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Solo prima della
quarta giornata il narratore di primo grado, l'Autore,
Boccaccio, interviene in prima persona per difendere
se stesso col rigore di un filosofo classico. Così è
nella novella contenuta nel discorso, quella delle
donne che si chiamano papere, alle quali il giovane
ancora ignaro della loro esistenza vuol dare da
mangiare. (continua) |
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seguito sui titoli delle novelle per leggerle online
(wikisource) |
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GIORNATA QUARTA NOVELLA PRIMA Fiammetta racconta Tancredi prenze di Salerno uccide l’amante della figliuola e mandale il cuore in una coppa d’oro; la quale, messa sopr’esso acqua avvelenata, quella si bee, e così muore. |
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Umana cosa è avere compassione degli afflitti: chi non ha compassione, il principe Tancredi, uccide chi ama e condanna se stesso all'infelicità. La mancanza di compassione è mancanza di Eros, al suo posto si trova l'orgoglio del sovrano, che a qualsiasi prezzo difende la sua superiorità gerarchica e colpisce senza riflettere - ri-flettere: ri-guardare alla propria immagine e a quella dell'altro. La gerarchia esige il sacrificio dell'Eros, ma quando è priva di clemenza distrugge con l'Eros anche se stessa. Perché è per amore, anche se non solo per amore, che costruiamo e manteniamo le nostre istituzioni. Nel 1940 W. H. Auden conclude con questi versi la poesia In Memory of Sigmund Freud: all'avvento della prima guerra mondiale sa che le gerarchie prive di Eros sono portatrici solo di morte e che sarà la città stessa a cadere sotto il loro peso. Allo stesso modo il potere di Tancredi di Salerno alla fine della storia è solo potere di dare la morte. I poeti capiscono Freud e la psicoanalisi meglio della maggioranza degli psicoanalisti.
L'Immacolata Vergine, preservata immune da ogni macchia di colpa originale, finito il corso della sua vita terrena, fu assunta alla celeste gloria in corpo e anima. (Lumen Gentium, 59) Il fatto che ci siano contraddizioni
paradossali alla critica razionalistica e
illuministica pare un invito a metter fine a
queste contraddizioni, e qui è la forza e il
limite della nostra posizione razionale,
intendendo questa posizione come la determinazione
a instaurare nel campo della coscienza il
principio di non contraddizione. La potenza della
Genesi, che arriva fino a quanto afferma il Lumen
Gentium su Maria, si fonda sulle sue
contraddizioni, altrettante sollecitazioni a
prenderne atto: la contraddizione, col suo portato
altrettanto unheimliche del gatto di
Schrödinger, sia vivo sia morto, o, se si
preferisce, né vivo né morto, non è un resto
imperfetto della condizione umana, destinato,
prima o poi a essere reso luminoso
dall'inevitabile progresso scientifico che ha
fatto la fortuna mediatica di Piero Angela, ma il
tratto fondamentale della condizione umana. Non è
quindi un caso che chi ha minato alla base questa
sicurezza, nel momento stesso in cui immaginava di
conquistare alla ragione territori fino a quel
punto vergini, fosse ebreo, appartenesse quindi
alla comunità che si considera pura rispetto
all'impurità del resto del mondo, al punto di
difendere questa purezza con rituali che appaiono
ferocemente ossessivi nella preparazione del vino
o dell'aceto balsamico o nella macellazione degli
animali, o nell'astensione da ogni attività del
sabato.
Il problema slitta nella tragedia quando un sistema di pensiero, che si traduce in un'azione politica, diventa perfettamente coerente, come il socialismo reale o il nazifascismo. O anche il consumismo neocapitalistico che gioca sul desiderio umano, sul mistero della sua inappagabilità. Che è parente del gatto di Schrödinger. La questione è se siamo capaci di riconoscere che quel che chiamiamo realismo e senso comune, conseguente all'evoluzione o all'involuzione dell'illuminismo settecentesco, a sua volta copia infedele dell'umanesimo che in Boccaccio ha il suo massimo esponente, mentre l'umanesimo riprende e rende immensa l'esperienza della Grecia classica, che aveva nel nemico sempre alle porte, persiano o romano, il proprio limite, ha valore se ha limiti, ha senso se è portatore di inevitabili contraddizioni. I meccanismi di difesa, analoghi alle mura che abbracciano e delimitano una città, la rimozione anzitutto, dalla quale ogni difesa prende e riprende le mosse, riescono se possono fallire: altrimenti soffocano la città, la uccidono. È quel che accade alla fine delle favole o novelle o parabole della quarta giornata, nella quale il paterfamilias o chi per lui applica senza pietà le norme che è sua prerogativa applicare. |
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GIORNATA QUARTA NOVELLA SECONDA Pampinea racconta Frate Alberto dà a vedere ad una donna che l’Agnolo Gabriello è di lei innamorato, in forma del quale più volte si giace con lei; poi, per paura de’ parenti di lei della casa gittatosi, in casa d’uno povero uomo ricovera, il quale in forma d’uomo salvatico il dì seguente nella piazza il mena, dove, riconosciuto, è da’ suoi frati preso e incarcerato. |
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De Paulina romana femina (De
mulieribus claris XCI) ricorda Lisetta, la
protagonista di IV 2. La biografia nel De
mulieribus ha carattere affabulatorio.
Boccaccio nel De Mulieribus attinge a Giuseppe
Flavio, ebreo e cittadino romano, I sec. d.C. autore
dell'opera in greco Antichità Giudaiche
(XVIII 65-80).
Vi si narra l'astuzia escogitata da Ida, liberta di Decio Mundo, per consentirgli di concupire la ricca e morigerata Paolina, già sposa di Saturnino. VCorrotti i sacerdoti del tempio romano di Iside, al quale la giovane è devota, i ministri del culto le fanno credere che Anubi voglia giacere con lei. Lusingata dalla notizia, Paolina se ne vanta con le amiche e riferisce ogni cosa al marito, il quale, conoscendone la pudicizia, acconsente senza alcun sospetto. Decio, vestiti i pann idel dio, può dunque realizzare il suo desiderio, salvo poi rivelare il misfatto a Paolina per schernirla e vendicarsi, così, dei suoi precedenti rifiuti. A questo punto Paolina si confessa col marito e implora una giusta puniione: Saturnino informa Tiberio che punisce i colpevoli con la morte, fa distruggere il tempio e condanna Decio all'esilio. Dal de Mulieribus claris tradotto a Betussi forse Capitolo LXXXIX Paulina romana donna acquistò nominanza inestinguibile per alcuna sua semplicità. Questa, signoreggiando Tiberio imperadore de' romanim comeera tenuta innanzi alle altre di bellezza del corpo, così poi che fu maritata era riputata da ogni uomo, di gloriosa onestà, non curavaalcuna cosa con singolare studio, se non ptoere servire e acquistare la grazia di Anubi dio degli Egizi^, il quale con sommo amore ella amava. E essendo le belle donne amate dai giovani in ogni luogo, e in ispezialtà quelle che hanno sollecita cura di castità, iun giovane romano preso dalla bellezza di quella, chiamato per nome Mondo, strettamente avea cominciato a |
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GIORNATA QUARTA NOVELLA TERZA Lauretta racconta Tre giovani amano tre sorelle e con loro si fuggono in Creti. La maggiore per gelosia il suo amante uccide; la seconda, concedendosi al duca di Creti, scampa da morte la prima, l’amante della quale l’uccide e con la prima si fugge: ènne incolpato il terzo amante con la terza sirocchia; e presi il confessano e per tema di morire con moneta la guardia corrompono, e fuggonsi poveri a Rodi e in povertà quivi muoiono. |
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ASAP - PPCQ
Umana cosa è l’avere
compassione degli afflitti, e come che a ciascuna
persona stea bene, a coloro è massimamente richesto
li quali giá hanno di conforto avuto mestiere ed
hannol trovato in alcuni; tra li quali, se alcuno
mai n’ebbe bisogno o gli fu caro o giá ne ricevette
piacere, io sono un di quegli. Per ciò che, dalla
mia prima giovanezza infino a questo tempo oltre
modo essendo stato acceso d’altissimo e nobile
amore, forse piú assai che alla mia bassa condizione
non parrebbe, narrandolo io, si richiedesse,
quantunque appo coloro che discreti erano ed alla
cui notizia pervenne io ne fossi lodato e da molto
piú reputato, nondimeno mi fu egli di grandissima
fatica a sofferire: certo non per crudeltá della
donna amata, ma per soperchio fuoco nella mente
concetto da poco regolato appetito, il quale, per
ciò che a niun convenevole termine mi lasciava
contento stare, piú di noia che bisogno non m’era
spesse volte sentir mi facea |
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GIORNATA QUARTA NOVELLA QUARTA Elissa racconta Gerbino, contra la fede data dal re Guglielmo suo avolo, combatte una nave del re di Tunisi per torre una sua figliuola, la quale uccisa da quegli che su v’erano, loro uccide, e a lui è poi tagliata la testa. |
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GIORNATA QUARTA NOVELLA QUINTA Filomena racconta I fratelli dell’Isabetta uccidon
l’amante di lei; egli l’apparisce in sogno e
mostrale dove sia sotterrato. Ella occultamente
disotterra la testa e mettela in un testo di
bassilico;
e quivi su piagnendo ogni dì per una grande ora, i fratelli gliele tolgono, ed ella se ne muore di dolore poco appresso. |
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Lisabetta aspettava il ritorno dell'amato amante, quando: Lorenzo l'apparve nel sonno, pallido e tutto rabbuffato e con panni tutti stracciati e fracidi indosso, e parvele che egli dicesse: - O Lisabetta, tu non mi fai altro che chiamare e della mia lunga dimora t’attristi, e me con le tue lagrime fieramente accusi; e per ciò sappi che io non posso più ritornarci, per ciò che l’ultimo dì che tu mi vedesti i tuoi fratelli m’uccisono. E disegnatole il luogo dove sotterrato l’aveano, le disse che più nol chiamasse né l’aspettasse, e disparve. La giovane destatasi, e dando fede alla visione, amaramente pianse. Universalmente note, le Metamorfosi di Ovidio raccontano nel Libro X di quando Ceice appare in sogno alla sposa Alcione, che ansiosamente ne attende il ritorno, come Lisabetta aspetta Lorenzo. Ceice, morto annegato, è bagnato, e anche Lorenzo ha i panni fracidi. Così appare ad Alcione: ...sporco di terra, come un cadavere, completamente senza vesti: la barba dello sposo sembrava bagnata, e dai capelli madidi e pesanti pareva cadere acqua di mare. Così allora, incombendo sul letto, col viso pieno di lacrime, parlava: « Riconosci Ceice, povera sposa mia, o il mio aspetto è tanto cambiato con la morte? Guardami: mi riconoscerai e al posto dello sposo troverai l'ombra! I tuoi voti, Alcione, non mi hanno portato fortuna: sono morto! Non voglio mentirti promettendoti di tornare! (Ovidio, Metamorfosi, XI, 654-662) L'unica colpa di Ceice e Alcione, re e regina, era quella di essere tanto felici da sentirsi pari alla coppia formata da Giove e Giunone, colpa per la quale vengono puniti duramente quanto Lisabetta e Lorenzo, quanto Ghismonda e Guiscardo, quanto Giulietta e Romeo, fino a tempi più vicini, se pensiamo alla morte di Brunilde e Sigfrido, o, pensando alla lirica, di Tosca e Mario Cavaradossi. In tutti questi casi la colpa degli amanti è aver ignorato o tradito l'ordine sociale. L'Eros che elude o infrange l'ordine gerarchico deve essere punito, ma la morte dei giovani significa l'interruzione della catena della vita: Tancredi non ha eredi, come i Montecchi e i Capuleti alla fine della tragedia di Shakespeare. Il potere che sacrifica Tosca e Mario non durerà a lungo, e il sacrificio della valchiria e del discendente di Wotan è allo stesso tempo il tramonto degli dei come finale della trilogia wagneriana. Boccaccio conclude la storia con due versi di una canzone che sarebbe stata composta in ricordo della vicenda di Lisabetta: Quale esso fu lo malo cristiano / Che mi furò la grasta ecc. Vale la pena leggere interamente la canzone, che viene collegata a un'altra storia di amore e morte, e non solo. Ne faremo cenno dopo la canzone, la cui presenza non è accertata prima della composizione del Decameron. Si racconta che un moro amava una giovane di Caltagirone, alla quale non aveva detto nulla della moglie e dei figli per i quali l'avrebbe lasciata. La fanciulla per vendicarsi gli tagliò la testa e la usò come grasta, vaso da fiori, che si dice anche testo (latino testum, col significato di coperchio o vaso di terracotta),che mise sul terrazzo e usò come vaso per il basilico. La ceramica di Caltagirone a forma di testa di moro, alla quale viene abbinata la testa dell'amante palermitana verrebbe come la canzone da questa storia. E se il testo della canzone - in particolare il finale struggente della novella di Lisabetta - venissero dalla omofonia fra testa e testo? Splendido il testo della novella, come è bello e caro alla protagonista il testo, nel quale cresce rigoglioso il basilico, basilico che viene dal latino basilicum, a sua volta dal greco basilikòn, erba regia.Quale esso fu lo malo cristiano, Testo, come testo di una novella come questa, è dal latino textum, che significa sia testo che tessuto, entrambi da texere, tessere. E se invece il successo delle teste di Caltagirone dipendesse dalla meravigliosa quinta novella della quarta giornata del Decameron? Se poi ci avviciniamo ai nostri tempi troviamo il pittore preraffaellita W. H. Hunt, che visse a Firenze con la moglie che morì nel 1866. Nel 1867 la dipinse come Lisabetta da Messina; è sepolta a Firenze, nel Cimitero degli Inglesi |
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Nel
De mulieribus claris la storia di Didone
(XLII) è simile a quella di Lisabetta. Pp. 100-103 di Elsa Filosa, che
ignora l'analogia fra il sogno di Lisabetta e quello
di Alcione, con Lorenzo bagnato come Ceice pur non
essendo morto annegato. |
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L’Andreuola ama Gabriotto;
raccontagli un sogno veduto ed egli a lei un
altro; muorsi di subito nelle sue braccia; mentre
che ella con una sua fante
alla casa di lui nel portano, son prese dalla signoria, ed ella dice come l’opera sta; il podestà la vuole sforzare; ella nol patisce; sentelo il padre di lei, e lei innocente trovata fa liberare; la quale, del tutto rifiutando di star più al mondo, si fa monaca. |
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L'INCERTITUDE
ET LA CERTITUDE QUI VIEN DES REVES Un titolo di Roger
Caillois è L'incertitude qui vien des reves (1956),
e il mio amore per il libro e il titolo, di cui
comprendo il valore grazie al lavoro sui sogni che
pratico da tanti lustri, me lo ha ricordato leggendo
questa novella, nella quale l'amore è salvo, e la
morte di lui Gabriotto, uomo di bassa condizione
ma di laudevoli e belli costumi e della persona
bello e piacevole, come il ritiro in convento
dell'Andreuola, non dipendono né da genitori o
fratelli che puniscono l'amore segretamente e
flicemente consumato, né da altro se non dal
destino, annunciato da due sogni che dicono la
stessa cosa. Andreuola ne e turbata e quasi
terrorizzata, mentre Gabriotto ne ride e dice quel
che ancora mi capita di sentirmi dire quando parlo
di Freud: [S]e ne rise e disse che grande
sciocchezza era ne' sogni porre alcuna fede, per
ciò che o per soperchio di cibo o per mancamento
di quello avvenieno, ed esser tutti vani si
vedeano ogni giorno.
Nel suo sogno, che ha appena raccontato all'amante, Andreola era nel suo giardino felice fra le braccia di Gabriotto, e mentre che cosí dimoravan, le pareva vedere del corpo di lui uscire una cosa oscura e terribile, la forma della quale essa non poteva conoscere, e parevale che questa cosa prendesse Gabriotto e malgrado di lei con maravigliosa forza gliele strappasse di braccio e con esso ricoverasse sotterra, né mai piú riveder potesse né l’un né l’altro; di che assai dolore ed inestimabile sentiva, e per quello si destò, e desta, come che lieta fosse veggendo che non cosí era come sognato avea, nondimeno l’entrò del sogno veduto paura. Per il turbamento rimanda l'incontro con Gabriotto, e il giorno dopo per spiegargliene la ragione gli racconta il sogno, al quale l'amante risponde affermado che i sogni sono tutti vani, e per questo lui non pensa che ci sia nulla da temere, tanto che anche il suo sogno conteneva una minaccia, alla quale però lui non presta alcuna attenzione: Se io fossi voluto andar dietro a’ sogni, io non ci sarei venuto, non tanto per lo tuo quanto per uno che io altressí questa notte passata ne feci, il qual fu, che a me pareva essere in una bella e dilettevole selva ed in quella andar cacciando, ed aver presa una cavriuola tanto bella e tanto piacevole quanto alcuna altra se ne vedesse giá mai: e pareami che ella fosse piú che la neve bianca ed in brieve spazio divenisse sì mia dimestica, che punto da me non si partiva tuttavia. A me pareva averla sì cara, che, acciò che da me non si partisse, le mi pareva nella gola aver messo un collar d’oro, e quella con una catena d’oro tener con le mani. Ed appresso questo, mi pareva che, riposandosi questa cavriuola una volta e tenendomi il capo in seno, uscisse non so di che parte una veltra nera come carbone, affamata e spaventevole molto nell’apparenza, e verso me se ne venisse, alla quale niuna resistenza mi parea fare; per che egli mi pareva che ella mi mettesse il muso in seno nel sinistro lato, e quello tanto rodesse, che al cuor perveniva, il quale pareva che ella mi strappasse per portarsel via. Di che io sentiva si fatto dolore, che il mio sonno si ruppe, e desto, con la mano subitamente corsi a cercarmi il lato se niente v’avessi: ma mal non trovandomivi, mi feci beffe di me stesso che cercato v’avea. Andreuola sente crescere la paura, ma la nasconde, solo, mentre lui l'abbraccia, guarda nel giardino se per caso qualche bestia nera si avvicina. Ma ecco che Gabriotto gittato un gran sospiro, l’abbracciò e disse: — Oimè! anima mia, aiutami, che io muoio — e cosí detto, ricadde in terra sopra l’erba del pratello. Il che veggendo la giovane e lui caduto ritirandosi in grembo, quasi piagnendo disse: — O signor mio dolce, o che ti senti tu? — Gabriotto non rispose, ma ansando forte e sudando tutto, dopo non guari di spazio passò della presente vita. Lasciamo la novella, nella quale onore e amore si incontrano, e l'amore trascorso fra Gabriotto e Andreuola viene onorato da tutti, compreso il padre di lei, e osserviamo che il narratore Panfilo espone una teoria del sogno che possiamo accettare integralmente, con l'accostamento al titolo di Roger Caillois: l'incertezza che vene dai sogni. Un'incertezza che aiuta nel lavoro di riconoscimento della condizione di relativa padronanza di noi su noi stessi: l'Io, possiamo dire, non è il padrone, ma l'amministratore delegato dell'impresa - la persona viva nel mondo. Questa scarsa padronanza spiega perché abbiamo una naturale tendenza ad avere padroni, seguendo ad esempio varie forme di dittatura: il padrone esiste, e se lo seguo le mie incertezze sono vinte, posso pensare che i sogni vengano per soperchio di cibo o per mancamento di quello e scoprendo al risveglio che il mio corpo è intatto e non gravemente morso da un cane li dimentico sentendomi nel giusto. Come veritiero era il sogno di Lisabetta nella precedente novella, e il sogno di Alcione nelle Metamrfosi di Ovidio, così erano veritieri e annunciavano la morte di Gabriotto i loro sogni. Mi inchino alla maestria di Boccaccio, per l'intensità poetica e la semplicità con la quale il sogno di Andreola racconta il suo amore e la sua disperazione: la cosa oscura che esce dal suo corpo, della quale non può riconoscere la forma - non ha forma né senso la morte! - le pareva che prendesse Gabriotto e malgrado di lei con maravigliosa forza gliele strappasse di braccio e con esso ricoverasse sotterra, né mai pià riveder potesse né l'uno né l'altro. L'arte di Boccaccio sale ancora nel sogno di Gabriotto: il cacciatore, il sognatore, conquista una cavriuola, che si lascia prendere, si fa mettere da lui una catena d'oro intorno al collo, e poggia il capo sul suo seno. Una cagna da caccia nera e affamata - la morte divora i viventi - gli divora la carne e gli arriva al cuore, che vuole portargli via, e dal dolore lui si sveglia. La capriola è la donna, e l'amante che la invoca può chiamarla anima mia, e la cerva è simbolo dell'anima. La cagna da caccia insegue le prede e ne causa la morte, e il cuore, come scoprono i medici successivamente, cede provocando la morte dell'uomo lo stesso giorno in cui racconta il sogno. Panfilo, che è il re della decima giornata, nella quale Dioneo racconta la storia di Griselda, ed è lo stesso che racconta la prima storia della prima giornata, spiega la teoria del sogno in continuità con la concezione classica, qui esposta da Penelope a Ulisse che ancora non si è fatto riconoscere: Dice Panfilo, dopo aver ricordato il sogno di Lisabetta: Che essi non sien tutti veri, assai volte può ciascun di noi aver conosciuto; e che essi tutti non sien falsi, già di sopra nella novella di Filomena s'è dimostrato e nella mia, come davanti dissi, intendo di dimostrarlo.Due sono le vie |
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Vedi
anche, sullo stesso tema, la novella settima della
nona giornata |
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GIORNATA QUARTA NOVELLA SETTIMA Emilia racconta La Simona ama Pasquino; sono insieme in uno orto; Pasquino si frega a’ denti una foglia di salvia e muorsi; è presa la Simona, la quale, volendo mostrare al giudice come morisse Pasquino, fregatasi una di quelle foglie a’ denti, similmente si muore. |
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LA SALVIA MORTALE
Due giovani di umile
stato si amano profondamente, e trovandosi in un
giardino lui muore dopo essersi stropicciato i denti
con una foglia di salvia. Arrestata la SImona, e non
essendo riuscita a far capire al giudice come fosse
andata la cosa, fu fatta tornare nel giardino, dove
ripetè il gesto di Pasquino, di passarsi sui denti
una foglia di Salvia, e come Pasquino morì
all'istante. Comandato il giudice di
tagliare la pianta, si scoprì la botta che aveva
reso velenosa la pianta di salvia, e fu bruciata
insieme alla pianta stessa, perché nessuno la voleva
toccare.
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Girolamo ama la Salvestra; va,
costretto da’ prieghi della madre, a Parigi; torna
e truovala maritata;
entrale di nascoso in casa e muorle allato; e portato in una chiesa, muore la Salvestra allato a lui.. |
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COME CECIO E RENZA
Il tema è elaborato a
partire dalla storia di Piramo e Tisbe (De
mulieribus claris XIII)
E per ciò che tra l’altre naturali cose quella che meno riceve consiglio o operazione in contrario è amore, la cui natura è tale, che piú tosto per se medesimo consumar si può che per avvedimento alcun tôrre via, m’è venuto nell’animo di narrarvi una novella d’una donna la quale, mentre che ella cercò d’esser piú savia che a lei non s’apparteneva e che non era, ed ancor che non sostenea la cosa in che studiava mostrare il senno suo, credendo dello ’nnamorato cuor trarre amore il qual forse v’avevano messo le stelle, pervenne a cacciare ad una ora amore e l’anima del corpo al figliuolo. (Wiki) La madre manda Girolamo a Parigi, dove sta due anni e quano torna trova Salvestra sposata, che gli dice he ormai solo a suo marito pensa. Coricossi adunque il giovane allato a lei senza toccarla: e raccolti in un pensiero il lungo amor portatole e la presente durezza di lei e la perduta speranza, diliberò di piú non vivere, e ristretti in sé gli spiriti, senza alcun motto fare, chiuse le pugna, allato a lei si morí. (Ivi) Così poi muore anche la Salvestra: E loro, li quali amor vivi non aveva potuto cogiungere la morte congiunse con inseparabile compagnia. (Cento libri, 552) Difficile non pensare a Renza e Cecio di Basile (III 3). |
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Messer
Guiglielmo Rossiglione dà a mangiare alla moglie sua
il cuore di messer Guiglielmo Guardastagno ucciso da
lui e amato da lei; il che ella sappiendo, poi si gitta da una alta finestra in terra e muore e col suo amante è sepellita. |
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IL FIERO PASTO
Più crudele e
perturbante del fiero pasto del conte
Ugolino, è quello offerto dal marito alla moglie
infedele. Boccaccio non ha solo ricordato la prima
novella di questa giornata, nella quale il padre
Tancredi manda alla figlia Ghismonda, ma
riconoscibile, il cuore di Guiscardo, provocando il
suicidio di lei. La donna rimprovera al marito la
sua crudeltà, e decide che nessun cibo mai possa
mescolarsi al cuore dell'amato. La cura messa dal
cuoco nella preparazione, ordinata dal coniuge
tradito, torna nella fiaba di Sole,
Luna e Talia di Basile (Cunto de li
cunti, V, 5); il riferimento classico è allo
stesso fiero pasto
di Tereo, al quale la moglie Procne fa
mangiare il loro figlio Iti, e prima ancora alla
tragedia degli Atridi, nella quale più di una
volta un figlio viene cucinato e offerto agli ignari
invitati. Nella fiaba di Basile, prima versione
della Bella addormentata, il cuoco, che per ordine
della prima moglie del re dovrebbe uccidere e
cucinare per il re i suoi figli che ha avuto da
Talia, cucina al loro posto un animale, salvando i
bambini. In Perrault, che riscrisse la fiaba alla
fine dello stesso XVII secolo, la crudele regina non
è la prima moglie del re ma la regina madre.
Il fiero pasto viene rimosso dopo Perrault, nel processo di eufemizzazione con il quale le fiabe sono state trattate, processo che rimuove la rappresentazione narrativa di pulsioni tanto sgradevoli quanto vere, e in questo modo ritira dal mondo dei racconti uno strumento per elaborarle. La crudeltà della prima moglie o della madre del re viene infatti punita, mentre i bambini innocenti e la loro madre vengono salvati. Intreccio di miti classici, novelle che si aprono e si chiudono senza aver sfiorato mondi immaginari abitati da demoni, geni, angeli, fate o maghi, e fiabe nelle quali le figure magiche, assenti all'inizio della storia, sono assenti nel finale. Anche se contraddico la nostra incrollabile certezza di un'evoluzione nelle forme del racconto, penso che la forma novella come Boccaccio l'ha tratta da molte tradizioni - araba, alessandrina, classica, bretone - preceda la fiaba com'è attestata nel XVI secolo a Venezia con Giovan Francesco Straparola e nel XVII a Napoli con Giambattista Basile. E come dopo di loro viene narrata da Perrault e nel Cabinet des fées, e dai Grimm, poi da Walt Disney e da innumerevoli riduzioni in tutto il mondo che dipendono da questa storia. La rilettura del Decameron rende chiaro come non ci sia alcun progresso da Boccaccio in avanti, nella capacità di presentare e raccontare la condizione umana, la sua miseria, la sua tragedia, la sua bellezza, la sua nobiltà. Nobiltà che non è quella cantata prima di Boccaccio, successiva a quella del Dolce Stil Novo, con una libertà che non è quella dei mercanti il cui potere subentra a quello deglo aristocratici. Contadini e sovrani, mercanti e chierici, uomin ie donne, di ogni età, religione, appartenenza geografica, dicono con Boccaccio che potremmo riconoscere quanto siamo uguali, nel bene come nel male, ovunque. L'umanesimo non è questo? I classici non conoscono questa democrazia, ma offrono gli strumenti per riconoscerla, perché la loro conoscenza diretta mostra come sia falso pensare che solo dopo Cristo la natura umana è stata riconosciuta come degna di perdono e salvezza, anche se pare imperdonabile, anche se non ha riscatto, come lo sposo di questa nona novella della quarta giornata. (Peretola, 15 luglio 2022) |
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GIORNATA QUARTA NOVELLA DECIMA Dioneo racconta La moglie d’un medico per morto mette un suo amante adoppiato in una arca, la quale con tutto lui due usurai se ne portano in casa. Questi si sente, è preso per ladro; la fante della donna racconta alla signoria sé averlo esso nell’arca dagli usurieri imbolata, laond’egli scampa dalle forche e i prestatori d’avere l’arca furata sono condannati in denari. |
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AMORE MORTE E UMORISMO
Solo nella novella di Dioneo gli
amanti la scampano, e dipende dall'umorismo che
caratterizza Dioneo: la tragedia incombente può essere
scongiurata solo dall'umorismo, che dalla tragedia è
assente, da sempre, e ne modifica il registro. La storia della morte apparente della persona amata si trova anche nel romanzo latino (Historia Apollonii regis Tyri,V-VI sec.), che come la novella narrata da Dioneo ha lieto fine. Possiamo ricordare che la versione anglosassone di questo romanzo latino (XI secolo), una delle prime opere della letteratura inglese, è la fonte del Pericles Prince of Tyre, attribuito a Shakespeare (1607 c.a), nel quale la sposa morta e abbandonata alle acque viene rianimata da un giovane medico salernitano. La morte apparente e la tragedia che ne consegue sono già nella novella degli amanti senesi Mariotto e Ganozza di Masuccio Salernitano (Novellino, XXXIII novella, 1450-1457), alla quale seguono la versione di Luigi Da Porto (Lo infelice innamoramento di Romeo Montecchi e di Giulietta Cappelletti, 1530) e di Matteo Bandello (Giulietta e Romeo, 1554). La traduzione francese della versione del Bandello (Pierre Boaistuau, Histories Tragiques, 1559) è la fonte del capolavoro shakespeariano (Romeo and Juliet,1597). Si è osservato che fino all'opera di Matteo Bandello, come alla sua traduzione francese, gli amanti venivano giustamente puniti per la loro rottura dell'ordine sociale, mentre Shakespeare, che vive la crisi delle speranze umanistiche e rinascimentali, la pietà per la morte dei giovanissimi amanti supera tanto la condanna della loro disobbedienza ai parenti che sono loro piuttosto i colpevoli alla fine della tragedia. Mi pare il caso di osservare che in tutta la quarta giornata la compassione per gli amanti sfortunati è dominante, come la disumanità - mancanza di compassione per gli afflitti dalle pene d'amore - di chi provoca più o meno volontariamente la loro morte, come Tancredi padre di Gismonda nella prima novella o i fratelli di Lisabetta nella quinta. La critica sociologica riportando il male e il bene a cause socio-politiche deve lasciare da parte opere come il Decameron: Boccaccio, nel tempo del trionfo umanistico, ha umana compassione per chi soffre per amore, e non nasconde il cinismo e la crudeltà di chi sacrifica all'ordine sociale che è affetto o afflitto dalla passione. L'umorismo di Dioneo permette di evitare la tragedia anche nella quinta giornata, e se nella sua novella finale, la centesima, l'umorismo manca, non per questo il narratore manca di fare un commento dissacrante sul generoso amante che Griselda poteva trovare quando, ripudiata dal nobile marito e coperta solo da una camicia tornava sola sola dal povero Giannucole. Anche l'insistenza sull'affermazione della classe mercantile come contesto che rende possibile l'emergere dei valori terreni, umani, e anche delle trasgressioni che restano impunite, quando non premiate, come le menzogne di frate Cipolla (VI giornata, novella X, narrata quindi da Dioneo) o la generosa iniziazione sessuale di Alatiel, figlia del sultano (II giornata, novella VII) che alla fine si sposa regolarmente da pulzella. Per questa quinta giornata, tutta dedicata agli amanti sfortunati, fedeli fino alla morte al loro amore, bisogna pensare alla raffinatissima poesia araba di origine beduina. I beduini avevano nel deserto tombe di amanti sfortunati che solo la morte aveva riunito, alle quali trobutavano un culto. Un esempio dell'influsso di questa venerazione beduina degli amanti è nel Cantico dei Cantici che fa parte dell'Antico Testamento ed è stato attribuito anche a Salomone. Il grande re di Israele, la cui presenza nella tradizione islamica è di grande rilievo, fa una comparsa anche nel Decameron (IX Giornata, Novella IX). La lettura evolutivistica dell'arte - e non solo dell'arte! - impone di trascurare tutto ciò che contraddice la vicenda culturale come movimento dal peggio al meglio, vale a dire dal buio alla luce, dal totalitarismo alla democrazia, ecc. Ogni generazione si considera superiore a quella che l'ha preceduta, e cerca di convincere la generazione successiva di lasciarle un'eredità di grande valore. La sola eredità che si riceve e si trasmette, peraltro in maniera indipendente dalla nostra scelta, è la vita. Il resto è gioco a tempo, crudele o generoso. L'arte non salva, ma attraversa le barriere fra generazioni ed elude gerarchie e spartizioni. Offre una pausa dalla sofferenza, soprattutto da quella insopportabile della peste che distrugge tutto ciò che ha un valore. Mi sono fatta convinta, come fa dire Camilleri al commissario Montalbano, a settant'anni suonati, che Boccaccio andrebbe letto integralmente in ogni scuola, o almeno quanto si legge Dante, e certo andrebbe sostituito ai Promessi sposi del Manzoni e all'Eneide di Virgilio. Senza pensare a quale formidabile cura ricostituente sarebbe per chi ha l'italiano come lingua madre, e quale introduzione per gli immigrati, qualunque sia la loro provenienza, anche perché vi trovano spazio e piena dignità giovani e vecchi, uomini e donne, ebrei, muslmani e cristiani, senza che la loro appartenenza sia una garanzia di superiore bontà, come non è lo stigma di qualche forma di disumanità. Nel Cunto de li cunti di Giambattista Basile, opera cognominata Pentamerone, c'è una sola fiaba che finisce tragicamente, proprio con la morte di entrambi gli innamorati, che come Giulietta e Romeo, eredi degli amanti venerati dai beduini del deserto, sono riuniti nella tomba. O Janco viso, la fiaba di Renza e Cecio (Trattenemiento terzo della iornata terza) dove una canzone struggente viene pure evocata, potrebbe finire bene come tante altre, perché gli amanti sfortunati nelle fiabe hanno sempre una possibilità di umanizzarsi, come il Re porco, di splendere un tutta la loro bellezza, come l'Orsa di Basile o Pelle d'Asino, di morire solo apparentemente, come Talia di Basile o La bella nel bosco addormentato di Perrault. Quel che manca in questa fiaba è la determinazione a farsi riconoscere dall'amato smemorato, con un discorso, una favola, che, raccontata, permetta alla memoria di tornare, manca un oggetto magico, che del resto non viene nemmeno cercato: nessuno dei due protagonisti spera di farcela, nessuno dei due fa cose pazze per riuscirci, come consumare sette paia di scarpe di ferro, o trasformarsi in colomba e farsi mettere in pentola da cuoco di corte. |
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Dopo il Proemio, solo prima della quarta giornata il narratore di primo grado, l'Autore, Boccaccio, interviene per difendere se stesso e la sua opera col rigore di un filosofo classico. Così è nella novella contenuta ne.l'intervento, quella delle donne che si chiamano papere, alle quali il giovane ancora ignaro della loro esistenza vuol dare da mangiare. Tu non sai da dove si nutrano queste papere, dice il padre, e sa bene che se suo figlio lo sapesse sarebbe ancora più desideroso di averne una nel loro ritiro campestre. Mi chiedo perché il solo intervento in prima persona del Boccaccio, lasciando da parte piccoli interventi sia fra le diverse novelle, sia alla fine e al principio delle giornate e dei racconti, preceda la quarta giornata, dedicata alla tragedia dell'amore, o, all'opposto, perché la giornata della tragedia degli amanti sia conseguente alla lamentazione di Boccaccio che rende note le aggressioni che subisce e si difende come un leone dalle iene che cercano di fermarlo. Anche se, dice con la novella delle papere, un uomo non avesse nemmeno l'idea dell'esistenza dell'altro sesso, e anche se credesse che le donne fossero animali da cortile, e perfino se pensasse che al massimo potrebbe pasturarle, appena ne vedesse una il suo desiderio sboccerebbe e sarebbe irrinunciabile come se l'avesse regolarmente coltivato. Boccaccio non dipende da alcuna autorità gerarchica, e per questo si apre all'interiorità con le sue ambivalenze, le sue ricchezze, le sue miserie. Dopo aver fatto il suo discorso da uomo e da letterato, Boccaccio lascia la parola ai narratori di secondo grado che raccontano come negare spazio a Eros sia consacrarsi alla morte, come il padre del racconto delle papere, che lascia i suoi beni e il consesso umano dopo la morte della moglie, come il principe di Salerno padre di Ghismonda, che ne ignora la giovinezza per dominarla e tenerla con sé, come i padri di Pelle d'Asino - unnatural fathers li chiama Marian Roalf Emily Cox -, come il marito della nona novella di qursta giornata, che provoca il suicido della moglie. Per me l'intervento del narratore di primo grado all'apertura della quarta giornata significa l'accusa di Boccaccio nei contronti di chi non vuol riconoscere la potenza della vita, che è quella che permette il lieto fine fiabesco delle novelle della terza giornata, dove la vita si afferma contro le gerarchie, contro la sfortuna, contro tutto e tutti. Mi piacerebbe scrivere un libro su Boccaccio grande psicoanalista honoris causa. Sento ora alla radio di un'intervista a Žižek, in cui, seguendo il suo maestro Lacan, afferma che il sesso non esiste come relazione con l'altro. Non si sono accorti che noi interagiamo con la realtà attraverso un sistema nervoso che simula la realtà stessa, cosa che fanno gli animali superiori quanto noi, e che questo simulatore fatto di dieci miliardi di cellule organizzate in moltissimi modi, mutevoli alla bisogna, è a sua volta per lo più sottoposto al simulatore umano, il linguaggio verbale, simbolico, musicale? Non sarebbe ora di guardare la cosa secondo questa prospettiva, ribaltando il discorso razionalistico-hegeliano-lacaniano, ovvero capire che ciò che chiamiamo realtà è il risultato della nostra interazione col mondo interno ed esterno, mentre la realtà intesa come un dato definibile stabilmente, oggettivo, è il prodotto immaginario per eccellenza della nostra condizione umana? Non è che il rapporto sessuale non esiste (Lacan) e nemmeno che la sessualità adulta sia come pensava Freud un bricolage di pulsioni infantili diversamente emerse e sommerse. È che quel che abbiamo considerato reale e oggettivo è il prodotto della nostra immaginazione, e solo per la nostra immaginazione sale e scende nella nostra considerazione. Accettando questo, abbiamo ancora un largo margine per porci delle domande, per adottare una prospettiva libera quanto più è possibile da ideologie e riferimenti trascendenti - dottrine, maestri, sistemi di pensiero e di religione - per vedere insomma se possiamo capire meglio chi siamo e che relazioni vantaggiose possiamo avere con noi stessi e con gli altri. A me Lacan o Žižek, o qualunque loro galoppino, quando dicono che quel che per noi è certamente esistente non esiste, pare che si presentino: io sì, noi sì che esistiamo, venite a noi pargoli, come prima siete andati da Gesù o da Maometto, povere pecorelle smarrite. Che fate senza pastore? Bene, secondo me la possibilità di non avere pastore è esplorata per primo da Boccaccio nella cultura europea, e per ultimo in ordine di tempo da Freud. L'obiezione che viene fatta a entrambi, come a chiunque adotti una simile posizione, di spennatore dei maestri senza impennarsi, ergersi adorni di penne, è che la loro vita e le loro parole spesso contraddicono la loro posizione. Ma è proprio questo il punto: nella misura in cui Freud non merita credito secondo i criteri di chi è parte integrante di strutture gerarchiche, ci garantisce l'alta percentuale di verità del suo discorso. Se fosse credibile, coerente, irreprensibile, sarebbe un fondatore di religione. Per questo abbiamo fatto il Piccolo Festival dei Casi di Freud. Per questo facciamo il Piccolo Festival di Casi Lirici. Per mostrare come la polisemia, la ricchezza simbolica che trascorre fra differenti tipi di interpretazione, sia connaturata alle storie che andiamo raccontando, per tentare un discorso femminile che si situa non oltre il margine della cultura che obbedisce al logos fallocentrico, ma nel grande Paese della cultura. Boccaccio ha in comune con i classici la laicità. Vedi anche Introduzione alla quarta giornata, http://www.alaaddin.it/_TESORO_FIABE/DECAMERON/CORNICE_DEC.html#INTRODUZIONE_QUARTA_GIORNATA |
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L’exemplum inserito nell’introduzione alla quarta giornata mantiene la propria funzione originaria, anche in termini di collocazione, raccontato com’è non da un novellatore ma dal narratore di primo grado, e inserito a fini dimostrativi in un discorso apologetico. La «novelletta delle papere» (o dei diavoli) non è d’invenzione boccacciana. Si trova già nel Ramayana e nella Vita di Barlaam e Josaphat, oltre che nelle principali raccolte di exempla, nelle Vitae Patrum volgarizzate dal Cavalca, nel Novellino152 e nello Specchio di vera penitenza di Passavanti. Boccaccio probabilmente la conosceva dal Cavalca o dalla Legenda aurea (cap. CLXXX). ("Filippo Fonio, "Dalla legenda alla novella: continuità di moduli e variazioni di genere. Il caso di Boccaccio", 80, ne: La Nouvelle italienne du Moyen Âge à la Renaissance, 6/2007) |