C'era una volta un pover'uomo che si
chiamava Nicolino e aveva tre figlie, Zinia,
Rosina e Violetta, e l'ultima era tanto bella che
se ne era innamorato Pierone, figlio del re. Ogni
volta che passava dalla casina dove lavoravano le
tre sorelle, levandosi il cappello diceva:
"Buondì, buondì Violetta". E lei rispondeva:
"Buondì figlio del re, io ne so più di te".
Su queste parole le sue sorelle
avevano molto da dire, e la sgridavano: "Sei una
maleducata e farai arrabbiare il figlio del re,
vedrai cosa ti farà!". Siccome a Violetta i loro
rimproveri non facevano né caldo né freddo, Zinia
e Rosina fecero la spia al loro babbo, dicendogli
che era una screanzata presuntuosa e rispondeva
senza rispetto al principe come se fosse un pari
suo; prima o poi lui si sarebbe arrabbiato e
allora l'avrebbe fatta pagare anche a quelle che
non avevano colpa.
Nicolino ci pensò bene e decise di
mandare Violetta da una sua zia che si chiamava
Cucirina, perché imparasse a lavorare. Ma il
principe, che passando davanti a quella casina non
vedeva più la sua preferita, per un po' di giorni
andò un po' in qua e un po' in là rammaricandosi
perché l'aveva persa di vista, e aprendo bene le
orecchie sentì dire dov'era andata a stare. Allora
andò a trovare quella zia e le disse: "Signora, tu
sai chi sono io, e sai anche che posso comandare
quello che mi pare, quindi dammi retta, fammi un piacere e sarai
ricompensata". "Se è una cosa che posso
fare", rispose la vecchia, "son pronta a
obbedirti". E il principe: "Voglio solo questo:
che tu mi faccia dare un bacio a Violetta, e poi
chiedimi quello che ti pare". La vecchia rispose:
"Per servirti ti reggerò il moccolo, ma
non voglio che lei si accorga che ci siamo messi
d'accordo e sparga la voce che faccio la ruffiana;
perché tu possa avere questo piacere ti puoi
nascondere nella mia camera che dà sull'orto, io
manderò giù Violetta con qualche scusa, e a quel
punto sono fatti tuoi, se con la canna e l'amo non
ti riesce pescare non dare la colpa a me".
Il principe la ringraziò del favore
che gli faceva e s'infilò subito in quella stanza,
e la vecchia, con la scusa che voleva tagliare un
vestito, disse alla nipote: "O Violetta, se mi
vuoi bene, vai giù a prendermi il metro". Ma
Violetta, entrando in quella stanza per obbedire
alla zia, si accorse del tranello, e afferrato il
metro, agile come una gatta saltò fuori dalla
camera, lasciando il principe rosso di rabbia e
con un palmo di naso per la vergogna.
La vecchia, che la vide arrivare così
alla svelta, pensò che il principe non ce l'aveva
fatta, e dopo un po' le disse: "Dovresti andare,
cara nipote, nella stanza dell'orto a prendermi il
rocchetto di filoforte su quel comodino". E
Violetta, corse, prese il filo, e sgusciò come
un'anguilla tra le mani di Pierone. Dopo un
po' la zia tornò a dirle: "Violetta mia, se non mi
prendi le forbici giù non posso fare più nulla".
Violetta scese giù e subì il terzo assalto, ma come
un cane preso dalla tagliola con tutte le sue forze diede uno strattone e scappò. Quando
arrivò su con le forbici tagliò le orecchie alla
zia, dicendole: "Questa è la ricompensa che
meriti, e se non ti taglio anche il naso è perché
tu possa sentire la puzza della tua reputazione,
donnaccia imbrogliona e ruffianaccia, che mi
volevi far disonorare!". E subito se ne tornò di
corsa a casa sua, lasciando la zia a medicarsi le
orecchie e il principe che a tutti quelli che incontrava diceva solo: "Lasciatemi
stare, lasciatemi stare, lasciatemi stare".
Ma ripassando davanti alla
sua casina e vedendola
dove era sempre stata,
ricominciò la solita musica: "Buondì, buondì
Violetta", disse Pierone, e lei subito: "Buondì
figlio del re, io ne so più di te".
Le sorelle, non potendo più sop-portare
questa spregiudicata, si misero d'accordo per
levarla di mezzo. Avendo una finestra che dava sul
giardino di un orco, pensarono di sistemarla per le
feste da quella parte, così, dopo aver lasciato
cadere una matassina di filo col quale lavoravano
una tenda per la regina, cominciarono a dire: "Oh!
povere noi, siamo rovinate e non possiamo finire il
lavoro in tempo se Violetta, che essendo la più
piccina è più leggera di noi, non si fa calare con
una fune e per andare a riprendere il filo che
abbiamo perduto!". Violetta, per non vederle così
tristi, si offrì subito di andarci; così la legarono
con una fune e la calarono dalla finestra, e poi,
appena sentirono che era arrivata in fondo,
mollarono la fune.
Proprio in quel momento
arrivava l'orco per dare un'occhiata al giardino,
e siccome aveva preso umidità sentiva un gran
dolore alla pancia: credendosi solo lasciò andare
una scorreggia così esagerata, tanto forte e
rumorosa, che Violetta, per la paura, strillò:
"Oh, mamma mia, aiutami!". L'orco allora si girò,
e appena vide la bella fanciulla proprio dove
aveva lasciato partire la scorreggiona, si ricordò
che uno studioso gli aveva rivelato che le cavalle
di Spagna s'ingravidano col vento, e fu certo che
il soffio del suo deretano avesse ingravidato un
albero, e che così ne fosse nata questa splendida
creatura. E perciò, abbracciandola con grande
tenerezza, le disse: "Figlia, figlia mia, parte di
questo corpo, alito dello spirito mio, e chi me
l'avrebbe mai detto che a causa del freddo che ho
preso avrei generato te, bel fuoco d'amore?".
Dicendo queste e altre parole tenere e zuccherose,
la affidò a tre fate di sua fiducia, perché
avessero cura di lei e la crescessero con quanto
di meglio esisteva al mondo.
Il principe che non vide più
Violetta, e per quanto domandasse da una parte e
dall'altra non riusciva a sapere nulla di cosa le
poteva essere successo, ne pativa tanto che gli
vennero le occhiaie, impallidì fino a diventare
cadaverico, le labbra gli divennero esangui,
quando mangiava non digeriva e quando andava a
letto non dormiva. Ma continuando la sua indagine
e promettendo ricompense, tanto disse e tanto fece
che finalmente ebbe l'informazione che cercava.
Allora convocò l'orco e gli
chiese, siccome era malato, come si poteva ben
vedere, il piacere di lasciagli trascorrere almeno
un giorno e una notte nel suo giardino, gli
bastava solo una stanza per vedere se lo faceva
stare un po' meglio. L'orco, che era un
suddito del re suo padre, non avrebbe mai potuto
negargli un piacere così da nulla, e gli offrì, se
una non bastava, tutte le sue stanze, e la sua
stessa persona per servirlo. Il principe, dopo
averlo ringraziato, si mise in una camera che per
sua fortuna era proprio
vicina a quella dell'orco, che dormiva insieme a
Violetta, considerandola sua figlia a tutti gli
effetti.
Quando venne la notte il
principe si alzò, e trovò aperta la porta
dell'orco, che, non avendo paura di nessuno, amava
così godersi il fresco: allora entrò piano piano e
accostandosi al letto dalla parte di Violetta, le
diede due pizzichi. Lei si svegliò di soprassalto
e cominciò a dire: "Babbo, babbo, quante pulci!".
L'orco fece subito passare la figlia in un altro
letto, e siccome il principe tornò a pizzicarla e
Violetta gridò la stessa cosa, l'orco le fece
cambiare il materasso, e poi le lenzuola, e questo
traffico continuò per tutta la notte, fino alle
prime luci del giorno.
Appena nella casa si fece giorno e
scorse la fanciulla sulla porta, Pierone le disse
come al solito: "Buondì, buondì Violetta", e appena
lei rispose come sempre: "Buondì figlio del re, io
ne so più di te", il principe ribattè: "Babbo,
babbo, quante pulci!".
Appena sentì questa battuta, Violetta
mangiò la foglia e, rendendosi conto che tutto il
tormento della notte era stato uno scherzo del
principe, andò a trovare le fate e raccontò il
fatto. "Se è così," dissero le tre fate, "con il
pirata saremo pirati, e briganti con il brigante; e
se questo cane ti ha dato un morso, vediamo di
levargli il pelo, lui te ne ha fatta una e noi
gliene faremo due! E per questo, devi chiedere
all'orco di procurarti un paio di pantofole tutte
guarnite di campanelli, e poi torna qua e lascia
fare a noi, che gli renderemo pan per focaccia!"
Violetta, che voleva
vendicarsi, si fece fare subito le pantofole
dall'orco, tornò dalle fate, aspettarono che fosse
buio, e poi andarono tutte e quattro insieme nella
casa del principe, e senza essere viste
sgattaiolarono in camera sua. Dopo poco arrivò
Pierone, si mise a letto, e cominciò a chiudere
gli occhi: in quesl momento le fate fecero un gran
parapiglia e Viola si mise a battere i piedi, così
che al rumore dei calcagni e al tintinnio
fragoroso dei campanelli il principe si svegliò di
soprassalto, gridando: "Mamma mia! aiuto
mammina!". E dopo aver ripetuto questo fracasso
appena Pierone si assopiva altre due o tre volte
se la svignarono tornando a casa loro.
Il principe la mattina dopo
bevette un bicchierone di succo di limone e
semesanto, come rimedio per la paura, e poi andò
a fare una passeggiata nel giardino
dell'orco, perché non poteva stare neanche un
minuto senza vedere quella Violetta, che gli
piaceva troppo, e vedendola sulla porta, le disse:
"Buondì, buondì Violetta", e Violetta: "Buondì
figlio del re, io ne so più di te", e il principe:
"Babbo, babbo, quante pulci!", e lei: "Mamma mia!
aiuto mammina!". Sentendo queste parole il
principe rimase stupefatto e disse: "Me l'hai
fatta, m'hai sistemato! Lo ammetto, hai vinto! E
siccome devo riconoscere che ne sai davvero più di
me, basta: ti voglio sposare!".
Violetta però, pensando a
tutti i dispetti che aveva fatto a Pierone non si
sentiva tranquilla, e chiese alle tre fate di
formare per lei una grande bambola di zucchero che
le somigliasse, la nascose in una cesta e la coprì
con dei vestiti. Si fece una grande festa per le
nozze del principe Pierone e di Violetta, ma
dopo i canti e i balli lei, fingendo un po’ di mal
di testa, andò a letto prima di tutti, si fece
portare la cesta in camera con la scusa di
cambiarsi d’abito, e dopo aver messo la bambola
sotto le lenzuola, si nascose dietro i tendaggi,
per vedere come andava a finire.
Dopo poco Pierone arrivò in camera
e, credendo che nel letto ci fosse Violetta,
disse: "Ora non mi scappi più, birbante maledetta,
ora la paghi cara! Ora si vedrà come va a finire
quando una femmina qualunque pretende di tener
testa a un re come me!". E così dicendo estrasse
un pugnale e la passò da parte a parte, poi, non
contento, disse ancora: "E ora ti voglio anche
succhiare il sangue!". Ed estratto il pugnale dal
petto lo leccò, e sentì un sapore dolcissimo e un
profumo di muschio che faceva inebriare.
Allora, pentito di aver pugnalato una fanciulla
così dolce e profumata, cominciò a rammaricarsi
della sua collera, dicendo parole che avrebbero
commosso le pietre, accusandosi di avere il cuore
crudele e il sangue velenoso, se aveva potuto far
tanto male a una creatura così buona e
dolce. Poi, dopo aver pianto ed essersi strappato
i capelli, in preda alla nera disperazione, alzò
la mano col pugnale per metter fine alla sua vita.
In quell'istante Violetta uscì da dietro
le tende, gli prese la mano e disse: "Fermati
Pierone, abbassa questa mano, ecco qui la dolcezza
che rimpiangi! eccomi sana e salva per stare con te
vivo e vegeto, e non mi considerare dura come il
muro se ti ho fatto patire con qualche dispetto,
perché è stato solo per capire e sperimentare la tua
costanza e la tua fedeltà".
Gli disse che aveva pensato all'ultimo
trucco per trovare un rimedio adatto a un cuore
orgoglioso come il suo, e infine gli chiese perdono
per tutte le volte che lo aveva fatto
soffrire. Lo sposo, abbracciandola con tanto
amore, se la fece venire accanto nel letto, fecero
la pace, e dopo tanti patimenti la dolcezza gli
sembrò ancora più grande.
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