In
Provino, cittá assai famosa e regale, si trovorono ne’
passati tempi tre sorelle, vaghe d’aspetto, gentili di
costumi e di maniere accorte, ma basse di legnaggio;
perciò che erano figliuole d’uno maestro Rigo fornaio,
che di continovo nel forno l’altrui pane coceva. L’una
delle quali Brunora, l’altra Lionella e la terza
Chiaretta si chiamava. Essendo un giorno tutta tre
queste giovanette nel giardino, di cui a maraviglia si
dilettavano, passò per quindi Ancilotto re, che per suo
diporto con molta compagnia se n’andava alla caccia.
Brunora, che era la maggior sorella, vedendo sí bella ed
orrevole compagnia, disse alle sorelle Lionella e
Chiaretta: — Se io avessi il maestro di casa del re per
mio marito, mi do sto vanto, che io con un bicchiere di
vino saziarei tutta la sua corte. — Ed io — disse
Lionella, — mi do sta lode, che se io avessi il
secretissimo cameriere del re per marito, farei tanta
tela con un fuso del mio filo, che di bellissime e
sottilissime camiscie fornirei tutta la sua corte. — Ed
io — disse Chiaretta, — mi lodo di questo, che se io
avessi il re per mio marito, gli farei tre figliuoli in
un medesimo parto, duo maschi ed una femina; e ciascuno
di loro arrebbe i capelli giú per le spalle annodati e
meschi con finissimo oro, ed una collana al collo ed una
stella in fronte. — Queste parole furono udite da uno
dei corteggiani; il quale subito corse al re, e
precisamente li raccontò ciò che le fanciulle avevano
insieme detto. Il re, inteso cotal tenore, le fece a sé
venire, e ad una ad una le interrogò, che detto avevano
insieme quando erano nel giardino. A cui tutta tre con
somma riverenza ordinatamente replicorono ciò avevano
detto. Il che ad Ancilotto re molto piacque. Ed indi non
si partí, che il maestro di casa Brunora prese per
moglie, ed il cameriere Lionella, ed egli la Chiaretta.
E lasciato l’andare alla caccia, tutti ritornorono a
casa, dove furono fatte le pompose nozze. Queste nozze assai dispiacquero alla madre del re; perciò che, quantunque la fanciulla fusse vaga di aspetto, formosa di viso, leggiadra della persona, ed avesse un ragionare di dolcezza pieno, non però era convenevole alla grandezza ed alla potenza del re, per esser feminella vile, abbietta e di minuta gente; né poteva in maniera alcuna la madre patire che uno maestro di casa ed uno cameriere fussero detti cognati del re suo figliuolo. Onde tanto crebbe l’odio alla suocera contra la nuora, che quasi non la poteva sentire, non che vedere; ma pur, per non contristare il figliuolo, teneva l’odio nel petto nascosto. Avenne, sí come piacque a colui che ’l tutto regge, che la reina s’ingravidò. Il che fu di sommo piacere al re, il quale con grandissima allegrezza aspettava di vedere la gentil prole de’ figlioli che gli erano sta’ promessi da lei. Al re dopo alquanti dí accadette di cavalcare nello altrui paese, ed ivi per alcuni giorni dimorare: e perciò la reina e li figliuoli, che di lei nasceranno, alla attempata madre instantissimamente raccomandò. La quale, quantunque la nuora non amasse né veder la volesse, nondimeno di averne buona cura al figliuolo largamente promise. Partito adunque il re ed andatosene al suo viaggio, la reina parturí tre figliuoli, duo maschi ed una femina; e tutta tre, sí come la reina quando era poncella al re aveva promesso, avevano i capegli annodati e sparsi giú per le spalle, con una vaga catenella al collo e con la stella nella fronte. La proterva e maligna madre del re, priva d’ogni caritativa pietá e accesa di pernizioso e mortal odio, tantosto che nacquero i cari bambini, deliberò, senza il perfido proponimento mutare, di fargli al tutto morire, acciò che di loro mai si sapesse novella e la reina in disgrazia del re venisse. Appresso questo, perché Chiaretta era reina e signoreggiava il tutto, era nasciuta tra le due sorelle una tanta invidia contra di lei, quanta nascere potesse giamai; e con sue astuzie ed arti continovamente s’ingegnavano di metterla in maggior odio della insensata madre. Avenne che nel tempo che la reina parturi, nacquero in corte ancora tre cani botoli, duo maschi ed una femina: i quali erano stellati in fronte ed uno signaluzzo di gorgiera in torno al collo tenevano. Mosse le due invidiose sorelle da diabolico spirito, presero i tre cani botoli che la madre poppavano, e portorongli all’empia suocera; e fatta la debita riverenza, le dissero: — Noi sappiamo, madama, che la Vostra Altezza poco ama ed ha cara la sorella nostra, e meritamente; perciò che ella è di bassa condizione, e non conviene al vostro figliuolo e nostro re una donna di sí vilissimo sangue, come ella è. E però, sapendo noi il voler vostro, siamo qui venute, e vi abbiamo recati tre cani botoli che nacquero con la stella in fronte, acciò che abbiamo il parer vostro. — Questo molto piacque alla suocera, e s’imaginò d’appresentargli alla nuora, che ancora non sapeva quello aveva parturito, e dirle come quelli erano i bambini di lei nasciuti. Ed acciò che tal cosa non si scoprisse, la mala vecchia ordinò alla comare che alla reina dir dovesse, i fanciulli che parturiti avea, esser stati tre cani botoli. La suocera adunque parimenti e le sorelle della reina e la comare se n’andorono a lei, e dissero: — Vedi, o reina, l’opera del tuo bel parto; riserbalo, acciò che, quando il re verrá, possa il bel frutto vedere. — E dette queste parole, la comare le pose i cagnolini al lato, confortandola tuttavia che non si disperasse, perché alle volte queste cose tra persone d’alto affare suoleno avenire. Aveva giá ciascheduna delle scelerate femine adempiuto ogni suo reo e malvagio proponimento, e solo una cosa ci restava: che agli innocentissimi fanciulli dessero acerba morte. Ma a Dio non piacque che del proprio sangue si bruttassino le mani; ma fatta una cassetta e ben incerata di tenace pece, e messi i fanciulli dentro e chiusi, la gittorono nel vicino fiume, ed a seconda dell’acqua la lasciorono andare. Iddio giusto, che non paté che l’innocente sangue patisca, mandò sopra la sponda del fiume un monaio, Marmiate per nome chiamato; il quale, veduta la cassetta, la prese ed aperse, e dentro vi trovò i tre bambini che ridevano. E perciò che erano molto belli, pensò che fussero figliuoli di qualche gran matrona, la quale per vergogna del mondo avesse commesso sí fatto eccesso. Onde renchiusa la cassetta e postasela in spalla, se n’andò a casa; e disse alla moglie, che Gordiana si chiamava: — Guata, moglie mia, ciò che trovai nella riva del fiume: io te ne faccio un dono. — Gordiana, veduti i fanciulli, graziosamente gli ricevette; e non altrimenti che se fussero del suo corpo nati, li nudrí. A l’uno de’ quali puose nome Acquirino, all’altro Fluvio, per esser sta’ ritrovati nelle acque: ed alla bambina, Serena. Ancilotto re stavasi allegro, sempre pensando di trovare al suo ritorno tre belli figliuoli; ma la cosa non gli avenne sí come ei pensava, perciò che l’astuta madre del re, tantosto che s’accorse il figliuolo al palazzo avicinarsi, gli andò incontro, e dissegli la sua cara moglie, in vece di tre figliuoli, tre botoli cani aver parturito. E menatolo nella camera dove la addolorata moglie per lo parto giaceva, gli dimostrò i cagnolini che al lato teneva. Ed avenga che la reina dirottamente piangesse, negando tuttavia averli parturiti, nientedimeno l’invidiose sorelle confermavano esser il vero tutto quello che aveva detto la vecchia madre. Il che udendo, il re molto si turbò, e quasi da dolore in terra cadde; ma poscia ch’egli rinvenne alquanto, stette gran pezza tra il sí e ’l no suspeso, ed al fine diede piena fede alle parole materne. E perché la misera reina era pazientissima, e con forte animo sofferiva la corteggiana invidia, venne al re pietá di farla morire; ma comandò che fusse posta sotto il luoco dove si lavano le pentole e le scutelle, e che per suo cibo fussero le immondizie e le carogne che giú della fetente e sozza scaffa cadevano. Mentre che l’infelice reina dimorò in quel puzzolente luogo nudrendosi d’immondizie, Gordiana, moglie di Marmiato monaio, parturí un figliuolo, al quale puose nome Borghino; e quello con li tre amorevolmente allevò. Aveva Gordiana per sua usanza ogni mese di troncare alli tre fanciulli gli annodati e lunghi capelli: dai quali molte preziose gioie e grosse e bianche perle cadevano. Il che fu cagione che Marmiato, lasciata la vilissima impresa di macinare, presto ricco divenne; e Gordiana e i tre fanciulli e Borghino, molto largamente vivendo, amorevolmente godevano. Giá erano venuti i tre fanciulli alla giovenil etá, quando persentiro che di Marmiato monaio e di Gordiana figliuoli non erano, ma trovati in una cassettina che giú per lo fiume scorreva. Laonde molto si ramaricorono; e desiderosi di provare sua ventura, chiesero da loro buona licenza, e si partirono. Il che non fu di contentamento di Marmiato e Gordiana; perciò che si vedevano privare del tesoro che usciva delle bionde loro chiome e della loro stellata fronte. Partitisi adunque da Marmiato e da Gordiana l’uno e l’altro fratello con la sorella, e fatte molte lunghe giornate, per aventura tutta tre aggiunsero in Provino, cittá d’Ancilotto re suo padre; ed ivi, presa una casa a pigione, insieme abitorono, nudrendosi del tratto delle gemme, delle gioie e delle pietre preciose che dal capo gli cadevano. Avenne che il re un giorno andando per la terra con alcuni suoi corteggiani spasseggiando, a caso indi passò dove dimoravano i duo fratelli e la sorella; i quali, non avendo ancora veduto né conosciuto il re, discesero giú dalle scale, ed andorono all’uscio: e trattisi di testa il cappuccio, ed inchinate le ginocchia ed il capo, riverentemente il salutorono. Il re, che aveva l’occhio d’un falcone pellegrino, gli guatò fiso nel viso, e vide che ambeduo tenevano una dorata stella nella fronte; e subito gli venne una rabbia al cuore, che quelli giovani fussero suoi figliuoli. E fermatosi, dissegli: — Chi siete voi? e di donde venite? — Ed elli umilmente risposero: — Noi siam poveri forastieri venuti ad abitare in cotesta cittá. — Disse il re: — Piacemi molto; e come vi chiamate? — A cui l’uno disse: — Acquirino; — l’altro disse: — Mi chiamo Fluvio. — Ed io, — disse la sorella, — mi addimando Serena. — Disse allora il re: — Per cortesia tutta tre a desinare con esso noi dimane vi invitiamo. — I giovani, alquanto arrossiti, non potendo denegare l’onestissima dimanda, accettorono lo invito. Il re, ritornato al palagio, disse alla madre: — Madama, oggi, andando a diporto, vidi per aventura duo leggiadri giovanetti ed una vaga puncella: e tutta tre avevano una dorata stella nella fronte, che, se io non erro, paiono quelli che dalla reina Chiaretta mi furono giá promessi. — Il che udendo, la sceleste vecchia se ne sorrise alquanto; ma pur le fu una coltellata che le trapassò il cuore. E fattasi chiamare la comare che i fanciulli allevati aveva, secretamente le disse: — Non sapete voi, comare mia cara, che i figliuoli del re vivono, e son piú belli che mai? — A cui rispose la comare: — Com’è possibil questo? non si affocorono nel fiume? E come lo sapete voi? — A cui rispose la vecchia: — Per quanto che io posso comprendere per le parole del re, i vivono, e del vostro aiuto ci è di bisogno molto; altrimenti, tutte stiamo in pericolo di morte. — Rispose la comare: — Non dubitate punto, madama, che io spero di operar sí, che tutta tre periranno. — E partitasi, la comare subito se n’andò alla casa di Acquirino, Fluvio e Serena; e trovata Serena sola, la salutò, e fece seco molti ragionamenti; e dopo che ebbe lungamente ragionato con esso lei, disse: — Avresti per aventura, figliuola mia, dell’acqua che balla? — A cui rispose Serena, che no. — Deh! figliuola mia, — disse la comare, — quante belle cose vedresti, se tu ne avesti; perciò che, bagnandoti il viso, diventeresti assai piú bella di ciò che sei. — Disse la fanciulla: — E come potrei io fare per averne? — Rispose la comare: — Manda i tuoi fratelli a ricercarla, che la ritroveranno, perciò che dalle parti nostre non è molto lontana. — E detto questo, si partí. Ritornati Acquirino e Fluvio a casa, Serena, fattasi all’incontro, li pregò che per amor suo dovessino con ogni sollecitudine cercare che la avesse di questa preciosa acqua che balla. Fluvio ed Acquirino, facendosene beffe, ricusavano di andare, perciò che non sapevano dove che tal cosa si trovasse. Ma pur, astretti dalle umili preghiere della diletta sorella, presero un’ampolla ed insieme si partirono. Avevano i duo fratelli piú miglia cavalcato, quando giunsero ad uno chiaro e vivo fonte, dove una candida colomba si rinfrescava. La quale, messo giú ogni spavento, disse: — O giovanetti, che andate voi cercando? — A cui Fluvio rispose: — Noi cerchiamo quella preciosa acqua, la quale, come si dice, balla. — Oh miserelli! — disse la colomba, — e chi vi manda a torre tal acqua? — A cui rispose Fluvio: — Una nostra sorella. — Disse allora la colomba: — Certo voi ve n’andate alla morte; perciò che vi si trovano molti velenosi animali che, vedendovi, subito vi divoreranno. Ma lasciate questo carico a me, che io sicuramente ve ne porterò. — E presa l’ampolla che i giovanetti avevano, ed annodatala sotto l’ala destra, si alzò a volo; ed andatasene lá dove era la delicata acqua, ed empiuta l’ampolla, ritornò alli giovani che con sommo desiderio l’aspettavano. Ricevuta l’acqua, e rese le debite grazie alla colomba, i giovani ritornorono a casa, ed a Serena sua sorella l’acqua appresentorono, imponendole espressamente che piú non gli comandasse cotai servigi, perciò che erano stati in pericolo di morte. Ma non passaro molti dí, che ’l re da capo vide i giovanetti; a’ quai disse: — E perché, avendo voi accettato lo invito, non veneste ne’ passati giorni a desinare con esso noi? — A cui riverentemente risposero: — Gli urgentissimi negozi, sacra Corona, ne sono stati primiera cagione. — Allora disse il re: — Vi aspettiamo dimattina senza fallo al prandio con noi. — I giovani si escusorono. Ritornato il re al palazzo, disse alla madre che aveva ancora veduti i giovanetti stellati in fronte. Il che udendo, la madre tra sé stessa molto si turbò; e da capo fece chiamare la comare, e secretamente il tutto le raccontò pregandola che dovesse provedere al soprastante pericolo. La comare la confortò, e dissele che non dovesse temere; perciò che la farebbe sí che in maniera alcuna non saranno piú veduti. E partitasi dal palazzo, alla casa della fanciulla se ne gí; e trovatala sola, l’addimandò se quell’acqua che balla, ancora avuta aveva. A cui la fanciulla rispose, che sí: ma non senza grandissimo pericolo della vita delli fratelli suoi. — Ma ben io vorrei — disse la comare, — che tu, figliuola mia, avesti il pomo che canta; perciò che tu non vedesti mai il piú bello, né gustasti il piú soave e dolce canto. — Disse la fanciulla: — Io non so come poterlo avere; perciò che i fratelli non vorranno andare a trovarlo, perché sono stati piú in pericolo di morte che in speranza di vita. — I ti hanno pur recata l’acqua che balla, — disse la vecchia; — non però sono morti. Sí come adunque ti hanno portata l’acqua, cosí parimenti ti porteranno il pomo. — E tolta licenza, si partí. Non era appena partita la comare, che Acquirino e Pluvio aggiunsero a casa; e Serena li disse: — Io, fratelli miei, vorrei volentieri vedere e gustare quel pomo che sí dolcemente canta. E se non fate sí che io l’abbia, pensate in breve di vedermi di vita priva. — Il che intendendo, Fluvio ed Acquirino molto la ripresero, affermandole che per lei non volevano andare in pericolo di morte, sí come per lo adietro fatto avevano. Ma pur tanti furono i dolci prieghi di Serena, congiunti con quelle calde lagrime che dal cuore venivano, che Acquirino e Fluvio si disposero al tutto di contentarla, che che avenire ne dovesse. Laonde montati a cavallo, si partirono; e tanto cavalcarono, che giunsero ad una ostaria: ed entrativi dentro, addimandorono l’oste s’egli per aventura saprebbe insignarli il luogo dove ora si trova il pomo che dolcemente canta. Risposogli fu di sí: ma che andare non vi potevano, perciò che il pomo era in un vago e dilettevole giardino in guardia ed in governo d’un mortifero animale, il quale con le aperte ali, quanti al giardino s’avicinano, tanti ne uccide. — Ma come dobbiam far noi, — dissero i giovani, — imperciò che deliberato abbiamo di averlo al tutto? — Rispose l’oste: — Se voi farete ciò che io vi dirò, arrete il pomo, né temerete la velenosa fiera, e men la morte. Prendete adunque questa veste tutta di specchi coperta; e l’una di voi se la ponga indosso, e cosí vestito entri nel giardino di cui trovarete l’uscio aperto; e l’altro resti fuori del giardino, ed in modo alcuno non si lasci vedere. Ed entrato ch’egli sará nel giardino, l’animale subito gli verrá al l’incontro; e vedendosi sé stesso negli specchi, incontanenti in terra cadere; ed andatosene all’albero del cantante pomo, quello umanamente prenderá, e senza guardarsi a dietro fuori del giardino uscirá. — I giovani molti ringraziorono l’oste; e partitisi, quanto gli disse l’oste, tanto operorono; ed avuto il pomo, alla sorella lo portorono, essortandola che piú a sí pericolose imprese strengere non li dovesse. Passati dopo’alquanti giorni, il re vide i giovanetti; e fattigli a sé chiamare, li disse: — Qual è stata la cagione, che secondo l’ordine dato non siete venuti a desinare con esso noi? — A cui rispose Fluvio: — Non per altra cagione, signore, ci siamo restati di venire, se non per le diverse occupazioni che ci hanno intertenuti. — Disse il re: — Nel giorno sequente vi aspettiamo; e fate sí che in maniera alcuna non ne mancate. — A cui rispose Acquirino che, potendosi da certi suoi negozi sviluppare, molto volontieri vi verrebbono. Ritornato al palazzo, il re disse alla madre che ancor veduti aveva i giovanetti, e che li stavano fitti nel cuore, pensando sempre a quelli che Chiaretta promessi gli aveva; e che non poteva con l’animo riposare, fino a tanto che non venissero a desinare con esso lui. La madre del re, udendo tai parole, si trovò in maggior travaglio che prima, dubitando forte che scoperta non fusse. E cosí dogliosa ed affannata, mandò per la comare, e dissele: — Io mi credevo, comare mia, che i fanciulli oggimai fussero spenti e che di loro non si sentisse novella alcuna; ma ei vivono, e noi ci stiamo in pericolo di morte. Provedete adunque ai casi nostri, altrimenti noi tutte periremo. — Rispose la comare: — O Alta madama, state di buon animo e non vi perturbate, perch’io farò sí che di me voi vi lodarete, e di loro novella alcuna piú non sentirete. — E tutta indignata e di furor piena, si partí, e andossene alla fanciulla; e datole il buon giorno, l’addimandò se ’l pomo che canta avuto aveva. A cui rispose la fanciulla che sí. Allora l’astuta e sagace comare disse: — Pensa, figliuola mia, di non aver cosa veruna, se non hai anche una cosa vie piú bella e piú leggiadra che le due prime. — E che è cotesta cosa, madre mia, cosí leggiadra e bella, che voi mi dite? — disse la giovane. A cui la vecchia rispose: — L’ugel bel verde, figliuola mia; il quale dí e notte ragiona, e dice cose maravigliose. Se tu lo avesti in tua balía, felice e beata ti potresti chiamare. — E dette queste parole, si partí. Non furono sí tosto i fratelli a casa venuti, che Serena gli affrontò, e pregolli che una sol grazia non le negassino. Ed addimandatala che grazia era quella che ella voleva, rispose: — L’ugel bel verde. — Fluvio, il quale era stato al contrasto della velenosa fiera e che di tal pericolo si ricordava, a pieno le ricusava di voler andare. Ma Acquirino, quantunque piú volte ancora egli ricusato gli avesse, pur finalmente mosso dalla fraternevole pietá e dalle abondevoli e calde lagrime che Serena spargeva, unitamente deliberorono di contentarla; e montati a cavallo, piú giornate cavalcorono, e finalmente giunsero ad un fiorito e verdeggiante prato: in mezzo del quale era un’altissima e ben fronzuta arbore, circondata da varie figure marmoree che vive parevano: ed ivi appresso scorreva un ruscelletto che tutto il prato rigava. E sopra di questo albero l’ugel bel verde saltando di ramo in ramo si trastullava, proferendo parole che non umane ma divine parevano. Smontati i giovani de gli loro palafreni, e lasciatili a suo bel grado pascersi nel prato, s’accostorono alle figure di marmo; le quali subito che i giovani toccorono, statue di marmo ancora elli divennero. A Serena, che molti mesi aveva con desiderio aspettati Fluvio ed Acquirino, suoi diletti fratelli, parve di averli omai perduti, e non vi esser piú speranza di rivedergli. Onde stando ella in tale ramaricamento, e l’infelice morte de’ fratelli piangendo, determinò tra sé stessa di provare sua ventura; ed ascesa sopra un gagliardo cavallo, in viaggio si pose: e tanto cavalcò, che aggiunse al luogo dove l’ugel bel verde sopra un ramo d’un fronzuto albero dolcemente parlando dimorava. Ed entrata nel verde piato, subito conobbe i palafreni delli fratelli che di erbuzze si pascevano; e girando gli occhi or quinci or quindi, vide li fratelli conversi in due statue che la loro effigie tenevano: di che tutta stupefatta rimase. E scesa giú del cavallo ed avicinatasi a l’albero, stese la mano, ed a l’ugel bel verde puose le mani adosso. Il quale, poi che di libertá privo si vide, di grazia le dimandò che lo lasciasse andare e non tenerlo, che a tempo e luogo di lei si ricordarebbe. A cui Serena rispose non volerle in modo alcuno compiacere, se prima gli suoi fratelli al suo primo esser restituiti non erano. Allora disse lo ugello: — Guatami sotto l’ala sinistra, e troverai una penna assai piú dell’altre verde, con certi segni gialli per dentro; prendila, e vattene alle statue, e con la penna toccavi gli occhi, che tantosto che tocchi gli arrai, nel primo stato ch’erano i fratelli ritorneranno vivi. — La giovane, alzatagli l’ala sinistra, trovò la penna come l’uccello detto le aveva; e andatasene alle figure di marmo, quelle ad una ad una con la penna toccò, e subito di statue uomini divennero. Veduti adunque nella pristina forma i fratelli ritornati, con somma allegrezza gli abbracciò e basciò. Avendo allora Serena avuto lo desiderato intento suo, da capo l’ugel bel verde pregò la donna di grazia che lo lasciasse in libertá, promettendole che se tal dono li concedeva, di giovarle molto, se in alcun tempo si trovasse aver bisogno del suo soccorso. Serena, non contenta di questo, rispose che mai lo liberarebbe, fino a tanto che non truvassino, chi è il padre e la madre loro: e che tal carico dovesse pazientemente sopportare. Era giá nasciuta una gran discordia tra loro per lo avuto augello; ma dopo molti combattimenti, di commune consenso fu lasciato appresso la donna; la quale con non picciola solecitudine lo custodiva e caro lo teneva. Avuto dunque l’ugel bel verde, Serena e i fratelli montorono a cavallo ed a casa contenti si ritornorono. Il re, che sovente passava davanti la casa de’ giovanetti, non vedendogli, assai si maravigliava; ed addimandati gli vicini che era avenuto di loro, gli fu risposo che non sapevano cosa alcuna, e che era molto tempo che non erano sta’ veduti. Ora essendo ritornati, non passorono duo giorni che furono veduti dal re; il quale gli addimandò che era stato di loro, che sí lungo tempo non si avevano lasciati vedere. A cui rispose Acquirino che alcuni strani accidenti che gli erano occorsi, erano stati la cagione: e se non erano andati da sua Maestá, sí come ella voleva ed era il desiderio suo, le chiedevano perdono, e volevano emendare ogni suo fallo. Il re, sentito il loro infortunio ed avutane compassione grande, non si partí di lá che tutta tre gli volse al palagio a desinare seco. Acquirino, tolta celatamente l’acqua che balla, Pluvio il pomo che canta, e Serena l’ugel bel verde, con il re lietamente entrorono nel palagio, e si puosero sedere a mensa. La maligna madre e le invidiose sorelle, vedendo sí bella figliuola e sívenuto leggiadri e politi giovanetti, i cui begli occhi risplendevano come vaghe stelle, ebbero sospetto grande, e passione non picciola sentirono nel cuore. Acquirino, fornito il desinare, disse al re: — Noi vogliamo, innanzi che si leva la mensa, far vedere a vostra Maestá cose che le piaceranno molto; — e presa una tazza d’argento, e postavi dentro l’acqua che balla, sopra la mensa la pose. Fluvio, suo fratello, messa la mano in seno, estrasse il pomo che canta, ed appresso l’acqua lo mise. Serena, che in grembo teneva l’ugel bel verde, non fu tarda a ponerlo sopra la mensa. Quivi il pomo cominciò un soavissimo canto; e l’acqua al suono del canto cominciò maravigliosamente ballare. Di che il re ed i circostanti ne sentivano tanto piacere, che dalle risa non si potevano astenere. Ma affanno e sospizione non picciola crebbe allora alla nequitosa madre ed alle sorelle, perciò che dubitavano forte della vita sua. Finito il canto ed il ballo, l’ugel bel verde cominciò parlare, e disse: — O sacro re, che meritarebbe colui che di duo fratelli ed una sorella la morte procurata avesse? — A cui l’astuta madre del re primamente rispose: — Non altro che il fuoco; — e parimente tutte le altre cosí risposero. Ed allora l’acqua che balla ed il pomo che canta alzorono la voce, dicendo: — Ahi falsa madre di nequizia piena, te stessa la tua lingua condanna! e voi malvage ed invidiose sorelle con la comare a tal suplicio insieme dannate sarete. — Il che udendo, ’l re rimase tutto suspeso. Ma l’ugel bel verde, seguendo il suo parlare, disse: — Sacra Corona, questi sono i tre tuoi figliuoli che sommamente hai desiderati! Questi sono i tuoi figliuoli che nella fronte la stella portano! E la loro innocentissima madre è quella che sino a quest’ora è stata ed è sotto la fetente scaffa. — E fatta trarre la infelice reina del puzzolente luogo, orrevolmente la fece vestire; e vestita che fu, venne alla presenza del re: la quale, quantunque lungo tempo fusse stata prigione e mal trattata, nondimeno fu preservata nella primiera bellezza; ed in presenza di tutti lo ugel bel verde raccontò il caso dal principio sino alla fine, come era processo. Ed allora conoscendo il re il successo della cosa, con molte lagrime e singulti strettamente abbracciò la moglie ed i cari figliuoli. E l’acqua che balla, il pomo che canta e l’ugel bel verde, lasciati in abbandono, in un punto insieme disparvero. E venuto il giorno seguente, il re comandò che in mezzo della piazza fusse un grandissimo fuoco acceso; indi ordinò che la madre e le due sorelle e la comare in presenza di tutto il popolo fussero senza compassione alcuna abbruggiate. Ed il re poi con la cara moglie e con gli amorevoli figliuoli lungo tempo visse; e maritata la figliuola onorevolmente, lasciò li figliuoli del regno unichi eredi. — |
C'erano
una volta a Fontaniva, città nobile e prosperosa, tre
sorelle belle, cortesi e piene di grazia, nonostante
fossero figlie di un fornaio, che nel suo forno
cuoceva il pane per gli altri. Un giorno le tre sorelle erano nel giardino che a loro piaceva tanto, quando passò il re Ancillotto, che per divertirsi andava a caccia con una bella compagnia. Brunora, che era la maggiore, vedendo quella nobile e allegra compagnia, disse: "Se io avessi il maestro di casa del re come mio sposo, sono sicura che con un bicchiere di vino disseterei tutta la corte". "E io,"disse Lionella, "posso assicurare che se avessi il segretissimo cameriere del re come sposo farei tanta tela con un fuso del mio filo che rifornirei di camicie finissime tutta la corte". "E io," disse Chiaretta, che era la più piccina e anche la più bella, "posso dire che se avessi il re come mio sposo gli farei tre gemelli, due maschi e una femmina, e ciascuno di loro avrebbe i capelli inanellati sulle spalle scintillanti di fili d'oro, una collana d'oro intorno al collo e una stella in fronte". Uno dei cortigiani sentì queste parole, e subito corse dal re e gli raccontò esattamente quello che avevano detto le tre fanciulle. Allora il re le fece venire in sua presenza e le interrogò una ad una su quello che avevano detto in giardino, e loro tre con grande cortesia risposero proprio con le stesse parole. Questo piacque molto al re, e subito il maestro di casa sposò Brunora, il cameriere Lionella, e lui prese Chiaretta. E anziché andare a caccia tornarono tutti a palazzo, dove furono festeggiate solennemente le nozze. La madre del re però non era affatto contenta, perché Chiaretta, per quanto bella, gentile, garbata nel parlare, era di basso lignaggio, non certo adatta alla nobiltà di un re, e poi non poteva sopportare che un maestro di casa e un cameriere fossero diventati cognati di re Ancillotto. La suocera prese a odiare Chiaretta ogni giorno di più, non poteva vederla né sentirla, ma per non contraddire suo figlio teneva l'odio nascosto dentro di sé. Presto Chiaretta rimase incinta, e re Ancillotto ne fu immensamente felice perché sperava di vedere i figli che gli aveva promesso la sua sposa, ma in quel tempo partì a cavallo per visitare terre straniere, dopo aver raccomandato la regina e i figli che stavano per nascere alla sua vecchia madre. Lei non amava e non poteva vedere la nuora, eppure promise al figlio che le avrebbe dedicato tutte le sue cure. Mentre il re era in terre straniere, la regina Chiaretta partorì tre bambini, due maschi e una femmina, e tutti, come aveva promesso al re quando era ancora una fanciulla, avevano i capelli inanellati e sparsi sulle spalle, con una graziosa catenella al collo e la stella in fronte. La crudele e malvagia madre del re, priva di pietà e ardente di odio terribile e mortale, appena nacquero i bei bambini decise senza esitazione di farli subito morire, perché nessuno sapesse mai nulla di loro e perché la regina cadesse in disgrazia presso il re suo sposo. C'era anche questo: che nelle due sorelle, siccome Chiaretta era regina e signora di tutti, era nata un'invidia smisurata contro di lei, e con le loro tresche e la loro malignità facevano di tutto perché quella pazza della madre del re la odiasse sempre di più. Quando la regina partorì, nacquero a corte tre cani botoli, due maschi e una femmina, che avevano una macchia chiara in fronte e una specie di segno bianco intorno al collo. Spinte da un'ispirazione diabolica le due sorelle invidiose presero i tre cagnetti e li portarono alla crudele suocera, si inchinarono e le dissero: "Signora, noi sappiamo che non ami e non hai cara la nostra sorella, giustamente, perché è di bassa origine e non è adatta al re tuo figlio una donna così scadente. Sapendo questo noi siamo venute per aiutarti, e ti abbiamo portato questi tre cagnolini stellati in fronte, dicci cosa ne pensi". Alla suocera piacque molto questa cosa, e pensò di portarli alla nuora, che ancora non aveva visto i suoi figli, dicendole che erano quelli i bambini nati da lei. E perché nessuno scoprisse l'inganno, ordinò subito alla levatrice di andare a dire alla regina che i figli che aveva partorito erano tre cani botoli, poi andò da Chiaretta con le due sorelle e dissero: "Guarda regina, che bei frutti ti sono nati! Tienili di conto, così quando torna il re vedrà questa bella roba". E glieli misero accanto, dicendole che sono cose che capitano. Così le tre donne scellerate avevano realizzato i loro piani, restava solo una cosa: far morire i tre bambini innocenti. Prepararono una cassetta impeciata, ci misero dentro i piccini, la chiusero, e la buttarono nel fiume che scorreva lì vicino, perché la corrente li portasse via. Ma il Cielo che protegge gli innocenti non permise che accadesse loro del male, e sul fiume passò un mugnaio che vide la cassetta, la prese e l'aprì, trovandovi i bambini che ridevano. E siccome erano bellissimi pensò che fossero figli di una gran signora, che avendo combinato qualcosa di losco li avesse abbandonati alle acque. Richiusa la cassettina se caricò sulle spalle, andò a casa e disse: "Guarda moglie mia cosa ho trovato in riva al fiume, ti faccio un regalo". La donna, visti i bambini, li accolse con affetto e li allevò come se fossero stati suoi. Chiamarono i maschi Salvo e Fluvio, e la femmina Ondina, perché erano stati salvati dal fiume. Il re Ancillotto passava il tempo in allegria, pensando che al ritorno avrebbe trovato tre meravigliosi bambini, ma le cose non andarono come sperava lui, perché sua madre quando sentì che stava arrivando al palazzo gli si fece incontro e gli disse: "La tua cara moglie invece di tre bambini ha partorito tre cani botoli". E dopo averlo portato nella camera dove Chiaretta giaceva addolorata per il parto, gli mostrò i tre cagnolini che aveva accanto. La regina piangeva a dirotto, dicendo che non aveva partorito i cani, ma le tre sorelle confermarono tutto quello che aveva detto la madre. Sentendo questo il re rimase sconvolto, e quasi cadde in terra per il dolore, poi quando si riprese si sentì incerto, non riusciva a capire a chi doveva credere, ma alla fine pensò che fossero vere le parole di sua madre. Vedendo che la povera Chiaretta era affranta dal dolore e sopportava con nobiltà il disprezzo delle sorelle e della suocera, il re ne sentì pietà e non volle condannarla a morte, ma ordinò che fosse chiusa sotto il posto dove si rigovernavano i piatti e i tegami, e che per cibo non avesse altro che la spazzatura e i rimasugli che cadevano da una grata in quella cella puzzolente. Mentre l'infelice regina si trovava in quella prigione dove si nutriva d'immondizia, la moglie del mugnaio cresceva i tre gemelli, e ogni mese tagliava i loro capelli inanellati, dai quali cadevano grosse pietre preziose e bianche perle, tanto che il mugnaio smise di macinare il grano e diventò ricchissimo, mentre i bambini crescevano nell'abbondanza. Erano già grandi quando sentirono parlare il mugnaio e sua moglie, e scoprirono che non erano figli loro, ma che erano stati trovati in una cassettina portata dal fiume. Furono molto colpiti da questa cosa e, desiderosi di cercare la loro fortuna, si accomiatarono dai genitori adottivi e partirono. Questa cosa non piacque al mugnaio e a sua moglie, che si videro privati delle ricchezze che uscivano continuamente dalle loro chiome d'oro. Salvo, Fluvio e Ondina si misero in cammino, e dopo tanti giorni giunsero a Fontaniva, la città del re Ancillotto loro padre, e qui affittarono una casa in cui vivevano insieme provvedendo ad ogni loro necessità con il ricavato delle pietre preziose e delle perle che cadevano dal loro capo. Un giorno accadde che il re andando a passeggio per le sue terre con un seguito di cortigiani per caso passò da dove abitavano i tre gemelli, che non avendo ancora visto né conosciuto il re scesero per le scale e andarono sulla porta, si tolsero il cappello e, chinando le ginocchia e la testa, lo salutarono con grande cortesia. Il re, che aveva la vista di un'aquila, li guardò bene in viso, e quando vide che avevano una stella d'oro in fronte, sentì un'agitazione che gli sconvolgeva il cuore, perché quei tre giovani potevano essere i suoi figli. Così si fermò e chiese: "Chi siete? E da dove venite?". Loro risposero con umiltà: "Noi siamo poveri forestieri venuti ad abitare nella tua città", e il re disse: "Ne sono molto lieto, e come vi chiamate?". Il primo rispose: "Salvo", e il secondo: "Il mio nome è Fluvio". "E io," disse la sorella, "mi chiamo Ondina". "Vi prego di venire tutti insieme a pranzo da me". I giovani erano arrossiti, e siccome alla nobile richiesta non si poteva dire di no, accettarono l'invito. Il re, tornato a palazzo, disse a sua madre: "Signora, oggi mentre ero a passeggio per svagarmi un po', ho incontrato per caso due bei giovani e una fanciulla piena di grazia, e tutti e tre avevano una stella d'oro in fronte: se non mi sbaglio sembrano quelli che mi aveva promesso la regina Chiaretta". Sentendo queste parole la vecchia scellerata si mise a ridere forte, ma in cuor suo sentì una pugnalata. Allora fece chiamare in segreto la vecchia comare che come levatrice aveva assistito al parto e le disse: "Lo sapete, mia cara comare, che i figli del re vivono, e sono più belli che mai?". La comare rispose: "Com'è possibile signora? sono affogati nel fiume!". La vecchia regina disse: "Dalle parole del re io ho capito che sono vivi, e ora dovrai darti da fare, altrimenti noi corriamo un pericolo mortale". Rispose la comare: "Stai tranquilla signora, che spero di fare in modo tale che moriranno tutti e tre". La comare se ne andò e si diresse subito alla casa di Salvo, Fluvio e Ondina; trovò la fanciulla sola, la salutò e si mise a parlare con lei, e dopo un po' di tempo le disse: "Avresti per caso, mia cara, l'acqua che balla?", Ondina le rispose di no, e la donna disse: "Oh! Mia cara, quante belle cose vedresti se tu ce l'avessi! perché bagnandoti il viso con l'acqua che balla diventeresti ancora più bella di come sei". Disse la fanciulla: "E come potrei fare per averla?"; la comare rispose: "Manda i tuoi fratelli a cercarla, che la troveranno, perché non è tanto lontana da queste terre", e dopo aver detto questo se ne andò. Quando tornarono a casa Salvo e Fluvio, Ondina andò loro incontro, e li pregò in nome del bene che le volevano di cercare in ogni modo di portarle questa preziosa acqua che balla. Salvo e Fluvio la prendevano in giro e rifiutavano di andare, perché non sapevano proprio dove cercarla, ma poi, sentendosi pregare tanto e con tanta dolcezza dalla loro amata sorella, presero un'ampolla e partirono insieme. I due fratelli avevano cavalcato ormai per tanto tempo, quando giunsero a una fonte cristallina, dove una candida colomba si rinfrescava. Senza alcun timore la colomba disse: "O giovani, che cosa andate a cercare?"; Fluvio le rispose: "Noi cerchiamo quell'acqua preziosa che, come dicono, balla". "Oh, poverini!", disse la colomba, "e chi vi manda a cercare quell'acqua?"; rispose Salvo: "Nostra sorella". Disse allora la colomba: "Voi andate sicuramente verso la morte, perché là ci sono molti animali velenosi che appena vi vedono vi divorano. Ma lasciate a me questo compito, e vi porterò io l'acqua che balla". Prese l'ampolla che avevano i giovani, se la legò sotto l'ala destra e si alzò in volo; e dopo essere andata dove si trovava l'acqua meravigliosa e aver riempito l'ampolla, ritornò dai fratelli che aspettavano con grande desiderio il suo ritorno. Dopo aver ricevuto l'acqua e aver ringraziato di cuore la colomba, i giovani tornarono a casa, e la diedero a Ondina, dicendole chiaramente che non doveva più chiedere servizi di quel genere, perché avevano rischiato di morire. Non erano trascorsi molti giorni quando il re rivide i tre gemelli, ai quali disse: "Perché dopo aver accettato il mio invito non siete venuti a desinare con me quel giorno?"; loro con grande umiltà risposero: "Urgentissime faccende, maestà, sono state causa di questo". Allora disse il re: "Vi aspetto in tutti i modi domani a pranzo da me". Ritornato a palazzo il re disse alla madre che aveva rivisto i giovani con la stella d'oro in fronte, e la vecchia si spaventò: fatta di nuovo chiamare la comare in segreto le raccontò tutto, pregandola di darsi da fare per il grande pericolo che correvano. La vecchia le disse di non preoccuparsi e di non aver paura di nulla, perché lei avrebbe fatto in modo tale che nessuno li avrebbe mai più visti. Lasciò il palazzo e andò a casa della fanciulla, che era sola, e le chiese se ancora non le avevano portato l'acqua che balla. Ondina rispose che l'aveva, ma che per portargliela i suoi fratelli avevano corso dei grandissimi pericoli. "Eppure io vorrei proprio," disse la vecchia, "che tu mia cara avessi il pomo che canta, perché tu non hai mai visto una cosa tanto bella, né hai mai sentito un canto così soave e dolce". La fanciulla disse: "Non so come fare per averlo, i miei fratelli non vorranno andare a cercarlo, perché hanno rischiato di morire senza speranza di salvarsi"; "Te l'hanno pur portata l'acqua che balla, e non sono morti. E come ti hanno trovato l'acqua ti troveranno il pomo che canta", disse la vecchia, e se ne andò. La comare se n'era appena andata, quando arrivarono a casa Salvo e Fluvio, e Ondina disse loro: "Io, fratelli miei, vorrei tanto vedere e sentire il pomo che canta con tanta dolcezza. E se non farete in modo che possa averlo, state certi che la mia vita tra poco finirà". Sentendola parlare così i fratelli la sgridarono aspramente, dicendo che non volevano rischiare la vita per lei, com'era già accaduto in passato. Ma Ondina li pregò e pianse tanto, che Salvo e Fluvio decisero di accontentarla in tutti i modi, qualunque cosa dovesse capitare. Allora montarono a cavallo e partirono, e cavalcarono tanto che giunsero a un'osteria, dove entrarono chiedendo all'oste se per caso poteva insegnare loro dove trovare il pomo che canta dolcemente. "Sì," rispose l'oste, "ma non ci potete andare, perché il pomo è in uno splendido giardino, sorvegliato da una bestia dalle grandi ali spiegate, che uccide tutti quelli che si avvicinano". "Come potremo fare noi, che abbiamo deciso di averlo in tutti i modi?". "Se mi ascolterete," disse l'oste, "riuscirete a prenderlo, la bestia non potrà nuocervi e non morirete. Prendete questa veste fatta tutta di specchi, e quando sarete vicini al giardino uno di voi la indosserà, ed entrerà dalla porta aperta, mentre l'altro resterà fuori attento a non farsi vedere. La bestia attaccherà quello che sarà entrato, ma vedendo se stessa negli specchi cadrà a terra immediatamente, così lui potrà avvicinarsi all'albero del pomo che canta e prenderlo con garbo, poi senza voltarsi indietro uscirà dal giardino". I fratelli ringraziarono a lungo l'oste, poi partirono e seguirono tutti i suoi consigli, così riuscirono a prendere il pomo che canta, e lo portarono alla sorella, pregandola di non costringerli mai più a intraprendere imprese tanto pericolose. Passati molti giorni il re vide i giovani, e dopo averli fatti avvicinare disse: "Per quale ragione non siete venuti a desinare da me secondo l'ordine che vi avevo dato?". Fluvio gli rispose: "Non c'è altra ragione, maestà, che ci ha fatto disobbedire al tuo ordine, solo certi affari ci hanno trattenuto". Disse il re: "Vi aspetto domani, e fate in modo di non mancare, a qualunque costo". Salvo disse che se avessero potuto liberarsi da certe loro faccende ci sarebbero andati molto volentieri. Ritornato al palazzo il re disse di nuovo alla madre che aveva rivisto i giovani, li aveva nel cuore, pensando sempre a quelli che gli aveva promesso Chiaretta, e non poteva trovare pace finché non venivano a desinare con lui. La madre del re sentendo questo discorso si mise in un'agitazione ancora peggiore delle altre volte, avendo paura di essere scoperta. E così impaurita e infuriata mandò a chiamare la comare e le disse: "Io credevo proprio, comare mia, che i fanciulli oramai fossero morti e che non se ne sarebbe sentito più parlare, invece loro sono vivi, e noi corriamo un pericolo mortale. Datti quindi da fare, o moriremo tutte". Disse la comare: "Grande signora, state tranquilla e non agitatevi, perché farò in modo che sarete contenta di me, e non avrete più alcuna notizia di loro". Decisa a farla finita andò dalla fanciulla, e dopo averla salutata le chiese se aveva ricevuto il pomo che canta. Ondina rispose di sì e allora la vecchia astuta e maligna disse: "Pensa mia cara, che quello che hai ora non è nulla, se non potrai avere anche una cosa molto più bella e preziosa delle altre due". "E che cosa sarebbe, nonnina, questa cosa tanto bella di cui mi parli?", disse la fanciulla; la vecchia le rispose: "L'Augel Belverde, mia cara, che parla giorno e notte, e racconta cose meravigliose. Se tu lo possedessi, potresti chiamarti felice e beata". E dopo aver detto queste parole andò via. Appena sentì arrivare i fratelli, Ondina andò loro incontro, e li pregò di soddisfare il suo unico desiderio. E quando le chiesero che cosa desiderava, lei rispose: "L'Augel Belverde". Fluvio, che si era visto venire addosso ad ali spiegate la bestia feroce e velenosa, ricordava bene il pericolo e si rifiutava decisamente di partire alla ricerca. Ma Salvo, dopo essersi rifiutato anche lui per un bel po' di tempo, pieno di amore fraterno e commosso dalle lacrime che non smettevano di scendere dagli occhi di Ondina, decise di accontentarla e convinse anche suo fratello. Così partirono insieme a cavallo, e dopo molte giornate di viaggio giunsero in un prato fiorito e verdeggiante, al centro del quale cresceva un albero altissimo dalla chioma rigogliosa, circondato da tante statue di marmo che parevano vive, e lì vicino c'era un ruscello che bagnava il prato. Su quest'albero l'Augel Belverde tutto contento saltellava di ramo in ramo, articolando parole che non parevano umane ma celestiali. I giovani smontarono dai loro cavalli, che lasciarono liberi di pascolare, e si avvicinarono alle figure di marmo, ma appena le toccarono diventarono statue anche loro. Per tanto tempo Ondina aspettò ansiosamente il ritorno di Salvo e Fluvio, ed ebbe paura di averli perduti per sempre, senza alcuna speranza di riabbracciarli. Mentre aveva questo grande dolore e piangeva per la triste morte dei suoi fratelli, decise tra sé e sé di tentare la sorte, e salita su un bel cavallo si mise in viaggio, cavalcando tanto che arrivò nel luogo in cui l'Augel Belverde stava sul ramo di un grande albero parlando dolcemente. Appena entrò nel prato riconobbe i cavalli dei suoi fratelli che brucavano le fresche erbe; poi guardandosi attorno con attenzione vide Salvo e Fluvio trasformati in due statue che erano tali e quali a loro e ne rimase stupefatta. Allora smontò da cavallo, si avvicinò all'albero, stese la mano e afferrò l'Augel Belverde. Quello, vedendosi privato della libertà, disse: "Ti prego, mia dolce fanciulla, di lasciarmi andare e di non trattenermi fra le tue mani, e vedrai che al momento giusto te ne verrà un gran bene". Ondina gli rispose: "Non ti accontenterò di sicuro, se prima non farai tornare vivi i miei fratelli". Allora l'uccello disse: "Guardami sotto l'ala sinistra, e troverai una penna molto più verde delle altre, con dei piccoli segni gialli: prendila, avvicinati alle statue e con la mia penna tocca i loro occhi, appena lo farai i tuoi fratelli torneranno in vita". Ondina gli alzò l'ala sinistra, trovò la penna come le aveva detto l'uccello, poi andò vicino alle figure di marmo, toccò i loro occhi ad uno ad uno con la penna e subito le statue si trasformarono in esseri viventi. Vedendo i suoi fratelli vivi come prima, con immensa gioia li abbracciò e li baciò. Siccome Ondina aveva ottenuto ciò che gli aveva chiesto, l'Augel Belverde la pregò di restituirgli la libertà, promettendole di ricompensarla generosamente, se un giorno avesse avuto bisogno del suo aiuto. Ma Ondina gli disse: "Non ti libererò mai, finché non avremo scoperto chi sono i nostri veri genitori, quindi abbi pazienza". I fratelli discussero a lungo su chi doveva tenere l'uccello, e alla fine si accordarono di lasciarlo con Ondina, che lo teneva con grande amore e gli dedicava tutte le sue cure. Poi rimontarono a cavallo e tutti contenti ritornarono a casa. Il re, che spesso era passato davanti alla casa dei tre gemelli, non li aveva più visti e non capiva cosa fosse successo; chiese notizie ai vicini, ma gli risposero solo che da tanto tempo non erano a casa. Poco tempo dopo che erano tornati videro il re, che chiese cos'era successo, perché erano mancati così a lungo. Salvo rispose che alcuni fatti straordinari li avevano trattenuti molto lontano, e per questa ragione non erano andati da lui a palazzo, gli chiedevano perdono ed erano pronti a rimediare. Il re capì che avevano corso grandi pericoli e si sentì commosso, e non volle andare via di là senza portarli con sé a desinare. Senza farsi vedere, Salvo prese l'acqua che balla, Fluvio il pomo che canta e Ondina l'Augel Belverde, andarono felici a palazzo col re e si sedettero alla sua tavola. La malvagia madre del re e le due sorelle invidiose, vedendo una fanciulla così bella e due giovani così aggraziati e cortesi, dagli occhi splendenti come stelle del firmamento, cominciarono a sospettare, e sentivano una grande agitazione. Salvo, finito il desinare, disse al re: "Maestà, noi vogliamo, prima che sia sparecchiata la tavola, farti vedere alcune cose che ti piaceranno moltissimo", e presa una coppa d'argento ci mise dentro l'acqua che balla e la posò sulla tavola. Fluvio mise la mano in tasca, prese il pomo che canta, e lo posò accanto all'acqua. Ondina, che teneva in grembo l'Augel Belverde, subito lo posò sulla tovaglia. Allora il pomo cominciò un dolcissimo canto, e l'acqua a questa musica cominciò a ballare meravigliosamente. Il re e tutti i cortigiani erano così contenti vedendo queste cose, che non stavano nella pelle dalla gioia. Ma paura e agitazione aumentarono per la madre scellerata e le sorelle crudeli, perché temevano a ragione per la loro vita. Quando il canto e il ballo finirono, l'Augel Belverde cominciò a parlare e disse: "Sacra maestà, cosa meriterebbe chi avesse voluto la morte di due fratelli e una sorella?". La madre del re volle rispondere per prima: "Dovrebbe essere bruciata viva", e così dissero anche le sorelle invidiose. Allora l'acqua che balla e il pomo che canta alzarono la voce dicendo: "Ah! Madre bugiarda e piena di scelleratezza, tu ti condanni da te stessa! E voi malvage e invidiose sorelle, con la maligna comare sarete condannate a un unico supplizio!". Il re sentendo queste parole era rimasto attonito, ma l'Augel Belverde continuò a parlare così: "Maestà, questi sono i tuoi tre figli, quelli che tanto hai desiderato! E la loro madre innocente è ancora nella puzzolente cella sotto l'acquaio". Il re ordinò subito che Chiaretta fosse liberata e vestita come si conviene a una regina, e quando fu pronta Chiaretta si presentò al re e, nonostante fosse stata tanti anni nella fetida prigione, la sua bellezza era intatta. Allora l'Augel Belverde raccontò ai presenti questa storia, dall'inizio alla fine, con tutto quello che era successo. Il re finalmente, comprendendo cos'era accaduto, pianse di gioia e abbracciò forte la sua sposa e i suoi tre cari figli, poi, siccome nella grande felicità non pensarono più all'acqua che balla, al pomo che canta e all'Augel Belverde, i tre esseri magici scomparvero tutti insieme. Le donne malvage e crudeli furono giustamente punite, mentre il re Ancillotto con la regina Chiaretta vissero insieme felici e contenti, dopo aver celebrato le nozze della principessa Ondina con un potente re e aver lasciato il trono di Fontaniva a Salvo e Fluvio, che regnarono a lungo in pace e prosperità. Ma ogni tanto si vede nell'aria una scia verde screziata d'oro, come se fosse passato ancora l'Augel Belverde. |
In Provino, a very famous and royal
city, there lived in ancient times three sisters, fair
of person, gracious in manners, and courteous in
bearing, but of base lineage, being the daughters of a
certain Messer Rigo, a baker who baked bread for other
folk in his oven, Of these one was named Brunora,
another Lionella, and another Chiaretta. It happened
one day when the three sisters were in their garden,
and there taking much delight, that Ancilotto the
king, who was going to enjoy the diversion of hunting
with a great company, passed that way. Brunora, the
eldest sister, when she looked upon the fair and noble
assemblage, said to her sisters Lionella and
Chiaretta, 'If I had for my husband the king's
majordomo, I flatter myself that I would quench the
thirst of all the court with one glass of wine.' 'And
I,' said Lionella, 'flatter myself that, if the king's
private chamberlain were my husband, I would pledge my
self to make enough linen from a spindle of my yarn to
provide shifts of the strongest and finest make for
all the court.' Then said Chiaretta, 'And I, if I had
the king himself for my husband, I flatter myself that
I would give him three children at one birth, two sons
and a daughter. And each of these should have long
hair braided below the shoulders, and intermingled
with threads of the finest gold, and a golden necklace
round the throat, and a star on the fore head of
each.' |
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TESTO |
Giovan Francesco Straparola, Le
piacevoli notti, a cura Giuseppe Rua.
Bari: Gius. Laterza & Figli
Tipografi-Editori-Librai, 1927. Online: http://www.intratext.com/IXT/ITA2969/_INDEX.HTM;
consultato il 19 aprile 2013. Vedi: Le piacevoli notti. A cura di Donato Pirovano. Roma: Salerno Editrice, 2000. 2 Tomi. Notte quarta, favola III. Tomo I, pp. 274-294. |
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TRADUZIONE PER BAMBINI |
© Adalinda
Gasparini 1996,
da
Giovan Francesco Straparola (1554–1557) Le piacevoli notti.
Notte quarta, favola III. |
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ENGLISH
TRANSLATION |
The
Facetious Nights of Straparola. Translated by W.
G. Waters; illustrated by E. R. Hughes A.R. W.S. London:
Lawrence and Bullen 1894.
http://www.surlalunefairytales.com/facetiousnights/night4_fable3.html;ultimo
accesso 15 ottobre 2018. Sito inattivo il 30 marzo 2024. |
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ALTRE VERSIONI |
Lo stesso tema è nella Historia della Regina
Stella et Mattabruna; di nuovo ristampata e
ricorretta; Firenze: 1569. Sta in: Cantari novellistici dal
Tre al Cinquecento. A cura di Elisabetta
Benucci, Roberta Manetti e Franco Zabagli. Introduzione
di Domenico De Robertis. Roma: Salerno Editore, 2002; 2
tomi. Tomo II, pp. 839-862. Vedi in questo sito il
Cantare di Stella e Mattabruna: http://www.alaaddin.it/_TESORO_FIABE/AF/GR_1569_Fb_Stella_Mattabruna.html Non è azzardato ipotizzare che esistessero ai tempi di Straparola versioni a stampa di questa storia in ottava rima, e che ne circolassero antecedenti versioni orali o manoscritte: si tratterebbe della antica parente, piuttosto stretta, della favola riportata in questa pagina. Si veda anche, in questo sito, la centesima novella del Decameron, Griselda, che presenta significative analogie con questa storia. Vedi anche La fontana che brila l'albaro che canta e l'ucelin belverde, narrazione veneta in versi di Dino Coltro, (1991), con traduzione italiana a fronte. Vedi la carta di questa fiaba anche in Fabulando. Carta fiabesca della successione, per accedere all'e-book e ad altre note sulla fiaba stessa: http://www.fairitaly.eu/joomla/Fabulando/Augel-belverde/Augel-belverde-IT.html. Per fiabe del tipo dell'Augel belverde di Straparola, vedi la Carta del labirinto dell'impegno impossibile: dal quadrante sud-nord-est-ovest si accede, oltre che a L'augel belverde in formato e-book, alla Princess Belle-Étoile (Parigi, 1698), a L'uccello Bulbul-Hezar (Parigi 1709-1717) che fu pubblicata come ultima storia narrata da Shahrazad al sultano nella prima versione europea delle Mille e una notte; Le figlie dell'erbivendolo (Palermo 1870-1913) fiaba popolare siciliana, e Il canto e 'l sono della Sara Sibilla (Firenze 1880), fiaba popolare toscana. Vedi inoltre questa fiaba anche in VENETO. Fiabe antiche e popolari d'Italia, testi originali con traduzione a fronte a cura di Adalinda Gasparini e Claudia Chellini. Forlì: Foschi Editore 2018, pp. 246-288. |
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IMMAGINE | Warwick Goble: Giambattista Basile. Stories from the
Pentamerone. E. F. Strange, editor. Warwick
Goble, illustrator. London: Macmillan & Co. 1911. Fonte: http://www.all-art.org/world_literature/images/p/goblepent31.jpg; consultato il 24 ottobre 2011; sito non attivo il 30 marzo 2024. |
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RIFERIMENTO
MITOLOGICO |
Nella storia
di Ipsipile, o Issipile o Isifile, protagonista della
omonima tragedia di Euripide, rinarrata da Stazio
nella Tebaide, da Ovidio nelle Metamorfosi, e da Dante
nella Commedia (Purgatorio XXVI, vv. 94-96) si
ritrovano: la donna messa ingiustamente a morte per
infanticidio (o imprigionata crudelmente, come in
questa fiaba), la perdita dei figli neonati, e il
lieto fine che viene dai figli che tornano a salvare
la madre. La morte del neonato si trova nella favola
di Straparola Doralice,
e, solo minacciata, nella favola calabrese La
ricotta janca, nonché nella favola
romagnola del rospo Ohimè.
Dante si trattiene, anche perché per lui e Guido il tempo della finale salvezza non è ancora giunto: Guido è ancora tra le fiamme e Dante è ancora vivo. |
Prendete
questa veste fatta tutta di specchi... E si avvicinarono alle figure di marmo, ma appena le toccarono diventarono statue anche loro. |
Per il motivo della pietrificazione,
ricorrente sia nelle fiabe europee che nelle Mille e una notte,
occorre ricordare la pietrificazione provocata dallo
sguardo di Medusa. Signora che fa perdere la testa,
andar fuori di sé, quindi regina assoluta dell'unheimlich freudiano,
che turba al punto di provocare la morte per
pietrificazione, Medusa, come l'Augel Belverde, può
essere affrontata da un movimento inverso a quello
diretto del maschile fallogocentrico: Perseo cammina
all'indietro e ne guarda l'immagine riflessa
nello specchio/scudo. Allo stesso modo qui ci si può
avvicinare all'Augel belverde solo con una veste fatta tutta
di specchi. In tutte le nostre versioni
della fiaba è la sorella a riuscire dove il maschile
è pietrificato. |