Gh'ea
na votta na donna ch'a l'uaiva in figgiö. In
giurnu a l'aneta dâ cummò a cianze a so
disperassiun. A cummò a g'à ditu: “ Nu sta a
cianze, vagni in cà, piggia na pignatta cun
l'egua, caccighe drentu 'na brancò de sciaixi e
mettighe u cuerciu”. A donna, in cà, a l'ha fetu
cumme g'aivan ditu.U giurnu doppu, a l'àlevau u
cuerciu, e sun sciurtii tanti figgiö, tütti
piccin cumme i sciaixi, c'han cummensau a satò
da 'na porte all'otra. A povia donna, disperò, a
nu saiva cusse fò; a l'ha piggiau u scuassu e ai
ha ammassè tütti menu ün, ch'u s'ea ascuzu in tu
buccu da ciavöa. Ma appeña a l'aiva finìu, a
l'ha cummensau a cianze: “Pôvia mi, nu l'è
serviu a ninte, aua sun turna sensa figgiö” U
figgiu u l'ha sentìa e u g'ha ditu: “Mamma, se
nu ti m'ammassi, sciortu e saiò mi to figgiu.”
Quande “Sciaixettu” (cuscì a l'ha ciamau) u l'è sciurtiu
dâ ciavöa, so mamma a l'à mandau a purtò da
mangiò a so babbu ch'u travaggiova luntan. Pâ
stradda Sciaixettu u l'ha attruvau di fosci e u
nu puaiva sâtoiai.
U l'ha ciamau n'ommu e u g'ha ditu: “Se ti m'aggiütti mi te daggu pan e furmaggiu”. L'ommu u l'ha aggiüttau ma Sciaixettu u l'è scappau sensa doghe ninte. Â fin u l'è arrivau da so babbu, han mangiau insemme, dappu Sciaixettu u l'è anetu a pasce e vacche. Ma u l'ea tantu piccin, ch'u l'è finìu insemme all'erba inta pansa de 'na vacca. U poviau Sciaixettu u nu saiva mancu lè dunde u l'ea, u l'ha cumensau a virò pe sercò de sciurtì, fiña a che u l'ha attruvau in barcunettu e u l'ha accapìu dunde u l'ea. U s'è affacciau e u l'ha sentiu sò babbu ch'u ciamova: “Sciaixettu... Sciaixettu...dunde te, bellu au babbu!” “Sun chi, babbu affacciau dau barcunettu du cü du bö.”Inte quellu mumentu a vacca ghe vegnüu cué de cagò e cuscì Sciaixettu u l'è sciurtìu, so babbu u l'ha ben làvau e sun riturné tütti dui in ca dunde an visciüu belli cuntenti cun so mamma. |
C'era
una volta una donna che voleva un bambino. Un
giorno si recò dalla comare a piangere per la
disperazione. La comare le disse.” Non
piangere, vai a casa, prendi una pentola, butta
dentro una manciata di ceci e metti il
coperchio”. La donna, in casa, fece come le era
stato detto. Il giorno dopo, appena tolse il
coperchio alla pentola, balzarono fuori tanti
tanti figli, tutti piccoli come ceci, che
cominciarono a saltare da tutte le parti. La
povera donna, disperata, non sapeva come fare,
prese la scopa e li uccise tutti, meno uno che
era riuscito a nascondersi nel buco della
serratura. Appena ebbe finito, cominciò a
piangere.” Povera me! Non è servito a niente,
adesso sono di nuovo senza figli”. Il figlio la
sentì e le disse :” Mamma, se non mi uccidi,
esco e sarò io il tuo unico figlio”. Quando
Cecino (così fu chiamato) uscì dalla serratura,
la mamma lo mandò a portare da mangiare al babbo
che lavorava lontano.
Per strada
incontrò delle buche e non potendole saltare,
chiese aiuto ad un uomo dicendogli:”Se mi aiuti
a saltare ti regalo pane e formaggio!” L'uomo lo
aiutò, ma Cecino scappò via senza dargli la
ricompensa pattuita. Alla fine giunse il babbo,
mangiarono assieme ed in seguito Cecino si recò
a pascolare le mucche. Cecino era così piccolo
che finì con l'erba nella pancia della mucca. Il
povero Cecino non sapeva certo dove si trovasse
e cominciò ad ispezionare quel luogo sconosciuto
per cercare di uscire. Finalmente trovò una
finestrella e comprese dove si trovava. Si
affacciò e sentì la voce di suo padre che
chiamava :” Cecino, Cecino, dove sei, bello di
tuo padre?” “Sono qui padre, affacciato al
balconcino del sedere del bue!”. In quello
stesso istante alla mucca venne voglia di fare
un bisognino e così Cecino potè uscire sano e
salvo dalla pancia della mucca. Suo padre subito
lo prese e lo lavò per benino, poi tornarono a
casa dove vissero felici e contenti con la
mamma.
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RIFERIMENTI
E NOTE |
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TESTO E TRADUZIONE ITALIANA | Testo e traduzione sono tratti dal sito
della Scuola dell'Infanzia Statale di Carloforte, Isola di
San Pietro;
http://www.istcompcarloforte.it/icc/scuolainfanzia/fiabe/index.php;
consultato il 29 luglio 2011. Al 31 ottobre 2018 il
sito non è più raggiungibile. |
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LINGUA | Il tabarchino, che si
parla ancora in Sardegna, nel Sulcis-Iglesiente,
deriva il suo nome dall'isola spagnola di Nueva
Tabarca. Alcuni pescatori di corallo di Pegli colonizzarono nel XVI secolo l'isola di Tabarca, ora Tunisia, che Carlo V imperatore di Spagna aveva concessa ai genovesi. La comunità ligure, unica enclave europea sulla costa nord-africana, vi prosperò per due secoli. Nel XVIII secolo la politica Francese e le esigenze egemoniche della nuova dinastia tunisina degli husainidi costrinsero la maggior parte di questa comunità a trasferirsi in Sardegna, nell'isola di San Pietro. I liguri rimasti a Tabarca furono fatti schiavi dal bey tunisino e furono poi riscattati da Carlo Emanuele III di Savoia, Re di Sardegna, che li trasferì nella stessa comunità in Sardegna. Altri tabarchini resi schiavi furono successivamente riscattati dal re di Spagna, Carlo III, che li mandò a popolare l'isola di Nueva Tabarca, dalla quale derivarono il loro nome. Altri tabarchini rimasti liberi a Tunisi verso la fine del sec. XVIII popolarono l'isola di Sant'Antioco, e vi fondarono Calasetta. Gli ultimi tabarchini rimasti in Tunisia formarono una minoranza etnico-linguistica e religiosa successivamente riconosciuta e tutelata dal bey di Tunisi. All'inizio del secolo XX, quando ebbe inizio il protettorato francese, la comunità tunisina scelse la naturalizzazione. Vedi anche: http://it.wikipedia.org/wiki/Dialetto_tabarchino. |
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IMMAGINE | Arthur
Rackham, Tom
Thumb, Grimm's
Fairy Tales. Hansel and Grethel and other tales.by the
Brothers Grimm illustrated by Arthur Rackham. New York:
E.P. Dutton & Company Publishers 1920 https://archive.org/details/hanselgretheloth00grim/page/126/mode/2up?view=theater; ultimo accesso 29 aprile 2024. |
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NOTE | |
C'era una volta una donna
che voleva un bambino. Un giorno si recò dalla comare a piangere per la disperazione. |
Il desiderio della donna di avere figli non
pare in questa fiaba incompatibile con una loro drastica
limitazione, e il bambino riesce a sopravvivere nonostante
le sue minuscole dimensioni. La fiaba, diffusa in tutta
Italia, contiene un motivo molto interessante, che può
essere accostato al mito greco di Cronos/Tempo, il dio
padre che incorpora i figli appena la madre Rea/Fluente li
partorisce. Il mito greco, già narrato da Esiodo nella
Teogonia, comunemente interpretato come un
divoramento da parte del padre che non tollera la presenza
di figli rivali, può essere inteso come un'incorporazione,
una seconda nascita dal corpo paterno. Nella versione di
Italo Calvino la neo_mamma, spaventata dal gran numero dei
figli che saltano fuori dalla pentola li uccide tutti, e
l'ultimo, Cecino, esce fuori solo quando il padre dice che
gli sarebbe piaciuto che almeno uno si fosse salvato
(Cecino e il bue, in Italo Calvino, Fiabe italiane [1956],
Torino: Einaudi 1974, vol. primo, pp. 388-391). In
entrambe le versioni è la mucca - animale materno - a
incorporare il bambino, e nella versione tabarchina è il
padre ad aiutarlo a tornare alla luce, mentre nella
versione di Calvino è l'astuzia del bambino a permettergli
di vivere. La seconda nascita che segue alla nascita
naturale, dalla madre, potrebbe rappresentare
l'umanizzazione, favorita dal padre. Vedi anche la versione toscana Cecino, in Giuseppe Pitrè, Novelle popolari toscane. Firenze: Firenze G. Barbèra, Editore 1885, http://www.archive.org/stream/novellepopolari02pitrgoog#page/n273/mode/2up, consultato il 24 settembre 2011; pp. 223-229. |
Fabulando.
Carta fiabesca della successione |
Vedi la Carta della fiaba di Cecino,
con i link per leggerne l'e-book on line e varie note: http://www.fairitaly.eu/joomla/Fabulando/Cecino/Cecino-IT.html. |