mente intese mai sanamente parola: e così
come l’oneste a quella non giovano, così quelle che
tanto oneste non sono la ben disposta non posson
contaminare se non come il loto i solari raggi o le
terrene brutture le bellezze del cielo. Quali libri,
quali parole, quali lettere son più sante, più degne,
più reverende che quelle della divina Scrittura? E si
sono egli stati assai che, quelle perversamente
intendendo, sé ed altrui a perdizione hanno tratto.
Ciascuna cosa in se medesima è buona ad alcuna cosa, e
male adoperata può essere nociva di molte; e così dico
delle mie novelle. Chi vorrà da quelle malvagio
consiglio o malvagia operazion trarre, elle nol
vieteranno ad alcuno, se forse in sé l’hanno, e torte
e tirate fieno ad averlo; e chi utilità e frutto ne
vorrà, elle nol negheranno, né sarà mai che altro che
utili ed oneste sien dette o tenute, se a que’ tempi o
a quelle persone si leggeranno per cui e pe’ quali
state son raccontate. Chi ha a dir paternostri o a
fare il migliaccio o la torta al suo divoto, lascile
stare; elle non correranno di dietro a niuna a farsi
leggere: benché e le pinzochere altressi dicono ed
anche fanno delle cosette otta per vicenda! Saranno
similmente di quelle che diranno, qui esserne alcune
che, non essendoci, sarebbe stato assai meglio.
Concedasi: ma io non potea né doveva scrivere se non
le raccontate, e per ciò esse che le dissero le
dovevan dir belle, ed io l’avrei scrìtte belle. Ma se
pur presuppor si volesse che io fossi stato di quelle
e lo ’nventore e lo scrittore, che non fui, dico che
io non mi vergognerei che tutte belle non fossero, per
ciò che maestro alcun non si truova, da Dio in fuori,
che ogni cosa faccia bene e compiutamente: e Carlo
Magno, che fu il primo facitor di paladini, non ne
seppe tanti creare, che esso di lor soli potesse fare
oste. Conviene, nella moltitudine delle cose, diverse
qualità di cose trovarsi. Niun campo fu mai sì ben
coltivato, che in esso o ortica o triboli o alcun
pruno non si trovasse mescolato tra l’erbe migliori.
Senza che, ad avere a favellare a semplici giovanette,
come voi il più siete, sciocchezza sarebbe stata
l’andar cercando e faticandosi in trovar cose molto
esquisite e gran cura porre di molto misuratamente
parlare. [p. 326 modifica]Tuttavia chi va tra queste
leggendo, lasci star quelle che pungono, e quelle che
dilettano legga: elle, per non ingannare alcuna
persona, tutte nella fronte portan segnato quello che
esse dentro dal loro seno nascoso tengono. Ed ancora,
credo, sará tal che dirá che ve ne son di troppo
lunghe; alle quali ancora dico che chi ha altra cosa a
fare, follia fa a queste leggere, eziandio se brievi
fossero. E come che molto tempo passato sia da poi che
io a scriver cominciai infino a questa ora che io alla
fine vengo della mia fatica, non m’è per ciò uscito di
mente, me avere questo mio affanno offerto all’oziose
e non all’altre: ed a chi per tempo passar legge,
niuna cosa puote esser lunga, se ella quel fa per che
egli l’adopera. Le cose brievi si convengon molto
meglio agli studianti, li quali non per passare ma per
utilmente adoperare il tempo faticano, che a voi
donne, alle quali tanto del tempo avanza quanto negli
amorosi piaceri non ispendete; ed oltre a questo, per
ciò che né ad Atene né a Bologna o a Parigi alcuna di
voi non va a studiare, piú distesamente parlarvi si
conviene che a quegli che hanno negli studi gl’ingegni
assottigliati. Né dubito punto che non sien di quelle
ancor che diranno, le cose dette esser troppo piene e
di motti e di ciance, e mal convenirsi ad uno uomo
pesato e grave aver cosí fattamente scritto. A queste
sono io tenuto di render grazie e rendo, per ciò che,
da buon zelo movendosi, tènere sono della mia fama. Ma
cosí alla loro opposizion vo’ rispondere: io confesso
d’esser pesato, e molte volte de’ miei di essere
stato; e per ciò, parlando a quelle che pesato non
m’hanno, affermo che io non son grave, anzi sono io sì
lieve, che io sto a galla nell’acqua: e considerato
che le prediche fatte da’ frati per rimorder delle lor
colpe gli uomini, il piú oggi piene di motti e di
ciance e di scede si veggiono, estimai che quegli
medesimi non istesser male nelle mie novelle, scritte
per cacciar la malinconia delle femine. Tuttavia, se
troppo per questo ridessero, il lamento di Geremia, la
passione del Salvatore ed il ramarichio della
Maddalena ne le potrá agevolmente guerire. E chi stará
in pensiero che ancor di quelle non si truovino che
diranno che io abbia mala lingua e velenosa, per ciò
[p. 327 modifica]che in alcun luogo scrivo il ver de’
frati? A queste che così diranno si vuol perdonare,
per ciò che non è da credere che altro che giusta
cagione le muova, per ciò che i frati son buone
persone e fuggono il disagio per l’amor di Dio, e
macinano a raccolta e nol ridicono: e se non che di
tutti un poco vien del caprino, troppo sarebbe piú
piacevole il piato loro. Confesso nondimeno, le cose
di questo mondo non avere stabilitá alcuna, ma sempre
essere in mutamento, e cosí potrebbe della mia lingua
essere intervenuto; la quale, non credendo io al mio
giudicio, il quale a mio potere io fuggo nelle mie
cose, non ha guari mi disse una mia vicina che io
l’aveva la migliore e la piú dolce del mondo: ed in
veritá, quando questo fu, egli erano poche a scrivere
delle soprascritte novelle. E per ciò che animosamente
ragionan quelle cotali, voglio che quello che è detto
basti lor per risposta. E lasciando omai a ciascuna e
dire e credere come le pare, tempo è da por fine alle
parole, Colui umilmente ringraziando che dopo sì lunga
fatica col suo aiuto m’ha al disiderato fine condotto:
e voi, piacevoli donne, con la sua grazia in pace vi
rimanete, di me ricordandovi, se ad alcuna forse
alcuna cosa giova l’averle lette. QUI FINISCE LA DECIMA E ULTIMA GIORNATA
DEL LIBRO CHIAMATO DECAMERON |