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Secondo F.P. Botti (cit., che qui cita Luciano Rossi, p.
85), la decima giornata conferma l'apertura
spregiudicata di tutto il Decameron, mostrando come la
nobiltà eroica alla quale subentra la classe mercantile
produca effetti minimi rispetto alla grandezza dei
gesti. Ma le conclusioni di Dioneo parlano di un
"...movimento interminabile del testo, di una strategia
compositiva riluttante ad ogni assestamento troppo
perentorio dei suoi significati. E dunque l'impertinenza
di Dioneo viene a sancire implicitamente il destino
stesso della forma novella, ricordandoci che “la
novella è il genere letterario fondato sulla coscienza
che “le cose di questo mondo non hanno
stabilità, ma sono sempre in mutamento, e […] propria
del suo statuto è l'apertura al possibilismo, alla
problematicità, alla varietà della casistica, alla
mutevolezza degli eventi. E in questa prospettiva,
allora, la sequenza delle cento novelle si chiude
nell'esitazione di una possibile riapertura”.
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F.P. Botti, cit: Qui, d'altronde, quella distanza
oggettiva, inerente alla storicità della forma del Decameron
di cui parlavamo or ora viene a trovarsi in un certo
senso raddoppiata e complicata, giacché è lo stesso
Boccaccio, come osservava già Salvatore Battaglia, a
"valersi d'una strategica distanza storico-sociale (e,
di conseguenza, umana e psicologica) per fare accettare"
lo studioso si riferisce alla X 8, "una vicenda che egli
sentiva anacronistica e abnorme", cioè, in generale, ad
ambientare gli eccessi della virtù in ambienti temporali
e culturali in cui risultino il più possibile
verosimili. Ma si tratta, appunto, di una "distanza
storico-sociale" non ironica; che, anzi, obbedisce
all'intento di collocare in una dimensione favolosa,
leggendaria gli emblemi di una condizione umana ormai
d'altri tempi (o magari d'altri luoghi), di una
magnanimità, come abbiamo detto, in "essilio perpetuo
rilegata" dalla degradazione di un presente in cui
domina l'idolo dell' "utilità": un'esperienza abnorme,
in fondo, anche quando incompatibile con la (per così
dire) modernità municipale e mercantile della sua
Toscana.
[Così la fontana al centro del locus amoenus descritto
nell'Introduzione alla IV giornata, fa girare due
mulini]
Sta in questo, d'altronde, la grandezza storica del
capolavoro di Boccaccio, la classicità di un testo che
riesce a captare e tradurre fin nelle fibre della sua
costituzione figurale, nei suoi congegni costruttivi,
nelle stesse pulsazioni della scrittura l'avvento
cruciale di una nuova epoca, l'alba della civiltà
borghese.
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La virtù impura è la stessa di Freud, che ci affida
tutto quel che ha trovato insieme a quel che non ha
trovato: eredità non narcisistica perché non tutto
(Focchi: Manca sempre una cosa), che permette quindi di
immaginare una strada che non sia già stata immaginata
dal genitore. Così ogni attante fiabesco disegna con se
stesso come pennello un percorso imprevisto, riunendo
l'imprevidente Epimeteo e il previdente Prometeo. Non
che gli dei non potrebbero decidere in concilio di
donare il fuoco agli uomini, è che gli uomini
l'ottengono come furto, figli della rottura di un tabù,
nella Bibbia come nella Teogonia. Le gerarchie, e il
sadomasochismo che le sostiene, affermano la purezza,
nella realtà è l'impuro che s'impone, escludendo dalla
realtà stessa chi resta fedele alla purezza, in
manicomio o in carcere o nella malattia o
nell'insignificanza.
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click di seguito sui titoli delle
novelle per leggerle online (wikisource)
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GIORNATA
DECIMA NOVELLA PRIMA
Neifile racconta
Un
cavaliere serve al re di Spagna; pargli male esser
guiderdonato, per che il re con esperienza
certissima
gli mostra non esser colpa di lui ma della sua
malvagia fortuna, altamente donandogli poi.
MAGNANIMITÀ DEL RE DI SPAGNA
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Non avendo ricevuto castelli e terreni,
Ruggeri torna a casa scontento, e siccome il rÌe viene
a saperlo, lo fa richiamare e gli mostra come il
diverso trattamento ricevuto sia dovuto alla sua
sfortuna. Gli spiega inoltre che siccome non sarebbe
rimasto in Spagna, non era opportuno donargli terre o
castelli. E infine il cavaliere sceglie fra due
scrigni quello privo di valore, e mostrandogli come
possa essere stato sfortunato, il re gli regala quello
pieno di gioielli.
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Confrontare
con il Lai di Lanval di Marie de France,
contentente il meraviglioso (https://fr.wikisource.org/wiki/Po%C3%A9sies_de_Marie_de_France_(Roquefort)/Lai_de_Lanval;
ultimo accesso 29 aprile 2024). Il cavaliere
protagonista viene dimenticato dal re e
per questo si riduce in miseria. |
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GIORNATA
DECIMA NOVELLA SECONDA
Elissa racconta
Ghino di Tacco piglia l’abate di Cligni e
medicalo del male dello stomaco, e poi il lascia; il
quale, tornato in corte di Roma,
lui riconcilia con Bonifazio papa, e fállo friere
dello Spedale.
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MAGNANIMO COMPORTAMENTO DI GHINO DI TACCO
E DELL'ABATE DI CLIGNÌ
L'abate guarisce del suo disturbo
allo stomaco grazie alla dieta povera di Ghino, che
poi è generoso con lui e il suo seguito. L'abate
chiede e ottiene il perdono per Ghino di Tacco.
Ghino di Tacco si firmava Bettino Craxi. Eugenio
Scalfari che aveva chiamato Giuliano Amato 'dottor
Sottile' nel 1986, da direttore di Repubblica trovò
come soprannome per Craxi 'Ghino di Tacco'.
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GIORNATA
DECIMA NOVELLA TERZA
Filostrato racconta
Mitridanes,
invidioso della cortesia di Natan, andando per
ucciderlo, senza conoscerlo capita a lui, e da lui
stesso informato del modo,
il truova in un boschetto come ordinato avea; il quale
riconoscendolo si vergogna, e suo amico diviene.
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GENEROSITÀ REGALE
Natan, figlio di David e Betsabea,
personaggio dell'Antico Testamento non è il protagonista
di questa novella. Si tratta invece di Nathan o Natan,
re orientale, protagonista di una storia della
tradizione orientale, arabo-persiana.
L'ambientazione orientale tollera bene
l'intercambiabilità fra Paesi islamici, India e Cina,
come accade anche secoli dopo in Petis de la Croix
(Turandot, nei Milles et un jour) e in Galland
(Aladino, nelle Mille et une nuits) tra la fine
del XVII e l'inizio del XVIII secolo. La storia
raccontata da Boccaccio è la stessa raccontata da
Amir Khusrow (1253-1325), Storia dei quattro
dervisci, e se è impossibile negare che Boccaccio
rinarri questa storia, non è detto che sia venuto in
contatto - a Napoli, nella biblioteca di Roberto d'Angiò
- con l'opera di Amir Khusrow anziché con testi
precedenti.
Un re dell'Iran chiese e ottenne da un derviscio che gli
raccontasse una storia, e il derviscio raccontò di un re
che aveva mosso guerra a un re magicamente generoso,
Hatim Tai, che gli lascia il regno senza combattere per
salvare la vita al suo popolo, ritirandosi in
meditazione. Siccome il nuovo re sentiva dire che aveva
vinto solo grazie alla generosità di Hatim Tai, decise
che doveva catturarlo e ucciderlo, altrimenti i suoi
sudditi sarebbero sempre stati devoti a lui. Accade che
un povero boscaiolo pensò di catturare Hatim Tai e
ottenere una lauta ricompensa per la sua famiglia, ma
decise di non farlo: allora Hatim Tai si consegnò ad
altra gente e venne portato dal re che aveva preso il
suo posto, al quale disse che il boscaiolo l'aveva
catturato e meritava la ricompensa. A quel punto il
boscaiolo raccontò la vera storia, e il re usurpatore
restituì il suo trono ad Hatim Tai e torna nel suo
paese. Il re dell'Iran decise allora di superare Hatim
Tai e cominciò a distribuire monete d'oro ogni giorno a
tutti quelli che si presentavano a chiedergli
l'elemosina, ma un giorno rimproverò un derviscio:
“Miserabile ingrato! Non dici neanche
grazie! Non mi mostri nessun segno di stima; non
sorridi, non ti inchini, e ogni giorno ritorni! Quanto
tempo durerà ancora? Ti stai forse arricchendo a spese
della mia bontà, oppure presti quest’oro con gli
interessi? In verità, il tuo comportamento è indegno di
un uomo che indossa il venerabile mantello a toppe!”.
Non appena ebbe pronunciato queste parole, il derviscio
gettò a terra le quaranta monete d’oro che aveva
ricevuto e disse al re: “Sappiate, o re dell’Iran, che
la generosità non può esistere se non è preceduta da tre
cose: la prima è dare senza provare il sentimento di
essere generosi; la seconda è la pazienza; la terza,
l’assenza di sospetti”.
Ma il re non imparò mai. Ai suoi occhi, la
generosità era legata a ciò che la gente avrebbe pensato
di lui e a ciò che egli provava nel sentirsi ‘generoso’.
(Da La storia dei quattro dervisci, Testo
disponibile online, vedi bibliografia)
Il lieto fine della novella rispecchia il cambiamento
catastrofico o miracoloso del re che aveva sfidato Hatim
Tai, lo stesso personaggio di Natan, e non l'incapacità
del re dell'Iran. Pensando a questa fonte di Boccaccio,
mi chiedo come si possa interpretare la X 3 nei termini
del passaggio dal medioevo feudale al tempo dei mercanti
e dei banchieri, ovvero in termini marxisti. I
riferimenti della X giornata a contesti lontanissimi dal
presente dell'Onesta brigata dicono piuttosto l'opposto,
vale a dire che la sublime generosità o l'abnegazione
esistono indipendentemente da un particolare contesto
storico e geografico, come esistono indipendentemente
l'avidità o la vanagloria.
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Nello
scenario esotico del "Cattaio", propizio alla
cristallizzazione mitica della realtà, la sagoma
sottimente borghese di Mitridanes riapre il gioco,
caro a Boccaccio, delle svolte impreviste, dell'animo
che muta, degli incontri e delle occasioni che
trasformano, dell'esperienza che educa. Riporta nel
cuore freddo della decima giornatale vibrazioni di un
protagonismo dinamico, squisitamente decameroniano,
che ha la sua verità storica nel nobile empirismo del
ceto mercantile. All'ideale umano della costanza,
della fedeltà incondizionata a un destino morale
contrappone l'apertura al movimento del mondo,
l'itinerario accidentato e incostante dell'esistenza,
la plasticità del carattere che si lascia sollecitare
dall'urto delle cose ed è comunque immerso nella
dimensione essenziale e nutritiva del tempo (la cui
'scoperta' costituisce una delle massime conquiste
della crisi culturale del Trecento, tra Petrarca e
Boccaccio). (Botti, pp. 103-104)
L'agnizione è catartica, è una conversione, qualcosa che
nel Decameron è detto come passaggio immediato dall'odio
all'amore, dal rifiuto all'accettazione, e viceversa.
Alla conversione cristiana delle vite dei santi subentra
un mutamento catastrofico: la nobiltà non finisce col
feudalesimo, anche se coloro che vivono nell'immanenza,
da ser Ciappelletto a Griselda, senza eccezioni, possono
contare solo su quel che percepiscono e sul modo in cui
sono percepiti. Non c'è vita che nella vita. Da
Boccaccio a oggi - ma non in Boccaccio! - il lavoro
culturale è consistito nel cercare un motore immobile
che finzionasse al posto di Dio, compresi i
totalitarismi del Novecento, che non hanno finito di
seminare morte. Nel momento in cui si vede che questo
motore immobile non esiste, allora si sostituisce al
paradiso delle religioni e delle ideologie realizzate,
il panorama terrificante del vuoto post-atomico, o
post-riscaldamento-globale. La questione diventa come si
fosse potuto o dovuto prevenire il disastro,
dimenticando le glaciazioni e i periodi di
surriscaldamento attraversati dalla terra anche prima
che la forma umana emergesse accanto a quella degli
altri animali. La questione, come nella psicosi
maniaco-depressiva, è prendere su di sé la colpa e
suicidarsi, mentre altri sottomettono o uccidono altri
per garantirsi la sopravvivenza, nella forma paranoica
della psicosi. Altri si pongono la domanda così
formulata da Severino Boezio: Si quidem deus est,
unde mala? Bona vero unde, si non est?
Porsi questa domanda significa due cose non
scontate: la prima, vedere che esistono sia il bene che
il male, la seconda, sopportare di non avere una
risposta. Una parte di noi, quella che prende possesso
di tutto l'essere nella psicosi, non sopporta di non
avere una risposta, non può rinunciare al delirio di
saper rispondere a tutto mentre gli altri non vogliono
ascoltare - paranoia - o che qualcuno abbia la risposta
per tutto ma non voglia darcela - depressione. Questa
impossibilità di tollerare l'incertezza (Caillos: L'incertitude
qui vien des reves) impedisce di vedere che
esistono l'uno accanto all'altro, intrecciati, e causa
uno dell'altro, bene e male, e quindi regredisce a una
certezza assoluta come quella dell'animale, come quella
di Epimeteo, che non prevede. D'altra parte Prometeo,
colui che prevede, da solo non esiste. La possibilità di
porsi e di porre la domanda è l'umanizzazione, è la
nostra storia. In riferimento a questa decima giornata,
è la domanda che possiamo fare a Boccaccio/Dioneo: se
volevi fare la battuta finale, perché hai scelto di
raccontare di Griselda? E se volevi raccontare, come hai
fatto, di Griselda, perché poi hai fatto quella battuta
finale?
Perché, credo, dal Trecento in Europa, ci sono fratelli
maggiori, maestri, non santoni: magister, colui che
prevale in un confronto, non colui che è ispirato da
Dio, colui che condivide il suo sapere con chi glielo
chiede, non colui che dotato di un sapere superiore
viene consultato dagli inferiori, che ne possono essere
illuminati. Giustamente Fachinelli lamentava la
trasformazione della psicoanalisi da disciplina delle
domande a disciplina delle risposte. (Peretola, 26
luglio 2022)
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[L']esercizio
della virtù non è per il giovane Mitridanes una
vocazione spirituale o una scelta nobilmente
disinteressata, un abito esistenziale che s'appaga di
sé, bensì un mezzo per affermare, e a quasiasi costo,
la propria individualità. Al paradosso della
liberalità che induce all'assassinio si aggiunge
quello della liberalità subordinata a un principio di
utilità, della dedizione agli altri che si fonda su un
progetto egoistico. (Botti, p. 98)
Continua poi osservando che mentre di Natan Boccaccio
precisa che era di nobile lignaggio, non altrettanto
dice di Mitridanes. Si tratterebbe quindi di un costume
mentale, prima ancora che etico, radicato nella
tradizione di una classe al punto di apparire una
seconda natura mentre Mitridanes apparterrebbe a
una prospettiva ideologica assai diversa,
all'emisfero culturale borghese, in cui
(schematizzando recisamente) anche i valori ideali
tendono a trasformarsi - o a degradarsi - in
strumenti, perché l'individuo li utilizzi e li
sottometta al fine della sua affermazione nell'agone
della società.
L'A. continua leggendo in Mitridanes la società
mercantile e in Natan i nobili; e nel grido di
Mitridanes "Vegliardo, tu se' morto!" legge il livore
omicida in un conflitto generazionale dove
il figlio vuol liberarsi del suo irraggiungibile
modello, dove il dinamismo della classe mercantile vuole
appropriarsi dei valori del feudalesimo [quali?!?] nel
momento in cui lo soppianta.
Se solo Botti avesse dato un'occhiata alla fonte
orientale della storia non avrebbe proposto questa
interpretazione pallido-marxista. Dice fra l'altro che
il comportamento di Natan è disumano ed esprime la
tendenza, presente in quasi tutti i personaggi della
giornata, ad agire, letteralmente, contro la natura
umana. (p. 100)
Dimentica che lo spazio del racconto è altro dallo
spazio della realtà, dimentica che è spazio di sospensione
dalla bruttura della peste. Né tiene conto del fatto
che nell'esempio orientale il re nemico e Hatim Tai sono
entrambi di nobile lignaggio e che al racconto dei
quattro dervisci narrato da Amir Khousrow era ben
estranea l'ascesa di una classe di mercanti e banchieri
che subentravano ai nobili.
Poi cita il discorso di Natan a Mitridanes:
Figliuol mio, alla tua impresa, chente che tu la vogli
chiamare o malvagia o altramenti, non bisogna di
domandar né di dar perdono, per ciò che non per odio
la seguivi, ma per potere esser tenuto migliore. Vivi
adunque di me sicuro, ed abbi di certo che niuno altro
uom vive il quale te quanto io ami, avendo riguardo
all’altezza dell’animo tuo, il quale non ad ammassar
denari, come i miseri fanno, ma ad ispender gli
ammassati s’è dato: né ti vergognare d’avermi voluto
uccidere per divenir famoso, né credere che io me ne
maravigli. I sommi imperadori ed i grandissimi re non
hanno quasi con altra arte che d’uccidere, non uno
uomo, come tu volevi fare, ma infiniti, ed ardere
paesi ed abbattere le cittá, li loro regni ampliati, e
per conseguente la fama loro; per che, se tu, per piú
farti famoso, me solo uccider volevi, non maravigliosa
cosa né nuova facevi, ma molto usata.
Ci rendiamo conto che Boccaccio con questo
discorso mette sullo stesso piano i re e i condottieri
dell'antichità classica e del feudalesimo e l'intenzione
omicida di Mitridanes nei suoi confronti? Questa è al
conclusione di Botti:
Pur
nel falsetto di una cerimoniosa parzialità (ma lo
spazio che ad esse concede l'autore - nella cui opera
peraltro, più di una volta ricorrono "posizioni
dissacranti degli eroi e degl'imperi più acclamati"
[Branca, Boccaccio medievale, p. 1133,
n. 8] - ne rivela la plausibilità, la dignità
conoscitiva), le parole di Natan dicono, siglando
esemplarmente il regime di ambiguità che avvolge la
giornata conclusiva del Decameron, che
i valori affondano le loro radici impure nella
violenza della storia, sono come un'altra faccia della
volontà di potenza degli uomini. (sic!, p.105)
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GIORNATA
DECIMA NOVELLA QUARTA
Lauretta racconta
Messer
Gentil de' Carisendi, venuto da Modena, trae della
sepoltura una donna amata da lui, sepellita per morta;
la quale riconfortata partorisce un figliuol maschio,
e messer Gentile lei e 'l figliuolo restituisce a
Niccoluccio Caccianimico, marito di lei.
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VERO AMORE
È una delle novelle più
affascinanti del Decameron, nella quale l'amore
vince la morte - Gentile non esita a visitare la
donna che ama anche se si trova nel sepolcro, e cede
al desiderio di toccarle il seno. Quando sente che
il cuore batte, senza esistare porta la donna ancora
senza sensi a casa sua e la madre lo aiuta a
curarla, e la fa tornare in vita. Resta a casa
dell'uomo che la ama e dà alla luce un bambino, dopo
un certo tempo Gentile invita alla sua tavola i
maggiorenti della città compreso il marito di
Catalina, e dopo aver raccontato la storia del
servitore messo fuori dalla porta dal padrone e
raccolto e curato e guarito da un altro, e aver
chiesto a chi appartenga secondo giustizia quel
serviìo, fa venire Catalina, che resta in silenzio
mentre i presenti le stanno attorno e le fanno
domande alle quali lei non risponde. Filnalmente
racconta tutta la storia e la dà al legittimo marito
rallegrandosi per esser stato causa della salvezza
della donna amata, che sarebbe sua, come il servo
della favola, ma della quale lui fa dono al
marito insieme al bambino figlio loro, che però ha
chiamato Gentile, col suo nome.
Che adunque qui, benigne donne,
direte? Estimerete, l’aver donato un re lo scettro e
la corona, ed uno abate senza suo costo avere
riconciliato un malfattore al papa, ed un vecchio
porgere la sua gola al coltello del nemico, essere
stato da agguagliare al fatto di messer Gentile? Il
quale, giovane ed ardente, e giusto titolo
parendogli avere in ciò che la trascutaggine altrui
aveva gittato via ed egli per la sua buona fortuna
aveva ricolto, non solo temperò onestamente il suo
fuoco, ma liberamente quello che egli soleva con
tutto il pensier disiderare e cercar di rubare,
avendolo, restituí. Per certo niuna delle giá dette
a questa mi par simigliante. (W)
Un
amante avendo diritto a tener con sé l'amata la
lascia al marito dopo averla fatta tornare in vita. È come Pelle d'asino, con la
presenza costante della madre dell'innamorato che lo
aiuta a conquistare la fanciulla meravigliosa, salvo
che l'innamorato è pago di esser stato causa della
vita della sua amata.
I fratelli Taviani caricano la storia modificandola
pesantemente: Messer Gentile tiene per sé la donna,
che guardando il marito che desidera riprenderla
ricorda come non l'abbia accarezzata per la madre
che lo ha trattenuto e allontana la sua mano come la
madre gliela aveva allontanata quando lui voleva
carezzarla. Catalina inoltre per i Taviani non è
incinta, ed è stata abbandonata come se avesse avuto
la peste, della quale si dice che Gentile era stato
malato e ne era guarito.
I Fratelli Taviani spingono la novella nel registro
della favola, cosa che riesce perfettamente, e la
favola è quella di Pelle d'Asino, per vari elementi,
anche se manca il tentativo d'incesto del padre
della protagonista.
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
Gentile de' Carisendi (YouTube
19:13)
Dal film Maraviglioso Boccaccio (2015)
di Paolo e Vittorio Taviani |
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GIORNATA
DECIMA NOVELLA QUINTA
Emilia racconta
Madonna Dianora domanda a messer
Ansaldo un giardino di gennaio bello come di maggio;
messer Ansaldo con l'obligarsi a uno nigromante
gliele dà;
il marito le concede che ella faccia il piacere di
messer Ansaldo, il quale udita la liberalità del
marito, l'assolve della promessa,
e il nigromante, senza volere alcuna cosa del suo,
assolve messere Ansaldo.
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ASAP - PPCQ
Questa novella è una
riscrittura del Filocolo
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Il re Carlo vecchio, vittorioso, d'una
giovinetta innamoratosi, vergognandosi del suo folle
pensiero, lei e una sua sorella onorevolmente
marita.
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ASAP
- PPCQ
La fonte dell'episodio si trova
nel De mulieribus claris, LXXIV, come osserva
Elsa Filosa p. 70.
https://www.ledonline.it/ledonline/589-filosa-studi/589-filosa-studi.pdf
Valerio Massimo racconta di Terza Emilia moglie di
Scipione l'Africano, che non accusò il marito per
l'attrazione provata da vecchio per una giovane
ancella, non volendo come donna accusare un grande
uomo per la propria incapacità di sopportare la sua
debolezza. Dopo la morte del marito la liberò e la diede
in isposa ad un suo liberto. (Filosa 68)
Brevissima quindi la descrizione di Valerio
Massimo, alla quale Boccaccio aggiunge l'età senile di
Scipione, presentando Terza Emilia come nobile per
nascita e per matrimonio, e dicendo che per un'altra
ragione è una donna illustre. Poi passa a raccontare
della passione senile di Scipione, fermo di carattere
da giovane, ora meno rigoroso nei principi morali.
Così quello Scipione Africano tanto valoroso non sa
difendersi nella vecchiaia dalle lusinghe dei sensi. E
Boccaccio scrive: Et quis dubitet quin egerrime
tulerit? Asserunt enim non nulle, omne oris rubore
seposito, nil iniuoriosius, nil intolerabilius
nupte mulieri fieri posse quam iure thori suum
dicunt a viro extere concedi femine; et ego edepol
facile credam. [Brutta traduzione] Chi
potrebbe mettere in dubbio il dispiacere arrecatole
da questa notizia? Alcune, messa da parte ogni
vergogna, affermano che per una donna sposata niente
riesca più oltraggioso e intollerabile del fatto che
il marito conceda ad altra donna il letto che esse
dichiarano proprio, per diritto matrimoniale.
La liberalità di Terza Emilia è degna dei
protagonisti delle novelle della X giornata, e -
aggiungo io - ricorda Griselda per la pazienza e
l'amore senza limiti con cui onora il marito. Perché
di onore della donna si tratta, l'onore che riceve
dalla fama del marito come la luna riceve la luce dal
sole. Se si pensa a Leuk, luce riflessa, passiva, e
Diòs, luce attiva (ctrl) si fa riferimento a una
sapienza che ricorda l'I Ching e le Mille e una notte.
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GIORNATA
DECIMA NOVELLA SETTIMA
Pampinea racconta
Il
re Piero, sentito il fervente amore portatogli dalla
Lisa inferma, lei conforta e appresso a un gentil
giovane la marita;
e lei nella fronte baciata, sempre poi si dice suo
cavaliere.
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Si narrava ai tempi di Boccaccio
la storia vera dell'avventuriera siciliana Machalda di
Scaletta innamorata del re Pietro d'Aragona, che
potrebbe aver fornito la materia per la settima
novella della decima giornata (vedi S. M. Cingolani, Historiografía,
propaganda i comunicació al segle XIII: Bernat
Desclot i les dues redaccions de la seva crònica,
2006) La novella è un'elogio della poesia, che
rende possibile un incontro altrimenti impensabile,
che vola libero dalle convenzioni che impedirebbero
l'incontro fra un re e la figlia di uno speziale, per
quanto ricco. Lisa e re Pietro sono infatti pari
perché conoscono, con un dolore che può portare alla
morte l'una, con una generosità che salva l'innamorata
l'altro, l'intensità dell'amore e del desiderio per
l'altro. Lontanissimi l'uno dall'altro per convenzione
sociale, il loro intelletto d'amore rende
possibile l'incontro e il lieto fine, grazie alla
poesia e alla musica la canzone che Lisa
chied e di comporre a Minuccio
d'Arezzo, finissimo cantatore e sonatore, volentieri
dal re Pietro veduto (questa e le seguenti
citazioni in corsivo sono tratte dal testo della
novella linkato al titolo), che girò la
commissione a Mico da SIena, assai buon dicitore a
rima, e con prieghi lo strinse a far la canzonetta che
si trova nella novella.In tre giorni Minuccio compose
la musica, e dopo averla eseguita a corte rispose al
re che gli chiedeva di dove venisse quella musica mai
udita prima: Monsignore, e' non son ancora tre
giorni che le parole si fecero ed il suono. Poi,
dicendo che a lui sono poteva rivelarne l'origine,
andò col re nelle sue stanze e gli raccontò la storia.
L'eccellenza di cui si racconta nella decima giornata
è nella sensibilità che comprende il valore della
poesia, pari a quello delle fate che intervengono
nelle fiabe. Non possiamo non ricordare che le fiabe,
qualunque sia stata la loro circolazione orale,
vengono pubblicate per la prima volta due secoli dopo
il Decameron in una raccolta di novelle che riprende
il nostro capolavoro, mentre una completa raccolta di
fiabe, che la tradizione cognominerà Pentamerone,
aspetterà un altro secolo prima di vedere la luce.
Prima della fine del secolo barocco Charles Perrault
darà alle stampe la novella di Griselda, e
successivamente comporrà la raccolta che supererà in
fama quella secentesca di Basile.
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Sofronia, credendosi esser moglie di
Gisippo, è moglie di Tito Quinzio Fulvo e con lui se
ne va a Roma, dove Gisippo in povero stato arriva; e
credendo da Tito esser disprezzato, sé avere uno
uomo ucciso, per morire, afferma. Tito,
riconosciutolo, per iscamparlo dice sé averlo morto;
il che colui che fatto l'avea vedendo se stesso
manifesta; per la qual cosa da Ottaviano tutti sono
liberati, e Tito dà a Gisippo la sorella per moglie
e con lui comunica ogni suo bene.
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AMICIZIA ILLIMITATA
Botti cita Bausi, cit.: Se
"oggetto precipuo della decima giornata" è la
" 'magnanimità' aristotelica e tomistica, ossia la
virtù che rende più grandi e più splendide tutte le
altre virtù, portandole al sommo grado di
perfezione", "ne consegue che le gesta dei
protagonsiti di questa giornata no nsono e non
vogliono essere, semplicemente, gesta 'virtuose', ma
gesta di eccezionale e straordinaria virtù, giacché
la dimensione dell' "eccesso" e dell'
"oltranza" pertiene specificamente alla magnanimitas:
donde le "inverosimili" e iterate prove di amicizia
fra Tito e Gisippo, donde la "disumana" pazienza e
umiltà di Griselda.
Ogni
stranezza in questo gioco di rapporti affettivi è
tributaria della prospettiva di superiore moralità
abbracciata dall'autore, è in funzione, cioè, del
mito ciceroniano dell'amicizia ben presente nella
cultura medievale (si pensi solo all'importanza che
Dante attribuisce alla lettura del Lelius)
e dunque boccacciana, e specificamente consono alla
caratura filosofica dei due protagonisti, che "non
sono tanto chierici da ascoltare il consiglio di
Teofrasto riportato nell'Adversus Jovinianum
di San Girolamo, secondo cui al sapiente non
conviene prender moglie", ma che "hanno studiato
abbastanza filosofia da far prevalere amicizia su
amore" (Botti, cit, che cita Bruni, cit. p. 276)
Nella storia della donna fatta a pezzi, che Giaafar
deve risolvere, pena la morte, ovvero La storia
delle tre mele, il padre e il marito della donna
si accusano dell'omicidio pur essendo innocenti.
|
"Il
difetto sostanziale del Boccaccio nel comporre la
novella di Tito e Gisippo consiste nell'applicare questa
sua nuova sensibilità della situazione umana su uno
schermo assoluto e categorico, che contraddice alla
mobilità della vita. La sua grande arte mira, di solito,
a trasferire l'emblematicità esemplare nel probabilismo
dell'esperienza; e qui, invece, egli ha imprigionato il
dinamismo psicologico dei suoi attori in una paradossale
astrattezza etica" (Salvatore Battaglia, La
coscienza letteraria del Medioevo, p. 512; cit da
F. P. Botti, in "La virtù impura", cit. p. 84) |
Le virtù e i vizi degli uomini. In
particolare: il timore di Dio, l’ipocrisia, la saggezza,
il silenzio e la nobiltà. In questa sezione sono
riportati numerosi proverbi di filosofi non
identificati. Ogni proverbio è introdotto da “alius
philosophus”. I proverbi sono intervallati da exempla.
Uno dei più interessanti è l’exemplum de integro
amico.[9] Il
racconto narra di due amici mercanti che in nome della
loro amicizia si danno reciprocamente pieno sostegno;
uno dei due si assume persino la colpa di aver commesso
un crimine per proteggere l’altro che era stato
erroneamente accusato di essere colpevole. Interessante
è notare che lo spazio in cui si muovono non è
caratterizzato dal punto di vista religioso, ma solo
geografico in nome dell’universalità degli insegnamenti
di Pietro Alfonsi. (https://it.wikipedia.org/wiki/Disciplina_clericalis)
|
|
Il Saladino
in forma di mercatante è onorato da messer Torello;
fassi il passaggio; messer Torello dà un termine alla
donna sua a rimaritarsi; è preso
e per acconciare uccelli viene in notizia del soldano,
il quale, riconosciutolo e sé fatto riconoscere,
sommamente l'onora; messer Torello inferma e per arte
magica in una notte n'è recato a Pavia; e alle nozze
che della rimaritata sua moglie si facevano da lei
riconosciuto con lei a casa sua se ne torna.
|
ASAP - PPCQ
Il letto volante è fratello del
tappeto volante delle Mille e una notte, ed è la
probabile fonte del volo notturno della novella di
Straparola della sposa che per riavere il marito che
si è fermato nelle Fiandre ricorre a una maga che
evoca un diavolo che la porta avanti e indietro da
Firenze alle Fiandre. I voli notturni nella raccolta
araba sono possibili per i jinn, geni, demoni, nella
novella IX della X giornata da un negromante, nella
novella cinquecentesca da un diavolo. La protagonista
di Straparola, nella finale agnizione, dice che è
stato un angelo, perché se dicesse che, stanca di
pregare senza ottenere nulla, è ricorsa a una strega
che ha evocato i diavoli dell'inferno, verrebbe
bruciata come strega lei stessa.
|
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GIORNATA
DECIMA NOVELLA DECIMA
Dioneo racconta
Il
marchese di Saluzzo da' prieghi de' suoi uomini
costretto di pigliar moglie, per prenderla a suo
modo piglia una figliuola d'un villano,
della quale ha due figliuoli, li quali le fa veduto
d'uccidergli; poi, mostrando lei essergli
rincresciuta e avere altra moglie presa a casa
faccendosi ritornare la propria figliuola come se
sua moglie fosse, lei avendo in camiscia cacciata e
a ogni cosa trovandola paziente,
piú cara che mai in casa tornatalasi, i suoi
figliuoli grandi le mostra e come marchesana l'onora
e fa onorare.
|
E TU UNA CAMISCIA NE PORTA
La novella di Griselda prima, poi
tutta la decima giornata, mi hanno invitato a rileggere
integralmente il Decameron, e quindi a proporre a
chi lo desideri di partecipare all'immenso e raffinato
piacere che la lettura di Boccaccio, Maestro italiano ed
europeo, offre gratuitamente, ovvero gratia et amore
Dei. Sono del resto gratuite tutte le cose più
preziose, il cui valore non può tradursi in un prezzo
che si possa quotare in borsa, o in una rendita che
garantisca qualche certezza. E così, questo lavoro sul
Decameron ha alle spalle una decina d'anni di
riflessioni informali su Griselda, comincia ora
l'avventura online e potrebbe fermarsi anche domani,
come potrebbe suggerire di scrivere un libro,
organizzare un convegno, un Piccolo Festival, una
pubblica lettura (PPCQ, Prima Possibile Chissà Quando).
Di certo non si può lasciare da parte nessuna delle
cento novelle, pena l'impossibilità di riconoscere
l'ordine segreto, il gioco algebrico e
geometrico disposto da Boccaccio, come l'ordine che si
può vedere nella sestina lirica e nella Divina Commedia
(vedi, in questo sito, Lo
ferm voler di Arnaut Daniel, 2012).
L'esperienza estetica - in greco aisthèsis, da
qui estasi, significava nel greco antico percezione,
sensazione, sentimento - rivelandoci la nostra
parentela col mondo, la nostra intimità con tutte le sue
creature, uomini e donne, animali e piante, presenti,
passate e future, offre una forma di liberazione
irrevocabile, preceduta dalla legittimazione paterna.
(Peretola, 1 luglio 2022)
Griselda
rivolge due motti a Gualtieri, con i quali lo stringe
costringendolo a riconoscere la sua indomabile libertà,
pur rispettando la parola di lui come ordine e come
patto che onora alla lettera. Ma il motto di spirito,
come il lapsus, come la poesia, come il sogno e il
sintomo, non dipendono dagli ordini né dai patti ed
eludono la lettera. Il primo motto di Griselda è
quando Gualtieri, fingendo di aver ottenuto dal papa una
dispensa che gli consente di sposare una nobildonna le
ordina tornare da suo padre nuda, perché tutti i suoi
abiti li ha avuti da lui:
Comandatemi che io quella dota me ne
porti che io ci recai, alla qual cosa fare né a voi
pagatore né a me borsa bisognerá né somiere, per ciò
che di mente uscito non m’è che ignuda m’aveste: e se
voi giudicate onesto che quel corpo nel quale io ho
portati figliuoli da voi generati, sia da tutti
veduto, io me n’andrò ignuda: ma io vi priego, in
premio della mia virginitá che io ci recai e non ne la
porto, che almeno una sola camiscia sopra la dota mia
vi piaccia che io portarne possa. — Gualtieri, che
maggior voglia di piagnere aveva che d’altro,
stando pur col viso duro, disse: — E tu una camiscia
ne porta.
Il marchese Gualtieri ha imposto a Griselda
di non disobbedire mai ai suoi ordini,
e di non mostrarsi mai dispiaciuta o triste, qualunque
cosa lui faccia. Ma non ha immaginato di aver lui voglia
di piangere, e se ne vergogna: per questo si forza a
nascondere la sua emozione. Anche il giovane
scolaro della novella
VII dell'ottava giornata sente commozione vedendo
il corpo bianchissimo della crudele amata della quale
vuole vendicarsi, anche lui resiste più volte, ma la sua
collera è più grande della compassione.
Il marchese, non contento di aver fatto credere a
Griselda di aver ucciso i loro due figli e di averla
rimandata nella povera casa del padre, la manda a
chiamare per organizzare la casa e il convito per le sue
nuove nozze: indicandole quindi la nuova giovanissima
sposa le chiede che gliene sembri. Ora Griselda rivolge
al nobile marito il secondo motto:
Signor mio, — rispose Griselda — a me ne par molto
bene; e se cosí è savia come ella è bella, che il
credo, io non dubito punto che voi non dobbiate con
lei vivere il piú consolato signor del mondo: ma
quanto posso vi priego che quelle punture, le quali
all’altra che vostra fu giá, déste, non diate a
questa, ché appena che io creda che ella le potesse
sostenere, sí perché piú giovane è, e sí ancora perché
in dilicatezze è allevata, ove colei in continue
fatiche da piccolina era stata.
Così Griselda parla in terza persona di se stessa, e
rispettando il patto che ha preceduto le sue nozze con
il marchese non dice una parola della propria
sofferenza, ma ricordando le prove che lui le ha inferto
gli dice che se le infliggesse alla giovane sposa
potrebbe ucciderla. Così Griselda, rispettando il patto
col quale Gualtieri ha creduto di mettere al sicuro il
suo potere fallico e unico, gli rivela che il solo
potere assoluto che lui può esercitare sulla donna è
quello di ucciderla. È lo stesso che a distanza di sette
secoli spinge gli uomini a uccidere le donne quando si
sottraggono al loro potere, preferendo la loro rovina,
quella dei figli e di se stessi se non riescono a
immaginare di rinunciare a dominarle.
Il banchetto della figura qui sopra a sinistra, con i
figli cresciuti lontano ma vivi, sarebbe il lieto fine.
La terza immagine del Maestro di Griselda (Siena, XV
secolo) mostra a destra Griselda in piedi, interpellata
da Gualtieri, mentre a sinistra è seduta a capotavola
fra le braccia del marito, come in un lieto fine della
novella finale del Decameron. Così conclude Dioneo la
sua ultima novella:
Che si potrá dir qui, se non che
anche nelle povere case piovono dal cielo de’ divini
spiriti, come nelle reali di quegli che sarien piú
degni di guardar porci che d’avere sopra uomini
signoria? Chi avrebbe altri che Griselda potuto col
viso non solamente asciutto ma lieto sofferir le
rigide e mai piú non udite pruove da Gualtier fatte?
Al quale non sarebbe forse stato male investito
d’essersi abbattuto ad una che, quando fuor di casa
l’avesse in in camiscia cacciata, s’avesse sì ad uno
altro fatto scuotere il pilliccione, che riuscito ne
fosse una bella roba.
Aprendo l'ingrandimento della terza immagine qui
sotto, se osserviamo l'espressione dipinta sui volti di
Gualtieri e di Griselda a capotavola a sinistra,
abbracciati, non pensiamo solo a un finale felice: forse
il senese Maestro di Griselda era d'accordo con Dioneo?
O forse Boccaccio era consapevole degli ostacoli alla
parità, che prima di tutto è parità fra uomo e donna,
possibile, ma ancora praticamente impossibile fuori
dalla novella o favola o fiaba che dir si voglia. Sembra
che la sola gerarchia che riusciamo a combattere sia
quella che non ci riguarda direttamente o quella che ci
vede in posizione inferiore. Eppure, finché c'è racconto
c'è speranza.
|
E
se Boccaccio avesse capito che il desiderio degli uomini
è aver autorità sulla donna, come conditio sine qua
non possono averla come sposa e madre dei loro
figli, e che questo aspetto del desiderio fa soffrire
gli uomini quanto le donne? Non è questo che allontana i
figli da entrambi? La cedevolezza di Griselda è in fondo
presente in quel che si chiedeva alla donna che si
sposava: di prendere quel che dicevano e facevano
il marito e i figli maschi una volta cresciuti, proprio
come Griselda si impegna a fare con Gualtieri su sua
richiesta. È solo che Griselda con Gualtieri porta
questa acquiescenza alle estreme conseguenze,
mostrandone così il carattere inumano, che corrompe il
carattere e la reputazione di chi la esige, Gualtieri. E
uccide la donna se non è, come Griselda, avvezza alla
durezza della vita.
|
Se
somigliamo agli altri mammiferi, com'è probabile, il
maschio che sente l'estro della femmina l'insegue, la
trova, la corteggia - fino a nove notti e nove giorni,
come ho sentito dire, il leone con la leonessa - la
monta. Siamo l'unica specie che si accoppia vis-a-vis.
La femmina deve garantire la bontà dell'uomo, in
modo che freni la sua aggressività. Lei deve sospendere
qualunque aggressività diretta contro l'uomo, ed
esercitarla solo nei rapporti fra femmine. Nelle novelle
di Boccaccio, come la VII della giornata VIII, la
crudeltà dell'uomo contro la donna che lo ha colpito e
sconfitto è illimitata, come quella di Gualtieri contro
Griselda, come quella di Shahriyar contro le fanciulle
prese la sera e fatte uccidere al mattino. Come nella
legge relativa al delitto d'onore. E Kalaf sta a
Turandot come Shahrazad sta a Shahriyar. Ha pietà delle
sue vittime, e vuol evitare che ce ne siano altre, anche
se lo stesso Kalaf - come Shahrazad - potrebbe
completare la serie di quelli che perdono la testa.
La narrativa dopo il secolo XI, sia araba, sia
cristiana, dice che la sottomissione della donna non è
garantita.
Ma la donna non può eliminare il male, può solo
sospenderlo col racconto. Così Boccaccio racconta
pensando alle donne, e dà voce a sette donne mentre solo
tre sono gli uomini, proprio come Shahrazàd. Salva la
donna dalla morte, la lascia in vita, cede alla
commozione, come Gualtieri con Griselda, diversamente
dallo scolaro con la bella vedova della settima novella
dell'ottava giornata.
|
https://www.academia.edu/15250239/Boccaccio_canta_il_Decameron_nel_teatro_musicale_in_Autori_e_lettori_di_Boccaccio_a_cura_di_Michelangelo_Picone_Firenze_Cesati_2002_pp_409_420?email_
work_card=reading-history
|
Fra
il 1701 e il 1735 opere liriche tratte dalla centesima
novella del Decameron e dalla traduzione latina del
Petrarca andarono in scena prevalentemente a Venezia.
Antonio Goldoni modificò un precedente libretto su
richiesta di Vivaldi che ne compose le musiche. (da
completare)
Fra il 1701 e il 1798 si contano venti drammi in musica
nuovi e diversi, senza contare il ballo di Ronzi
né le commedie di Maggi, Riccoboni e Goldoni
|
La
bellezza della donna, la sua accoglienza, che non
significa il suo possesso da parte del marito, come la
bella che deve stare nel castello e accettare la compagnia della
Bestia, amando la Bestia le rende possibile
umanizzarsi. Quindi da Boccaccio in poi, e nelle
fiabe, da Straparola in poi, e con alcuni
cantinbanchi, comunque successivi a Boccaccio, non è
più solo ciò che induce l'uomo a rivolgere solo
all'esterno l'aggressività, lasciando libera la
famiglia, ma anche ciò che spinge l'uomo ad
acquisire la sensibilità della quale è privo il
misogino Gualtieri, che se non fosse per avere
eredi, non si sposerebbe. Nasce quindi con
Boccaccio, e si celebra col genere fiaba, un nuovo
tipo di relazione maschile-femminile, che è allo
stesso tempo un nuovo ordine gerarchico, un nuovo
sguardo sul diverso: cosa già del resto presente nel
Decameron e in tutta l'opera di Boccaccio.
(20/08/22) ,
|
|
Deuteronomio
21,10-14. Testo latino: https://www.bibliacatolica.com.br/it/vulgata-latina-vs-la-sacra-bibbia/liber-deuteronomii/21/amp/; ultimo accesso
9/11/2022
Testo italiano: C.E.I, http://www.laparola.net/wiki.php?riferimento=Dt21,10-14&formato_rif=vp;
ultimo accesso 9/11/2022
|
10 Si
egressus fueris ad pugnam contra inimicos tuos,
et tradiderti eos Dominus Deus tuus in manu tua,
captivosque duxeris, 11 et videris in numero
captivorum mulierem pulchram, et adamaveris eam,
voluerisque habere uxorem, 12 introduces eam in
domum tuam: quae radet caesariem, et circumcidet
ungues, 13 et deponet vestem, in qua capta est :
sedensque in domo tua, flebit patrem et matrem
suam uno mense : et postea intrabis ad eam
dormiesque cum illa, et erit uxor tua. 14 Sin
autem postea non sederit animo tuo, dimittes eam
liberam, nec vendere poteris pecunia, nec
opprimere per potentiam quia humiliasti eam.
|
10 Se
andrai in guerra contro i tuoi nemici e il
Signore tuo Dio te li avrà messi nelle mani e tu
avrai fatto prigionieri, 11 se vedrai tra i
prigionieri una donna bella d'aspetto e ti
sentirai legato a lei tanto da volerla prendere
in moglie, te la condurrai a casa. 12 Essa si
raderà il capo, si taglierà le unghie, 13 si
leverà la veste che portava quando fu presa,
dimorerà in casa tua e piangerà suo padre e sua
madre per un mese intero; dopo, potrai
accostarti a lei e comportarti da marito verso
di lei e sarà tua moglie. 14 Se in seguito non
ti sentissi più di amarla, la lascerai andare a
suo piacere, ma non potrai assolutamente
venderla per denaro né trattarla come una
schiava, per il fatto che tu l'hai disonorata. |
|
|
Griselda,
Novella C (X 10) del Decameron di
Giovanni Boccaccio |
Griselda,
Novella XV delle Sessanta novelle popolari
montalesi di Gherardo Nerucci (pp.
120-127) |
|
|
Il
marchese di Saluzzo, da’ prieghi de’ suoi
uomini costretto di pigliar moglie, per
prenderla a suo modo, piglia una figliuola
d’un villano, della quale ha due figliuoli, li
quali le fa veduto d’uccidergli; poi,
mostrando lei essergli rincresciuta ed avere
altra moglie presa, a casa faccendosi
ritornare la propria figliuola come se sua
moglie fosse, lei avendo in camiscia cacciata
e ad ogni cosa trovandola paziente, piú cara
che mai in casa tornatalasi, i suoi figliuoli
grandi le mostra e come marchesana l’onora e
fa onorare.
Finita la lunga novella del re, molto a
tutti nel sembiante piaciuta, Dioneo ridendo
disse: — Il buono uomo, che aspettava la
seguente notte di fare abbassare la coda ritta
della fantasima, avrebbe dati men di due denari
di tutte le lode che voi date a messer Torello.
— Ed appresso, sappiendo che a lui solo restava
il dire, incominciò:
Mansuete mie donne, per quel che mi paia, questo
dí d’oggi è stato dato a re ed a soldani ed a
cosí fatta gente: e per ciò, acciò che io troppo
da voi non mi scosti, vo’ ragionar d’un marchese
non una cosa magnifica ma una matta bestialitá,
come che ben ne gli seguisse alla fine; la quale
io non consiglio alcun che segua, per ciò che
gran peccato fu che a costui ben n’avvenisse. |
(Raccontata da
Ferdinando Giovannini sarto) |
Già è
gran tempo, fu tra’ marchesi di Saluzzo il
maggior della casa un giovane chiamato
Gualtieri, il quale, essendo senza moglie e
senza figliuoli, in niuna altra cosa il suo
tempo spendeva che in uccellare ed in cacciare,
né di prender moglie né d’aver figliuoli alcun
pensiero avea; di che egli era da reputar molto
savio. La qual cosa a’ suoi uomini non piacendo,
piú volte il pregaron che moglie prendesse,
acciò che egli senza erede né essi senza signor
rimanessero, offerendosi di trovargliel tale e
di sí fatto padre e madre discesa, che buona
speranza se ne potrebbe avere, ed esso
contentarsene molto. A’ quali Gualtieri rispose:
— Amici miei, voi mi strignete a quello che io
del tutto aveva disposto di non far mai,
considerando quanto grave cosa sia a poter
trovare chi co’ suoi costumi ben si convenga, e
quanto del contrario sia grande la copia, e come
dura vita sia quella di colui che a donna non
bene a sé conveniente s’abbatte. Ed il dire che
voi vi crediate a’ costumi de’ padri e delle
madri le figliuole conoscere, donde argomentate
di darlami tal che mi piacerá, è una
sciocchezza, con ciò sia cosa che io non sappia
dove i padri possiate conoscere, né come i
segreti delle madri di quelle: quantunque, pur
conoscendogli, sieno spesse volte le figliuole
a’ padri ed alle madri dissimili. Ma poi che
pure in queste catene vi piace d’annodarmi, ed
io voglio esser contento: ed acciò che io non
abbia da dolermi d’altrui che di me, se mal
venisse fatto, io stesso ne voglio essere il
trovatore, affermandovi che, cui che io mi
tolga, se da voi non fia come donna onorata, voi
proverete con gran vostro danno quanto grave mi
sia l’aver contra mia voglia presa mogliere a’
vostri prieghi. — I valenti uomini risposon che
eran contenti, sol che esso si recasse a prender
moglie. Erano a Gualtieri buona pezza piaciuti i
costumi d’una povera giovanetta che d’una villa
vicina a casa sua era, e parendogli bella assai,
estimò che con costei dovesse potere aver vita
assai consolata; e per ciò, senza piú avanti
cercare, costei propose di volere sposare: e
fattosi il padre chiamare, con lui, che
poverissimo era, si convenne di tôrla per
moglie. Fatto questo, fece Gualtieri tutti i
suoi amici della contrada adunare, e disse loro:
— Amici miei, egli v’è piaciuto e piace che io
mi disponga a tór moglie, ed io mi vi son
disposto piú per compiacere a voi che per
disidèro che io di moglie avessi. Voi sapete
quello che voi mi prometteste, cioè d’esser
contenti e d’onorar come donna, qualunque quella
fosse che io togliessi; e per ciò venuto è il
tempo che io sono per servare a voi la promessa
e che io voglio che voi a me la serviate. Io ho
trovata una giovane secondo il cuor mio, assai
presso di qui, la quale io intendo di tôr per
moglie e di menarlami tra qui e pochi dì a casa:
e per ciò pensate come la festa delle nozze sia
bella e come voi onorevolmente riceverla
possiate, acciò che io mi possa della vostra
promession chiamar contento come voi della mia
vi potrete chiamare. — I buoni uomini lieti
tutti risposero ciò piacer loro e che, fosse chi
volesse, essi l’avrebber per donna ed
onorerebbonla in tutte cose sí come donna; ed
appresso questo, tutti si misero in assetto di
far bella e grande e lieta festa, ed il
simigliante fece Gualtieri. Egli fece preparar
le nozze grandissime e belle, ed invitarvi molti
suoi amici e parenti e gran gentili uomini ed
altri da torno: ed oltre a questo, fece tagliare
e far piú robe belle e ricche al dosso d’una
giovane la quale della persona gli pareva che la
giovanetta la quale avea proposto di sposare, ed
oltre a questo, apparecchiò cinture ed anella ed
una ricca e bella corona, e tutto ciò che a
novella sposa si richiedea. E venuto il dì che
alle nozze predetto avea, Gualtieri in su la
mezza terza montò a cavallo, e ciascuno altro
che ad onorarlo era venuto; ed ogni cosa
opportuna avendo disposta, disse: — Signori,
tempo è d’andare per la novella sposa. — E
messosi in via con tutta la compagnia sua,
pervennero alla villetta: e giunti a casa del
padre della fanciulla, e lei trovata che con
acqua tornava dalla fonte in gran fretta, per
andar poi con altre femine a veder venire la
sposa di Gualtieri; la quale come Gualtier vide,
chiamatala per nome, cioè Griselda, domandò dove
il padre fosse; al quale ella vergognosamente
rispose: — Signor mio, egli è in casa. — Allora
Gualtieri, smontato e comandato ad ogni uom che
l’aspettasse, solo se n’entrò nella povera casa,
dove trovò il padre di lei, che avea nome
Giannucolo, e dissegli: — Io sono venuto a
sposar la Griselda, ma prima da lei voglio
sapere alcuna cosa in tua presenza. — E
domandolla se ella sempre, togliendola egli per
moglie, s’ingegnerebbe di compiacergli e di
niuna cosa che egli dicesse o facesse non
turbarsi, e se ella sarebbe obediente e simili
altre cose assai, delle quali ella a tutte
rispose del sí. Allora Gualtieri, presala per
mano, la menò fuori, ed in presenza di tutta la
sua compagnia e d’ogni altra persona la fece
spogliare ignuda: e fattisi quegli vestimenti
venire che fatti aveva fare, prestamente la fece
vestire e calzare, e sopra i suoi capelli, cosí
scarmigliati come erano, le fece mettere una
corona, ed appresso questo, maravigliandosi ogni
uomo di questa cosa, disse: — Signori, costei è
colei la quale io intendo che mia moglie sia,
dove ella me voglia per marito. — E poi, a lei
rivolto che di se medesima vergognosa e sospesa
stava, le disse: — Griselda, vuoimi tu per tuo
marito? — A cui ella rispose: — Signor mio, sí.
— Ed egli disse: — Ed io voglio te per mia
moglie. — Ed in presenza di tutti la sposò: e
fattala sopra un pallafren montare, orrevolmente
accompagnata, a casa la si menò. Quivi furon le
nozze belle e grandi e la festa non altramenti
che se presa avesse la figliuola del re di
Francia.
[Il padre mette
da parte le umili vesti di Griselda; non è
esplicitato qui, è detto più tardi]
|
Un contadino 'gli
aveva una figliola per nome Grisèlda. Una
mattina questo contadino s'alza, attacca i bovi
all'aratolo e va al campo per insolcare, e 'n
quel mentre che lui insolcava, inciampa col
gomero in qualche cosa di sodo, sicché lui ferma
i bovi e s'acchina giù per guardare, e ti vede
che ha cozzato in un mortaio di marmo bianco, ma
bello, una maraviglia insomma. Scrama: - Bello!
E doppo averlo per bene tutto ripulito dalla
terra, dice 'ntra di sé: - Quest'è propio robba
da Re. I' lo vo' portare al Re in regalo. Dunque
torna allora diviato a casa, e doppo messo i
bovi in nella stalla, chiama la figliola e gli
dice: - Ve' tu quel ch'i' ho trovo nel mi'
campo! Nun ti par egli una maraviglia? I' ho
fatto pensieri di portarlo 'n regalo al Re. Che
ne di' tu? Arrisponde Grisèlda: - Sicuro, che
'gli è una bella cosa. Ma s'i' fussi in voi al
Re nun glielo porterei. - Oh! perché? -
addimanda su' padre. E Grisèlda: - Perché il Re
ci troverà un mancamento. Dice il contadino: -
Che mancamento ci pol egli trovare il Re?
Sentiamo, via. Allora disse Grisèlda: - E' ci
pol trovare, che 'l mortaio 'gli è bello, ma che
ci manca il pestello. - Va' via, mammalucca! -
bociò il contadino. - Bada lì, i' che ti viene
in nella zucca! Il contadino, insenz'addarsi del
parere della figliola, subbito si riveste a modo
e poi se ne va dal Re. Lo fan passare a udienza
e racconta lì tutto l'accaduto, e in fine di ce
al Soprano: - Questa maraviglia i' l'ho
destinata per regalo a Sua Maestà, quando lei si
degni d'aggradirla. Arrisponde il Re: - Sicuro,
l'aggradisco e l'accetto; ma però, abbeneché sia
questo un bel mortaio, in ugni mo' c'è un
mancamento. Scrama il contadino: - Che
mancamento dunque c'è egli? E il Re: - C'è, che
nun ci veggo il su' pestello? - Oh! senti, -
grida il contadino. - 'Gli è propio quel che
m'ha ditto anco la mi' figliola. Dice il Re: -
Anco la vostra figliola? Dunque vo' avete una
figliola dimolto virtudiosa e struita, se pur
lei ha visto il medesimo difetto. Bene! I' vo'
provare come 'gli è brava. Tienete questo
'nvolto; dientro c'è del lino. Che lei me ne
faccia, ma presto, perch'i' n'ho gran bisogno in
nel mumento, che mo ne faccia lei un panno di
cento braccia. Il contadina pigliò lo 'nvolto,
addove non c'eran altro che tre lucignolini di
lino; e fatta la riverenza a Sua Maestà, se
n'andiede a casa 'n fretta. Arrivo che fu a casa
il contadino, dice a Grisèlda: - Eppure te
l'avevi indovino! Il Re 'gli ha ditto, che il
mortaio 'gli era bello, ma che ci mancava il su'
pestello. Arrispose Grisèlda: - I' l'ho caro,
che anco il Re sia vienuto nel mi' 'pensieri.
Dice il contadino: - Ma c'è di più. Il Re vole
provare se tu sie' savia davvero. Bada quel che
t'ha mando. T'ha mando questo 'nvolto e col lino
che c'è dientro, lui comanda che tu gli faccia
subbito un panno di cento braccia; ma subbito,
perché lui n'ha bisogno. E come fara' tu con
questi tre lucignolini di lino a contentarlo? -
Date qua ch'i' vegga, - dice Grisèlda. Lei
dunque pigliò quello 'nvolto, e in nello scotere
i lucignolini del lino gli cascorno per le terre
tre lische; sicché lei s'acchina e le raccatta,
poi le ravvolge daccapo dietro alla medesima
carta e le porge a su' padre, dicendo: - Tornate
'nsenza 'ndugio dal Re e ditegli da parte mia,
ch'i' son pronta a servirlo nel su' desiderio;
ma che siccome mi manca il telaio, che me lo
faccia lui con queste tre lische e me lo mandi
subbito, se vole presto la tela. Scrama, il
contadino: - Ma che sie' matta a farmi fare di
simil imbasciate? Arrisponde in sul serio
Grisèlda: - Voi andate, fate a mi' modo, e nun
abbiate sospetto di nulla. Gnamo, sbrigatevi. Il
contadino torna dunque dal Re e gli fa
l'imbasciata che gli aveva detto Grisèlda. Dice
il Re: - Ma sapete che vo' dovete essere al
possesso d'una figliola dimolto svelta! I' sono
al disotto al su' paragone. Tant'è, i' la voglio
vedere e cognoscere in ugni mo'? Vo' gli avete
però a dire, comando di Re, che la si presenti
al palazzo domani, né digiuna né satolla, né
pettinata né scarruffata, né vestita né
spogliata, né a piedi né a cavallo. Vo' avete
capito. Andate e fatela subbito avvisata della
mi' volontà. Torna il contadino a casa, e tutto
sgomento dice alla su' figliola: - Oh! senti il
Re che vole. E' ti vole a udienza domani, perché
e' ti vol cognoscere e discorrer con teco per
via delle tu' mattìe. Ma a palazzo tu ci devi
andare, né digiuna né satolla, né pettinata né
scarruffata, né vestita né spogliata, né a piedi
né a cavallo; insennonoe, poera te! Come dunque
vo' tu fare a rimediarla? Dice Grisèlda: -
Quante paure vo' avete! Lassate fare a me, e nun
pensate più oltre. La mattina doppo Grisèlda si
leva e va 'n cucina: si coce un ovo a bere e lo
'ngolla; poi si ravvia per bene il capo da una
parte, e da quell'altra lo lassa tutto
scarruffato co' capelli ciondoloni giù per le
spalle; poi 'n sulla camicia ci si mette una
rete da pescare, che di 'n sul capo gli cascava
a' piedi, e ci si ravvoltola tutta la persona;
poi piglia una capra e in sul groppone gli ci
appoggia un piede e quell'altro lo tieneva in
terra, e accosì camminava zoppiconi. A questo
mo' si presenta a udienza dal Re. Dice il Re,
quando la vedde: - Oh! chi siete voi? Arrisponde
lei: - Son la figliola di quel contadino, che
vo' gli mandasti tre lucignolini di lino per
fare una tela di cento braccia. - Bene! bene! -
scrama il Re: - ma diedi anco l'ordine che alla
mi' presenzia vo' ci avevi a vienire così e
così. - Oh! che forse nun l'ho contentata, Sua
Maestà? - disse Grisèlda. - Guardi un po'! A
culizione i' ho mangio un ovo soltanto, e però
nun sono né digiuna nò satolla; per il resto poi
giudichi da sé, co' su' occhi. Scramò il Re: -
Brava! Vo' siete una brava ragazza e avete del
genio. Anzi, mi garbate tanto che vi voglio per
mi' sposa. Che ve ne par egli? - Guà! se lei si
degna, - arrispose Grisèlda, - nun dirò di no.
Sia fatta la su' volontà. - Dunque, - dice il
Re, - tornate a casa e domandate al babbo se lui
è contento. E poi, contento o no, comando io, e
ditegli che questo 'gli è il mi' piacimento e la
mi' volontà. Grisèlda se n'arritornò diviato a
casa, e al babbo gli disse quel che il Re
voleva. Dice il contadino a quella nova: - Se il
Re ti vole per isposa, nun c'è da opporre. Ma
senti, bada a quel che tu fai, perché il Re poi
nun sarà contento di te. A
ugni bon fine tu m'ha' da lassare codesti
tu' panni di lendinella, e i' te gli
attaccherò qui a un cavicchio, e caso mai tu
avessi a rivienirtene a casa, tu gli
troverai al su' posto per rimettersegli al
bisogno. E così difatto e'
feciano, e Grisèlda si sposò al Re e diventò
Regina e la su' moglie legittima.
|
La giovane sposa
parve che co’ vestimenti insieme l’animo ed i
costumi mutasse. Ella era, come giá dicemmo, di
persona e di viso bella, e cosí come bella era,
divenne tanto avvenevole, tanto piacevole e
tanto costumata, che non figliuola di Giannucolo
e guardiana di pecore pareva stata, ma d’alcun
nobile signore; di che ella faceva maravigliare
ogni uom che prima conosciuta l’avea: ed oltre a
questo, era tanto obediente al marito e tanto
servente, che egli si teneva il piú contento ed
il piú appagato uomo del mondo, e similmente
verso i sudditi del marito era tanto graziosa e
tanto benigna, che niun ve n’era che piú che sé
non l’amasse e che non l’onorasse di buon grado,
tutti per lo suo bene e per lo suo stato e per
lo suo esaltamento pregando, dicendo, dove dir
soleano Gualtieri aver fatto come poco savio
d’averla per moglie presa, che egli era il piú
savio ed il piú avveduto uomo che al mondo
fosse, per ciò che niuno altro che egli avrebbe
mai potuto conoscere l’alta vertú di costei
nascosa sotto i poveri panni e sotto l’abito
villesco. Ed in brieve, non solamente nel suo
marchesato ma per tutto, anzi che gran tempo
fosse passato, seppe ella sí fare, che ella fece
ragionare del suo valore e del suo bene
adoperare, ed in contrario rivolgere, se alcuna
cosa detta s’era contro al marito per lei quando
sposata l’avea. Ella non fu guari con Gualtieri
dimorata che ella ingravidò, ed al tempo debito
partorí una fanciulla, di che Gualtieri fece
gran festa. Ma poco appresso, entratogli un
nuovo pensier nell’animo, cioè di volere con
lunga esperienza e con cose intollerabili
provare la pazienza di lei, primieramente la
punse con parole, mostrandosi turbato e dicendo
che i suoi uomini pessimamente si contentavano
di lei per la sua bassa condizione, e
spezialmente poi che vedevano che ella portava
figliuoli, e della figliuola che nata era
tristissimi, altro che mormorar non faceano. Le
quali parole udendo la donna, senza mutar viso o
buon proponimento in alcuno atto, disse: —
Signor mio, fa’ di me quello che tu credi che
piú tuo onore o consolazion sia, ché io sarò di
tutto contenta, sí come colei che conosco che io
sono da men di loro e che io non era degna di
questo onore al quale tu per tua cortesia mi
recasti. — Questa risposta fu molto cara a
Gualtieri, conoscendo costei non essere in
alcuna superbia levata per onore che egli o
altri fatto l’avesse. Poco tempo appresso,
avendo con parole generali detto alla moglie che
i sudditi non potevan patir quella fanciulla di
lei nata, informato un suo famigliare, il mandò
a lei, il quale con assai dolente viso le disse:
— Madonna, se io non voglio morire, a me convien
far quello che il mio signor mi comanda. Egli
m’ha comandato che io prenda questa vostra
figliuola e che io... — e non disse piú. La
donna, udendo le parole e veggendo il viso del
famigliare, e delle parole dette ricordandosi,
comprese che a costui fosse imposto che egli
l’uccidesse; per che prestamente, presala della
culla e basciatala e benedettala, come che gran
noia nel cuor sentisse, senza mutar viso, in
braccio la pose al famigliare e dissegli: — Te’,
fa’ compiutamente quello che il tuo e mio
signore t’ha imposto: ma non la lasciar per modo
che le bestie e gli uccelli la divorino, salvo
se egli nol ti comandasse. — Il famigliare,
presa la fanciulla e fatto a Gualtier sentire
ciò che detto aveva la donna, maravigliandosi
egli della sua costanza, lui con essa ne mandò a
Bologna ad una sua parente, pregandola che,
senza mai dire cui figliuola si fosse,
diligentemente l’allevasse e costumasse.
Sopravvenne appresso che la donna da capo
ingravidò, ed al tempo debito partorí un
figliuol maschio, il che carissimo fu a
Gualtieri; ma non bastandogli quello che fatto
avea, con maggior puntura trafisse la donna, e
con sembiante turbato un dí le disse: — Donna,
poscia che tu questo figliuol maschio facesti,
per niuna guisa con questi miei viver son
potuto, sí duramente si ramaricano che un nepote
di Giannucolo dopo me debba rimaner lor signore;
di che io mi dótto, se io non ci vorrò esser
cacciato, che non mi ci convenga fare di quello
che io altra volta feci, ed alla fine lasciar te
e prendere un’altra moglie. — La donna con
paziente animo l’ascoltò, né altro rispose se
non: — Signor mio, pensa di contentar te e di
sodisfare al piacer tuo, e di me non avere
pensiero alcuno, per ciò che niuna cosa m’è cara
se non quanto io la veggio a te piacere. — Dopo
non molti dí Gualtieri, in quella medesima
maniera che mandato aveva per la figliuola,
mandò per lo figliuolo, e similmente dimostrato
d’averlo fatto uccidere, a nutricar nel mandò a
Bologna, come la fanciulla aveva mandata; della
qual cosa la donna né altro viso né altre parole
fece che della fanciulla fatto avesse, di che
Gualtieri si maravigliava forte, e seco stesso
affermava, niuna altra femina questo poter fare
che ella faceva: e se non fosse che carnalissima
de’ figliuoli, mentre gli piacea, la vedeva, lei
avrebbe creduto ciò fare per piú non curarsene,
dove come savia lei farlo conobbe. I sudditi
suoi, credendo che egli uccidere avesse fatti i
figliuoli, il biasimavan forte e reputavanlo
crudele uomo, ed alla donna avevan grandissima
compassione; la quale con le donne le quali con
lei de’ figliuoli cosí morti si condoleano, mai
altro non disse, se non che quel ne piaceva a
lei che a colui che generati gli avea. Ma
essendo piú anni passati dopo la nativitá della
fanciulla, parendo tempo a Gualtieri di fare
l’ultima pruova della sofferenza di costei, con
molti de’ suoi disse che per niuna guisa piú
sofferir poteva d’aver per moglie Griselda e che
egli conosceva che male e giovenilmente aveva
fatto quando l’aveva presa, e per ciò a suo
potere voleva procacciar col papa che con lui
dispensasse che un’altra donna prender potesse e
lasciar Griselda; di che egli da assai buoni
uomini fu molto ripreso, a che nulla altro
rispose, se non che conveniva che cosí fosse. La
donna, sentendo queste cose e parendole dovere
sperare di ritornare a casa del padre, e forse a
guardar le pecore come altra volta aveva fatto,
e vedere ad un’altra donna tener colui al quale
ella voleva tutto il suo bene, forte in se
medesima si dolea: ma pur, come l’altre ingiurie
della fortuna aveva sostenute, cosí con fermo
viso si dispose a questa dover sostenere. Non
dopo molto tempo Gualtieri fece venire sue
lettere contraffatte da Roma, e fece veduto a’
suoi sudditi, il papa per quelle aver seco
dispensato di poter tôrre altra moglie e lasciar
Griselda; per che, fattalasi venir dinanzi, in
presenza di molti le disse: — Donna, per
concession fattami dal papa io posso altra donna
pigliare e lasciar te: e per ciò che i miei
passati sono stati gran gentili uomini e signori
di queste contrade, dove i tuoi stati son sempre
lavoratori, io intendo che tu piú mia moglie non
sia, ma che tu a casa Giannucolo te ne torni con
la dota che tu mi recasti, ed io poi un’altra,
che trovata n’ho convenevole a me, ce ne menerò.
— La donna, udendo queste parole, non senza
grandissima fatica, oltre alla natura delle
femine, ritenne le lagrime, e rispose: — Signor
mio, io conobbi sempre la mia bassa condizione
alla vostra nobiltá in alcun modo non
convenirsi, e quello che io stata son con voi,
da Dio e da voi il riconoscea, né mai come
donatolmi, mio il feci o tenni, ma sempre l’ebbi
come prestatomi; piacevi di rivolerlo, ed a me
dèe piacere e piace di renderlovi: ecco il
vostro anello col quale voi mi sposaste,
prendetelo. Comandatemi che io quella dota me ne
porti che io ci recai, alla qual cosa fare né a
voi pagatore né a me borsa bisognerá né somiere,
per ciò che di mente uscito non m’è che ignuda
m’aveste: e se voi giudicate onesto che quel
corpo nel quale io ho portati figliuoli da voi
generati, sia da tutti veduto, io me n’andrò
ignuda: ma io vi priego, in premio della mia
virginitá che io ci recai e non ne la porto, che
almeno una sola camiscia sopra la dota mia vi
piaccia che io portarne possa. — Gualtieri, che
maggior voglia di piagnere aveva che d’altro,
stando pur col viso duro, disse: — E tu una
camiscia ne porta. — Quanti dintorno v’erano il
pregavano che egli una roba le donasse, ché non
fosse veduta colei che sua moglie tredici anni o
piú era stata, di casa sua cosí poveramente e
cosí vituperosamente uscire, come era uscirne in
camiscia: ma invano andarono i prieghi; di che
la donna in camiscia e scalza e senza alcuna
cosa in capo, accomandatigli a Dio, gli uscí di
casa ed al padre se ne tornò, con lagrime e con
pianto di tutti coloro che la videro.
|
Ora si dove sapere
che nella città reale costumava, che quando si
facevano giudizi di sentenzie ne' tribunali,
anco la moglie del Re sprimeva il su' parere; e
gli accadette, che quando il Re sentenziava,
Grisèlda gli era sempre contraria, e al Re
quest'opporsi accosì gli era vienuto dimolto a
noia. Sicché dunque il Re disse un bel giorno
alla Regina: - S'ha da far finita; da oggi 'n là
ti proibisco di dar sentenzia assiem con meco.
I' nun vo' esser sempre contrariato da te. Che
tu smetta di metter bocca negl'interessi dello
Stato. Alla Regina gli conviense ubbidire, e il
Re 'gli andeva solo in tribunale. In questo
frattempo successe che ci fusse una fiera, come
sarebbe quella di settembre a Prato, un fierone,
e dappertutto le parti ci vienivano le genti per
vendere e comperare robbe e bestiami. Ci volse
andare anco un fattore di lontano, perché aveva
una bellissima cavalla pregna e contava
d'esitarla a bon guadagno. Dunque il fattore si
mettiede in viaggio e arrivò fora della porta
prima che cominciassi la fiera, e per nun
nentrar subbito dientro con la bestia strafelata
e stracca, si fermò a un contadino. Dice: - Ci
averesti voi da rimettermi un po' la bestia,
'ntanto ch'i' vo a vedere la città 'nnanzi che
la fiera principi? Arrispose quel bifolco: - Sì,
lassatela pure. Ma in nella stalla del posto nun
ce n'è più; è tutto pieno: vo' l'avete a legare
accosì sotto il portico al mi' carro; ché si
sciolga nun c'è pericolo. Il fattore dunque legò
la su' cavalla al carro, gli buttò del fieno, e
poi se n'andiede a gironi per la città. Doppo
che il fattore 'gli ebbe girato un bel pezzo,
quando fu ora, se ne ritornò sotto 'l portico a
pigliar la cavalla per menarla in sulla fiera, e
trovò che in quel mentre gli aveva figliato un
bel muletto; sicché, tutt'allegro il fattore,
s'accosta per condurre via le du' bestie; ma
deccoti a un tratto il contadino, che lo ferma e
gli dice: - Padrone, signor fattore: la cavalla
la meni pur via con seco, ma il muletto è mio. -
Come vostro, - scrama il fattore; - se l'ha
figliato la mi' cavalla? - Che cavalla! - berciò
il contadino. - Qui 'gli è lo sbaglio; vo'
fat'erro; il muletto l'ha figliato il carro.
Insomma, nascette una lite buscherona, che nun
rifiniva mai, sicché tutti e dua i leticatori se
n'andiedano davanti al Re, perché lui decidessi;
e il Re, sentute le ragioni delle parti,
sentenziò che il muletto e' l'aveva figliato il
carro e che però gli era del contadino.
Figuratevi la disperazione del fattore, ché gli
pareva dimolto ingiusta la sentenzia del Re! E
dappertutta la città lui si lamentava di questa
sentenzia, e tutti lo compativano e gli
dicevano: - Eh! quando la Regina deva anco lei
il su' parere, di questi simili sbagli nun ne
succedevano davvero. Dice il fattore: - Che nun
gli si pole parlar punto alla Regina? Arrisponde
uno: - Che! 'gli è quasi impossibile. E poi, che
vole? Lei nun sentenzia più, perché il Re l'ha
proibita. Dice il fattore: - Se mi rinuscissi
però, i' gli vorrei almanco parlare. E
s'incammina in verso il palazzo reale. Arrivo
che fu il fattore al palazzo reale, s'accosta a
un cammerieri e gli domanda: - Galantomo, che si
potrebb'egli parlar du' parole alla Regina?
Arrisponde il cammerieri: - Che! 'gli è
difficile, perché il Re l'ha proibita di dar
sentenzie. In ugni mo', i' mi posso anco provare
a fargli motto, e sentire se lei vole ricevervi.
E difatto sale su al quartieri della Regina, e
gli dice che c'è un omo che gli vole parlare. Fa
la Regina: - Vienga pure, i' l'ascolterò. Dunque
il fattore monta le scale e lo menano in nella
stanza della Regina, e doppo gl'inchini e le
reverenzie, lui gli racconta la brutta sentenzia
del Re e gli addomanda se c'è un rimedio. Dice
la Regina: - Sentite, i' nun posso metterci
bocca, perché il Re m'ha proibito gli affari
dello Stato. Ma un consiglio, purché vo' nun
dite d'addove viene, ve lo posso anco dare.
Arrisponde il fattore: - Faccia lei; m'aiuti
come pole, e nun si dubiti, ché starò zitto, e
nun lo dirò a nissuno il consiglio che lei mi
dà. Dice allora la Regina: - Il Re domani va a
caccia fora della porta in un salvatico, addove
'n mezzo c'è un lago, ma secco di questa
stagione, 'n senza un filo d'acqua. Fate accosì
voi. Piglierete una zucca da pescatore e ve la
metterete a cintola, e con una rete pescate. Il
Re, in nel vedervi pescare in un lago alido a
quel mo', dapprima riderà, e poi v'addomanderà,
"perché pescate voi addove dell'acqua nun ce
n'è?" E allora vo' gli avete a rispondere:
"Maestà, 'gli è più facile che col tempo i'
pigli de' pesci qui all'asciutto, di quel che un
carro partorisca mai un mulo." Vo' vederete che
ne nascerà qualche cosa. Disse il fattore tutto
racconsolato: - Sicuro, i' farò come lei mi
comanda. La mattina doppo il fattore con la su'
zucca penzoloni alle reni e la rete infra le
mane se n'andiede al lago insenz'acqua, si siede
in sulla sponda, e buttava la rete e la ritirava
'n su, come se dientro ci fussano de' pesci
chiappati. Deccoti in quel mentre il Re col su'
séguito, e vede quell'omo lì acciaccinato a
simil lavoro; e però comincia a ridere forte, e
poi gli addomanda: - Oh! che siete insenza
cervello, che pescate in un lago asciutto
accosì? - Eh! che vole, Maestà! - arrispose il
fattore: - 'gli è vero, i' pesco addove
dell'acqua nun ce n'è. Ma vede, Maestà! i' ho
un'idea per il capo, che sia dimolto più facile
col tempo trovare qui de' pesci, di quel che un
carro possa mai figliare un muletto. Scrama il
Re in nel sentire quella risposta: - Tu sie'
stato dalla Regina! Questo 'gli è un consiglio
della Regina! Nun c'è che lei capace di questi
sentimenti. I' ho capito, e so quel che ho da
fare. Infrattanto, te vientene subbito al mi'
tribunale. Vanno diviato al tribunale, e fatto
chiamare anco il contadino, il Re diede un'altra
sentenzia, e il fattore riebbe il su' muletto,
che era giusto, perché era di lui. |
Giannucolo, che creder non
avea mai potuto questo esser vero, che
Gualtieri la figliuola dovesse tener moglie,
ed ognidí questo caso aspettando, guardati
l’aveva i panni che spogliati s’avea quella
mattina che Gualtieri la sposò; per che,
recatigliele ed ella rivestitiglisi,
a’ piccoli servigi della paterna casa si diede
sí come far soleva, con forte animo sostenendo
il fiero assalto della nemica fortuna. Come
Gualtieri questo ebbe fatto, cosí fece veduto a’
suoi che presa aveva una figliuola d’un de’
conti da Panago: e faccendo fare l’appresto
grande per le nozze, mandò per la Griselda che a
lui venisse; alla quale venuta disse: — Io meno
questa donna la quale io ho nuovamente tolta, ed
intendo in questa sua prima venuta d’onorarla: e
tu sai che io non ho in casa donne che mi
sappiano acconciar le camere né fare molte cose
che a cosí fatta festa si richeggiono; e per ciò
tu, che meglio che altra persona queste cose di
casa sai, metti in ordine quello che da far c’è,
e quelle donne fa invitar che ti pare, e
ricevile come se donna di qui fossi; poi, fatte
le nozze, te ne potrai a casa tua tornare. — |
Quando il Re fu
ritorno dal tribunale al su' palazzo, chiamò
Grisèlda e gli disse: - I' t'avevo proibito di
metter bocca in negli affari di Stato; ma te nun
m'ubbidisci, e nun posso campare insenza essere
scontraddetto da te. Sa' tu quel che è. Te devi
arritornartene a casa tua. Piglia quattrini,
piglia gioie, piglia anco la cosa che t'è più
cara dientro al palazzo reale, ma fora! Ché qui
nun ci si pole stare tutt'e dua assieme.
Arrisponde Grisèlda: - Come vole Sua Maestà. Ma
però i' gli chieggo una grazia sola, di
aspettare a domani di andarmene. Di sera sarebbe
propio vergogna per lei e per me, e nascerebbano
dimolti chiacchiericci e mormorii 'ntra la
gente. Dice il Re: - Concessa la grazia. No' si
cenerà per l'ultima volta assieme, e poi domani
te a casa tua. Nun mi rimuto. Vienuta la sera fu
al solito 'mbandita la mensa reale, e Grisèlda
'gli aveva ordinato che ci fussano dimolte
bottiglie in tavola, e lì mesci al Re, che
finalmente, bevi bevi 'nsenza discrizione, cascò
addormito in sulla poltrona, da parere un masso.
Dice allora Grisèlda a' servitori: - Pigliate la
poltrona con quel che c'è sopra e vienitemi
dietro: ma che nimo nun sia ardito di parlare. I
servitori presano la poltrona a braccia con il
Re a quel mo' appioppato e s'avviorno con la
padrona, che sortì dal palazzo e poi andiede
fora della porta della città, e nun si fermò che
a casa sua, quand'era notte fitta. Picchia, e
su' padre domanda dal di dientro: - Chi è a
quest'ora? - Apritemi, babbo, ch'i' son io, -
arrispose Grisèlda. Il contadino s'affaccia alla
finestra in nel sentire la voce della figliola:
- Come, sie' te a quest'ora che qui? I' te l'avevo ditto che un
bel giorno tu averesti dovuto arritornare a
casa tua! I' feci pur bene a serbarti i
panni di lendinella. Son sempre qui, veh!
attacchi spenzoloni al cavicchio in cammera
tua. Scrama Grisèlda a quel
chiacchiericcio: - Gnamo, via! meno discorsi e
apritemi.
|
Come che queste
parole fossero tutte coltella al cuor di
Griselda, come a colei che non aveva cosí potuto
por giú l’amore che ella gli portava come fatto
aveva la buona fortuna, rispose: — Signor mio,
io son presta ed apparecchiata. — Ed entratasene
co’ suoi pannicelli romagnuoli e grossi in
quella casa della qual poco avanti era uscita in
camiscia, cominciò a spazzar le camere ed
ordinarle, ed a far porre capoletti e pancali
per le sale, a fare apprestar la cucina, e ad
ogni cosa, come se una piccola fanticella della
casa fosse, porre le mani: né mai ristette, che
ella ebbe tutto acconcio ed ordinato quanto si
conveniva. Ed appresso questo, fatto da parte di
Gualtieri invitar tutte le donne della contrada,
cominciò ad attender la festa: e venuto il
giorno delle nozze, come che i panni avesse
poveri indosso, con animo e costume donnesco
tutte le donne che a quelle vennero, e con lieto
viso, ricevette. Gualtieri, il quale
diligentemente aveva i figliuoli fatti allevare
in Bologna alla sua parente che maritata era in
casa de’ conti da Panago, essendo giá la
fanciulla, d’etá di dodici anni, la piú bella
cosa che mai si vedesse, ed il fanciullo era di
sei, avea mandato a Bologna al parente suo
pregando che gli piacesse di dovere con questa
sua figliuola e col figliuolo venire a Saluzzo
ed ordinare di menar bella ed onorevole
compagnia con seco, e di dire a tutti che costei
per sua mogliere gli menasse, senza manifestare
alcuna cosa ad alcuno chi ella si fosse
altramenti. Il gentile uomo, fatto secondo che
il marchese il pregava, entrato in cammino, dopo
alquanti dí con la fanciulla e col fratello e
con nobile compagnia in su l’ora del desinare
giunse a Saluzzo, dove tutti i paesani e molti
altri vicini da torno trovò, che attendevan
questa novella sposa di Gualtieri. La quale
dalle donne ricevuta, e nella sala dove erano
messe le tavole venuta, Griselda, cosí come era,
le si fece lietamente incontro, dicendo: — Ben
venga la mia donna! — Le donne, che molto
avevano, ma invano, pregato Gualtieri che o
facesse che la Griselda si stesse in una camera
o che egli alcuna delle robe che sue erano state
le prestasse, acciò che cosí non andasse davanti
a’ suoi forestieri, furon messe a tavola e
cominciate a servire. La fanciulla era guardata
da ogni uomo, e ciascun diceva che Gualtieri
aveva fatto buon cambio: ma intra gli altri
Griselda la lodava molto, e lei ed il suo
fratellino. Gualtieri, al qual pareva pienamente
aver veduto quantunque disiderava della pazienza
della sua donna, veggendo che di niente la
novitá delle cose la cambiava, ed essendo certo,
ciò per mentecattaggine non avvenire, per ciò
che savia molto la conoscea, gli parve tempo di
doverla trarre dell’amaritudine la quale
estimava che ella sotto il forte viso nascosa
tenesse; per che, fattalasi venire, in presenza
d’ogni uomo sorridendo le disse: — Che ti par
della nostra sposa? — Signor mio, —rispose
Griselda — a me ne par molto bene; e se cosí è
savia come ella è bella, che il credo, io non
dubito punto che voi non dobbiate con lei vivere
il piú consolato signor del mondo: ma quanto
posso vi priego che quelle punture, le quali
all’altra che vostra fu giá, déste, non diate a
questa, ché appena che io creda che ella le
potesse sostenere, sí perché piú giovane è, e sí
ancora perché in dilicatezze è allevata, ove
colei in continue fatiche da piccolina era
stata. — Gualtieri,
veggendo che ella
fermamente credeva, costei dovere esser sua
moglie, né per ciò in alcuna cosa men che
ben parlava, ...
|
Il contadino scende
dunque e apre, e vede tutta quella gente;
nentrano in casa, e Grisèlda si fa portare in
cammera il Re e lo fa mettere spogliato nel su'
propio letto; poi licenzia i servitori, e anco
lei va a letto accanto del Re. Quando fu la
mezzanotte il Re si destò, e gli pareva di star
male in sulle materasse, e si sentiva
doliccicare dappertutto. Tasta e s'accorge che
ha la moglie con seco. Dice allora il Re: -
Grisèlda, oh! nun t'avevo ditto che avevi da ire
a casa tua? - Sì, Maestà, - arrisponde lei: - ma
nun è anco giorno. Dorma, dorma. Il Re si
riaddormì. A bruzzolo il Re si desta daccapo,
alza gli occhi e vede la luce attraverso 'l
tetto. Nun sapeva lui quel che si pensare.
Guarda d'attorno e s'accorge che nun è la su'
cammera del palazzo reale, sicché addimanda alla
moglie: - Grisèlda, che lavoro è egli questo?
Oh! addove no' siemo? Dice Grisèlda: - Sua
Maestà nun mi disse che dovevo arritornarmene a
casa mia? Deccomi, ci sono. Nun mi disse che
portassi pur con meco la cosa che più mi garbava
nel palazzo? Siccome la cosa che più mi garba è
Sua Maestà, accosì i' ho porto con meco qui anco
lei. I' l'ho obbedita
appuntino in tutti i su' ordini.
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...la
si fece sedere allato e disse: — Griselda, tempo è ornai che
tu senta frutto della tua lunga pazienza e
che coloro li quali me hanno reputato
crudele ed iniquo e bestiale conoscano che
ciò che io faceva ad antiveduto fine
operava, volendoti insegnar d’esser moglie
ed a loro di saperla tenere, ed a me
partorire perpetua quiete mentre teco a
vivere avessi; il che, quando venni a
prender moglie, gran paura ebbi che non
m’intervenisse: e per ciò, per pruova
pigliarne, in quanti modi tu sai ti punsi e
trafissi. E però che io mai non mi sono
accorto che in parola né in fatto dal mio
piacere partita ti sii, parendo a me aver di
te quella consolazione che io disiderava,
intendo di rendere a te ad una ora ciò che
io tra molte ti tolsi e con somma dolcezza
le punture ristorare che io ti diedi: e
per ciò con lieto animo prendi questa che tu mia
sposa credi, ed il suo fratello, per tuoi e miei
figliuoli; essi sono quegli li quali tu e molti
altri lungamente stimato avete che io
crudelmente uccider facessi, ed io sono il tuo
marito, il quale sopra ogni altra cosa t’amo,
credendomi poter dar vanto che niuno altro sia
che, sí come io, si possa di sua moglier
contentare. — E cosí detto, l’abbracciò e
basciò, e con lei insieme, la qual d’allegrezza
piagnea, levatosi, n’andarono lá dove la
figliuola, tutta stupefatta queste cose
ascoltando, sedea: ed abbracciatala teneramente,
ed il fratello altressi, lei e molti altri che
quivi erano sgannarono. Le donne lietissime,
levate dalle tavole, con Griselda n’andarono in
camera e con migliore agurio trattile i suoi
pannicelli, d’una nobile roba delle sue la
rivestirono, e come donna, la quale ella
eziandio negli stracci pareva, nella sala la
rimenarono. E quivi fattasi co’ figliuoli
maravigliosa festa, essendo ogni uomo lietissimo
di questa cosa, il sollazzo ed il festeggiar
multiplicarono ed in piú giorni tirarono: e
savissimo reputaron Gualtieri, come che troppo
reputassero agre ed intollerabili l’esperienze
prese della sua donna, e sopra tutti savissima
tenner Griselda.
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Dice il Re: - Tu sie'
propio una donna a modo, Grisèlda. Il
mammalucco son io, che fo anco
dell'ingiustizie. Via, leviamoci e
torniamo al palazzo, e da qui 'nnanzi i'
ti vo' sempre a dire i tu' pareri e a
sentenziare con meco al tribunale. Allora
si levorno e se n'andiedano diviato al palazzo
reale, e la Regina deva i su' pareri e le
sentenzie come da prima, e tutto il popolo fu
dimolto contento.
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Il conte da Panago
si tornò dopo alquanti dì a Bologna, e
Gualtieri, tolto Giannucolo dal suo lavorio,
come suocero il pose in istato che egli
onoratamente e con gran consolazione visse e
finì la sua vecchiezza. Ed egli appresso,
maritata altamente la sua figliuola, con Griselda, onorandola
sempre quanto piú si potea, lungamente e
consolato visse. |
E accosì que' dua camporno
lungo tempo, e
Se ne stettano e se la godettano, E a me
nulla mi dettano. |
Che si potrá dir
qui, se non che anche nelle povere case piovono
dal cielo de’ divini spiriti, come nelle reali
di quegli che sarien piú degni di guardar porci
che d’avere sopra uomini signoria? Chi avrebbe
altri che Griselda potuto col viso non solamente
asciutto ma lieto sofferir le rigide e mai piú
non udite pruove da Gualtier fatte? Al quale non
sarebbe forse stato male investito d’essersi
abbattuto ad una che, quando fuor di casa
l’avesse in camiscia cacciata, s’avesse sì ad
uno altro fatto scuotere il pilliccione, che
riuscito ne fosse una bella roba.
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https://www.spiweb.it/dossier/dossier-psicoanalisi-e-guerre-gennaio-2014/note-per-una-rilettura-del-pensiero-di-franco-fornari-sulla-guerra/
Nel pensiero di Fornari c'è la risposta che
corrisponde alla vicenda di Griselda. Per non cadere
nella paranoia distruttiva Gualtieri ha bisogno che la
donna lo tratti come buono, vale a dire che bonifichi
i suoi impulsi cattivi, rappresentati dalle azioni
crudeli. Ma quando si commuove smette di pretendere
questa assoluta assoluzione da parte della donna,
perché, se la pretendesse da una sposa non avvezza
alle privazioni, la ucciderebbe. Griselda non è santa,
Griselda è erede di Diotima.
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Qui sotto le tre immagini del Maestro di
Griselda (datazione incerta, forse 1490) sono precedute
dalla quarta opera di Botticelli col banchetto di nozze
fra Nastagio degli Onesti e la sua amata (come le prime
tre tavole databile al1483, vedi
la nota sulla novella di Nastagio degli Onesti).
La stretta relazione fra le due opere è certamente stata
osservata, qui ci interessa come indice della relazione
fra il lieto fine di Griselda - centesima novella del
Decameron - e il lieto fine delle novelle della quinta
giornata, vale a dire di quelle che completano il numero
di cinquanta.
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Maestro
di Griselda (1490?)
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BIBLIOGRAFIA
DEI TESTI CITATI IN QUESTA PAGINA |
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Amina Shah, La
storia dei quattro dervisci di Amir Khusru,
Vicenza: Edizioni Il Punto d’Incontro, 1992. |
Bausi,
Francesco, Gli spiritimagni. Figure aristoteliche e
tomistiche nella decima giornata del Decameron
|
Botti,
Francesco Paolo, "La virtù impura. La novella di Natan
e Mitridanes e la X giornata del Decameron"
in: D. Capasso, Nella moltitudine delle cose,
cit. (pp. 84-106,
testo integralmente disponibile online) ultimo
accesso 26/07/2022.
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Capasso,
Danilo, a cura di, Nella moltitudine delle cose. Convegno
internazionale su Giovanni Boccaccio a settecento anni
dalla nascita. USA NC: Ae Aonia edizioni, Lulu Press,
2016. (testo
parzialmente disponibile online) ultimo accesso
26/07/2022. |
Nerucci,
Gherardo, Sessanta novelline popolari montalesi.
Introduzione, note e glossario di Roberto Fedi.MIlano:
Rizzoli BUR 1977. |
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