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Fu adunque
nell’estreme parti di Lombardia un uomo chiamato
Bernio, il quale, quantunque de’ beni della fortuna
abondevole non fusse, non però d’animo e di cuore agli
altri inferiore si reputava. Costui prese per moglie
una valorosa e gentilesca donna, nominata Alchia; la
quale, avenga che di bassa condizione fusse, era però
dotata d’ingegno e di laudevoli costumi, e tanto amava
il marito, quanto un’altra che trovar si potesse
giamai. Essi molto desideravano figliuoli, ma la
grazia da Iddio non gli era concessa; perciò che
l’uomo il piú delle volte non sa quello che
addimandando piú li convenga. Stando ambeduo in questo
desiderio e veggendo la fortuna essergli al tutto
contraria, costretti da lungo desio, deliberorono di
prenderne uno e per propio e legittimo figliuolo
tenerlo e nudricarlo. Ed andatisene una mattina per
tempo a quel luogo dove sono i teneri fanciulli dalli
loro padri abbandonati, e adocchiatone uno che piú
bello e piú vezzoso degli altri li parve, quello
presero; e con molta diligenza e disciplina fu da loro
accostumatamente nudrito.
Avenne che,
come piacque a colui che l’universo regge ed ogni cosa
a suo bel grado tempra ed ammollisce, Alchia si
ingravidò; e pervenuto il tempo del parto, parturí un
figliuolo che tutto somigliava al padre. Di che l’uno
e l’altro ne ebbe incredibile allegrezza; e Valentino
nome gl’imposero. Il fanciullo, ben nudrito ed
allevato, cresceva ed in virtú ed in costumi; e tanto
amava il fratello, Fortunio chiamato, che, quando egli
era senza di lui, da doglia si sentiva morire. Ma la
discordia, d’ogni ben nimica, vedendo il loro fervido
e caldo amore, e non potendo omai sofferire tanta tra
loro amorevolezza, un giorno se interpose, ed operò sí
che gli suoi frutti acerbi assaggiare incominciorono.
Imperciò che scherzando tra loro un giorno, si com’è
usanza de’ fanciulli, ed esendo per lo giuoco
riscaldati alquanto, e non potendo Valentino patire
che Fortunio nel giuoco li fusse superiore, in tanta
rabbia e furore venne, che piú volte bastardo e nato
di vil femina li disse. Il che udendo Fortunio e di
ciò maravigliandosi molto, assai si turbò; e voltosi
verso Valentino, li disse:
— Come, sono io
bastardo?E Valentino
con parole tra’ denti non morte, seco tuttavia
contrastando, animosamente lo confermò. Laonde
Fortunio oltre modo dolente del giuoco si partí; ed
andatosene alla putativa madre, dolcemente la dimandò
se di lei e di Bernio era figliuolo. A cui Alchia
rispose che sí. Ed accortasi che Valentino con
ingiuriose parole oltraggiato l’aveva, quello
fortemente minacciò, giurando di malagevolmente
castigarlo. Fortunio per le parole d’Alchia suspicò,
anzi tenne per certo che egli suo figliuolo legittimo
non fusse; pur piú volte assaggiare la volse s’egli
era suo vero figliuolo, e di saperlo al tutto
deliberò. Onde Alchia, vedendo l’ostinato volere di
Fortunio, e non potendo da tal importunitá rimoverlo,
gli confermò lui non esser suo vero figliuolo, ma
nudrito in casa per amor d’Iddio e per alleviamento
de’ peccati suoi e del marito. Queste parole al
giovane furono tante coltellate al cuore, e li
crebbero doglia sopra doglia. Ora essendo senza misura
dolente, né soffrendogli il cuore sé medesimo con
alcuna violenza uccidere, determinò di uscire al tutto
di casa di Bernio, ed errando per lo mondo tentare se
la fortuna ad alcun tempo li fusse favorevole. Alchia,
veduta la volontá di Fortunio ogni ora piú pronta, né
vedendo modo né via di poterlo rimovere dal suo duro
proponimento, tutta accesa d’ira e di sdegno, dielli
la maledizione, pregando Iddio che se gli avenisse per
alcun tempo di cavalcare il mare, ei fusse dalla
sirena non altrimenti inghiottito che sono le navi
dalle procellose e gonfiate onde marine. Fortunio,
dall’impetuoso vento del sdegno e dal furor dell’ira
tutto spinto, né intesa la maledizione materna, senza
altro congedo prendere dai parenti, si partí, ed
indirizzò verso ponente il suo cammino.
Passando
adunque Fortunio or stagni or valli or monti ed altri
alpestri e salvatici luoghi, finalmente una mattina
tra sesta e nona giunse ad uno folto ed inviluppato
bosco; e dentro entratovi, trovò il lupo, l’aquila e
la formica, che per la cacciagione di giá un preso
cervo fuor di modo si rimbeccavano, ed in partirlo in
maniera alcuna convenire non si potevano. Stando
adunque i tre animali in questo duro contrasto, né
volendo l’uno ceder a l’altro, al fine in tal guisa
patteggiorono, che ’l giovane Fortunio, che allora
eravi sopragiunto, dovesse la loro lite difinire,
dando a ciascuno di loro la parte che li paresse piú
convenevole. E cosí tutta tre rimasero contenti:
promettendo l’uno all’altro d’acquetarsi ed in maniera
alcuna non contravenire alla difinitiva sentenza,
quantunque ella fusse ingiusta.
Fortunio,
preso volentieri l’assunto, e con maturitá considerata
la loro condizione, in tal guisa la preda divise: al
lupo, come animal vorace e addentato molto, in
guidardone della durata fatica assignò tutte l’ossa
con la macilente carne; all’aquila, uccello rapace e
di denti privo, per rimunerazione sua in cibo offerse
le interiora col grasso che la carne e l’ossa
circonda; alla granifera e sollecita formica, per
esser manchevole di quella potenza ch’al lupo ed
all’aquila è dalla natura concessa, per premio della
sostenuta fatica le tenere cervella concesse. Del
grave e ben fondato giudicio ciascuno di loro rimase
contento; e di tanta cortesia, quanta ei usata gli
aveva, come meglio puotero e seppero il ringraziorono
assai. E perciò che la ingratitudine tra gli altri
vizi è sommamente biasmevole, tutta tre concordi
volsero che ’l giovane non si partisse, se prima da
ciascun di loro non era per lo ricevuto servigio
ottimamente guidardonato. Il lupo adunque in
riconoscimento del passato giudicio disse:
— Fratello, io ti do questa virtú, che ogni volta il tuo desiderio sará di divenire lupo e dirai: fuss’io lupo, incontanente di uomo in lupo tu ti trasformerai, ritornando però a tuo bel grado nella tua forma prima. Ed in tal maniera fu altresí dall’aquila e dalla formica beneficiato. Fortunio,
tutto allegro per lo ricevuto dono, rendute prima
quelle grazie ch’ei seppe e puote, chiese da loro
commiato, e si partí; e tanto camminò, che aggiunse a
Polonia, cittá nobile e popolosa: il cui imperio
teneva Odescalco re, molto potente e valoroso, il
quale aveva una figliuola, Doralice per nome chiamata.
E volendola onorevolmente maritare, aveva fatto
bandire un gran torniamento nel suo regno; né ad
alcuno intendeva in matrimonio copularla, se non a
colui che della giostra fusse vincitore. E molti
duchi, marchesi ed altri potenti signori erano giá da
ogni parte venuti per far l’acquisto del prezioso
premio; e della giostra ornai era passato il primo
giorno, ed uno saracino, sozzo e contrafatto di
aspetto, strano di forma e nero come pece, di quella
superiore appareva. La figliuola del re, considerata
la diformitá e lordura del saracino, ne sentiva
grandissimo dolore che ei ne fusse della onorata
giostra vincente; e messasi la vermiglia guancia sopra
la tenera e delicata mano, si attristava e ramaricava,
maladicendo la sua dura e malvagia sorte: bramando
prima ’l morire che di sí sformato saracino moglie
venire.
Il giovanetto,
sentito del padre il ragionamento, e veduta la di lui
partenza, la spoglia di formica depose e nel suo esser
primo fece ritorno. Doralice, vedendo il giovane,
subitamente si volse gittar giú dal letto e gridare, ma
non puote; perciò che il giovane le chiuse con una delle
mani la bocca e disse: Fortunio, entrato nella cittá e veduta la onorevol pompa ed il gran concorso dei giostranti, ed intesa la causa di sí glorioso trionfo, si accese di ardentissimo desiderio di mostrare quanto era il suo valore nel torniamento. Ma perciò che era privo di tutte quelle cose che ai giostranti si convengono, dolevasi molto. E stando in questo ramarico ed alzando gli occhi al cielo, vide Doralice, figliuola del re, che ad una superba finestra appoggiata si stava: la quale, da molte vaghe e generose matrone circondata, non altrimenti pareva che ’l vivo e chiaro sole tra le minute stelle. E sopragiunta la buia notte, ed andatisene tutti ai loro alloggiamenti, Doralice mesta si ridusse sola in una cameretta non meno ornata che bella; e stando cosí solinga con la finestra aperta, ecco Fortunio, il quale, come vide la giovane, fra sé disse: — Deh, che non sono io aquila? Né appena egli aveva fornite le parole, che aquila divenne; e volato dentro della finestra, e ritornato uomo come prima, tutto giocondo e tutto festevole se le appresentò. La poncella, vedutolo, tutta si smarrí; e sí come da famelici cani lacerata fusse, ad alta voce cominciò gridare. Il re, che non molto lontano era dalla figliuola, udite le alte grida, corse a lei, ed inteso che nella camera era un giovane, tutta la zambra ricercò, e nulla trovando, a riposare se ne tornò; perciò che il giovane, fattosi aquila, per la finestra si era fuggito. Né fu si tosto il padre postosi a riposare, che da capo la poncella si mise ad alta voce gridare; perciò che il giovane, come prima, a lei presentato si aveva. Ma Fortunio, udito il grido della giovane, e temendo della vita sua, in una formica si cangiò, e nelle bionde trezze della vaga donna si nascose. Odescalco, corso all’alto grido della figliuola e nulla vedendo, contra di lei assai si turbò, e acramente minacciolla che, se ella piú gridava, egli le farebbe uno scherzo che non le piacerebbe; e tutto sdegnato se ne partí, pensandosi ch’ella avesse veduto nella sua imaginativa uno di coloro che per suo amore erano stati nel torniamento uccisi. — Signora mia, io non sono qui venuto a torvi l’onore e l’aver vostro, ma per racconfortarvi ed esservi umilissimo servitore. Se voi piú gridarete, una di due cose averrá: o che ’l vostro chiaro nome e buona fama fie guasta, o che voi sarete cagione della mia e vostra morte. E perciò, signora del cuor mio, non vogliate ad un tempo macchiare l’onor vostro e mettere a pericolo di amenduo la vita. Doralice, mentre Fortunio diceva tai parole, piangeva e si ramaricava molto; né poteva in maniera alcuna patire il paventoso assalto. Ma Fortunio, vedendo il perturbato animo della donna, con dolcissime parole che arrebbeno spezzato un monte, tanto disse e tanto fece, che addolcí l’ostinata voglia della donna; la quale, vinta dalla leggiadria del giovane, con esso lui si pacificò. E vedendo il giovane di bellissimo aspetto, robusto e delle membra sue ben formato, e ripensando tra sé stessa alla bruttura del saracino, molto si doleva che egli dovesse della giostra esser vincitore e parimente della sua persona possessore. E mentre che ella seco ragionava, le disse il giovane: — Damigella, s’io avessi il modo, volentieri giostrerei; e dammi il cuore che della giostra sarei vincitore. A cui rispose la donzella: — Quando cosí fusse, niun altro che voi sarebbe della persona mia signore. E vedendolo tutto caldo e ben disposto a tal impresa, di danari e di gioie infinite l’accomodò. Il giovane, allegramente presi i danari e le gioie, addimandolla qual abito piú le sarebbe a grado che egli si vestisse. A cui rispose: — Di raso bianco. E sí come ella divisò, cosí egli fece. Fortunio adunque il giorno seguente, guarnito di rilucenti armi coperte di una sopra veste di raso bianco, di finissimo oro e sottilissimi intagli ricamata, montò sopra un possente ed animoso cavallo coperto di colore del cavaliere; e senza esser da alcun conosciuto, in piazza se ne gí. Il popolo, giá raunato al famoso spettacolo, veduto il prode cavaliere isconosciuto con la lancia in mano per giostrare, non senza gran maraviglia e come smemorato incominciò fiso a riguardarlo; e ciascuno diceva: — Deh, chi è costui che sí leggiadro e sí pomposo si rappresenta in giostra, e non si conosce? Fortunio, nell’ordinata sbarra entrato, al suo rivale fece motto che entrasse; ed amenduo, abbassate le nodose lance, come scatenati leoni si scontrorono: e cosí grave fu del giovinetto il colpo nella testa, che il saracino toccò del cavallo le groppe, e non altrimenti che un vetro battuto ad un muro, nella nuda terra morto rimase. E quanti quel giorno in giostra ne incontrò, tanti furono da lui valorosamente abbattuti. Stavasi la damigella tutta allegra, e con ammirazione grandissima intensamente il riguardava, e tra sé stessa ringraziava Iddio che della servitú del saracino l’aveva deliberata, e pregavalo li desse la vittoriosa palma. Giunta la notte, e chiamata Doralice a cena, non gli vi volse andare; ma fattisi portare certi delicati cibi e preziosi vini, finse non aver allora appetito di mangiare: ma facendole bisogno, al tardo sola mangerebbe. E chiusasi sola in camera, ed aperta la finestra, lo affezionato amante con sommo desiderio aspettò; e ritornatosi come la notte precedente, ambeduo insieme lietamente cenorono. Dappoi Fortunio l’addimandò come dimane vestire si dovesse, ed ella a lui: — Di raso verde, tutto di argento ed oro finissimo ricamato: ed altressí il cavallo. Ed il tutto fu tostamente la mattina essequito. Appresentatosi adunque in piazza, il giovanetto all’ordinato termine del torniamento entrò; e se il giorno avanti il suo gran valore aveva dimostrato, nel sequente vie piú quello dimostrò. E la delicata donzella giustamente esser sua ognuno ad alta voce affannava. Venuta la
sera, la damigella, tra sé tutta gioconda, tutta
giocosa ed allegra, finse quello istesso che nella
precedente notte simulato aveva. E chiusasi in camera,
ed aperta la finestra, il valoroso giovane aspettò, e
con esso lui agiatamente cenò. E addimandatala da capo
di che vestimento nel sequente giorno addobbar si
dovesse, li rispose:
— Di raso cremesino, tutto ricamato di oro e di perle; ed altresí la sopraveste del cavallo sará in tal guisa guarnita, perciò che in tal maniera sarò ancor io vestita. — Donna, — disse Fortunio, — se dimane per aventura io fussi alquanto piú tardo dell’usato nel venire in giostra, non ve ne maravigliate; perciò che non senza causa tarderò la venuta mia. Venuto il terzo giorno e l’ora del giostrare, tutto il popolo il termine del glorioso triunfo con grandissima allegrezza aspettava; ma niuno dei giostranti, per la smisurata fortezza del prode cavaliere incognito, ardiva di comparere. E la dimoranza del cavaliere troppo lunga non pur al popolo generava sospetto grandissimo, ma ancora alla donzella, quantunque della dimora ne fusse consapevole. E vinta da interno dolore, non se ne avedendo alcuno, quasi tramortita cadde. Ma poi ch’ella sentí Fortunio avicinarsi alla piazza, gli smarriti spiriti cominciorono a ritornare ai loro luochi. Era Fortunio d’un ricco e superbo drappo vestito, e la coperta del suo cavallo d’oro finissimo tutta dipinta di lucenti rubini, di smeraldi, di zaffiri e di grossissime perle, le quali secondo il giudizio universale un stato valevano. Giunto in piazza il valoroso Fortunio, tutti ad alta voce gridavano: — Viva, viva il cavalier incognito! E con un spesso e festoso batter di mani fischiavano. Ed entrato nella sbarra, sí coraggiosamente si portò, che mandati tutti sopra la nuda terra, della giostra ebbe il glorioso trionfo. E sceso giú del potente cavallo, fu dai primi e dai maggiori della cittá sopra i loro omeri sollevato; e con sonore trombe ed altri musici stromenti, e con grandissimi gridi che givano in fino al cielo, alla presenza del re incontanente lo portorono. E trattogli l’elmo e le relucenti arme, il re vide un vago giovanetto; e chiamata la figliuola, in presenza di tutto il popolo con grandissima pompa la fece sposare, e per un mese continovo tenne corte bandita. Essendo Fortunio con la diletta moglie un certo tempo dimorato, e parendogli sconvenevole e cosa vile il star ne l’ozio avolto raccontando l’ore sí come fanno quelli che sciocchi sono e di prudenza privi, determinò al tutto di partirsi, e andarsene in luochi dove il suo gran valore fusse apertamente conosciuto. E presa una galea e molti tesori che ’l suocero gli aveva donati, e tolta da lui e dalla moglie buona licenza, sopra la galea salí. Navigando adunque Fortunio con prosperi e favorevoli venti, aggiunse nell’Atlantico mare; né fu guari piú di dieci miglia entrato nel detto mare, che una sirena, la maggiore che mai veduta fusse, alla galea si accostò, e dolcemente cominciò a cantare. Fortunio, che in un lato della galea col capo sopra l’acqua per ascoltare dimorava, si addormentò; e cosí dormendo fu dalla sirena diglottito, la quale, attuffatasi nelle marine onde, se ne fuggí. I marinai, non potendolo soccorrere, scoppiavano da dolore; e tutti mesti e sconsolati la galea di bruni panni copersero, ed all’infelice e sfortunato Odescalco fecero ritorno, raccontandoli l’orribile e lagrimoso caso che nel mare gli era sopravenuto. Dil che il re e Doralice e tutta la cittá grandissimo dolore sentendo, di neri panni si vestiro. Avicinatasi giá l’ora del parto, Doralice un bellissimo bambino parturí; il quale, vezzosamente in molte delicatezze nudrito, alla etá di duo anni pervenne. E considerando la mesta ed addolorata Dolarice sé esser priva del suo diletto e caro sposo, né esservi piú speranza alcuna di poterlo riavere, nell’alto e viril animo suo propose di voler al tutto, ancor che il re consentire non le volesse, mettersi in mare alla fortuna e la sua ventura provare. E fatta mettere in punto una galea ben armata e di gran vantaggio, e presi tre pomi a maraviglia lavorati, dei quali l’uno era di auricalco, l’altro di argento ed il terzo di finissimo oro, tolse licenza dal padre, ed in galea col bambino montò; e date le vele al prosperevole vento, nell’alto mare entrò. La mesta donna, cosí navigando con tranquillo mare, ordinò alli marinai che dove lo sposo suo dalla sirena fu inghiottito, in quel luoco condurre la dovessero. Il che fu essequito. Aggiunta adunque la nave al luogo dove lo sposo fu dalla sirena diglottito, il bambino cominciò dirottamente a piangere; e non potendolo la madre per modo alcuno attasentare, prese il pomo di auricalco ed al fanciullo lo diede. Il quale, seco giuocando, fu dalla sirena veduto; ed ella, accostatasi alla galea e sollevando alquanto la testa delle schiumose onde, disse alla donna: — Donna, donami quel pomo; perciò che di quello io sono innamorata molto. A cui la donna rispose non volerglielo donare, perciò che del figliuolino era il trastullo. — Se ti sará in piacere di donarlomi, — disse la sirena, — ed io ti mostrerò lo sposo tuo insino al petto. — Il che ella intendendo, e desiderando molto di vedere lo sposo suo, glielo donò. E la sirena in ricompenso del caro dono, sí come promesso le aveva, il marito sino al petto le mostrò; ed attuffatasi nell’onde, non si lasciò piú allora vedere. Alla donna, che ogni cosa attentamente veduto aveva, crebbe maggior desiderio di vederlo tutto; e non sapendo che fare né che dire, col suo bambino si confortava. Al quale, da capo piangendo, acciò che s’attasentasse, la madre il pomo d’argento diede. Ma essendo per aventura dalla sirena veduto, alla donna lo richiese in dono. Ma ella, stringendosi nelle spalle e vedendo che ’l era il trastullo del fanciullo, di donarglielo ricusava. A cui disse la sirena: — Se tu mi donerai il pomo che è vie piú bello dell’altro, io ti prometto di mostrarti il tuo sposo sino alle ginocchia. — La povera Doralice, desiderosa di vedere piú avanti il suo diletto sposo, pospose l’amore del fanciullo, e lietamente glielo donò; e la sirena, attesa la promessa, nell’onde s’attuffò. La donna tutta tacita e sospesa stavasi a vedere, né alcun partito per liberare da morte il suo marito prender sapeva; ma toltosi in braccio il bambino che tuttavia piangeva, con esso lui si consolava alquanto. Il fanciullo, ricordatosi del pomo con cui sovente giuocava, si mise in sí dirotto pianto, che fu la madre da necessitá costretta dargli il pomo d’oro. Il quale, veduto dallo ingordo pesce, e considerato che sopra gli altri duo era bellissimo, parimente le fu richiesto in dono; e tanto disse e tanto fece, che la madre contra il voler del fanciullo glielo concesse. E per che la sirena le aveva promesso di far vedere lo sposo suo intieramente tutto, per non mancare della promessa, s’avicinò alla galea; e sollevato alquanto il dorso, apertamente glielo mostrò. Fortunio, vedendosi fuori delle onde e sopra il dorso della sirena in libertá, tutto giolivo, senza interponere indugio alcuno, disse: — Deh fuss’io un’aquila! — E questo detto, subitamente aquila divenne; e levatosi a volo, sopra l’antenna della galea agevolmente salí: ed ivi, tutti i marinai vedendo, abbasso disceso, nella propria sua forma ritornò, e prima la moglie ed il bambino, indi la marinerezza strettamente abbracciò e basciò. Allora tutti allegri del ricoperato sposo, al regno paterno fecero ritorno; e giunti nel porto, le trombe, le naccare, i tamburi e gli altri stromenti cominciorono sonare. Il re questo udendo si maravigliò, e sospeso attese quello che ciò volesse dire. Ma non stette guari che venne il noncio, ed annonciò al re come Fortunio suo genero con la diletta sua figliuola era aggiunto. E smontati di galea, tutti se n’andorono al palazzo: dove con grandissima festa e trionfo furono ricevuti. Dopo alcuni giorni Fortunio, andatosene a casa e fattosi lupo, Alchia sua matrigna e Valentino suo fratello per la ricevuta ingiuria divorò; e ritornato nella primiera forma, ed asceso sopra il suo cavallo, al regno del suocero fece ritorno: dove con Doralice sua cara e diletta moglie per molti anni in pace con grandissimo piacere di ciascuna delle parti insieme si goderono. |
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TESTO | Giovan
Francesco Straparola (1554–1557) Le piacevoli notti.
Progetto Manuzio. Edizione di riferimento a cura di
Giuseppe Rua, Bari, Laterza 1927, 2 voll. Notte III,
Favola IV; pp. 167- 180. |
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IMMAGINE | Edmund Dulac, The
Little Mermaid, in Stories from Hans
Andersen, with illustrations by w:Edmund
Dulac, London, w:Hodder & Stoughton, Ltd., 1911 https://en.wikipedia.org/wiki/File:Edmund_Dulac_-_The_Mermaid_-_Merman_King.jpg; ultimo accesso 3 maggio 2024 |
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NOTE |
|
—
Fratello, io ti do questa virtú, che ogni volta il tuo
desiderio sará di divenire lupo e dirai: fuss’io lupo,
incontanente di uomo in lupo tu ti trasformerai,
ritornando però a tuo bel grado nella tua forma prima. |
Azzardiamo
un'ipotesi: la fiaba dei Tre re animali (vedi,
in Fabulando. Carta fiabesca della successione,
http://www.fairitaly.eu/joomla/Fabulando/Tre-re-animali/Tre-re-animali-IT.html),
diffusa in tutta Europa, potrebbe essere una creazione
di Basile, che avrebbe assunto come fonte, variandola, i
doni ricevuti dal protagonista in questa fiaba di
Straparola. Il cambiamento operato da Basile è radicale,
perché sostituisce alla dotazione magica nella novella
di Straparola - l'equa divisione di una preda fra tre
animali, abitanti dell'aria e della terra, già presente
in letteratura - il motivo fiabesco e insieme ricco di
potenza mitica, dei tre re animali che distruggono dal
mare, dalla terra e dal cielo il regno il cui sovrano li
ha respinti come pretendenti delle tre principesse sue
figlie. |
— Deh, che non sono io aquila? |
Indichiamo come fonte di Straparola a proposito della sequenza che comincia col ricorso di Fortunio alla dote ricevuta dall'aquila e finisce con la fine del timore della fanciulla, che ascolta il pretendente e gli concede largamente quel che le chiede (E vedendolo tutto caldo e ben disposto a tal impresa...) l'analogo episodio della Novella 2, Giornata IX del Pecorone di Ser Giovanni. Nella novella del Pecorone Arighetto principe ereditario della Magna si introduce nelle stanze di Elena, figlia del re di Raona chiudendosi in una gigantesca aquila d'oro, avvicinandosi alla principessa che si spaventa come nella fiaba di Straparola, chiede aiuto ma non viene creduta, e infine cede alla corte del pretendente, che dopo varie peripezie diventerà suo sposo. Vedi, in questo sito, la novella in argomento, intitolata L'aquila d'oro, http://www.alaaddin.it/_TESORO_FIABE/FD_Toscana_L_aquila_d_oro.html. |
— Donna, donami quel pomo; perciò che di quello io sono innamorata molto. | Non
conosciamo la fonte di questo motivo, della legittima
sposa che risponde alla richiesta dell'usurpatrice
concedendogli un gioiello mirabile o una galanteria in
cambio della presenza del suo sposo. Ne conosciamo però
moltissime versioni fiabesche, di cui ne citiamo due
sole, una letteraria secentesca, per la quale questa
fiaba di Straparola potrebbe essere la fonte, l'altra
popolare, raccolta nell'Ottocento. La prima è di
Giambattista Basile, Pinto Smauto: la
protagonista Betta riceve tre formule magiche
pronunciando le quali ottiene tre oggetti meravigliosi:
la regina usurpatrice glieli chiede e li ottiene
concedendo in cambio a Betta di passare ogni volta una
notte con lo sposo, che le prime due notti dorme avendo
bevuto vino alloppiato. (vedi, in Fabulando. Carta
fiabesca della successione, Panepinto, http://www.fairitaly.eu/joomla/Fabulando/Panepinto/mobile/index.html).
La versione ottocentesca che citiamo è Il Re porco,
fiaba raccolta da Vittorio Imbriani a Firenze (in
questo sito: http://www.alaaddin.it/_TESORO_FIABE/FD_Toscana_Re_porco.html).
Qui la protagonista è abbandonata come Psiche - e come
Betta in Basile - nella favola di Apuleio Amore e
Psiche, e riceve per via tre frutti secchi aprendo
i quali ottiene tre oggetti magici - galanterie nella
versione toscana - grazie ai quali potrà dormire col suo
sposo, che finalmente si sveglierà e ricorderà. La forza poetica del motivo è data secondo noi dall'opposizione fra la voracità dell'usurpatrice - colei che vuole ciò che ha l'altra, secondo il modo dell'invidia, sia lo sposo, sia i tre oggetti della sposa abbandonata - e il desiderio della vera sposa, che è disposta a cedere cose preziosissime pur non avendo altra certezza che una notte con lo sposo, che può anche non svegliarsi e sentirla, o la vista di lui in parte immerso nel regno marino della sirena, come in questa fiaba, fra le più complesse, e ricche di riferimenti narrate da Straparola. |
Su
Straparola e le fiabe |
Vedi anche, nella Biblio-sitografia in questo sito: http://www.alaaddin.it/biblio/index.html#CAPAREZZA. |