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GIAMBATTISTA BASILE

ISSA FALORO
OVVERO LA FIABA DELL'ORCO

DAL CUNTO DE LI CUNTI, 1634


TRADUZIONE PER BAMBINI DI ADALINDA GASPARINI


  ADALINDA  GASPARINI       PSICOANALISI E FAVOLE

C'era una volta, centinaia e centinaia d'anni fa, un paese dove tutti erano poveri, ma la più povera era una vedova che aveva sei figlie magre in età da marito, che non trovavano nessuno perché non avevano un soldo di dote, e un figlio maschio che avrebbe  dovuto essere il sostegno della famiglia. Disgraziatamente era goffo e lento di comprendonio, faceva sghignazzare la gente quando passava per la strada e le rare volte che provava a fare qualcosa combinava solo guai senza riuscire nemmeno darsela a gambe.
Tutti i giorni sua madre gli gridava dietro: "Mangiapane a tradimento! Disgrazia di questa casa, buono a nulla, piantagrane! Ma perché non ti levi dai piedi, perché non vai al diavolo, Tontonio che non sei altro?".
Tontonio, così lo chiamavano tutti, tirava su le spalle e faceva finta di nulla, ma un giorno la madre era particolarmente inviperita e passò dalle parole ai fatti: preso il mattarello glielo sbattè sulla schiena, sulla testa, e dove capitava;  se lui non avesse avuto finalmente una buona idea, cioè di infilare l'uscio di casa e darsela a gambe, l'avrebbe anche ammazzato.
Già che c'era continuò a correre fino a mezzanotte, quando si trovò ai piedi di una montagna tanto alta che sulla cima ci abitavano le nuvole, dove su una radice di pioppo, in una grotta decorata di pietra pomice, era seduto un orco che con la sua bruttezza avrebbe fatto scappare anche il diavolo.

Basso come un nanerottolo, inteccherito come un manico di scopa, col testone che sembrava una zucca gigante, la fronte piena di bitorzoli, le sopracciglia di pelacci fitti, era strabico da morire, aveva il naso schiacciato e le narici sembravano scariche di fogna, poi dalla bocca larga come un forno sporgevano due zanne da cinghiale che gli arrivano alle caviglie, aveva il petto peloso, le braccia ossute, le gambe così torte che ci sarebbe passato un maiale, e i piedi piatti come le oche: insomma sembrava un diavolo grasso e rachitico, dall'aspetto così brutto che avrebbe impaurito anche gli eroi più coraggiosi della storia.
Ma Tontonio, che non si muoveva nemmeno con le cannonate, gli fece un inchino e disse: "Addio vossignoria, come te la passi? Che si fa da queste parti? Hai bisogno di nulla? Quanto manca da qui a dove devo andare io?". L'orco quando sentì questo andare di palo in frasca si mise a ridere, e siccome quello spirito matto lo faceva divertire disse: "Vuoi entrare al mio servizio?". E Tontonio rispose: "Quanto vuoi di paga mensile?".  L'orco disse: "Mettiti in testa di servire onorevolmente, che andremo d'accordo e ti darò delle belle giornate". Così fecero questo patto e Tontonio restò a servizio dall'orco, dove c'era tanta roba da mangiare che non si sapeva dove metterla, e riguardo alla fatica si stava a grattarsi la pancia, tanto che dopo poco era diventato grasso come un bue, tondo come una botte, impettorito come un galletto, bianco e rosso come una mela,  panciuto come una balena, così pieno di ciccia che non gli si vedevano più gli occhi.
Ma non erano ancora trascorsi due anni che, annoiato da tanta abbondanza, gli venne una voglia irresistibile di dare un'occhiata al suo paese, e pensando alla sua casina cominciò a dimagrire e si era ridotto male, quasi come prima. L'orco, che conosceva Tontonio profondamente, fino alle budella, e gli bastava annusarlo per sentire il patimento che gli aveva levato l'appetito, lo chiamò da una parte e gli disse: "Tontonio mio caro, so che ardi dal desiderio di rivedere casa tua, e siccome sei il mio pupillo sono disposto a farti fare una visita, così ti prendi questa soddisfazione. E allora porta con te quest'asino, che ti leverà la fatica del viaggio, ma tieni bene in mente che non gli devi mai dire le parole:

issa faloro,

perché te ne pentiresti, per l'anima di tuo nonno!". Tontonio, preso il ciuchino, senza dire nemmeno arrivederci  montò e cavallo e partì al trotto, ma non aveva fatto nemmeno cento passi che, sceso dalla groppa del somaro, provò a dire:

issa faloro,

e appena lo disse l'animale cominciò a evacuare perle, rubini, smeraldi e diamanti grossi come noci. Tontonio con la bocca spalancata guardava fisso come l'asino andava bene di corpo, e non stava nella pelle dalla contentezza; poi, dopo aver riempito una bisaccia di pietre preziose, rimontò sul somaro e continuò la strada al trotto, finché arrivò a una taverna. Smontò dall'asino e la prima cosa che disse al taverniere fu: "Lega questo ciuco alla mangiatoia, dagli da mangiare bene, ma guarda, non dire le parole:

issa faloro,

o te ne pentirai, e mettimi al sicuro queste robine". Al taverniere, che sapeva levare il fumo alle schiacciate, perché era un uomo di mondo, svelto di mano e furbo come una volpe, sentendo questo comando strampalato e vedendo le pietre preziosissime, venne la curiosità di provare queste parole. Così diede un bel po' da mangiare a Tontonio, lo fece bere il più possibile, poi lo mise a letto fra tante coperte e appena vide che aveva chiuso gli occhi e russava corse nella stalla e disse all'asino:

issa faloro.

E come se queste parole fossero il suo purgante  lui fece la solita roba, buttando fuori dal corpo oro semiliquido e pietre preziose grosse come castagne. Il taverniere, vista questa ricchissima evacuazione progettò di sostituire l'asino e imbrogliare quello sciocco Tontonio, giudicando facile fargliela in barba e menarlo per il naso, perché non aveva mai visto in vita sua un semplicione, un pecorone, uno zoticone come questo che gli era capitato fra le mani.
Così quando la mattina si fu svegliato ed ebbe passato un'ora buona a sbadigliare, a fare scorreggine, a grattarsi la zucca, a stiracchiarsi, Tontonio chiamò l'oste e gli disse: "Vieni qua amico mio, conti tanti e amicizia lunga, noi siamo amici e misuriamo le borse, fammi il conto e pagati".
Tanto per il vino, tanto per il pane, tanto per la minestra e tanto per la ciccia, cinque di stalla e dieci di letto e quindici di servizio, sborsò i soldini e montando sull'asino cambiato con una  bisaccia piena di sassi di fiume anziché di pietre preziose, andò di corsa verso il suo paese e prima di mettere piede in casa cominciò a gridare: "Mamma mia, corri mammina, corri, siamo ricchi! Apri tovaglie, stendi lenzuola, porta coperte, vedrai  che meraviglie!".
La mamma, che non stava nella pelle dalla contentezza, aperta una cassa dove era riposto il corredo da sposa delle sue figlie, tirò fuori lenzuola di lino, tovaglie profumate di spigo, coperte fresche di bucato, e le stese sul pavimento. Sopra Tontonio ci fece andare l'asino e cominciò a dire:

issa faloro issa faloro issa faloro,

ma il ciuco capiva quelle parole come avrebbe capito la musica di un'arpa. Dopo aver ripetuto tante volte queste parole come se avesse detto al vento, Tontonio prese un bastone e provò con quello a convincere il povero somaro, che si lasciò andare e fece tanta squacquarella gialla e marroncina sui panni candidi. La povera madre, dove sperava di vedere le preziose gemme e l'oro scintillante, vide questa robaccia  che anzichè portare la  ricchezza aveva riempito la sua casa  di un puzzo insopportabile; allora prese il mattarello e senza lasciare  a Tontonio nemmeno il tempo di tirar fuori i sassi di fiume gliene diede tante che lui si mise a correre per ritornare dal suo padrone.
L'orco, vedendolo venire più di corsa che a passi lenti, siccome sapeva per magia tutto quello che gli era successo, gli fece una bella lavata di testa, perché si era fatto infinocchiare da un taverniere, chiamandolo buono a nulla, bischero, minchione, tordo, ciucco, rintronato, testa di rapa, imbecille, perché per un asino che faceva tesori si era fatto dare un ciuco col corpo sciolto. Tontonio, sorbendosi questa predica, giurò che mai più, mai più si sarebbe fatto imbrogliare e infinocchiare da nessuno.
Ma non era ancora passato un anno che gli venne la stessa malattia e cominciò a dimagrire per la nostalgia della sua casina. L'orco, che era brutto di fuori e bello di dentro, gli diede il permesso di partire e gli regalò anche un bel tovagliolo, dicendogli: "Portalo a mamma tua, ma attento, non comportarti da somaro come hai fatto con il ciuco, e finché non sei entrato in casa tua non dire le parole:

apriti tovagliolo,

e nemmeno:
 chiuditi tovagliolo,

perché se ti capita un'altra disgrazia è peggio per te. Ora va' con il mio buon augurio e torna presto".
Così Tontonio si mise in cammino, ma appena si fu allontanato un pochino dalla grotta decorata di pietra pomice, posò in terra il tovagliolo e disse:

apriti tovagliolo.

Apparvero subito cibi prelibati di tutte le varietà, pietanze succulente e manicaretti sopraffini, serviti in piatti preziosi, mai visti nemmeno sulla tavola del re. Vedendo queste meraviglie Tontonio disse subito:

chiuditi tovagliolo,

e rimesso tutto a posto si diresse verso la solita taverna, dove entrando disse al taverniere: "Tòh, mettimi da parte questo tovagliolo e guarda bene di non dire:

apriti tovagliolo,

e nemmeno le parole:
chiuditi tovagliolo,

perché se ti capita un'altra disgrazia è peggio per te. Il taverniere, furbo di tre cotte, disse: "Lascia fare a questo tuo amico", e dopo averlo rimpinzato a più non posso e averlo ubriacato, lo mandò a dormire, poi prese il tovagliolo, pronunciò le parole:

apriti tovagliolo.

e il tovagliolo tirò fuori tante cose preziose che era un incanto guardarle. Così, trovato un tovagliolo circa come quello, quando Tontonio si fu alzato glielo rifilò. Lui di buon passo arrivò a casa della mamma dicendo: "Ora sì che daremo un calcio in faccia alla miseria, ora sì che possiamo buttar via stracci, cenci, piatti incrinati e rattoppi!".
E detto questo stese il tovagliolo in terra e cominciò a dire:

apriti tovagliolo apriti tovagliolo apriti tovagliolo.

Ma poteva continuare a dirlo quanto voleva, sprecava il fiato e non ci ricavava né una briciola di pane né un piattino incrinato; perciò, vedendo che l'affare gli era andato male, disse alla mamma: "Mi venga un accidente, mi ha infinocchiato un'altra volta il taverniere! ma vedrai, che io e lui siamo in due! meglio per lui che non fosse mai nato! meglio che fosse finito sotto la ruota di un carro! che mi prenda un colpo se quando passo da quella taverna per vendicarmi dei gioielli, dell'asino e del tovagliolo rubato non gli riduco tutto il mangiare in polpette!"
La mamma, sentendo questa nuova asinata di Tontonio, rossa di collera che stava per scoppiare gli disse: "Dacci un taglio, figlio degenerato! vai a romperti l'osso del collo! levati dalla mia vista, che mi si ingrossa il fegato e mi viene un attacco di bile ogni volta che mi torni fra i piedi! Voglio  che in questa casa tu ti senta bruciare i piedi come se il pavimento fosse coperto di carboni accesi, non voglio sentire più il tuo puzzo e voglio dimenticarmi anche il giorno che sei nato!".
Povero Tontonio, viste le parole preferì non aspettare i fatti e come un ladro che viene colto sul fatto, a testa bassa e con le gambe in spalla, corse senza fermarsi fino alla grotta del suo padrone. L'orco, vedendolo arrivare col muso lungo e tanto avvilito, gli fece un'altra serenata dicendogli: "Non so come faccio a resistere alla voglia di cavarti un occhio, boccaccia sguaiata, gola marcia, testa di gallina, strombazzatore, che vai a dire al mondo intero quello che dovresti tenere per te, non tieni neanche il semolino e ti escono i segreti come se avessi  il cervello sciolto! Se alla taverna tu fossi stato zitto non ti sarebbe successo quello che ti è successo, ma hai voluto muovere codesta linguaccia come un frullino e hai fatto poltiglia della felicità che ti avevo regalato".
Tontonio si sorbì questa serenata con la coda fra le gambe e restò altri tre anni a servizio dall'orco, sperando di poter tornare a casa quanto sperava di essere consacrato cavaliere. Eppure a un certo punto gli tornò la solita malattia, la nostalgia della sua casina, e allora chiese il permesso all'orco che per levarselo di torno gli disse di sì, dandogli un bel bastone lavorato e dicendo: "Porta questo con te per mio ricordo, ma guarda bene di non dire:

su bastone,

e nemmeno:

giù bastone,

perché io non voglio più aver a che fare con te". E Tontonio prendendolo rispose: "Va', che ho già messo i denti del giudizio e so quante scarpe sono tre paia! Io non sono più un bambino e chi può infinocchiare Tontonio ha ancora da nascere!". Allora l'orco gli disse: "Non dire gatto finché non l'hai nel sacco, fra il dire e il fare c'è di mezzo il mare, si starà a vedere. Mi hai sentito come un sordo, ma uomo avvisato mezzo salvato".
Mentre l'orco stava parlando Tontonio se l'era già svignata, ma non si era ancora allontanato di mezzo miglio quando disse:

su bastone.

Non furono due parole, furono arte di incantesimo, perché immediatamente il bastone, come se avesse avuto un diavolo nel midollo, cominciò a lavorare le spalle e la schiena del povero Tontonio con tanta forza e velocità che prima di finire di assestare un colpo cominciava già a tirarne un'altro. Il povero Tontonio era ammorbidito come un polpo sbattuto, quando finalmente disse:

giù bastone,

e il bastone si fermò d'incanto. Così, istruito a sue spese, disse: "Accidenti a chi scappa! questa occasione non me la lascio scappare di certo! il conto non è ancora chiuso".
Dopo poco arrivò alla solita taverna, dove fu ricevuto con la migliore accoglienza del mondo, perché anche se era una testa di rapa se ne cavavano dei veri tesori. Appena arrivato disse all'oste: "Tòh, mettimi da parte questo bastone, ma guarda bene di non dire:

su bastone,

o correrai un grave pericolo! sentimi bene, non ti lamentare di Tontonio poi, perché io ti ho avvertito e non voglio aver più a che fare con te".
Il taverniere, con una contentezza che non stava più nella pelle, lo riempì di minestra, gli fece vuotare un fiasco di vino, e appena l'ebbe buttato su un lettino corse a prendere il bastone, e invitando sua moglie a partecipare all'avvenimento, disse:

su bastone,

e il bastone senza farsi pregare trovò subito il groppone del taverniere e della taverniera, e punfete di qua e pinfete di là,  roteava colpendo davanti e dietro e dappertutto, tanto che, spaventati a morte, quei due corsero col bastone che li lavorava senza sosta a svegliare Tontonio, supplicando: "Pietà! pietà!".
Lui, vedendo che la faccenda prendeva una piega favorevole e che gli andava come il cacio sui maccheroni, disse: "No, non c'è rimedio: morirete a forza di bastonate, se non mi restituite le mie cose".
Il taverniere, che era macolato dai colpi e aveva le costole rotte, gridò: "Ti do tutto quello che vuoi, ma levaci questo diavolo di bastone di dosso!", e fece portare le pietre preziose, l'asino e il tovagliolo magico. Solo allora Tontonio disse:

giù bastone,

e quello si distese da una parte. Così Tontonio con l'asino, la bisaccia piena di perle e pietre preziose, il tovagliolo e il bastone, andò dalla sua mamma che rimase a bocca aperta dalla meraviglia, e procurò una dote principesca alle sue sorelle che finalmente si sposarono. Riempì di ricchezze la sua casa, e la mamma da allora lo tenne più caro della luce dei suoi occhi, e si capì bene che:

pazzi e ragazzi
il ciel li aiuta
.






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TESTO
Da Giambattista Basile, Cunto de li cunti o Pentamerone (1634-1636), Trattenemiento terzo de la iornata primma, Lo cunto dell'uerco; in
© Adalinda Gasparini, Basile-Straparola: Le prime fiabe del mondo; Giunti-Gemini: Firenze 1996

Vedi il testo originale e un'altra traduzione, e-book in Fabulando. Carta fiabesca della successione: https://www.fairitaly.eu/joomla/Fabulando/Tontonio/mobile/index.html
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IMMAGINE Rielaborata da English Fairy Tales, Retold by Flora Annie Steel. Illustrated by Arthur Rackham; London 1918. Jack the Giant-Killer

  © Adalinda Gasparini
 Online dal 10 gennaio 2003
Ultima modifica 21 marzo 2024