CASE
Più dei
sahab dei bibi e dei babu, furono i servi a conoscere la posizione
delle due case in cui sono cresciuto, la loro geografia incisa, le
storie nell'ombra, le tante voci di mezzogiorno e di tende tirate,
delle sere avvolte nel fumo. Perché più dei padroni sono
furono i servi le levatrici alla nascita delle due case che hanno
cullato la nostra vita. Tutte e due le case sono cresciute e sono
appassite con loro.
E poi, le due
case sono anche state costruite dai loro padroni con la massima cura:
costruite non solo con i materiali in commercio ma anche con i loro
sogni, le speranze e le eccentricità. Elevati e sostenuti dal
respiro di padroni, padrone, servi, i due edifici furono la casa della
nostra infanzia e della prima giovinezza; perché, come si dice,
gli edifici si costruiscono con i mattoni, le case si fanno col respiro.
Cammino in una
delle case - quella bianca - con passi attenti, felpati. La polvere
della mia storia giace e pesa su questa casa. Non voglio turbare i
visibili strati di questo tempo che si è accumulato. Questa
è la casa che ho sempre conosciuto come Ammi ké yahan. Da
Ammi. La casa di Ammi. Nonostante sia stato mio nonno, il marito di
Ammi, a costruirla. Ma Ammi - la madre di mio padre e delle zie,
‘madre’ per tutti i suoi nipoti (con le nostre vere madri
costrette ad adottare nomi più elastici - Amma, Mummy, etc.)
- Ammi si era occupata della casa e l’aveva risistemata negli
anni in cui noi crescevamo, anni durante i quali suo marito era
costretto dall’Alzheimer su una sedia a rotelle, e poi, dopo sette anni
passati in uno stato comatoso, era stato sepolto nella tomba di
famiglia, con vero dolore e vero sollievo.
Pattino sul
mosaico del pavimento appena lucidato dell'altra casa, ho cinque o sei
anni. Le scarpe della scuola nere e lustre scivolano e slittano,
immagino di avere i pattini a rotelle. Per tanti anni mi sono
avvicinato a questa casa con un grido. Una volta l’anno mi avvicino
ancora a questa casa con qualcosa come un grido. Ma la casa non mi
risponde più gridando. Come un vecchio pensionato, risponde con
un sorriso e un grugnito. Questa casa è la casa dei miei
genitori. Casa. Ghar. A volte sento che questa è la sola casa
che abbia mai conosciuto, la sola che mai conoscerò. Non importa
dove andrò, non importa quanti anni starò lontano, la
casa sarà sempre questa.
Si sono elevate
entrambe nell'area acquistata da mio nonno, un'area lunga circa un
chilometro e mezzo e larga mezzo chilometro. Di fronte, attraversando
la stretta Barrack Lines Road, bordata da radi alti alberi di tek, si
stendono brulli campi marroni e la fila degli edifici che compongono la
caserma della polizia del posto. A sud e a est si stendono file
interrotte di colline boscose a metà. Fra questa ce n'è
una sola con una storia e un nome che si trattiene - Brahmjoni, il
grembo di Brahma. A nord comincia la città. Una città che
ha preso il nome da una santa asura. Non un demone, un'asura.
Perché tutte e due le case confinano col cuore di uno spazio che
non si lascia tradurre facilmente. Questo è uno spazio che ha
una pelle di tante sfumature di colore, tanti dialetti e lingue parlate
dai servi e dai membri della famiglia, è uno spazio di gente,
ricordi e abitudini che non vedono perché dovrebbero chiamarsi
con un altro nome. Come i jalebis non sono soltanto ‘dolci delizie’ e i
roti e i paratha non sono mai solo ‘pane senza lievito’, così
un'asura non può essere solo un demone.
La casa di Ammi,
quella bianca, la costruì mio nonno - dottore, educatore e
archeologo dilettante, al suo nome sono attribuite alcune piccole
scoperte. Fu costruita durante la seconda guerra mondiale, quando il
cemento era strettamente razionato. Quindi non fu costruita col cemento
ma con una malta di calce e terra che, come affermavano mio nonno e i
vecchi capimastri che sorvegliavano i lavori, era la miscela che i
Moghul avevano preferito per secoli, prima delle dure certezze del
cemento e del calcestruzzo. La zona dalla quale avevano preso la terra
diventò un largo stagno con le sponde erbose, dove mio nonno
liberò le zeera - squisiti pesci rehu. Si trova dietro al
quartiere dei servi vicino alla casa bianca, la casa di Ammi. Nel resto
dell'area fu realizzato un giardino paesaggistico, che univa con buon
gusto elementi Moghul e Vittoriani, e comprendeva un frutteto sul
confine a sud, un bosco spontaneo a nord, e un sentiero che girava
intorno a tutta l'area.
La casa bianca
aveva un rapporto tutto particolare con i servi. Vivevano nei quartieri
della servitù, una zona recintata costruita intorno a un’ampia
corte comunicante con la cucina e la dispensa. Le colazioni e le cene
preparate nella cucina venivano portate nella sala per almento duecento
metri, su grandi vassoi di ottone coperti con tele fini. Era normale,
ci avrebbe successivamente raccontato Ammi con un misto di orgoglio e
rimpianto, avere almeno dieci ospiti ogni volta che ci si sedeva a
tavola era normale. A colazione, a pranzo e a cena. Ospiti invitati,
visitatori inattesi, parenti di passaggio, parenti poveri alla cui
istruzione provvedeva mio nonno, viaggiatori che venivano dal paese
avito. Gente che mangiava solo con la forchetta e il coltello, e gente
che non ci pensava nemmeno a toccare le posate o di chiedersi come si
tiene la forchetta, tutti insieme a mangiare come pareva bene a
ciascuno di loro. Una casa come questa aveva proprio bisogno del suo
bel numero di servitori. Ne uscivano dei servitori - come il grande
khansamah, Wazir Mian - che non si sarebbero mai adattati a
nessun'altro genere di casa.
Nemmeno alla
casa che mio padre costruì alla fine degli anni sessanta. La
casa di mio padre, la nostra ghar, era un edificio davvero enorme,
costruito nella parte più a nord dell'area. Come suo padre, mio
padre credeva nella continuità. Fu costruita perchè
resistesse ai gravi terremoti che colpivano la regione più o
meno ogni cinquant’anni. Si erigeva, si erige, con quella bellezza che
solo gli sforzi silenziosi possono conferire. Fu costruita
perché sconfiggesse il tempo e ospitasse la futura generazione.
Aveva un grande tavolo da pranzo dove potevano sedersi dodici persone.
Tutto questo sarebbe dovuto piacere a Wazir Mian. Ma le cose,
ahimè, sono cambiate. Per la servitù Ghar aveva un solo
quartiere sul retro, di tre stanze. E anche queste venivano usate
raramente, perché la maggior parte dei nuovi servi preferiva
dormire nelle verande o in una delle stanze degli ospiti. Al suo tavolo
da pranzo non si vedevano che uno o due ospiti alle ore dei pasti.
Wazir Mian non era deluso dalla casa, ma dalla sua dotazione. Ghar
richiedeva - e aveva - il suo genere di servitù. E quella del
primo tipo poteva non andar sempre bene al secondo.
Ma che mi dici
proprio di loro, dei servi, forse mi chiedi. Non avevano le loro case?
Alcuni sì
e molti no. Alcuni passavano anni nella casa di Ammi o nella nostra
casa risparmiando per costruirsi una casa e comprare (o ricomprare) un
po' di terra in qualche lontano villaggio, al quale alla fine
ritornavano. Altri non facevano nessuna delle due cose, e si spostavano
a servizio da una casa all’altra. Ma era tanta la distanza tra le loro
case e le nostre e così fugaci le occasioni, come un matrimonio,
in cui noi entravamo nelle loro case, che per me sarebbe impossibile
raccontare le case dei nostri servi. Vedevamo le loro case al massimo
una volta o due. Erano in posti dove il bus si fermava solo un minuto,
se si fermava.
VIAGGI
1 –
Quando entra
nello spiazzo non è ancora completamente giorno. Si incammina
verso uno dei bus parcheggiati nella radura, una zona che fa pensare a
un campo incolto più che al tentativo poco convinto di
cominciare un'autorimessa, cammina lento e svogliato. Non c'è
una sola ragione per lavorare un altro giorno, un’altra alba, anche se
non è ancora giorno, non è nemmeno l'alba, e il grasso
bastardo sta ancora russando sul soffice khaat. Ci sono delle gomme
impilate davanti a una baracca di lamiera. Un piede di porco è
mezzo affondato nel fango dove lo ha buttato un mese fa e dove
resterà fino a quando non colpirà lo sguardo del grasso
bastardo, gli darà una scossa apoplettica, servilo a dovere,
quel pezzo di merda. Dei pezzi di macchina che non sono stati buttati
sono sparsi qua e là: un parafanghi arrugginito, due o tre
maniglie, un parabrezza rotto, piccoli pezzi di motore che lui potrebbe
nominare a occhi chiusi. Le gomme si sono scavate profondi avvallamenti
nella terra, ma un po’ più in là, lungo la recinzione di
filo spinato, c'è una striscia di terra irrigata e arata, dove
Sunita, la moglie del bastardo, sua seconda cugina (da parte di madre),
un tempo attraente, pianta agli e cipolle, cavoli e patate, secondo la
stagione.
Ci sono gocce di
rugiada sui finestrini del bus. Di tanto in tanto una goccia trema,
esita e comincia a scendere. Di sua propria volontà o
incoraggiata dalla brezza appena un po' fredda, rotola, fino a
sembrare un rivolo sottile che corre giù, giù,
giù, fino a sgocciolare sulla terra sporca.
Lui è un
uomo che osserva cose come queste, è un uomo che osserva solo
cose come queste, gli sembra che se avesse osservato altre cose sarebbe
stato un altro uomo e non un autista di bus che fa sempre lo stesso
tragitto su un bus del marito della sua cugina di secondo grado. Vede
la vita in piccole immagini ferme, quasi raggelate, e non sa
assolutamente quale immagine – fondamentale o insignificante – gli
inciderà nella memoria un momento particolare, un giorno o un
viaggio. C'è chi colleziona francobolli, bottiglie o
monete; lui colleziona immagini, si deve collezionare qualcosa
così privo di valore come le immagini, no? che non hanno valore
di mercato, e lui deve collezionarle, nient'altro che queste, immagini!
immagini! una per ogni viaggio della sua vita, ora ne ha migliaia,
tutte accuratamente memorizzate, solo quelle immagini isolate, un
colore, una scena, un volto, un atto, messe in corsivo sulle pagine
della memoria. Non che lui scelga le immagini consciamente, è
semplicemente il modo in cui la sua mente ordina i giorni della sua
vita, scuciti e ancora slegati.
Sblocca e apre
la portiera anteriore del bus e un odore disgustoso, testimone del
giorno passato, vola via nella brezza mattutina. L’uomo si issa sul
sedile dell’autista, che è immediatamente illuminato da una luce
gialla.
I posti dei passeggeri alle sue spalle sono ancora bui, separati dalla
sua cabina da barre che per imitare il colore esterno del bus sono
state dipinte di giallo, con una linea marrone più sottile, e poi,
all’estremità di ogni barra, un piccolo tocco di rosso
fiammante – così sembrano proprio delle matite. Come la
matita di uno scrittore. Guarda caso, pensa, guarda caso come tutte le
cose congiurano per rammentargli i suoi fallimenti, perché una
volta, prima di lasciare il college, aveva sperato di scrivere romanzi,
ne aveva anche cominciato uno, aveva scritto cinquantasette pagine in
Hindi, quanto tempo fa, tanto tempo fa, e ora gli tocca di essere
iscritto fra queste matite che, come la matita di uno scrittore,
gli danno un potere – ogni viaggio un racconto che si compone
incrociandosi con altre storie che
salgono sul suo bus e poi se ne
vanno indifferenti - proprio perché lo separano da tutto quello
che accade alle sue spalle.
Sul cruscotto
c’è questa scritta in Hindi, scarabocchiata a caratteri
irregolari con qualcosa che sembra un rossetto scarlatto, che era un
rossetto scarlatto, lo sa lui, perché ha ancora quel mozzicone
di rossetto dimenticato da una puttana con un enorme anello di metallo
al naso, sul cruscotto c’è scarabocchiato: ‘Questo posto
è dell’Autista Mangal Singh’. Mangal Singh siede in silenzio per
pochi istanti, a guardare i quadranti e gli aghi sul suo cruscotto.
Prenderanno vita con il giro della chiavetta di accensione, aghi
oscillanti, quadranti che si illuminano fiochi. Sfiora con le dita il
fischietto di metallo che porta al collo. Guarda la casa più
vicina al bus, la casa a tre piani del padrone del bus, il grasso
bastardo, è là che dorme e russa col braccio intorno a
Sunita, un tempo attraente, era bello starle accanto, la casa sta
quieta nella luce flebile, addormentata, col respiro lieve, le finestre
chiuse come palpebre. Un istante prima di girare la chiavetta di
accensione, cercando a più riprese di convincere il vecchio
motore a partire, si porta il fischietto alla bocca e soffia
brevemente, con forza. Un suono che attraversa l’alba, i campi e le
case come il volo di un uccello.
2 –
Ricordo ancora i
monelli di strada dell’altro giorno, con le braccia dritte e tese, gli
indici puntati, le bocche a far cornice alla parola che mi arrivava
come il suono di un gong, anche se erano oltre la distanza massima per
sentirli: hijra, hijra, hijra.
C'è stato
un tempo in cui avrei potuto essere custode delle chiavi dell’harem,
generale, consigliere, guardia del più santo dei santi santuari
- il ... no, non lo nominerò, perché qualche mullah
potrebbe offendersi. In quei giorni gli eunuchi avevano una certa
posizione sociale, un ruolo da svolgere. In effetti, questo in gran
parte accadeva perché il profeta, sia benedetto il suo nome, ci
considerò come esseri umani – il terzo sesso – e non
predicò contro di noi, anche se cercò di scoraggiare la
castrazione perfino come punizione. Quando l’Islam arrivò in
India, la nostra posizione salì da quella di curiosità
intoccabili a quella di membri attivi e legittimi della società.
Prima: non potevamo entrare in un tempio, non potevamo esercitare
nessuna professione, a parte quella di danzatori rituali. Dopo:
diventammo consiglieri di nobili giovani, artisti, custodi delle chiavi
dell’harem, spie, soldati, costruttori di città, uno di noi
divenne perfino un famoso generale. Ecco perché, nella casa
della mia ustad, abbiamo sempre assunto nomi musulmani. Anche quando
professavamo una fede diversa - perché la religione per noi non
è un problema come per gli uomini e le donne - anche in questo
caso abbiamo assunto nomi musulmani. Questo è tutto, ci dissero,
le varie generazioni di ustad nella nostra casa hanno sempre richiesto
i loro chela. Era il nostro modo di ringraziare la religione che, per
un breve periodo, ci aveva dato la possibilità di essere noi
stessi.
Tutto questo,
come sai, era tanto tempo fa. Le cose sono cambiate, la moralità
della classe media, o la religiosità della casta superiore –
chiamala come ti pare – si è rivoltata contro di noi. Forse
l’arrivo dei britannici, con le loro teorie in bianco e nero, i loro
valori europei e la morale vittoriana: l’arrivo degli britannici ha
dato avvio al nostro declino. Forse sei sorpreso sentendo che io,
'solo' un eunuco, parli con un linguaggio così preciso, fornendo
argomentazioni razionali. Dopo tutto, probabilmente tu ci associ a
quelle donne mezze svestite, troppo truccate, le donne che mentre
cammini ti si parano davanti agli angoli delle strade chiedendo danaro
o che piombano nelle cerimonie nuziali cantando canzoni ad alta voce e
se ne vanno solo se le pagano. È quello che ora siamo: è
quello che ci è successo. Ma non è quello che eravamo, o
quello che avremmo potuto essere. Ci educavano perché
diventassimo danzatori, artisti, musicisti, soldati, anche studiosi.
Noi servivamo, ma raramente eravamo servi. In certe gharana – la mia
ustad ne governava una – alcune vestigia di amor proprio e di cultura
erano sopravvissute fino a questo secolo. Ma è diventato sempre
più difficile preservare questi sentimenti e queste attitudini
in una società che ci sbatte sempre di più la porta in
faccia. Ancora una volta non facciamo parte della società. Siamo
tornati ad essere delle curiosità, socialmente degli
intoccabili, elementi marginali, più poveri dei servi, qualcosa
di intermedio fra una puttana e un fenomeno da baraccone. Questo tempo
ha cercato di separare i nostri nomi femminili dai nostri cognomi
maschili, perché è un tempo di cocci rotti e bordi
taglienti. Eravamo tornati ad essere quel che gli altri credevano che
fossimo e non quel che noi volevamo essere. E allora, le vecchie
gharana sono marcite e sparite. Alcune si sono trasformate in isole
fuori dal mondo, altre sono diventate covi di prostituzione e piccola
estorsione. La gharana della mia ustad è semplicemente andata in
pezzi dopo la sua morte e dopo la morte, di poco successiva, del solo
uomo della famiglia, il suo amante, il suonatore di tabla che era anche
il nostro maestro di musica. Qualcuno di noi ha cercato di governare la
gharana per un paio d’anni, ma i nostri valori e la nostra formazione
erano sbagliati. Noi cercavamo amanti, non clienti. Noi volevamo
ricevere doni, non mance e pagamenti. Zohra Sheikh, la più
anziana fra noi, se ne andò alla deriva, dio sa dove. Una notte
il suo baule di legno era ancora sotto il suo charpoy e la mattina dopo
non c'erano più né lei né il baule. Razia, la
seconda per autorità, si trasferì in un'altra gharana
poche settimane dopo la partenza di Zohra. Questa gharana era
più in sintonia con i tempi e a Razia avevano sempre dato
fastidio alcune delle nostre più antiche abitudini, spesso
rimproverava all'Ustad di non essere in sintonia con i nuovi tempi.
Così restavamo solo io e Chaand Baghi. Eravamo cresciute insieme
nella gharana e partire per noi non era facile. Ma in qualche mese
parve evidente che non potevamo sopravvivere in quelle condizioni. Dopo
la partenza di Zohra e Razia, anche la maggior parte dei signori
rimasti smise di venire. Non che fossimo poco attraenti. Eravamo
più giovani e più femminili di Zohra e Razia. Ma la gente
si era fatta l'idea che la gharana si fosse dissolta. Smisero di
venire. E poi, la maggior parte di questi clienti erano vecchi e si
sentivano più a loro agio con le nostre sorelle maggiori. E
allora, un giorno che Chaand si girò verso di me e disse,
Farhana, penso di andare da mia zia a Bumbai, dicono che là ci
sono delle opportunità – mi limitai a rispondere, Sia quel che
Dio vuole, Chaand.
Lei mi
sfiorò delicatamente la guancia, le dita colorate d’hennè
seguivano una traccia e l'abbandonavano, ma sapevamo entrambe che
toccare non bastava più.
3 –
Quando Mangal
Singh guida il bus, con le fiancate gialle che ora luccicano sotto un
debole sole, e salta giù alla fermata dietro alla chiesa
sconsacrata, sono aperte solo due delle cinque bancarelle per il
tè e la colazione. Ma il primo bus Gaya-Patna, un video express,
sta già accendendo il motore, il bigliettaio grida le tariffe, i
passeggeri si affrettano a salire o sono incollati ai finestrini chiusi
e sorbiscono tè in tazze e bicchieri di terracotta. Il
tragitto Patna-Gaya ha bus migliori e più numerosi del
tragitto Gaya-Phansa, dove fa servizio Mangal Singh. Dopo tutto, Patna
è la capitale dello stato. Non ci sono video express sul
tragitto Gaya-Phansa, a parte qualche bus come il bus non-stop
turistico che parte di fronte al Chanakya Hotel di Patna due volte al
giorno.
Le due
bancarelle hanno acceso i loro forni di terra e mattoni solo mezz’ora
fa e il fumo riempie ancora lo stand come una specie di nebbiolina.
Degli uomini avvolti in chaddar neri sono seduti sulle basse panche
fuori dalle bancarelle; a volte gli sembra che ci siano sempre uomini,
forse gli stessi uomini, chissà, a sedere sulle panche dalle
gambe corte. Mangiano in piatti di pattal o sbreccati e sorbiscono
tè da bicchieri bassi e spessi. Su una delle panche libere
ravvisa il nuovo ragazzo delle pulizie dell’azienda, Rameshwar:
è disteso sul nudo legno, in equilibrio precario, completamente
avvolto in un kambal a toppe di colori e disegni indistinti. Può
dire che è Rameshwar perché è qui che il ragazzo
dorme tutte le notti. Con l'indice dà un colpetto al ragazzo e
gli dice di andare a pulire il bus. Svegliati, figlio di un somaro, e
strofina quel cesso di un bus col tuo culo, questo gli sta
dicendo. Il fagotto comincia a stiracchiarsi, borbottando e imprecando.
Vieni a fare colazione, aggiunge più gentilmente. Anche lui
entra in una bancarella e ordina sabzi-puri.
Un corvo arriva
in picchiata davanti al chiosco.
4 –
Barbuto,
massiccio, intransigente, Wazir Mian aveva reso la vita impossibile
alla lunga serie di assistenti-chokra che gli erano semplicemente
toccati, come alla più lunga serie di cuochi che lo seguivano
punto per punto e che era diventata inevitabilmente corta.
C'erano cose che
dovevi sapere di Wazir Mian.
Era stato il
capo cuoco del Rajah di Mánpur, o di una qualche nobiltà
coloniale di quella specie, prima che, alla fine degli anni quaranta,
prendesse sulle sue spalle la cucina di mio nonno. Chiedergli di
cucinare un semplice pasto per la famiglia equivaleva a insultarlo. Le
sue ricette, disse una volta mia madre, si potevano fare solo con le
dosi per una dozzina di persone. Mia madre e le mie zie, abili cuoche
loro stesse, passavano la maggior parte delle vacanze estive cercando
invano di identificare quella particolare nocciolina che arricchiva con
un aroma così delicato la faluda di Wazir Mian e quella
particolare spezia che rendeva il murgh mussalam di Wazir Mian
inimitabile.
Wazir Mian
custodiva i suoi segreti culinari con lo stesso orgoglio con cui
custodiva la sua reputazione. Dopo ogni elaborata cena per gli ospiti,
dovevi far venire Wazir Mian e complimentarti con lui per il cibo. Se
ti dimenticavi di farglieli, lo considerava come una critica al cibo e
ti interrogava senza pietà. Cosa c’era che non andava,
babu? Forse la korma era un po’ troppo salata? Pensi che il kabab
fosse poco cotto, e che mancasse un'altra goccia di succo di papaya? Se
alla fine gli rispondevi che tutte le pietanze erano ottime, e che ti
eri semplicemente dimenticato di chiamarlo alla fine del pranzo, Wazir
Mian poteva tenere il muso per settimane. Una volta mi disse, come
riferendosi a un semplice dato di fatto, che non si sarebbe mai degnato
di cucinare per una famiglia che dimenticasse una così
elementare regola di buona educazione due volte l’anno.
Per molto tempo,
fino a quando diventai più grande e imparai a distinguerli,
sarei stato indotto ad associare il mio primo ricordo di Wasir Mian e
la prima immagine che avevo visto del Monte Everest, un dipinto o una
foto. Si chiamavano a vicenda. L’immagine o la presenza di uno dei due
faceva emergere il vago ricordo dell’altra. Era un’associazione che
aveva un livello di senso: Wazir Mian era una montagna. Ma
nell'associazione, a un altro livello, c’era una discrepanza. La figura
del Monte Everest che ricordavo era una specie di dipinto o una
fotografia ritoccata che rappresentava una cima coperta di neve. Sul
capo di Wazir Mian non c’era nulla che somigliasse a un cappuccio di
neve: nemmeno quando era vecchio i suoi capelli erano molto imbiancati.
Cresciuto e
disorientato, ne feci cenno a una delle mie zie, e lei mi
ricordò qualcosa che avevo dimenticato. Evidentemente, i primi
tempi, Wazir Mian non solo insisteva per essere chiamato a ricevere i
complimenti dopo una cena elaborata, ma voleva entrare indossando una
vera e propria uniforme da cuoco. Dopo tutto, lui era stato il capo
chef del Rajah di Mánpur. Per Wazir Mian, questo voleva dire un
ampio pathan col grembiule bianco e quella specie di alto cappello da
chef – a pieghe immacolate, bianche come la neve – che ormai indossano
solo i cuochi degli hotel a cinque stelle.
Evidentemente,
la montuosa presenza di Wazir Mian era stata un tempo incappucciata di
neve, ma il tempo e i cambiamenti gliela avevano sciolta in capelli
neri e brizzolati. La morale della storia era semplice: anche Wazir
Mian era umano.
5 –
Mangal Singh sa
che Shankar, il bigliettaio, è infuriato con lui. Lo sa da come
ha picchiato a mano aperta sul bus gridando le tariffe,
juntalman-Shankar con le borse sotto gli occhi a forza di fissare i
borsellini pregni del maalik, nell'attesa che ne coli giù una
goccia. I borsellini del maalik da diciassette anni a questa parte si
sono gonfiati sempre di più, ma non partoriscono esborsi
consistenti, non partoriscono nulla, e questo probabilmente vale per il
mondo intero, che ha già la sua brava quota di bastardi e di
mostri.
Dà un
occhiata a Shankar che stringe la bocca. Hanno già accumulato un
ritardo di quaranta minuti, e la colpa del ritardo Shankar la dà
a lui. Aveva incontrato una coppia di amici, e siccome si era lasciato
prendere dal gup-shup, aveva allungato il tempo della colazione oltre
il dovuto. Non che gliene importi.
Ora sono
comunque sulla loro strada. Guida il bus nel traffico che si addensa
come una cagliata sullo stretto ponte Phalgu. Dai parapetti rugginosi
del ponte si può vedere giù la sabbia e i rivoli d'acqua
scura. Si deve stare attenti a guidare.
Si dice che una
volta il Phalgu era un fiume che scorreva spumeggiando, cantava andando
per la sua strada come una vergine che va in giro per le vallate, senza
pensare ai lupi e ai bruti. Ma commise il peccato di ostacolare il
cammino di Sita che era incinta, O Signore, O Signore. Oppure era lei,
Sita, col bambino in seno, che voleva attraversarlo (non se ne ricorda
bene) e il Phalgu aveva rifiutato di ritrarsi per cederle il passo come
gli era stato ordinato, non aveva mostrato rispetto per i suoi
superiori, merdoso fiume vergine comunista. Sita lo maledisse. Che tu
diventi secco, disse. E bhadrdraam!
Ora si deve
aspettare il monsone, o scavare nella sabbia del Phalgu almeno un metro
per vedere l’acqua. La maggior parte dei rivoli laggiù sono
stati scavati dai dhobis e dalle loro dhobins che, lo sa per
esperienza, hanno i fianchi più lascivi che si possano
immaginare, probabilmente dipende da tutto quel portare fasci di
vestiti, e solo a pensarci ha un’erezione. I vestiti lavati sono stesi
sulla sabbia, bianchi, rossi, a quadri, a righe sul giallo spento del
fiume maledetto. Da tutte e due le parti del ponte, il Phalgu stende le
sue ali a puntini, a scacchi, a strisce gialle: una farfalla
appartenente a qualche specie estinta, che si alza e si abbassa.
6 –
Potevo sentire
l’odore di Zeenat dall’angolo del corridoio. Ma allora avevo sedici
anni e una straordinaria sensibilità all’odore delle donne.
Le donne hanno
odori diversi. Lo avevo sempre saputo. L’odore del sari inamidato della
nonna, la fragranza dell'acqua di colonia delle zie, il profumo di
talco e attar dei parenti poveri, l’odore di sapone e sudore delle
vecchie ayah: sono cresciuto con questi odori. Durante l’adolescenza a
questi odori non non facevo più caso come prima. Oppure, se ci
facevo caso, era con quella specie di attenzione familiare che prestavo
agli alberi di mango là fuori o alla luna della sera che
fluttuava come se fosse una fetta di cocomero in un cielo di limonata.
Ma ultimamente avevo preso coscienza di un altro genere di odore –
quello delle serve che erano più vecchie di me ma non vecchie. E
insieme alla coscienza del loro odore ero andato realizzando qualcosa
di diverso dall’odore. I loro odori potevano portarmi fuori di me, far
partire di corsa la mia immaginazione verso qualcosa d’altro, farmi
struggere per il desiderio, di che? cambiamento? avventura? la presa di
braccia ferme, callose, gentili? sesso?
Sesso era una
parola troppo piccola per questo. E non ero abbastanza ipocrita per
chiamarlo Amore. Perché mentre il loro odore attraversava le
alte mura invisibili che separano la gente come me dalla gente come
loro, entravano per conto loro nel mio mondo, potevano entrare nel mio
mondo solo grazie a un invisibile permesso soggiorno. Erano come gli
immigranti turchi nella mia Germania degli anni ottanta: avevano una
pelle diversa (anche se a volte il colore era lo stesso), parlavano
un’altra lingua, venivano da un altro luogo, non avrebbero mai ottenuto
una piena cittadinanza nello stile di vita che a me spettava per
diritto di nascita. In qualche modo, quel che entrava nel mio mondo era
la loro astratta forza lavoro – e l’odore che veniva insieme a questa
era profondamente sovversivo perché mostrava l’esistenza di
qualcosa d’altro. Entravano di contrabbando nei loro corpi.
Ed era l’odore
di Zeenat che sentivo con la massima intensità. Per ore non
riuscivo a levarmelo dalla testa, mi portava da lei senza sosta, con
una specie di ritmo, irresistibile come il secchio che tirava su dal
pozzo quando erano a corto dell'acqua dell’acquedotto.
Come posso
descrivere quell’odore? Come puoi descrivere l’odore di una donna nella
pienezza dei suoi vent’anni appena compiuti, di corporatura media e
flessuosa, soda e ben fatta, una madre con un bambino col moccio al
naso e sempre trascurato, una serva che in qualche modo cercava di
avere un aspetto curato, che lucidava ancora con l’olio i lunghi
capelli neri, seduta fuori al sole, con le gambe ben tornite che
uscivano da un sari sbiadito, nude fino al ginocchio, che a volte si
metteva fra i capelli fiori di gelsomino, che ti rivolgeva uno sguardo
aperto, di sfida, con una blusa che strappava i tuoi occhi adolescenti
dagli altri oggetti, facendoti riscoprire ogni volta la sua pienezza, e
le sue ascelle umide di sudore?
7 –
L’acqua verde
del Kund al di là del Karbala-Kund che descrive un'ansa. Due
pellegrini, a torso nudo, ora vi immergono le teste rasate. Due delle
passeggere più vecchie si sporgono e gettano al Kund 25 paisa,
pazze, perché non le danno a lui se gli pesano troppo, schifose
vecchie troie. Le monete non fanno tanta strada. Si fermano sul margine
della strada e nello specchietto retrovisore può vedere un
gruppo di bambini che si accapigliano per prenderle nella polvere.
Diventano sempre più piccoli, un insieme confuso di braccia e
gambe marroni, un'agitazione che resta indietro.
Uno stormo di
colombe si leva in volo lentamente dalla strada per far passare il suo
bus. Le vede tornare a posarsi nello stesso punto, zampettando sulla
strada, cancellando il suo passaggio.
Per un istante,
gli viene in mente l’immagine di Sunita: Sunita da giovane, quando
aveva occhi che sorridevano a lui e labbra che sorridevano al mondo.
Tutto quello stormo di felicità era volato via dal suo viso e
dai suoi occhi dopo il matrimonio – o forse era stato prima del
matrimonio, quando lo aveva deciso, perché poteva dire di no –
uno stormo tanto grande che non era tornato mai più. Mai
più.
8 –
Questa è
una città che conosce gli appartamenti, anche se non ci si
è abituata. Non è Delhi o Bombay, con quei condomini
composti di appartamenti su tanti piani, scatole di privacy isolate con
le pareti di cartone. Questa non è una città che ha
scelto cosa rivelare e cosa occultare, cosa rinchiudere e cosa esibire.
Ma non è nemmeno Gaya o Phansa. Conosce i piani e gli
appartamenti e i muri fra loro, conosce i rituali urbani della privacy.
Questa è Patna: una città che non è proprio una
città, un paese che è più di un paese. Qui ci sono
muri fra piani e appartamenti, muri dai quali non sempre è
possibile sbirciare, muri sui quali non puoi stare appollaiato e
salutare un tuo cugino di terzo grado. Ma qua i muri sono ancora
sottili. Si allungano come le membrane delle tue orecchie, fragili,
più sentite che viste. E, molto spesso, restano nascosti nei
profondi recessi del tuo essere. Qui i muri sono membrane attraverso le
quali una segretezza impenetrabile impregna tanto quello che può
essere solo sentito, non visto. È questo che a volte ti fa
credere di aver sentito tutto quello che c’era da sentire.
È per
questo che sei seduto nel tuo appartamento al terzo piano del
condominio Kanchenjunga con la TV accesa e e con l’audio spento. Un
piccolo simbolo in un angolo del tuo schermo Philips testimonia
questo guardare che non è sentire: l'immagine di una specie di
tromba barrata.
D’altra parte,
quello che tu senti non ha bisogno di essere visto. Non hai bisogno di
vedere l’uomo che sale le scale. I suoi passi pesanti, gli intervalli
regolari, le pause brevi, come un sospiro, ogni quattro o cinque
scalini. Tu sai che questi passi continueranno fino all’appartamento
che è proprio sopra al tuo, sono i passi di Mr Sharma.
Nessuno nel
palazzo sa come si chiama di nome. È Mr Sharma, impiegato di
basso livello in qualche ufficio governativo della città.
Nessuno sa bene quale ufficio, non è uno di quegli uffici che
conviene conoscere. Non è l’ufficio della Compagnia Elettrica o
il PWD. Questo spiega perché nessuno conosce il nome di Mr
Sharma. Questo spiega perché Mr Sharma porti un cappotto logoro
e perché sia seriamente preoccupato per il matrimonio delle sue
tre figlie.
Senti il suo
passo pesante che passa davanti alla tua porta. Fa una pausa e fa
cadere qualcosa di frusciante, lo raccoglie e ricomincia a salire. Sai
che porta una borsa di frutta e verdura avvizzita, comprata lungo la
strada dopo una lunga trattativa, comprata di proposito alla fine della
giornata, quando il venditore è disposto a venderla per poco.
Sopra,
c’è un fruscio di piedi nell’appartamento di Mr Sharma, un lieve
suono metallico. Mrs Sharma ha cominciato ad affaccendarsi nella
piccola cucina annerita dalla fuliggine con l’unica finestra con le
sbarre e la zanzariera. C’è il suono della voce di una ragazza
che ripete alcuni versi in inglese. È la figlia minore degli
Sharma, quella che prepara la prima delle tre immersioni di rito nel
fiume sacro degli esami del Civil Service. La figlia maggiore ha
completato le sue tre immersioni, ha superato per due volte le prove
preliminari, ma non è andata oltre, e si è chiusa in un
silenzio scontroso che sarà presto rotto, se si deve credere a
Mrs Sharma, dalla musica gaudiosa del suo matrimonio con un giovane del
‘gavernmint serbice’. La seconda figlia tra poco lo darà per la
terza volta, ma non ha più l'energia per ripetere la lezione a
voce alta. Le prime due volte non ha superato nemmeno i preliminari. Il
suo studio silenzioso è marcato da strilli lamentosi, più
o meno una volta l'ora, che chiedono alla madre di intervenire e far
tacere la sorella più piccola. Lei mi dà noia, si lamenta
la sorella mediana. La madre risponde: Allora va’ nell’altra stanza.
Non è che ci sono poi tutte queste stanze in cui andare nel loro
appartamento. Non è un appartamento di lusso come quello in cui
ora sei seduto o come quello di Mrs Prasad.
Tutti i suoni
per un momento cesseranno quando Mr Sharma suonerà il campanello
al piano. Poi la cadenza riprenderà, ma in una tonalità
minore. Solo Mrs Sharma avrà una parte maggiore nei suoni: lo
sfrigolio e i suoni metallici della cucina aumenteranno e le due figlie
più grandi si uniranno alla madre per cucinare il pasto serale.
La figlia più piccola resterà in camera a recitare la sua
lezione, ora sottovoce, circondata da manuali in edizione economica e
fascicoli con le soluzioni dei test sparsi dappertutto.
Conosci la
cadenza delle loro vite, compreso il rito trimestrale degli attacchi di
angina di Mr Sharma. Sono caratterizzati da un silenzio seguito dalla
confusione di piedi in ciabatte che corrono giù per le scale.
Una delle figlie, di solito la più grande, bussa alla tua porta
o suona il campanello dell’appartamento di Mrs Prasad, accanto al tuo.
Papà ha avuto un attacco, ansima, possiamo usare il telefono kar
saktey hain, per favore? Il dottore viene chiamato. Passa un’ora,
colmata dai singolari lamenti di Mr Sharma e da un assoluto silenzio
nel loro appartamento. A volte, quando fuori c'è caldo e
silenzio, riesci a sentire il delicato flap-flap di Mrs Sharma o di una
delle figlie che sventolano il malato con un ventaglio di foglia di
palma.
Senti i passi di
un nuovo paio di piedi che salgono le scale, incisivi, giovani, ben
calzati, e in qualche modo la figlia maggiore anticipa l’arrivo del
dottore e lo va a ricevere due piani più giù. Viene fatto
entrare e riesce in un quarto d'ora, dopo un mormorio di voci maschili
con qualche interiezione preoccupata di Mrs Sharma. Questa volta
è Mrs Sharma a scortarlo durante l’atterraggio, profondendosi in
ringraziamenti, insistendo perché una delle figlie gli porti la
valigetta da dottore fino alla Fiat giù di sotto. La gratitudine
di Mrs Sharma è sincera e cieca di fronte al fatto che ha appena
pagato al dottore un sostanzioso onorario. Il dottore si allontana con
parole e osservazioni rassicuranti come ‘niente di serio, solo un
giorno o due di riposo’ e ‘attacco di gastrite’.
Chottu, il
servitore di Mrs Prasad che ha tredici o quattordici anni, sale a
informarsi. Porta le notizie giù al tuo piano, da dove di solito
vengono fatte passare più giù. Un analogo servizio di
trasmissione porta le notizie su verso gli appartamenti più
alti, al sesto piano. Chottu comunque non è il più veloce
dei corrieri; sfrutta questa opportunità per soffermarsi a
diversi
pianerottoli, a spettegolare con servi, donne e bambini.
9 –
La Jeep suona il
clacson da un paio di minuti, come se la strada fosse proprietà
del padre del guidatore. Guarda nello specchietto posteriore, incerto
se farla sorpassare o tenerla ancora bloccata per qualche minuto, solo
perché, che cazzo, lui guida un mezzo più grosso,
ficcatelo in testa, bastardo. Quello che vede gli fa cambiare idea
all'istante. Sul muso tozzo un po’ da lupo della jeep c’è
scritto:
Governo del Bihar
DCM
TOYOTA
Dirige il bus da
un lato e la jeep balza in avanti, col clacson che continua a suonare,
e uomini baffuti in uniforme che guardano di lato e all'indietro.
Rottinculo.
10 –
Secondo le
categorie del povero Bihar rurale, Wazir Mian negli anni di servizio
aveva accumulato una piccola fortuna e, quando avevo otto anni, decise
di ritirarsi e andare a stare con la sua famiglia a coltivare la terra
che aveva comprato al paese. Sua moglie, che aveva preferito restare
nella loro casa al paese, era morta pochi anni prima, e i suoi tre
figli ormai erano sposati ed economicamente autonomi. Non vedeva
l'ora di riunirsi alla sua grande famiglia ed era ovviamente ansioso di
assumere la sua parte di saggio patriarca in pensione.
Come ho detto,
le cose da allora erano cambiate anche nella nostra area: mio nonno era
morto e mio padre aveva costruito una casa sua, ghar, in un angolo
della stessa area, il resto della quale era stata venduta per
distribuire equamente il ricavato - e senza liti - fra gli eredi del
nonno; la neve di Wazir Mian si era sciolta da tanto tempo, e non si
trovavano più le orde degli ospiti che sedevano abitualmente
alla tavola del nonno, si erano ridotte quantitativamente mentre era
qualitativamente calato il cibo che veniva loro servito.
Per tre anni non
si seppe più nulla di Wazir Mian. Poi arrivò in casa
nostra una mattina d'inverno. C'era la rugiada sull'erba e un lieve
velo di foschia nell'aria. I mynah stavano battibeccando nell’orto.
Eravamo seduti in veranda, a bere il tè. Wazir Mian
sollevò il chiavistello del cancello di ferro ed entrò,
ignorando gli acuti latrati del nostro terrier tibetano, Tory. Tory, il
cui nome era una corruzione di Thari (che a quanto pare in tibetano
significa 'nero'), prendeva molto sul serio il suo ruolo di guardiano
della famiglia e di miglior amico dell'uomo. Ma Wazir Mian non era il
tipo che si fa spaventare dai guaiti di un cagnolino; aveva lavorato
nell'area quando vi si crescevano enormi pastori tedeschi con bocconi
di carne bollita e ossi. Ignorando Tory, ci lanciò un salaam
venendo avanti fino a dove eravamo seduti sulle sedie di vimini. Era
più vecchio, un po' ingrigito, leggermente incurvato, un
pò meno solido. Si sedette in cima alla scala.
Mio padre
guardò il mio fratello maggiore e me, e noi sapevamo cosa si
doveva fare. Oltre ad essere un anziano, Wazir Mian era un uomo che
aveva lavorato per mio nonno. Non si poteva lasciarlo seduto sul
pavimento. Però Wazir Mian era anche un servitore all'antica, un
uomo che credeva anche nelle più piccole differenze, e non
avrebbe accettato di sedersi su una delle nostre sedie. Corsi dentro e
gli presi uno sgabello perché potesse sedersi. Mio padre gli
offrì lo sgabello. Wazir Mian lo rifiutò
cerimoniosamente. Era la volta di mia madre, che ripetè
l'offerta, e Wazir Mian accettò lo sgabello esibendo un sollievo
fisico esagerato. Allora la conversazione ebbe inizio.
Papà:
Allora, come state, Wazir Mian?
Wazir Mian: Dio
sia lodato.
Mamma: E la
vostra famiglia? come stanno?
Wazir Mian: Dio
sia lodato.
Alcuni secondi
di silenzio, per bere il tè. Nessuno ha offerto il tè a
Wazir Mian, sapendo che in nostra presenza non avrebbe bevuto né
mangiato. Offrirgli il tè così sarebbe stato come non
offrirglielo affatto; gli si doveva offrire il tè in un modo e
in una situazione adeguate a lui.
Wazir Mian: Da
quando li ho visti l'ultima volta i babu sono diventati giovani uomini.
Papà:
Sì, uno di loro finirà presto la scuola superiore.
Wazir Mian: Dio
sia lodato.
Mamma: E i
vostri figli, Wazir Mian? Il più grande ha avuto un altro
bambino due anni fa?
Wazir Mian: Dio
sia lodato.
Mia madre aveva
i suoi contatti nel mobile esercito di servi, ex-servi e loro parenti
che venivano a trovarci per ricevere il dono annuale - prevalentemente
in denaro - nei giorni di festa che erano i più importanti per
loro: Eid, Bakhr-eid, Holi, Diwali e Natale. Ce n'erano due o tre che
avevano optato per il secolarismo indiano e venivano a riceverlo per
tutte le feste. Alcuni dei più patriottici venivano anche per
l'Indipendence Day.
Wazir Mian: Per
grazia di Dio, ora ha un figlio maschio e due femmine.
Papà:
Dovete essere un nonno molto impegnato.
Wazir Mian: I
piccoli sono sempre un dono di Dio; sono i grandi a dare problemi.
Papà e
mamma si scambiano un'occhiata. È stato detto più di
quanto io e mio fratello abbiamo sentito. Si chiama un servo e gli si
chiede di dare a Wazir Mian il tè e uno spuntino nella cucina.
Sia mio padre che mia madre sanno che Wazir Mian non è venuto a
trovarci. È venuto per restare da noi.
La storia venne
fuori più tardi, dopo che Wazir Mian ebbe ristabilito il suo
ordine tirannico nella nostra cucina. Sembra che i problemi al paese
fossero cominciati durante il secondo anno. Wazir Mian, con le mani che
gli prudevano per la voglia di cucinare cibi elaborati, assunse
l'impegno di fare la spesa per Eid e di cucinare per la famiglia
allargata. Andò in città e tornò stracarico di
carni e ingredienti. Passò al setaccio il paese per procurarsi
le verdure più fresche. In questo modo comunque spese una somma
cinque volte maggiore di quella che i suoi figli avevano previsto.
I figli si
limitarono a borbottare un po', ma le sue nuore si lamentarono in paese
senza mezzi toni. Un uomo dovrebbe sapere quando arrendersi
all'età, disse una di loro a una vicina. "Che ci sta a fare un
uomo in cucina?" sembra che avesse brontolato un'altra. Queste
osservazioni furono fatte in privato, ma nel paese di Wazir Mian non
c'era nulla che potesse rimanere privato. Quando le osservazioni
arrivarono a lui ne fu ferito.
Provocato forse
dalle lamentele, o a causa della sua artistica dote per la cucina,
Wazir Mian passò tutto l'anno successivo a battibeccare con le
sue nuore su come e cosa si dovesse cucinare. Criticava la loro cucina
'dehaati'. Rispondevano precisando che loro vivevano in un 'dehaat' e
non in 'qualche palazzo di laatsahab'. Lui insisteva sul suo diritto -
di capo famiglia - a cucinare piatti costosi per i suoi nipoti. Loro
contestavano questo diritto.
A un certo punto
i suoi figli dovettero intervenire, e Wazir Mian fu di fatto privato
del patriarcale diritto a tenere i cordoni della borsa della famiglia.
Fu allora che litigò per l'ultima volta e partì.
Ritornò dalla famiglia che secondo lui gli dava la
possibilità di essere il 'khansamah' che era. Khansamah, una
parola che per Wazir Mian era stata così ricca di connotazioni e
sfumature. Khansamah, una parola che né io né mio
fratello avevamo mai sentito usare in nessun altra famiglia. Una parola
fuori moda.
11 -
Appezzamenti di
terreno, prevalentemente quadrati e rettangolari, coperti di fini
germogli verdi e cosparsi di fiori gialli, campi di lehsun che a una
certa distanza sembrano la tela di un impressionista. No, se glielo
chiedevate, non avrebbe saputo che cos'era un impressionista,
però vi avrebbe potuto informare sul fatto che sì, ci
sono libri d'arte in Hindi, e, per tua informazione, figliolo, lui
sapeva leggere anche un po' di inglese gitpit, comunque in inglese
sapeva almeno bestemmiare, accidenti a te.
Una traccia di
fango che taglia i campi e sulla traccia un uomo in camicia e dhoti che
spinge la bicicletta. La sua bicicletta carica di quattro sacchi di un
bianco abbagliante, borse rigonfie appese dai due lati del telaio di
metallo. Gli fanno venire in mente il maalik, il marito della sua
seconda cugina, Sunita, che un tempo aveva sperato di sposare lui,
tanto tempo fa, tanto tanto tempo fa, gli fanno venire in mente il
maalik e le sue borse gravide e ride forte, ride tanto forte che gli
vengono le lacrime agli occhi, e i passeggeri più vicini a lui
lo guardano sorpresi. Per tranquillizzarli si schiarisce la gola,
appallotta il muco in gola e, sporgendosi dal finestrino, lo espelle
con tanta forza che lo manda dall'altra parte della strada, dove cade
nella polvere, sfrigola per un istante e si dissolve in un'umida
macchia.
12 -
Chottu è
ancora fuori a perder tempo. Lo puoi sentire che chiacchiera con uno
dei due servi dell'appartamento doppio dei Rai, a pian terreno. Sono
quasi le sette e a quest'ora Mrs Prasad lo fa stare a sedere a fare i
compiti. A Mrs Prasad tocca aprire la porta per chiamarlo.
Raramente Mrs
Prasad apre la porta. Anche se è invariabilmente cordiale e
amichevole con tutti i residenti, la sola persona che vede
regolarmente, a parte i parenti che vengono a trovarla, è la
moglie del dottor Rai del pianterreno. I due figli e le due figlie di
Mrs Prasad sono sposati e abitano in grandi città dell'India e
all'estero. Sono stati bravi, puoi vedere il riflesso del loro successo
nell'arredamento di buon gusto dell'appartemento della Prasad, nei
morbidi sofà e nella profusione di oggetti hi-tech. Una volta
ogni tanto puoi anche sentire la loro ricchezza, quando vengono in
visita e accendono il lettore di CD o l'enorme TV del soggiorno. Mrs
Prasad preferisce guardare quella in bianco e nero in camera sua. Mrs
Prasad non ascolta musica, anche se guarda Chitrahaar e altri programmi
di canzoni da film sul suo vecchio televisore. Inoltre tutte le mattine
alle sette e mezzo si mette a sedere per fare la puja e l'accompagna
con un bhajan, con voce roca, vibrante, decisamente priva di
musicalità. Ti sveglia tutte le mattine, ma non hai pensato di
lamentarti. Nessuno ci ha pensato.
13 -
Nelle case basse
nei paesi lungo la strada muri interi sono stati trasformati in annunci
pubblicitari. Qui la maggior parte è dipinta di giallo, un
giallo brillante, con le marche e gli slogan scritti in blu o in rosso.
BAIDYANATH,
annuncia il primo. Segue PUJA GANJI AUR BANYAN e poi un muro pieno di
caratteri illeggibili, pulito da poco per far posto a un altra
pubblicità. E poi uno slogan a caratteri più piccoli:
UJALA TOOTHPOWDER, anche questo scritto in Devanagari.
14 -
Wazir Mian era
uno dei nostri servi che sapevano leggere e scrivere. Scriveva in Urdu
con una certa disinvoltura e sapeva fare i conti con i numeri
arabo-indostani. Ma, da quello specialista di cucina Mughlai e
'Continentale' (europea) che era, aveva anche il suo repertorio di
parole inglesi. Un intero esercito di insegnanti di scuola media e
superiore secondaria e superiore dovette sciacquare le nostre bocche da
certe sue parole inglesi. Parole come ishtake (steak), eesstoo (stew),
chickun allah kaatey (chicken à la carte), tamater boss cat
(tomato basket), karma puteen (caramel pudding), ma riuscivano a
costringere me e mio fratello ad abbandonare l'inglese di Wazir Mian
solo in pubblico. Nelle occasioni private continuavamo - e continuiamo
- ad abbuffarci di ishtake ed eesstoo. Steak e stew non sanno di nulla.
Un karma puteen leggermente dorato, delicatemente tremulo, che fa
venire l'acquolina in bocca, continua ad essere la prova migliore che
abbiamo delle nostre buone azioni nelle vite precedenti.
Ma Wazir Mian -
come la maggior parte dei vecchi servi e diversamente dalla maggior
parte dei più giovani - non attribuiva molto valore all'inglese.
Non aveva mai preferito una parola inglese al corrispettivo urdu. E
solo una volta reagì a una parola rivoltagli in inglese. Accadde
durante una festa dopo la cena di Bakhr-eid organizzata per gli amici
di mio padre.
Alla fine della
festa, mentre Wazir Mian si stava prendendo i complimenti di rito, mio
padre lo presentò in inglese a uno degli ospiti - un ufficiale
del Sud dell'India che parlava pochissimo l'Hindi e l'Urdu. Wazir Mian
non capì la frase, ma afferrò la parola chiave: 'cook'.
Quello che tutti
noi avevamo dimenticato era che mio fratello aveva recentemente
impartito a Wazir Mian alcune lezioni d'inglese. Il breve corso era
venuto dal desiderio di Wazir Mian di imparare l'equivalente inglese di
una distinzione che lui aveva inflessibilmente mantenuto in urdu. Se
gli capitava di essere presentato in Urdu come 'bawarchi', Wazir Mian
si erigeva in tutto il suo metro e novanta di altezza o giù di
lì e ci correggeva: 'Non bawarchi, babu,' diceva in urdu.
'Khansamah'. E da mio fratello, che aveva un po' semplificato la
faccenda cercando di far crescere l'inglese nella considerazione di
Wazir Mian, aveva recentemente imparato che l'inglese aveva una
distinzione analoga: 'cook' per 'bawarchi' e 'chef' per 'khansamah'.
Siccome ora,
avendo afferrato 'cook' nella presentazione di mio padre, aveva
realizzato che questa volta lui poteva mettere le cose al giusto posto
solo in inglese, Wazir Mian raccolse tutto l'inglese che aveva raccolto
cucinando per principi regionali, ufficiali inglesi e tradizionali
famiglie di professionisti come la nostra. Con la massima
dignità disse: "No cook, sir, chieff."
Anche la
pronuncia storpiata aveva senso. Nella misura in cui Wazir Mian era da
quelle parti, non c'erano dubbi su chi fosse il chief nella cucina. Nel
reame delle salse, delle coppe e dei chullah, dalla sua autorità
veniva la parola definitiva - non solo per i suoi aiutanti ma anche per
noi e, nella maggior parte dei casi, per i nostri genitori.
Ma la cucina
aveva cominciato a restringersi. Wazir Mian era abituato a cucinare in
cucine esterne - stanze separate con cortili e dispense annessi.
Ora, naturalmente, ciò che avevamo era una cucina che
comprendeva una sola stanza e faceva parte della casa. Anche i suoi
aiutanti erano spariti. Aveva da fare piatti sempre meno elaborati. Un
mese dopo il ritorno di Wazir Mian, al quale i nostri genitori avevano
dato carta bianca per far rivivere le cene del passato e colmare i
vuoti della nostra esperienza culinaria, le cene elaborate si ridussero
a una al mese. Per la maggior parte del tempo Wazir Mian aveva da fare
solo due o tre tipi di curry e un solo tipo di roti per accompagnarli.
Negli weekend faceva dei dolci. Non c'erano abbastanza persone
per mangiare le sue cene elaborate - e la spesa era anche aumentata.
Tutte le altre
sere, dopo aver servito la cena, Wazir Mian arrivava dalla cucina,
lanciava un'occhiata ostile ai due o tre piatti sparpagliati sul tavolo
da pranzo, e si informava, Posso servirvi ancora in qualche altro modo,
babu? No, non era quello che avrebbe voluto dire. Come un genio
liberato dalla bottiglia, avrebbe detto, Kuch aur farmaish babu? Avete
qualche altro desiderio, Babu? Le sue grandi mani gli penzolavano dai
fianchi, inutili e nervose. In momenti come questi potevo percepire
qualcosa che passava tra i miei genitori, qualcosa come un'irritazione,
qualcosa per cui ci avrebbero apostrofati seccamente se avessimo fatto
qualcosa appena appena sconveniente. Però rispondevano a Wazir
Mian con accurata gentilezza, Oh, no, Wazir Mian, avete già
fatto abbastanza. Sul viso di Wazir Mian passava un'espressione
assente, come se non capisse veramente in che lingua parlavano i miei
genitori, le sue grandi mani pendevano più pesanti, e poi si
voltava e s'incamminava lentamente verso la cucina.
Anche i figli di
Wazir Mian, tutti tranne il maggiore, erano venuti a trovarlo, la prima
volta un po' imbarazzati e dopo la prima portando anche i nipoti. Ai
suoi nipoti era mancato. Più o meno diciotto mesi dopo, Wazir
Mian ricevette una lettera da casa. Munnu è malato e suo padre
vuole che un aiuto torni a casa, disse ad Ammi. Munnu era il nipote
più piccolo di Wazir Mian, un tipetto impertinente col naso
sempre gocciolante e una fossetta sulla guancia destra, ed era
chiaramente il preferito del nonno. Probabilmente tornerò in
tempo per cucinare per Eid, disse Wazir Mian ai miei genitori mentre
andava alla fermata del bus.
Non tornò
più, però ci mandò per Eid un seek kabab delizioso
e succulento, avvolto nella plastica e confezionato in una pentola di
terracotta. Il suo figlio più grande, un uomo sottile con baffi
ancora più sottili e uno strano sguardo di orgoglio servile,
venne a portarlo qualche giorni prima di Eid. Aveva una cicatrice di
cinque centimetri sulla guancia sinistra, una forma oblunga e scura
intorno a una striscia biancastra sollevata, la forma della Via Lattea.
Sapevamo che gli era rimasta da una caduta di quando era bambino.
Era la prima
volta che lo vedevamo da quando Wazir Mian era partito la prima volta.
Abba sta diventando troppo vecchio per lavorare, disse come scusandosi,
dopo aver raccolto tutte le cianfrusaglie che Wazir Mian aveva lasciato
nella sua stanza. Veramente non ne ha bisogno, aggiunse con una nota
d'orgoglio. E si passò un dito intorno al colletto rigido della
sua nuova camicia a quadri, che insieme ai pantaloni di terrycot a
zampa di elefante che portava doveva essere stata comprata per Eid e
indossata per impressionarci col dato di fatto del suo movimento verso
una posizione sociale più alta. Anche il suo discorso era
destinato a dimostrarci che non era un contadino: in dieci minuti ci
ripetè almeno tre volte che per il prossimo Eid avrebbero
sacrificato un'intera khassi e che lui era il proprietario di un
'raation shop' nel paese. Nonostante che lo sporco sotto le sue unghie
ispessite e spezzate rivelasse che lavorava anche fuori nei campi.
E quando si
informò su dove fosse la fermata del bus, mise l'accento sulla
parola 'private'. Non disse 'preevaat' come fanno di solito quelli di
paese. Ma non disse nemmeno 'private'. Disse, con un eccesso di zelo
che rivelava quanto fosse importante per lui questa magra conoscenza
dell'inglese, e quanto fosse dolorosa la sua consapevolezza delle
inferiorità di lingua e di classe, disse bus 'priwait'.
15 -
A questa fermata
ci sono botteghe piene di vestiti. Ci sono botteghe che vendono al
dettaglio, botteghe di abiti confezionati - in vetrina sono appese
vestine da bambini e camicie - e bancarelle di sarti. Le sole botteghe
che non hanno nulla a che fare con i vestiti sono le due farmacie - una
di queste comprende un ambulatorio medico, il cui dottore ha tanti
titoli che la targa col suo nome sembra contenerli a stento - e qualche
bancarella di tè e di sigarette. Il chiosco del tabaccaio
più grande, appollaiato su dei trampoli, innalza un grande
cartello colorato. CHARMS. Il Gusto Che Ti Rende Libero.
Sul pavimento
c'è una donna accovacciata davanti a un mucchio di makhana.
16 -
Quando se ne
andò Chaand, mi resi conto che non sarei riuscita a pagare
l'affitto della nostra casa. La nostra vecchia kothi, ereditata dalla
nostra gharana, era stata venduta quando la nostra ustad era ancora
viva. Ci eravamo trasferite in una casa in affitto in uno stretto
vicolo secondario, vicino alla zona a luci rosse. Non era piacevole
abitare in quella zona. La sera vedevamo le donne che si sporgevano
dalle finestre e dalle porte, per adescare i clienti. La notte il
nostro sonno era interrotto da grida e risse di ubriachi. Una volta al
mese la polizia trovava una scusa per fare incursione e perquisire la
nostra casa. E la zona a luci rosse, mentre era la parte della
città che la gente rispettabile e religiosa sembrava evitare
nella vita privata, era proprio la parte che riceveva la massima dose
di religione pubblica. Missionari cattolici romani, predicatori
Jamait-e-Islami dei più liberali, revivalisti induisti, quasi
tutti con un mondo da salvare, venivano in questa discarica di vizi
morali per pregare e condannare, salvare o dannare. Di recente nuovi
partiti politico-religiosi avevano preso di mira la nostra casa con
particolare attenzione - il nostro miscuglio di islamismo e induismo
era per loro una spina fissa nel fianco, ultimamente anche
più della nostra mescolanza di maschile e femminile. Non
somigliava al modo in cui era vissuta la nostra ustad né al modo
in cui aveva diretto l'impresa in passato. Avevamo avuto, direi, una
casa 'pubblica' molto privata. Così, il giorno dopo, preparai
con calma la mia valigia VIP e il borsone che mi aveva dato Chaand, e
me ne andai alla chetichella. Dovevo stare attenta, perché c'era
un mese d'affitto da pagare, ma camminai fino a uscire dal vicolo e al
chowraha presi un risciò senza essere stata vista né dal
padrone di casa né da qualcuno della sua famiglia.
Avevamo
affittato una parte di una casa grande e cadente - una volta residenza
di un talukdar, ora trasformata in sette appartamenti. Non era
più la casa di nessuno. Lo garantivano le pareti di compensato
che dividevano le due sale immense in 'appartamenti' adiacenti.
Non era nemmeno la casa del proprietario e della sua famiglia,
perché da tanto avevano cominciato a sognare il momento in cui
avrebbero avuto da parte abbastanza denaro per traferirsi a Patna.
Quando lo lasciai, quel posto svanì dalla mia memoria con la
stessa facilità di una fotografia sotto il sole d'estate; se
qualcosa restava, era il tono seppia delle carezze scambiati con
Chaand.
Mi restava solo
una cosa da fare: lasciare questa città, la città dove
sono cresciuta. Istation chalo, dissi al conduttore di risciò
che portava il lungi. Avevo progettato di comprare un biglietto
ferroviario fino a Phansa, la città vicina. Ero stata a Phansa
solo una volta per un nautch-show e avevo sentito che là avrei
potuto trovare un lavoro normale senza essere inseguita dal mio
passato. In tutta sincerità, quallo che volevo era un lavoro.
Volevo vivere da donna, non da eunuco. Erano giorni in cui la vita
dell'eunuco era troppo degradante per me. E poi mi sentivo più
donna. Se avessi dovuto scegliere, avrei preferito essere una donna che
un uomo. Se vuoi, puoi anche dire che io sembro una donna: ho la
costituzione delicata e affascinanti occhi neri, labbra carnose e un
bel naso aquilino. Ho capelli folti e lunghi fino alla vita, me li
invidia la maggior parte delle donne. Forse sulle mie braccia ci sono
più vene di quante se ne vedono usualmente fra le donne della
classe media da queste parti, ma ho visto delle donne contadine con
braccia dure, più muscolose. Vestita con un sari, nessuno mi
prende per un eunuco.
Ma alla stazione
mi dissero che tutti i treni diretti a Phansa erano stati cancellati.
Un maalgadi era deragliato in qualche punto della linea Gaya-Phansa, e
i binari erano invasi dalla ferraglia e dal carbone che trasportava.
Era troppo tardi, ora, per ritornare alla kothi, e non volevo prendere
un bus pubblico; sono quasi sempre sovraffollati e con i treni che non
viaggiavano lo sarebbero stati ancora di più. Non avevo altre
possibilità che quella di investire buona parte dei miei magri
risparmi - anzi, del mese d'affitto non pagato - per comprare un posto
più costoso, su un bus privato. Più costoso, ma non
necessariamente migliore, come avrei scoperto. Presi un altro
risciò per l'angolo esterno alla fermata del bus governativo
dove fermava il bus privato. Dopo aver comprato il biglietto dal
bigliettaio sorprendentemente cortese di un bus che stava già
cominciando a mettersi in moto, ero sul punto di salirci, quando un
vecchio cliente della nostra casa mi riconobbe. Era Iskander Mian, un
uomo vecchio, macchiato di paan, glabro, con una faccia che pareva un
dattero secco, un chhuara.
Guarda, guarda,
guarda, Farhana Begum? disse, zoppicando verso di me. Dove state
andando? Non ci lascerete tutti soli col cuore spezzato, vero?
Essendo uno
degli uomini che erano stati nella nostra gharana, Iskander Mian doveva
chiamarmi 'begum': gli mancò il coraggio di proferire la
verità del mio cognome maschile.
Mi spiace,
borbottai con la voce più fredda che potevo emettere. Vi state
sbagliando. Il mio nome è Parvati.
E prima che
potesse rispondere salii a bordo del bus, col bigliettaio che
gentimente mi metteva su la valigia e mi indicava un posto a sedere.
Quando il bus partì, un minuto dopo, Iskander Mian era ancora
lì in piedi, con l'aria confusa e qualche ruga in più
sulla sua faccia di chhuara. Ci eravamo appena immessi sulla strada,
quando il pulmann si fermò e il cuore mi salì in gola. Mi
pareva di vedere Iskandar Mian e il padrone di casa, accompagnati da
tutti i clienti che avevamo conosciuto, che circondavano il bus,
implorando con un tono un po' canzonatorio, non ci spezzate il cuore,
Farhana, non lasciateci tutti soli in questo vasto vasto mondo.
Mi sentii
sollevata quando salì a bordo una donna con un fagotto e con un
bambino piagnucoloso, e il bus ricominciò a muoversi con un
rumoroso sferragliare di ingranaggi.
17 -
Lui nota il
mucchio di makhana bianco con le macchie nere. Se lo fissi abbastanza
da vicino vedi solo un candore punteggiato di nero, un limpido cielo
notturno rovesciato.
Il makhana
è il popcorn del Bihar, pensa lui. A parte il fatto che è
più saporito e croccante. Dicono che cresce solo nei distretti
del Darbhanga, del Purnia, del Saharsa e del Madhubani nel Bihar del
nord. Non c'è matrimonio indù o musulmano venga celebrato
senza il makhana, anche se pochissimi indù o musulmani sanno da
dove viene. Pochissimi indù e musulmani non ne sanno molto di
più del posto dal quale loro stessi vengono, e spesso la loro
scarsa informazione è anche sbagliata. Non sanno come viene
piantato dai mallah nei mesi di marzo e aprile. Si pianta negli stagni
a una profondità che va da un metro e mezzo a due metri e mezzo.
La pianta spinosa che emerge dall'acqua ha delle foglie larghe,
abbastanza larghe perché ci stiano appollaiati uccelli acquatici
come il chaha dalle lunghe gambe. Circa sei mesi dopo che è
stato piantato, i frutti gudi, che pendono dalle larghe foglie piatte,
maturando cadono in fondo allo stagno. I mallah si tuffano nell'acqua e
portano su i frutti nei secchi, con i loro corpi neri ed esili
incrostati di foglie e di radici. I frutti vengono seccati e poi
arrostiti e battuti finché scoppiano in lavva o makhana.
È questo il makhana che si può comprare lungo la via,
fritto e cosparso di sale e pepe. Non si deve sapere da dove viene o
con quanta fatica è stato fatto. Se si hanno i soldi, basta
sapere quanto costa. Non costa molto. Costa meno di un quarto dei
sacchetti di popcorn nelle sale umide e buie del cinema.
18 -
Un uomo di
mezz'età con un lungo banyan e un lungi a quadri venne fuori
dalla bottega con un secchio d'acciaio inossidabile. L'acqua debordava
dal secchio. Con gesti esperti, l'uomo immerse le mani nel secchio e
descrisse archi d'acqua intorno a sé. Le gocce cadevano sulla
polvere secca sul bordo della strada, disegnandovi prima delle macchie,
poi delle corde, corde d'acqua, corde d'acqua che l'uomo sperava
l'avrebbero tenuta ferma per le prime ore di traffico del mattino. Un
tavoletta di metallo sulla bottega diceva: 'Manohar Sweets' in inglese,
e poi sotto, più piccolo, in Hindi, 'yahan shudh ghee ki
swadisht mithaiyan milti hain'.
'Ghasmus-sir,
scusi sir, due minuti, due minuti', gridò l'autista da una
finestra accanto alla bottega mithai.
Rasmus
accomodò il suo metro e ottantotto di altezza sul sedile
posteriore dell'Ambassador bianco sporco, assicurandosi che una delle
sue mani restasse sulla sottile valigetta accanto a lui. La valigetta -
o piuttosto il suo contenuto - pesava sulla coscienza di Rasmus,
rendendolo più irritabile del solito, più attento al
tempo e allo spazio. Guardava l'uomo dei mithai che andava a prendere
un altro secchio d'acqua. Rasmus era stato a Gaya abbastanza a lungo
per sapere che proprio questa strada, che porta fuori città,
sulla strada che va a Patna dalla quale a Tehta si svolta per andare a
Phansa, un tempo era famosa per i suoi tilkut. Ma anche se non avesse
passato qualche settimana a Phansa, Rasmus avrebbe conosciuto il
tilkut. Il tilkut era il mithai con il quale Gaya aveva contribuito
alla grande ricchezza dei dolci tradizionali dell'India del Nord. Sente
ancora come la voce di suo padre si riempie di sole e di sciroppo
parlando dei mithais indiani in un giorno piovoso e coperto, a
Copenhagen. Va' in un vecchio paese qualunque, in qualunque vecchia
città dell'India del nord, mister, e scoprirai uno speciale
mithai, che si fa solo in quel posto o che si fa in quella particolare
variante. Khirmohan a Dhoda, khaja a Silao, tilkut a Gaya. Suo padre
poteva andare avanti per molto tempo parlando del cibo indiano a
Copenhagen, e spesso lo faceva con quella particolare intensità
che fa agitare sulla sedia i danesi, anche Rasmus a volte.
Ormai erano
rimaste poche le botteghe di mithai lungo la via - comprese quelle
due o tre con lo spazio pulito e il palo di legno necessari per
avvolgere e girare la pasta con la quale si fa il tilkut - ma la
maggior parte delle botteghe avevano cominciato a rifornirsi di
prodotti meno deperibili e più redditizi. L'uomo entrò,
di chiazze di polvere asciutta ne restavano ormai poche intorno al suo
negozio. Passò un venditore di giornali in bicicletta. Rasmus
sentiva il rumore forte e rauco di qualcuno che si schiariva la gola
nella casa della porta accanto: il suono forte, con tante
tonalità e tante sfumature, di un uomo che eseguiva le sue
abluzioni mattutine secondo la tradizione. Non erano ancora le otto del
mattino e c'era poca gente in strada. Comunque Rasmus poteva sentire i
bagni e le cucine che si risvegliavano, mentre una piccola folla
cominciava a formarsi intorno alla cannella comunale in fondo alla
strada, in attesa che l'acqua arrivasse scoppiettando intorno alle otto
e mezzo. Si piegò in avanti e suonò il clacson
dell'Ambassador - un suono breve, cortese ma deciso. Il rapporto col
tempo di Rasmus, il suo ritmo, era già sconvolto. L'India
alterava sempre il suo orologio interno, ricco di quarzo, perfettamente
sincronizzato. Forse per lui era la cosa più sconvolgente nei
suoi occasionali soggiorni in India, durante i quali doveva risolvere i
problemi della sua direzione centrale, a Copenhagen. Tokyo, Bangkok o
Abu Dhabi non gli facevano mai questo effetto. Il Medio Oriente e
l'Estremo Oriente corrono più o meno al ritmo di un orologio
occidentale, pensava, ma l'India, l'India va con un centinaio di
orologi diversi, o con nessun orologio. Suonò di nuovo il
clacson, questa volta con più insistenza.
Bajao clacson,
bajao clacson, borbottò Hari, dando un'occhiata a Rasmus
sull'Ambassador dalla sua finestra. Pura nashta kar kay chalengay: yeh
koi firangian thoday hi hai! Ma a dispetto delle sue parole animose,
buttò giù di corsa l'ultimo boccone di chappati e
bhunjiya, gridò a sua moglie di controllare che Munna andasse a
scuola, e borbottando si precipitò fuori dalla porta.
È
l'ultima volta che ti faccio fermare a casa tua per fare colazione,
disse Rasmus mentre Hari apriva lo sportello della macchina. Hai detto
dieci minuti e ne sono passati venti, mister.
Il 'mister' era
saltato fuori a sorpresa: ancora una volta suo padre, che lo avrebbe
apostrofato con 'mister' per metterlo in soggezione, ancora una volta
il fantasma di suo padre, tante volte esorcizzato, veniva fuori dalla
sua bocca.
Scusa, sir,
scusa, mia consorte non sente mai, come dire, replicò Hari in
inglese. Rimise in moto l'Ambassador e lasciò la frizione con
una vibrante grattata che, Rasmus ancora non lo aveva scoperto, era
sempre una critica al rigido senso del tempo del suo datore di lavoro.
L'Ambassador accelerò sullo spazio che l'uomo del mithai aveva
bagnato, cancellando qualche disegno d'acqua e riordinandogli il piano
della giornata. L'uomo si era tirato su il lungi ed era impegnato a
sciacquare uno dei grandi calderoni sulla veranda della sua bottega.
Tutte le mattine per lui sistemare la polvere era un rito, un atto che
legava i suoi giorni. Sapeva che due ore più tardi sarebbe stato
là fuori ad avvolgere e girare i fili di pasta del suo tilkut,
materia appiccicosa piena della dolcezza della ricetta di famiglia e
della polvere di macchine, risciò,
thella, biciclette, pedoni.
19 -
Un
motorino Rajdoot nero sorpassa il suo bus. Lo guida un uomo con un
completo safari color kaki. Il suo bambino di sette-otto anni è
a cavalcioni dietro di lui sul lungo sedile e la moglie è
appollaiata, dietro al figlio, con le gambe su un solo lato.
Il motorino
oscilla pericolosamente e riprende l'equilibrio, la donna con un gesto
automatico si risistema il pallu sul capo. Dopo poco sono una macchia
che rimpicciolisce sulla strada lunga e stretta. Sopra di loro il cielo
si estende come il piano di marmo blu del tavolo di certi ristorante
lungo la via, strofinato da qualche ragazzo di servizio con uno
straccio sporco imbevuto nel bianco acido fenico diluito con l'acqua.
20 –
Portavo il suo
odore a letto con me. Anche se quando mi guardava non riuscivo a
sostenere il suo sguardo. I suoi occhi piegavano i miei fino a terra, e
poi le sue labbra si curvavano con l’ombra di un sorriso. E mi salutava
con la voce di un’umile serva: Salaam-alai-kum, Irfan babu.
Walaikum-assalaam, Zeenat, balbettavo in risposta.
La pace era
l’ultima cosa che Zeenat poteva far scendere su me.
Lavorava nella
casa di un vicino, l’unica kothi degna di questo nome del nostro
vicinato sempre più congestionato a New Karimganj, una vecchia
casa, un tempo grande, ora cadente, un tempo prosperosa, ora
pretenziosa. Era una casa con molte stanze, la maggior parte delle
quali ormai chiuse. Era stata costruita per una grande famiglia.
Ricordavo una famiglia numerosa che volteggiava nella casa durante le
vacanze estive quando ero bambino. Ora era abitata da un avvocato dallo
sguardo sfuggente, da sua moglie, dalle loro quattro figlie, e da sua
zia, una donna di costituzione robusta, leggermente baffuta, che
masticava paan e portava svolazzanti abiti fuori moda che
sottolineavano i suoi diritti sulla casa.
L’avvocato era
venuto a vivere con la zia e ad occuparsi della casa quando degli
sconosciuti avevano colpito a morte il figlio di lei – accidentalmente,
alcuni dissero, nella sparatoria durante una rapina lungo la via, altri
dissero che la causa era il fallimento di un avventuroso progetto
imprenditoriale. Era andata avanti da sola durante il periodo di lutto,
rifiutando di vendere la casa e di trasferirsi a Delhi dalle figlie. Ed
era solo per le ripetute telefonate delle figlie, che la immaginavano
via via precipitare dalle scale o deperire di colpo, che alla fine
aveva permesso al nipote avvocato di trasferirsi in un’ala della casa.
Ma le spalle
dell'avvocato non sostenevano il peso della casa. Tutte le settimane
precedenti lo avevamo sentito alzare la voce stridente per litigare,
finalmente zittito dalle irremovibili risposte monosillabiche della
zia. Lui voleva dar via alcune parti della casa. Non prima della mia
morte, diceva la zia. Poi, più tardi, si sedeva sulla veranda a
borbottare su quello che la casa era stata, su quanti ospiti metteva a
tavola tutti i giorni, quanti parenti poveri avevano fatto venire dal
paese avito per mandarli alle scuole del posto, quanti servitori
avevano affrettato il passo dalla cucina alla sala da pranzo, portando
le pietanze su grandi vassoi d’argento.
Zeenat era
l’ultima serva rimasta nella casa. Avevano ancora due servi maschi, uno
dei quali era un vecchio conduttore di risciò. A parte il
conduttore di risciò magro e coriaceo, tutti i servi erano nuovi
nella casa, perché l'avvocato li licenziava e cambiavano quasi
tutti gli anni. Solo il conduttore c'era stato prima di lui, e c'era
ancora, a fare sempre le stesse corse con il risciò di famiglia,
a portare avanti e indietro le figlie dalla scuola, la moglie quando
faceva spese e l’avvocato dall’affollata corte del distretto, e qualche
volta la zia, con un paandaan attaccato a un’impalcatura che era
saldata al risciò e un purdah drappeggiato intorno al tettuccio,
portava la zia nella kothi di qualche vecchia parente sopravvissuta,
nel vecchio Karimganj, .
Ma Zeenat era la
sola serva alle quale facevo caso. Stando a sedere sul tetto, scrutando
al di là della casa dei miei genitori, avevo un'ampia vista
sulla corte dei nostri vicini. Era là che vivevano Zeenat e gli
altri servi: Zeenat in una stanza attaccata alla casa principale,
accanto alle scale, i servi in stanze più lontane, sull’altro
lato della corte. Stavo a guardarla quando si sedeva a cernere il riso,
o mentre attingeva acqua dal pozzo del cortile, durante una prolungata
interruzione di corrente. Stavo a guardarla dopo il bagno, quando si
asciugava i capelli al sole. E solo una o due volte credetti che
sorridesse con una specie di sorriso d’intesa rivolto a me, e
contemporaneamente si era pudicamente coperta il capo col sari pallu e
aveva scoperto con noncuranza una gamba fino al ginocchio.
Dovevo stare
attento sul tetto. Dovevo ricordarmi di scendere di corsa dal tetto
nella mia stanza prima di rispondere a un richiamo imprevisto dei miei
genitori. I miei genitori non sopportavano Peeping Toms, in parte
perché nel loro casto urdu questa parola non c'era, in parte
perché Zeenat non era una loro beniamina. I miei genitori la
trovavano ‘sfacciata’ e ‘immorale’. Erano entrambi insegnanti – mio
padre nel locale Mirza Ghalib College, mia madre nella Nazareth Academy
– e la loro idea di decenza era pedagogica e severa. Una volta mio
padre suggerì, con un eufemismo di cui si supponeva che non
conoscessi il significato, che Zeenat probabilmente aveva fatto la
puttana. Non disse ‘puttana’, scelse ‘tawaif’, con la sua connotazione
più morbida di musica e cultura. Mio padre considerava un segno
della mancanza di carattere dell’avvocato che Zeenat – quella ‘tawaif’,
quella ‘donna di strada’ – continuasse a lavorare in una vecchia casa
così rispettabile. Ci fu una polemica quando io suggerii, con un
sarcasmo derivato da ormoni adolescenziali repressi e da una nascente
visione sinistroide della rispettabilità, che le tawaif avevano
un rapporto perfettamente logico con le vecchie ‘case’, specialmente
con le rispettabili vecchie ‘case’.
21 –
Uno stagno o
un'abbeveratoio dove l’acqua del monsone evapora solo un anno ogni
tanto. Sulle sue rive, tre sparuti cespugli di banano, dietro ai banani
alcune capanne sbilenche fatte di fango e mattoni, con i muri dalla
parte della strada non intonacati ma imbiancati di calce. Dietro a
tutto questo il Sita Ashok più grande e alto che lui abbia mai
visto. Fa caso a questo albero in ogni viaggio. Si diceva che se bevevi
l’acqua nella quale sono stati a bagno i suoi delicati fiori profumati,
eri guarito della tua pena.
Quelli erano
tempi in cui la pena doveva essere una capanna di fango, pensa Mangal
Singh con un mezzo sorriso. Facilmente innalzata dalla terra,
facilmente portata via dalla piena. Ora noi facciamo il nostro dolore
di cemento e di calcestruzzo, di ferro e d'acciaio: abitiamo il suo
spazio vuoto.
22 –
Tutti quelli che
avevo conosciuto e che mi erano stati a cuore erano usciti dalla mia
vita con la partenza di Chaand. Devo ammettere che non avevo le idee
chiare su quel che avrei fatto una volta arrivata a Phansa, forse
lavorare come ayah. Volevo semplicemente lasciare la mia città e
ricominciare tutto daccapo. Ma le cose si misero a girare a modo loro.
Le cose, come ci diceva il vecchio suonatore di tabla, il nostro
maestro di musica, si mettono sempre a girare a modo loro. Sono le
persone a non girare mai a modo loro, mai, mai, poveri prigionieri,
kunji-maar, bastardi chiavi in mano, ormai non siamo altro che questo,
diceva anche così qualche volta, e intanto in un colpo solo da
malato terminale di TBC scoppiava a ridere e a tossire forte.
Seduta sui
sedili consunti e strappati del bus, guardando gli altri passeggeri con
la coda dell’occhio, perché il nostro posto era in prima fila,
mentre sentivo il bus che si riempiva del calore e dell'odore dei
corpi, anche se fuori la giornata era bella, là a sedere mentre
campi e villaggi si allontanavano oscillando, gli risposi in silenzio
come avevo fatto anche quel giorno. Dissi, mi metterò a girare a
modo mio quando verrà il momento, ricorda quel che ti dico,
girerò a modo mio quando le cose gireranno a modo loro.
Sul bus ero
seduta accanto a una vecchia donna, anche lei diretta a Phansa.
Veramente era stato il bigliettaio a insistere perché mi sedessi
accanto a lei, e più tardi capii perché. Il bigliettaio
stava facendo tutto il possibile per accontentare la vecchia, e aveva
fatto in modo che i posti accanto a lei fossero occupati da donne, e da
quelle dall'aspetto più ben educato fra quelle che si potevano
trovare su un bus come questo.
La vecchia aveva
poco più di sessant’anni, età in cui da queste parti si
è vecchie, ma era attenta e acuta. In qualche modo sembrava un
mynah, anche se non somigliava affatto a un uccellino. Un roco mynah,
attento e acuto. Quella fu la prima cosa di lei che notai, per il modo
in cui, sporgendosi dalle sbarre del finestrino del bus, tirava sul
prezzo col ragazzo del tè. Riuscì a intimidirlo e a
pagare solo cinquanta paisa per una tazza di ispayshull chai che
sarebbe costata una rupia. Non devi mai farti mettere i piedi in testa
da questi chokkra. Sono ladruncoli, tutti ladruncoli! mi disse appena
il ragazzo del te se ne fu andato, brontolando. Annuii per amore della
buona educazione.
Da come tirava
sul prezzo, si sarebbe detto che fosse povera. Ma il suo linguaggio e i
suoi abiti non significavano proprio povertà. Indossava un sari
bianco – il che ovviamente voleva dire che era vedova. Comunque, non
era un semplice sari di cotone. Era di qualche fibra più ricca,
con ricami bianco su bianco lungo i bordi, e sembrava nuovo. Solo la
gente ricca indossa abiti nuovi per viaggiare in treno o su un bus come
questo. I treni su questa tratta non hanno uno scompartimento di prima
classe e i bus sono ancora più democratici; devi viaggiare come
la massa, e questo ti sporca i vestiti. Riuscivo a vedere anche il suo
bagaglio a mano, infilato a forza sotto il seggiolino. Costoso, nemmeno
VIP o Aristocrat, sembrava addirittura una marca straniera. Era
evidente che apparteneva a una classe sociale diversa da noialtre
sedute dietro al divisorio del posto dell’autista, dove tre seggiolini
extra erano stati fissati al pavimento per formare un quadrato aperto
da un lato. In pratica era stato trasformato in un settore riservato
alle donne. C’erano ovviamente altre donne sul bus, come la donna col
bambino piagnucoloso che sedeva subito dietro al nostro settore,
ma era chiaro che non erano abbastanza rispettabili per avere posti
separati dagli uomini. Nel settore riservato eravamo in sette.
Una donna
portava un purdah, nonostante all’interno del bus avesse sollevato il
velo. Tre delle altre indossavano sari di cotone abbastanza puliti ma
sgualciti, mentre la quinta era una bambina di dieci anni, con la coda
di cavallo, e aveva un vestito lacero. A parte la vecchia, ero l'unica
persona che portava abiti abbastanza belli. Un vestito non nuovo, ma
pulito e senza rammendi, fresco di stiratura. Forse per questo la
vecchia parlò tanto con me durante tutto il percorso. Ma parlava
comunque tanto, in modo educato e un tantino accondiscendente. Sembrava
pensare che fosse suo dovere parlare con noi per colmare la distanza
che la sua evidente ricchezza poteva creare. Era anche una persona
forte e dogmatica. Partendo dall’iniziale affermazione sul ragazzo del
tè, andò avanti celebrando i valori del risparmio (che
comprendeva il rifiuto categorico di avere una macchina e di viaggiare
in taxi) e concluse raccontandoci la povertà dalla quale era
partita e la sua fede politica, induista di destra.
Eravamo profughi
di Lahore, ci aveva raccontato prima ancora che arrivassimo alla prima
fermata. Quando arrivammo a Delhi, il 27 ottobre 1947, non avevamo
altro che millecinquecentodue rupie in contanti e i miei gioielli.
Quelli della mia generazione sanno cosa significa risparmiare. Non come
la nuova generazione. Dategli cento rupie e le spendono in un giorno.
Più spendi, più guadagni, mi dice mio figlio. Facile per
te dirlo, gli ho risposto, a te i soldi non mancheranno mai, grazie a
tuo padre, che Dio gli conceda di riposare in pace. Se ti fossero
rimaste solo un migliaio di rupie e ti trovassi in un paese straniero,
vedresti come ti andrebbe via tutta questa voglia di spendere!
Che hai fatto
allora, madre? Chiese la donna con la bambina di dieci anni. Come siete
sopravvissuti?
Per sei mesi
vivemmo in un campo profughi, ci davano da mangiare con un pentolone
nella cucina comune. Poi, Dio sia lodato, ci assegnarono una casa a
East Delhi. Era una brutta zona, a quei tempi c’erano pochissime case a
East Delhi. Questa casa era stata lasciata libera da una famiglia
musulmana, che era fuggita in Pakistan. Sapete, a quei tempi è
così che andavano le cose: ci davano case abbandonate dai
musulmani in India e davano le nostre case a quei musulmani in
Pakistan. Un po’ di tempo dopo mi dissero che la nostra vecchia casa a
Lahore – aveva sette stanze – era stata occupata da un ciabattino
musulmano che veniva da chissà dove. Ma pensate, un ciabattino,
un ciabattino musulmano! Comunque noi dividevamo questa casa con
un’altra famiglia di profughi. Loro presero il piano di sopra e noi
piano terreno. Entrambi i piani avevano due camere da letto, una grande
e una piccola. Ma soldi ancora non ne avevamo. Mio marito – se
n’è andato quattro anni fa – aveva nove anni più di me, e
per lui era più difficile. Doveva ricominciare tutto daccapo.
Prima, a Lahore, aveva un negozio di abbigliamento, che andava molto
bene. A Delhi, aveva solo un migliaio di rupie per ricominciare, e
qualche parente non tanto affidabile. Vendetti i miei gioielli – tutti
tranne il mangalsutra – e si mise nel giro della vendita di
abbigliamento al dettaglio. Questo ci procurava il pane quotidiano, ma
non bastava. Non potevamo permetterci nemmeno una piccola
comodità. Quando mi sono comprata il primo sari nuovo stavamo a
Delhi già da due anni. Vijay, mio figlio, per due anni non
abbiamo potuto mandarlo a una buona scuola inglese. Era una vita dura.
Per questo abbiamo imparato quanto sia importante risparmiare. Lo dico
sempre a Vijay, ma lui ride e basta. Il Signore dà e il Signore
toglie, benedetto il nome del Signore, dice. Bella educazione inglese!
Si accorse dello
sguardo di mite incomprensione sui nostri volti. Il suo rapido
passaggio all'inglese ci aveva lasciate al buio. Io potevo raccattare
due o tre parole nel fluire della sua frase, le altre forse nemmeno
quelle. La vecchia diede un colpetto di tosse imbarazzato e
spiegò. Fa impressione detto in Angrezi, no? Ma vuol dire
semplicemente quello che noi possiamo dire in cinque parole: - Sab
Bhagwan ki leela hai.
Questo segnale
che ricordava la differenza sociale fra lei e noi le fece fare una
pausa, e quando riprese aveva adottato un atteggiamento lievemente
più conservatore, un conservatorismo più illuminato e
nazionalista, come se volesse dirci che in fondo in fondo lei non era
diversa da noi, che in fondo lei condivideva i nostri valori ‘Indiani’.
Fu sorprendente con quanta facilità acconsentimmo alla sua
costruzione di un’identità plurale, perché la donna in
purdah naturalmente avrebbe detto: ‘Sab Allah ke haath hai’, e io avrei
potuto dire, ‘Sab lekni ka khel hai’ e chissà quali
divinità particolari avrebbero invocato le altre donne?
Per il momento,
comunque, la vecchia interruppe il suo resoconto per guardare dal
finestrino, mentre prendevamo la nostra strada dopo la fermata di Bela,
era come se nuotassimo in una corrente di risciò e thella, col
bigliettaio che si spenzolava dalla porta posteriore, battendo sulle
fiancate del bus e lanciando maledizioni contro i pedoni e i ciclisti.
Però con noi era un altro uomo. Veniva a domandare alla vecchia
come stava, e una volta che lei disse che non c’era bisogno che si
desse tanta pena, lui rispose che non era affatto una pena. Tuo figlio,
maaji, non è solo molto amico del mio maalik, è anche un
uomo naami. La sola cosa buona del deragliamento del maalgaadi è
che questo povero bus ha avuto la fortuna di portare i tuoi sandali. La
sola cosa che posso fare è servirti mentre sei qui, disse.
Un uomo gentile
il bigliettaio, almeno con noi, anche se potevo sentire come trattava
duramente e persino maltrattava - usando il rozzo termine ‘re’ per
rivolgersi a loro – i passeggeri proprio campagnoli. Non proprio tutti,
perché l’Indian People’s Front e il Communist Party of India
(marxista-leninista) sono piuttosto attivi nei villaggi di questa zona.
Faceva il prepotente solo con quelli che evidentemente non potevano
avere la tessera di un partito rivoluzionario, o essere membri armati
di una banda.
23 –
Mentre sorseggia
il chai alla fermata del bus, aspirandolo anche rumorosamente per
raffreddarlo, Mangai Singh ripensa a quella bevanda che cura il dolore.
Un compito enorme: non la TBC, non il cancro, nemmeno l’AIDS, ma
proprio quel cazzo di dolore. Una volta gli avevano spiegato
perché i fiori di Ashoka avevano quella proprietà. Un
passeggero, un vecchio sadhu, nato col colore della notte o diventato
nero per il sole, rinsecchito e convenientemente fornito di barba
bianca come si deve, gli aveva raccontato la storia.
La storia gli
è tornata in mente vedendo passare un gruppo di campagnoli. Il
gruppo comprende due o tre aborigeni – tribali, li chiama così.
Ora sono laggiù, in quella parte trascurata dello stato, dopo la
fermata di Dhoda, dove qualche volta i tribali si possono ancora
vedere, può capitare di vederli in circostanze che non
richiedono che la loro semi-nudità tribale sia coperta con
pantaloni o pyjama civili. Si possono vedere con la pelle nera e i
laceri perizoma, con il loro orgoglio individuale e la miseria
collettiva. Come mai la cura con loro non ha funzionato?
C’era una donna
tribale che si chiamava Sashoka e aveva ricevuto il dono di
trasformarsi nell’albero dai cui rami il potente Hanuman consolò
Sita sedotta e abbandonata, sì, ancora lei, quella della
maledizione. Hanuman la consolò dai suoi rami, la signora della
maledizione, ed ecco che in un batter d'occhio Ashoka diventò
l’albero senza pena. Ma allora perché, si domanda, i discendenti
di Sashoka vanno ancora in giro stringendo il loro fardello di pene?
24 –
Perché
non vendi questo rottame e ti prendi una Maruti?
Hari con questa
domanda si sentiva insultato, suonava forte il clakson a una thella
intransigente e decideva di non rispondere. Ma avrebbe potuto
ribattere. Avrebbe potuto rimbeccarlo, E tu come credi di entrarci in
una squallida Maruti con i tuoi due metri di altezza? La battuta gli
veniva sulla bocca in inglese pidgin ma se la ringoiava.
Hari aveva
trovato questo lavoro – ed era un lavoro dove si guadagnava, un lavoro
pagato tre volte di più di quanto avrebbe guadagnato in
qualunque altro posto – grazie alla sua abilità di capire e
parlare l’inglese. A Gaya era uno dei due o tre autisti che capivano
l’inglese. Tutti loro avevano imparato l’inglese portando i turisti in
giro a Bodh-Gaya, nelle scuole che avevano frequentato l’inglese non si
insegnava o si faceva solo sulla carta. Fra tutti, Hari era quello che
parlava meglio l’inglese – veramente molto meglio di quanto desse ad
intendere. Aveva lavorato come guida turistica a Bodh-Gaya e Nalanda, e
questo gli aveva fatto raccattare più parole in inglese di
quante ne servono alla maggior parte degli autisti. E poi, la lingua
dei suoi migliori turisti non era l’inglese, ma il giapponese. I
turisti giapponesi venivano più spesso da quelle parti –
perché questa terra era il cuore storico del buddismo – e
tiravano sul prezzo meno dei turisti occidentali. Un buon numero dei
loschi ragazzi disoccupati che girellavano intorno a Bodh-Gaya e
combinavano affarucci di contrabbando con le ‘guide services’
stagionali, parlavano giapponese con gradi diversi di competenza e di
immaginazione. Dieci anni prima qualcuno avrebbe saputo anche il Thai,
ma questa lingua stava morendo col declino dell’economia Tiger.
Hari aveva
capito parola per parola quello che aveva detto Rasmus. Aveva capito
anche il tono, per questo aveva fatto finta di non capire la battuta.
Rasmus era irritato – gli pesavano il tempo irregolare e il contenuto
della valigetta – e proprio per questo era stato sarcastico. Hari aveva
una teoria sull’irritazione nei vari popoli: gli americani alzano la
voce e diventano caustici, i giapponesi sono educati ma ostinati, gli
scozzesi e gli inglesi tendono a farti una conferenza su valori
universali (scozzesi e inglesi), i francesi prima ti fanno le loro
rimostranze e poi ti danno una mancia decisamente inferiore, i danesi
fanno commenti pungenti e indiretti. Fra tutti, Hari preferiva la
reazione del tipo francese, ne apprezzava la logica francamente
economica.
Era strano,
pensava Hari, mentre suonava il clakson abbastanza forte da dissuadere
un anziano che aveva intenzione di attraversare la strada, era strano,
per quanto lui potesse ridere dell'Ambassador con i suoi amici, che non
sopportasse le critiche rivolte a questi fidati modelli dai suoi
clienti, specialmente se non venivano dall’India. Gli sarebbe piaciuto
rispondere a Rasmus per le rime, bene, almeno noi facciamo le nostre
macchine. Ma se ne stava tranquillo col suo rispetto professionale
anche perché non ne sapeva abbastanza della Danimarca. Forse
loro si facevano le loro macchine come si deve. Tutto quel che sapeva
della Danimarca era che producevano una grande quantità di
latte. ‘Venite dalla terra del latte e del burro, sir, vero?’ aveva
chiesto a Rasmus il giorno in cui aveva fatto il colloquio per il
contratto di lavoro, sapendo che nella sua buffa semiconoscenza la
domanda avrebbe giovato alle pubbliche relazioni. Il suo fine miscuglio
di informazione e ignoranza tendeva a rassicurare il sahab. Aveva
funzionato. Ma il motivo per cui Hari associava la Danimarca con il
latte e il burro aveva a che fare con una vaga reminiscenza infantile:
una figura che mostrava una mucca bianca a macchie marroni enormemente
grassa che guardava compiaciuta. Hari dapprima aveva creduto che la
fotografia rappresentasse una scena francese – era capitato nel
semestre in cui aveva lavorato per un archeologo francese che era
venuto a vedere l'India – ma ora era sicuro che fosse stata
scattata in Danimarca. Era l’espressione compiaciuta sul muso della
mucca che aveva fatto decidere Hari dopo che gli era capitato di
conoscere una coppia di Danesi. A parte questo, non aveva modo di
sapere se la Danimarca produceva latte o petrolio. E non era
particolarmente preoccupato dal momento che Rasmus gli pagava lo
stipendio – e le saltuarie promozioni - regolarmente.
Riaccomodandosi
sul sedile anteriore di plastica dell'Ambassador, Hari pensava di
ripetere il suo commento in una forma più aggressiva (‘La
Danimarca non produce altro che latte, vero sir?’), ma poi fu distratto
da un stormo di passeri cinguettanti che saltellavano sui davanzali
delle finestre e sulle soglie dei negozi lungo la via e sentì
che la sua irritazione svaniva. Non erano poi tanto in ritardo sul
programma. Poteva sopportare le solite malignità di Rasmus.
Sapeva che Rasmus aveva un appuntamento importante col ministerji
dell’agricoltura dello stato, che poteva aiutarlo a concludere un
contratto per la sua compagnia multinazionale. Il ministerji era anche
lo MP di Phansa, ed ecco la ragione del loro viaggio di oggi.
Hari sarebbe
stato tollerante. Era abituato a Rasmus, a Ghasmus-sir come lo
chiamava, incapace di pronunciare la erre danese, o a Ghasphus-sir come
lo chiamò al ritorno. Non che quel Rasmus alto, sano d'aspetto,
con le spalle larghe, somigliasse a quella specie di erbaccia sottile
che si chiama ghasphus.
25 –
Improvvisamente
dal nulla su un muro diroccato lo scarabocchiato graffiti in
Devanagari: Proust Padho!
Leggi Proust.
Che cazzo
è, si domanda, questo Proust?
26 –
Stavano andando
a passo di lumaca lungo la stretta strada di Karbal-Kund, che era stato
un paese distinto mentre ora era diventato l’estrema periferia di Gaya.
Questo era un tratto delicato, e una delle tante cause dell’irritazione
di Rasmus. Più avanti la strada curvava, proprio nel punto in
cui si stringeva ulteriormente, a collo di bottiglia, tanto che ci
poteva passare solo un veicolo per volta. Rasmus era al corrente del
fatto che camion e bus cominciavano a viaggiare dalle nove di mattina.
Rasmus – e Hari, anche se non lo avrebbe ammesso – volevano uscire da
questo tratto prima che si formasse l'ingorgo del mattino.
Erano curve come
questa che facevano dell’Ambassador una scelta intelligente, disse Hary
silenziosamente a Rasmus, in cuor suo. Un solo graffio sulla Maruti
provocato da un camion prepotente e ti toccava spendere una piccola
fortuna per farla riparare. E aspetta di arrivare al primo dosso
artificiale, un enorme rallenta-macchine di quelli che gli abitanti dei
villaggi si fanno da sé fuori dai loro paesi. Se avessi una
Maruti un dosso come quelli sarebbe uno scassa-macchine.
Un’immagine
barbuta e inghirlandata di Sai Baba pendeva dallo specchietto
retrovisore dell’Ambassador e annuiva saggiamente, condividendo i
sentimenti di Hari. L’Ambassador, con la vernice bianco sporco staccata
in qualche punto, arrancava lungo la strada angusta. Hari mise una
marcia più bassa, questa volta in modo più dolce e senza
far rumore. Era entrato nella curva a collo di bottiglia e poteva
vedere il camion che arrivava dalla direzione opposta. Erano ancora a
più di cento metri. Hari spinse sull’acceleratore e innestando
una marcia più bassa lanciò l’Ambassador. Vide che
scattava anche il camion. Rasmus, che dopo un istante di silenzio
allibito aveva cominciato a protestare vivacemente, imputava questo
sventato gioco da polli alla testardaggine e alla vista miope degli
autisti e al traffico sregolato delle strade indiane. Ma Hari e il
guidatore del camion stavano seguendo un codice rigoroso per quanto non
scritto. Sapevano che il veicolo che sarebbe entrato per primo nella
curva avrebbe ottenuto la precedenza. Anche se avevano fatto stridere
le gomme fermandosi a un solo metro uno dall’altro, Hari poteva vedere
che la corsa non era finita con un risultato incontrovertibile.
Entrambi i veicoli erano quasi a metà della curva. Non prese
ancora in considerazione le proteste di Rasmus e mise fuori la testa
per fare le sue rimostranze all'autista del camion.
L'autista del
camion rifiutava di farsi da parte. Aveva letto tutti gli
articoli del libro non scritto sulle locali regole del traffico: in una
situazione incerta, il veicolo più piccolo è tenuto a
dare la precedenza. Brontolando contro i ‘guidatori indiani pazzi della
scatenati sir’, Hari fece retromarcia lungo tutta la strada e
guardò l’autista del camion che gli passava accanto ruggendo con
un cenno indifferente.
Rasmus stava
ancora imprecando e Hari pensò che era meglio disinnescare la
tensione assecondando il pregiudizio fondamentale del suo datore di
lavoro. ‘Auto Ambassador vecchio rottame, sir, cammina poco, tartaruga
zoppa’, disse, sentendosi più falso di Giuda. ‘Io vendo anno
prossimo, compro Maruti van’. Non era particolarmente preoccupato per
le rimostranze di Rasmus – a dispetto del fatto che a volte si
irritava, Rasmus era un datore di lavoro indulgente. Non gli importava
gran che nemmeno delle opinioni di Rasmus sulle abitudini e sulle
faccende indiane, nonostante Rasmus fosse il primo europeo che avesse
conosciuto a capire l’Industano e perfino a parlarlo un po’. Quando
erano tornati nell’ufficio della compagnia, c’erano state delle voci su
suo padre, che sarebbe stato un indiano – ma Rasmus ad Hari non
sembrava indiano. Riguardo al fatto che Rasmus capisse le usanze
indiane, perché, Hari non lo aveva forse visto fermarsi per
correggere gli operai che montavano una tenda accanto all’ufficio della
compagnia? Era la tenda per un matrimonio e gli operai stavano seguendo
un metodo illogico e contorto che incrementava in modo significativo il
numero di ore lavorative che avrebbero impiegato per quel lavoro.
Rasmus si era fermato a spiegare loro un metodo più semplice,
non immaginando neanche lontanamente – cosa che per Hari era evidente –
che gli operai aumentavano di proposito il numero di ore di lavoro per
le quali sarebbero stati pagati. ‘Più logico’, aveva mormorato
mentre lo spiegava agli operai, che lo avevano guardato adeguatamente
impressionati. Era, comunque, un genere di logica molto illogico per
gli operai che erano tornati al loro vecchio metodo appena Rasmus se ne
era andato. No, Hari non era particolarmente impressionato dalla logica
di Rasmus – comunque di Rasmus lo aveva impressionato di più la
complicata macchina fotografica con lo zoom.
Ma restavano
ancora almeno due ore di viaggio prima di arrivare a Phansa, e Hari non
voleva guidare con Rasmus che continuava a criticarlo dal sedile
posteriore. Sentiva che questo era uno di quei giorni in cui non poteva
sopportare troppe critiche. Alzò un ramoscello d’olivo. ‘Non
auto buona, auto Ambassador, sir’, disse, ingoiando il suo orgoglio per
l’Ambassador e prendendo la curva con la massima prudenza. Le strade
avevano già cominciato a riempirsi. Una coppia di ortolani stava
allestendo la bancarella. Alcune donne si avvicinavano portando
prodotti agricoli e caseari in equilibrio sulla testa. Degli studenti,
alcuni dei quali indossavano delle pallide imitazioni di uniformi di
scuole private economiche, si incamminavano verso le loro classi in
aule dal tetto sottile e su verande di cemento.
27 –
Operai in piedi
sotto al sole, a lavorare con pale e piedi di porco. Stanno riparando
un tratto della adiacente ferrovia a un solo binario. Più
avanti, una Ambassador governativa bianca è parcheggiata accanto
a un albero gullar e alcuni agenti si sono messi all’ombra dei suoi
grandi rami. Non fa così caldo da costringere a cercare l’ombra,
ma evidentemente il caldo non ha nulla a che fare con la faccenda.
Sopra al rumore
del traffico e al borbottio del suo motore, ora sente il richiamo sordo
di un piccione.
28 –
C'è il
suono di una musica da film che viene dall’appartamento di Mrs Prasad.
Viene spento. È l’ora della lezione di Chottu. Mrs Prasad crede
nell’istruzione; i suoi figli sono la dimostrazione vivente di quel che
puoi ottenere con l’istruzione. Suo marito, dio lo benedica, ha
lavorato in molte banche e ha risparmiato tutta la vita per dare ai
loro figli la migliore istruzione possibile: il meglio delle scuole
medie missionarie inglesi a Patna e poi direttamente
all’Università di Delhi. In memoria di lui manda Chottu alle
"English Classes" tenute da una delle mogli in un appartamento del
condominio adiacente.
Chottu non vede
che senso abbia farsi un’istruzione. Non è uno stupido. Da
quando i suoi genitori paesani lo hanno portato la prima volta da Mrs
Prasad a otto o nove anni lasciandolo qui con l’accordo che il
settantacinque per cento del suo stipendio sarebbe stato accreditato
mensilmente a suo padre, è arrivato a conoscere e a capire
questo nuovo mondo della città. Nel vicinato conosce più
gente di Mrs Prasad. Non è più il bambino piccolo e
timido, vestito col ganji e i pantaloni corti, col moccio che gli
gocciola da una narice fra un singhiozzo e l’altro. Si veste il
più possibile alla moda e si porta sempre un pettine dietro. Ha
una collezione di occhiali da sole economici, più che altro di
plastica, che Mrs Prasad gli fa sempre togliere. La sua voce ha
cominciato a cambiare. A volte sta a sedere al nukkad con ragazzi
più grandi e gioca quel venticinque per cento della paga che
viene data a lui. Sente che l’istruzione è qualcosa che
corrisponde poco ai suoi gusti. Ha l’esempio dei ragazzi challoo nukkad
che sono entrati nel giro dei soldi. Ha l’esempio di giovani, uomini e
donne, come la figlia maggiore degli Sharma, che hanno messo tanto
impegno nello studio per accedere a un futuro di dubbi su se stessi,
frustrazioni e fallimenti. Conosce tutti i maestri e i professori del
vicinato, e ha scoperto che quelli che hanno soldi li hanno
perché dispongono di risorse economiche diverse da quelle
procurate loro dalla laurea. Dubita che i figli di Mrs Prasad abbiano
fatto i soldi in modo proprio lineare. Ha visto film hindi. Sa tutto
sui soldi facili, anche se non ne ha mai avuti. Si chiede se chi ha
dovuto studiare e lottare per i soldi comprerebbe mai una Contessa
nuova fiammante con l'aria condizionata lasciandola in garage per
usarla una volta ogni tanto, più o meno una volta l’anno, quando
va in visita. È quello che ha fatto il figlio maggiore di Mrs
Prasad quando è arrivato in città da Chicago, circa due
anni fa. E poi il lettore di CD e l’enorme televisore d’importazione
che Mrs Prasad non ha mai voluto e che si rifiuta di usare.
Chottu vede il
mondo molto chiaramente, anche se scurito da un’ombra permanente, la
sua povertà, come se portasse ininterrottamente un paio di
occhiali da sole di plastica.
Chottu considera
importante sparire proprio quando Mrs Prasad sta per chiamarlo a fare i
compiti. Compiti un accidente, lo hai sentito borbottare. Mrs Prasad
chiama, Chottu, Chottuu, Choootttuuuu, con la voce più adirata a
ogni richiamo. Nessuna risposta. Chottu, Chottuu, Choootttuuuu, grida
nella notte scura. Si sente il rumore del traffico e perfino il lieve
sciabordio dell’acqua del Gange in lontananza. Il fiume è ancora
in piena dopo il recente monsone. Mrs Prasad grida ancora, scrutando
nell’oscurità sottostante, col parco circondato dal cemento che
contiene solo qualche cespuglio e dell'erba ormai ingiallita, sulle
macchine parcheggiate intorno si riflette il giallo di due lampadine da
quaranta watt dell’illuminazione stradale, una delle lampadine
è attaccata a un portalampada non fissato e oscilla nella brezza
leggera, gettando ombre furtive su Fiat, Ambassador, Maruti, su
appartamenti con le finestre sbarrate laccate di giallo a basso
voltaggio, come occhi malati d'itterizia, o luccicanti della luce
bianca dei tubi al mercurio.
Senti uno
sfrigolio nell’appartamento di sopra. Mrs Sharma ha gettato cipolle
finemente affettate nel ghee bollente: è l’ultima fase di
preparazione della cena. Presto il tarka sarà pronto e versato
nel daal. Sarà accompagnato dal riso e da un curry di verdure.
Sottaceti. Ci sarà del pappad, forse. Non hai ancora sentito il
profumo del pappad né lo hai sentito sfrigolare. Gli Sharma
mangiano presto.
Mrs Prasad ora
sta chiamando il durban assunto dalla cooperativa del condominio che
alloggia in una baracca accanto al giardino. Il durban risponde alla
quarta chiamata. Ha la voce bassa e impastata: dipende da un primo
bicchere di grog o dello sporco chaddar grigio che si avvolge intorno
al corpo al minimo soffio di aria fredda. Al durban viene ordinato di
andare a cercare Chottu; Mrs Prasad chiude la porta un po’ più
forte del solito.
Fuori puoi
sentire la città, la grande città. C’è il basso
rollio di un aeroplano, uno dei pochi che atterrano nell’aeroporto
locale. Il Gange ora è più forte, perché il rumore
del traffico si è un po’ attenuato. La gente è a casa a
vedere la TV, solo una rara macchina o un camion si fanno sentire negli
appartamenti di quando in quando. Ci sono lontani episodici scoppi di
clacson arrabbiati: qualche strada troppo stretta o ancora intasata.
C’è un disco che suona in lontananza. Sai che si tratta di un
disco perché si incanta di continuo. Probabilmente, pensi, un
primo matrimonio. Veramente la stagione dei matrimoni non dovrebbe
essere ancora cominciata. Quando accadrà, ci sarà una
cacofonia di musiche da film e di futili canzoni pop un po’ volgari,
seguite dalle occasionali esplosioni di protesta da parte di Mrs
Prasad, dalla porta accanto. Mrs Prasad può guardare senza
protestare le stelle del cinema che strofinano insieme le labbra e
spingono i loro bacini vestiti di tutto punto uno contro l’altro, in
una maniera che non lascia nessuno spazio all’immaginazione, ma il
minimo frammento di nudità o di parola oscena la fa arrabbiare.
Senti passi
leggeri ed esitanti che salgono le scale, mentre le chiavi risuonano
contro la ringhiera di metallo.
Gli Sharma sono
già seduti a tavola: c’è il suono metallico delle sedie
pieghevoli spinte al loro posto e dei piatti di alluminio disposti
sulla tavola. La figlia minore ha smesso di ripetere meccanicamente.
La porta di Mrs
Prasad si apre e si chiude.
L’hai già
sentita: lezione di Mrs Prasad su educazione e responsabilità,
su carattere e background, su Carattere e Background; repliche giuste e
svogliate di Chottu. Mrs Prasad usa le parole con le quali deve aver
parlato ai suoi figli, ma le parole che sente Chottu sono diverse.
Forse è il modo in cui sta seduta Mrs Prasad – sul lussuoso
divano comprato da sua figlia l’inverno scorso – e il modo in cui sta a
sedere Chottu, su uno sgabello che di quando in quando senti battere
sul pavimento, come protesta non verbale. Mrs Prasad non vede questa
differenza fra il modo in cui sta a sedere Chottu e come il modo in cui
stavano seduti i suoi figli. Mrs Prasad lo dice per il suo bene. Ha
insegnato a Chottu a sedersi su sedie e sgabelli, ma il loro rapporto
è tale che Chottu non sta mai seduto sul divano senza sentirsi a
disagio. Mrs Prasad parla di Carattere. Qualcosa che lei e suo marito
hanno evidentemente trasmesso ai loro figli come un'eredità.
Chottu sente parlare di carattere, come di una cosa che a quanto pare
è completamente mancata ai suoi genitori e ai loro parenti. Mrs
Prasad dice possibilità, Chottu sente limitazioni.
La predica
finisce e l'appartamento della porta accanto si riempie di calcoli e di
parole pronunciate con sofferenza, intervallate dalle correzioni
taglienti e professionali di Mrs Prasad. Chottu è un ragazzino
intelligente, l'hai sentita quando lo dice alla moglie del Dr Rai dal
piano terreno durante una delle loro chiacchierate all’ora del
tè, mentre Chottu porta il vassoio del tè, eh sì,
un ragazzo molto sveglio, però, mamma mia come diventa ottuso
quando si tratta di leggere e scrivere! Si ricorda mille e una canzone
da film ma non riesce a imparare nemmeno una sola poesia senza fare
errori. Mrs Prasad può attribuirlo solo alla sua mancanza di
background. Il background spiega molto nella cerchia di Mrs Prasad. Il
background è qualcosa che si può prendere solo dalla
propria famiglia, concorda la moglie del Dr Rai mentre Chottu serve il
tè e appoggia un piatto di samosa che ha comprato poco prima
dall’halwai dietro l’angolo. Pensi che in quel preciso momento tutte e
due potrebbero aver dato un occhiata in su, verso l’appartamento degli
Sharma, perché le hai sentite attribuire l’insuccesso delle
figlie degli Sharma quando hanno cercato di intrufolarsi nel celeste
reame del Civil Service alla loro “mancanza di background”. Mrs Sharma
ha uno sguardo da topo ed è analfabeta, vive costantemente
terrorizzata dal mondo esterno e da una provvidenza divina
particolarmente avara. Mr Sharma ha studiato in un paese e poi in un
college di Jehanabad e si è spostato a Patna solo quando ha
avuto il posto. Pochissime persone degli appartamenti più
piccoli hanno un 'background', anche se Mrs Prasad e la moglie del Dr
Rai non sono mai state consapevoli di questa seria mancanza. Nemmeno
quando pensano di aver continuamente a che fare con l'invidia di
persone che avrebbero potuto fare di meglio, ma, come Chottu, non
riescono a sforzarsi come dovrebbero.
È quello
che a volte Mrs Prasad dice a Chottu nei suoi slanci di affetto: Da
grande, Chottu, invidierai a persone come i miei figli l’istruzione che
neghi a te stesso. Ma Chottu non invidia i suoi figli per l’istruzione.
Li invidia perché possono tornare a casa quando vogliono. Li
invidia perché possono tornare a casa carichi di regali.
Gli appartamenti
diventano silenziosi. Gli Sharma hanno mangiato e Chottu, dopo essere
stato sufficientemente istruito per circa un’ora, ha riscaldato il
curry di verdure e ha fatto qualche chappati per sé e per Mrs
Prasad. La TV è accesa in entrambi gli appartamenti e suoni
discordanti filtrano da due direzioni. Provocato da queste musiche, o
forse perché hanno finito di studiare, uno dei sei studenti del
college che hanno preso in affitto l’appartamento di due stanze accanto
agli Sharma mette su Pankaj Udhas. Gli studenti non hanno un
televisore. Hanno un vecchio impianto stereo due-in-uno, nero, che
sembra una scatola e funziona come radio fino a mezzogiorno e la sera a
volte viene usato come un metallico mangianastri.
La notte si fa
più profonda. Sei steso sul tuo letto. Filtrano i suoni di
sempre. Sei disteso sicuro nella precaria conoscenza che questo
è un mondo che ti è noto. I cani abbaiano a gara da una
parte all’altra del vicinato, rombano rari camion, qualcuno canta
fra le braccia della notte – un ubriaco o un operaio che torna tardi –
porte si aprono e si chiudono qua e là nel condominio, il
rubinetto nella cucina degli Sharma non smette di sgocciolare. Se fosse
più freddo o più caldo sentiresti il colpo secco di
qualcosa che si espande o si contrae nei muri.
Le luci si
spengono e qualcuno urla giù in strada. Poi si stende
l’interruzione di energia elettrica come una coperta di silenzio.
Ancora un minuto o due di silenzio più profondo, rotto alla fine
dalla voce acuta di Mrs Rai. Non è ancora mezzanotte e il Dr Ray
non torna mai prima di mezzanotte. A uno dei due servi è stato
ordinato di accendere il generatore e c’è il suono del
meccanismo che si cerca di riportare in vita. Al quinto tentativo si
accende e un lieve mugolio riempie l’edificio. In fondo alle scale un
bagliore leggero si riflette dai muri dell’appartamento di fronte. Un
generatore più grande e più sonoro viene convinto ad
accendersi da qualche altra parte, ma è così lontano che
il suo rombo sordo si confonde col mugolio di quello giapponese
sofisticato di Mrs Rai. La musica da film del matrimonio che era caduta
all'improvviso nel silenzio si rialza, questa volta più forte,
perché altri rumori che competevano con lei sono stati messi a
tacere dall’interruzione di energia elettrica. Il cielo si fa
più scuro. Qua e là gli ululati dei cani sono più
alti e inquietanti.
Gli Sharma e Mrs
Prasad usano lanterne a kerosene durante le interruzioni di corrente
elettrica, anche se per motivi diversi. Quando Mrs Sharma chiede alla
figlia maggiore di accendere la laalten, pensa a quanto risparmia; se
potesse permettersi un generatore, lo luciderebbe tre volte al giorno.
Mrs Prasad grida a Chottu di prendere la lampada solo perché si
è sempre rifiutata di usare il generatore Toshiba che, come
l’enorme TV e l’impianto stereo e la macchina giù sotto,
è stato comprato per lei da uno dei suoi figli, i figli del cui
successo però è così orgogliosa.
Puoi immaginare
la città che cade nel silenzio, da qui lungo Gol Ghar e Boring
Canal Road anche fino a Gandhi Maidan, un posto di giorno così
affollato, ora vuoto e addormentato. Ma no, tu sai che la sospensione
di energia probabilmente non si estende alle zone più alla moda.
Una parte del cielo, vicino al centro della città, riflette
ancora un nube di luce soffusa.
Ma questo
è quando le orecchie cominciano a percepire cose molto fini. Un
fruscio, un silenzio, un colpo. La finestra aperta fa entrare vari
odori, perché questo edificio non è proprio nel centro
della città. Non è tanto lontano dal Gange, un’autostrada
separa questi edifici dal fiume. E la brezza, di cui ora puoi sentire
il sussurro, ti porta dal fiume ricordi inattesi, strani: l’umida
fragranza della terra che solo la gente che vive in terre aride,
nutrite dal monsone, può conoscere e apprezzare davvero, il
profumo improvviso del gelsomino, il persistente odore di
decomposizione, di un corpo che marcisce o di escrementi in riva al
fiume. In questo momento dell’anno non è poi così
sgradevole l’interruzione di energia elettrica e luminosa,
perché non si ha bisogno dei ventilatori.
La luce torna, i
generatori vengono spenti e tu ti addormenti. È un sonno pieno
di suoni. La voce di tuo padre che attraversa dieci anni e tre stati, i
suoni del tuo passato e del tuo presente, la tua realtà e la tua
immaginazione, tutti mescolati con letti scricchiolanti, passi, latrati
dei cani, suoni di camion, tic-tic-tic del rubinetto. Non smetti mai di
ascoltare, anche se hai l’impressione di averli ascoltati tutti. Una
volta ti svegli con l’impressione di aver sentito delle voci intorno a
te, voci basse che complottano, forse hai sentito anche un breve grido;
sei disteso nel tuo letto ad ascoltare e ti riaddormenti senza aver
capito bene.
29 –
Sul bus le voci
di tre o quattro uomini si sono levate sul baccano generale. I loro
accenti sono rozzi e rabbiosi. Discutono di questioni che hanno avuto
con un paese vicino per la costruzione di una diga lungo un corso
d’acqua che fluisce oltre entrambi i villaggi. Gli abitanti dei due
paesi erano arrivati a ferirsi con bombe a grappolo e un uomo era stato
passato da parte a parte con un lathi, anche se non era morto,
fortunato figlio di puttana, i lathi qui fanno più male delle
bombe a grappolo, ma quale paese civile sparerebbe oggigiorno bombe a
grappolo in questo tempo di AK-47, bastardi villani del cazzo,
brontola. Stanno discutendo su quale sia la scelta migliore quest’anno.
Dovrebbero sparare il primo colpo o stavolta sarebbe meglio aspettare?
Le due opzioni sono perfettamente bilanciate. Compratevi uno Sten,
grida, ma non lo sentono, sono troppo impegnati a farsi prediche gli
uni agli altri, e solo le donne a sedere nella sezione dietro la sua
alzano il capo allarmate.
A volte Mangal
Singh ricorda un viaggio per una conversazione ascoltata senza volere,
come questa. A volte una conversazione come questa si mette in corsivo
nella sua memoria.
30 –
Quale
sarà stata la prima volta che ho viaggiato su un’Ambassador, si
chiede Rasmus. Deve essere stata quella prima e unica volta che sono
venuto in India con i miei genitori. Quanti anni avevo? Sette anni?
Otto? Comunque molto piccolo. Siccome l’Ambassador era associata ai
suoi ricordi d’infanzia – e alla memoria vaga di un viaggio così
carico di emozioni – Rasmus provò verso la macchina
un’irrazionale irritazione. Quella specie di sentimento che si nutre
nei confronti della pecora nera della famiglia: senso di irritazione,
disgusto e un'invidia che nasconde il residuo di un affetto
misconosciuto. Da quel viaggio di vent'anni prima sono tante le cose
cambiate in India – anche in una città di provincia come Gaya.
Ma l’Ambassador va ancora. Almeno fuori dalle più grandi
città indiane, dove è stata rimpiazzata da Maruti, Ford,
Honda, Mercedes, molte delle quali fabbricate in India.
Suo padre aveva
intrapreso il viaggio con umore eccellente; era il suo primo viaggio in
India, dopo più o meno otto anni. Suo padre, anche se Hari non
ci crede, era indiano. Aveva cambiato il suo nome in Danimarca da ‘Sen’
a ‘Jensen’, per presentarsi ai colloqui di lavoro. A quei tempi un nome
danese aiutava. Probabilmente era ancora così, pensò
Rasmus, anche se lui, era troppo evidentemente danese nell'aspetto,
nella pronuncia, nell'atteggiamento, per averlo imparato dalla sua
esperienza personale. Aveva preso dal lato materno. Non c’era
praticamente nulla del padre in Rasmus, forse solo il fatto che aveva
capelli scurissimi e nemmeno l’ombra di quel giallo che c’era nella
famiglia di sua madre, e un ‘mister’ che gli tornava quando meno se lo
aspettava, come un fantasma.
Suo padre, in
India il Dr Alok Sen, laureato in economia all’università di
Delhi. Suo padre, il cui nome a Copenhagen alla fine diventò
Alok Jensen – disoccupato, parzialmente occupato, e poi pensionato dopo
soli quattordici anni di lavoro regolare come rappresentante in una
ditta che commerciava in mulini a vento e tecnologie del genere. Suo
padre non aveva ottenuto quel lavoro grazie ai suoi titoli accademici:
parlava sette lingue, cinque delle quali asiatiche: la ditta stava
estendendo il suo mercato in Asia.
Suo padre con i
suoi ghazal e Rabindra Sangeet che Rasmus crescendo detestava. Per
Rasmus, erano suoni di fallimento e debolezza. Odiava in particolare i
ghazal come ‘Woh kagaz ki kashti’, canti melodiosi durante i quali suo
padre dondolava il capo in una specie di estasi nostalgica – e poi alla
fine della sera era ubriaco ed emozionato in modo imbarazzante. Ma
durante quel viaggio in India suo padre era stato diverso. C’era stato
un ritmo nella sua voce, un balzo nel suo passo. Aveva parlato con
tanta
intensità del cibo indiano e dei monumenti indiani che
perfino Rasmus – che aveva sette otto anni e l’indifferenza congenita
dei bambini dei paesi ricchi – perfino Rasmus aveva ascoltato. Ma
questo c'era stato solo nella fase organizzativa. Appena l’aeroplano
era atterrato in India, suo padre era cambiato un'altra volta. Le
folle, la disonestà degli indiani, il caldo, la polvere,
l’inquinamento, il ‘sistema’, i politici corrotti – tutte queste cose
diventarono progressivamente le sue nuove lamentele. Era come se
l’India di suo padre fosse stata rubata dai membri di una cultura
inferiore. La gente per strada, il caldo, le notizie – tutto veniva
considerato da suo padre come un attacco cattivo e premeditato al cibo
indiano e ai monumenti indiani, mister. Barbari, brontolava,
impacchettando generazioni di sentimenti babu in un'espressiva parola
occidentale. Diventò molto peggio quando raggiunsero Ranchi, la
città dove Alok Sen era cresciuto e dove i suoi parenti avevano
posseduto un grande palazzo. Il palazzo era stato venduto anni prima,
ma era sopravvissuto intatto nella memoria di Sen. Era anche stato
riempito nuovamente nella sua memoria. Non era preparato al semplice
fatto che ora il palazzo non c’era più, era stato abbattuto per
far posto a un complesso di piccole abitazioni. Si era aspettato che il
palazzo fosse al suo posto, che ospitasse una famiglia come la sua, una
famiglia con un cuoco della casa col quale Sen avrebbe potuto scambiare
qualche parere. Nelle nuove case c'erano casalinghe o, nel migliore dei
casi, una serva che faceva da mangiare.
I barbari erano
arrivati prima di Sen. Con un unico sinistro soffio non avevano
demolito soltanto i monumenti del suo passato ma anche l’intera
gloriosa tradizione della cucina indiana. L’avevano privato della
possibilità di procurarsi quella risolutiva e inafferrabile
ricetta da un bawarchi locale, la ricetta che aveva cercato invano in
tanti libri di cucina patinati. Rasmus era sicuro che era questa
delusione che spiegava perché i suoi genitori non erano
più tornati in India. Questo e il fatto che Rasmus e sua madre
avevano passato la maggior parte del viaggio nelle toilette e a
vomitare in catini di rame.
L’Ambassador
stava facendo una serie di rumori. ‘Sassuri’, disse Hari, e spinse la
macchina su un lato della strada. Girò la chiave d’accensione,
premette la manopola che apriva il cofano e scese per dare un’occhiata
al motore. Sembrava un problema di poco conto, forse le candele
d’accensione, ma appena Rasmus scese per sgranchirsi le gambe, facendo
commenti taglienti sull’Ambassador e sui meccanici locali, per la mente
di Hari passò un’idea. Un’idea o un pensiero, più tardi
lo avrebbe chiamato così con i suoi amici, intrattenendoli
piacevolmente col resoconto, anche se è chiaro che qualcuno
poteva chiamarlo un imbroglio.
Erano ancora
decisamente lontani da Gaya, ma mancavano pochi chilometri alla
cittadina più vicina, Akbarabad. Dietro di loro c’era una fila
di brulle colline, davanti a loro l’aperta campagna. C'era un grande
campo pieno di girasoli. La polvere della pietra frantumata copriva le
poche costruzioni di mattoni a un solo piano lungo la via.
‘Stoncrush
Dhabba’, diceva un cartello di metallo appeso sul tetto di paglia della
veranda dell’edificio a un solo piano più vicino alla macchina.
Sotto all'indicazione, un cartello più lungo elencava piatti in
Hindi. L’edificio, a parte la veranda col tetto di paglia che poggiava
su file di charpoy, era fatto di mattoni e aveva un tetto pukka.
Metà della parte pukka consisteva in una cucina, mentre il resto
era sistemato con tavoli di legno e sedie pieghevoli. Ma non c'era
nessuno seduto a tavola. Gli autisti e gli operai preferivano stare a
sedere su un charpoy con assi di legno davanti a loro o appoggiate sul
loro grembo con i piatti e le scodelle per il cibo. Che cosa ne sarebbe
stato di tutte le sue teorie da firangi, pensò Hari, se
l’Ambassador si fosse rifiutata di partire? Non sarebbero state
disperse sparse al vento come ghasphus? Hari sridacchiava in silenzio
di questo che secondo lui era un gioco di parole piuttosto calzante.
Che cosa ne sarebbe stato dell’appuntamento con un ministro del governo
statale che Ghasmus-sir sembrava così ansioso di non perdere?
Hari giocava con l’idea mentre trafficava con il motore dell’Ambassador.
Poi gettò
la prudenza al vento, che era diventato una brezza leggera, e si
buttò. Rivolgendosi a Rasmus disse: “Molto ragione voi, sir,
Ambassador-sassuri no-good bekaar ki car, sir. Ora rotta, sir. Non
facile riparare. Grande problema. Vuole tante-tante ore, forse giorno
intero. Cosa fare, sir? Macchina non buona, ragione voi, sir. Cosa
fare?’
Vide il panico
dipingersi sul volto di Rasmus.
31 –
Un largo fossato
coperto di piante di castagni d’acqua, le foglie verdi coprono l’acqua
giallastra. Un uccello, un padda, è immobile come una statua sul
bordo dell’acqua, con la sua livrea striata di bruno come la terra che
nasconde le penne bianche sottostanti e lo fa confondere con la terra,
mentre aspetta, aspetta una rana che faccia anche un minimo errore.
32 –
Ti svegli tardi.
Sono quasi le nove. Ti meravigli di non aver sentito il bhajan stonato
di Mrs Prasad. Lo senti tutte le mattine, che gareggia con i corvi
eppure in qualche modo spande un senso di pace nel vicinato.
L’appartamento
di Mrs Prasad è silenzioso, insolitamente silenzioso, ma il
mondo si sta riempiendo di suoni. Le grida dei venditori di giornali e
di verdure, le contrattazioni dai pianerottoli, il suono dei secchi di
metallo calati con delle corde, secchi con l’importo pattuito da sopra
perché vengano riempiti con gli acquisti ordinati dal venditore
di sotto. Gli studenti hanno la radio accesa; le notizie sono litanie
di fortuna e sfortuna da tutto il mondo. Thella, automobili, voci,
ssciabordii dai bagni, Mr Sharma che compie le sue elaborate e sonore
abluzioni mattutine, Mrs Sharma che frigge puris, vecchie canzoni da
film di Mukesh, Rafi, Lata, canzoni da film più recenti di
qualcuno di cui non ti sei mai dato la pena di cercare il nome, il
suono di una lite da un negozio sulla via, il gracchiare dei corvi: il
mondo suona esattamente come ha sempre fatto, e tu mangi con calma una
sana colazione. Senti quello che hai sempre sentito, suoni che sono
identici pur non essendo mai gli stessi.
Credi di aver
sentito tutto, ma non è così. Non hai sentito il silenzio
nell’appartamento di Mrs Prasad. Ma ne sentirai parlare più
tardi. Il durban dirà a te e tutti gli altri come ieri a notte
fonda tre giovani siano stati fatti salire da Chottu, che sosteneva che
erano parenti venuti dal suo paese che portava a casa di Mrs Prasad per
la notte. Ti dirà come avrebbe dovuto notare se avevano o non
avevano delle borse, perché ha notato le loro grandi borse
quando se ne sono andati al levarsi del sole. Avrei dovuto chiedere a
Chottu perché doveva accompagnare dei ragazzi più grandi
alla stazione dei treni, ti dirà il durban, cercando
disperatamente di essere assolto dalla sua parte di colpa. Ma chi sei
tu per assolverlo, tu che hai sentito tutto ma non hai ascoltato
abbastanza?
Sentirai
dell’arrivo dei figli di Mrs Prasad, tutti tranne quello di Chicago, e
della efficiente rapidità con la quale hanno organizzato la
cremazione. Sentirai resoconti e chiacchiere di testimoni oculari.
Sentirai parlare di Chottu per settimane. Come sia stato visto alla
stazione; come sia stato quasi preso a Gaya quando è sceso dal
treno; come sia stato visto l’ultima volta (aveva con sé un sari
Banarasi mezzo incartato e portava occhiali da sole con la montatura di
plastica) dove si era fermato il pullman privato Gaya-Phansa; come
dovesse essere diretto al suo paese sulla strada da Gaya a Phansa. E
poi potresti sentire che cosa gli è successo su una strada
polverosa, oppure lui potrebbe cadere fuori dalla portata di tutte le
orecchie della città. Ma per qualche settimana tutti i giornali
locali ne parleranno, perché questa non è Delhi. Questa
è Patna, dove i muri sono ancora sottili.
33 –
La sola persona
sul bus che fa fare una pausa agli occhi irrequieti di Mangal Singh
è seduta in un posto della fila davanti. Indossa vestiti laceri
ma puliti, camicia e pantaloni di cotone. Porta occhiali spessi,
cerchiati di nero. È obeso in un modo particolare, liquido, sta
diventando calvo sulle tempie, da tutte e due le parti, la faccia
è gonfia in un modo poco sano. Anche da questa distanza, Mangal
Singh riesce a vedere la forfora sparsa come polvere sul telo scuro che
gli copre le spalle. Sembra in un mondo tutto suo e non è
difficile vedere che l’uomo non sta bene. Per niente bene. Eppure quel
che fa fermare gli occhi di Mangal Singh sul volto dell’uomo per un
oscillante secondo, sono i segni di delicatezza che vi si possono
scorgere. Non necessariamente educazione o istruzione, ma delicatezza:
quella particolare sensazione che si associa a una statua del Buddha,
occhi allungati, volto sereno e amoroso.
Di tanto in
tanto nota un uomo così. E qualche volta una donna. Li scopre
dal modo in cui si tengono a una certa distanza da ogni cosa, connessi
ma non coinvolti. Invidia la loro distanza. Anche quando sono decaduti
– e gli abiti di questo indicano una caduta di qualche genere, una
caduta verticale, se lui sa giudicare bene la cosa, e lui sa giudicare
le cadute, ne ha avute più della parte che gli spettava – anche
quando cadono sembra che lo facciano così, con un movimento
lento, come se il suolo non potesse mai realmente ferirli. È una
cosa che lui non è mai riuscito a coltivare. Tutte le volte che
cade, le sue mani si agitano da tutte le parti in cerca di un corrimano
da afferrare. Lui cade a peso morto.
34 –
E ora potevo
sentire nel corridoio l’odore di Zeenat. Ero stato a fare una visita ai
miei vicini. La scuola era chiusa per l’inverno, lasciandomi più
sere libere e una scusa per gironzolare nel vicinato dove ci si
conosceva più o meno tutti. E così, non perdevo nemmeno
un'occasione che mi fornisse una scusa per andare a trovare i miei
vicini dopo quella volta che avevo scoperto Zeenat che prendeva il sole
col suo sari giallo sbiadito, le braccia nude e piegate a pettinare i
lunghi capelli scuri.
Quella sera
l’avevo vista uscire ed ero andato via appena potevo farlo senza
sollevare sospetti, con la speranza di cogliere un suo sguardo mentre
uscivo. Avevo la sensazione che mi avesse guardato per tutta la sera,
mentre serviva il tè e i nimkis, mentre portava via i piatti. In
quel periodo della mia vita avevo sempre una sensazione di quel genere,
e non solo con Zeenat. Avevo sedici anni, età di vaghe
sensazioni romantiche. Non avevo idea di cosa sarebbe successo se
l’avessi incontrata nel corridoio o lungo le scale. Probabilmente
nulla. In passato l’avevo incontrata tante volte nel corridoio o per le
scale. Non era successo nulla a parte la sua lotta lenta e decisa che
metteva al tappeto il mio sguardo, un’azione che richiedeva uno o due
secondi, ma che sembrava il tempo di tutta una vita e mi lasciava
ansimante, senza respiro.
Il suo odore si
fece più intenso. Girai l’angolo e la vidi seduta sul pavimento
all’altro capo del corridoio, proprio davanti alle scale, appoggiata
contro il ruvido muro imbiancato. Alzò gli occhi, catturò
il mio sguardo e lo mise al tappeto. Era tutto troppo prevedibile. Ma
poi, mentre le passavo accanto, con lo sguardo fisso sul pavimento
davanti ai miei piedi, sentii che i suoi piccoli piedi si muovevano. Un
istante dopo stavo cadendo, ma lei si era già mossa e mi aveva
preso prima che toccassi terra. Lei era più bassa di me –
più piccola di quasi due spanne – ma abbastanza forte da reggere
il mio peso e rimettermi in piedi. Le sue braccia mi circondavano, lei
mi sorreggeva circondandomi la spalla destra, e mi sostenne per qualche
secondo più del necessario. O era solo quel che fantasticavo? Si
profondeva in scuse per avermi fatto inciampare. Mi sono scivolate le
gambe, diceva.
Scesi le scale
di corsa dopo averla rassicurata che non c’erano problemi. Le sue mani
erano ancora su di me; il suo odore mi si stringeva intorno mentre
scendevo le scale senza luce. Avevo raggiunto il fondo quando la sentii
dire, Cosa? Mi voltai. La sua silhouette si stagliava contro
l’illuminazione al mercurio in cima alle scale. Il suo corpo – pieno e
sodo – si disegnava nelle trasparenze del sari. Cosa?, disse ancora, e
cominciò a scendere le scale. Avevo la gola asciutta. Mormoravo
una risposta.
Non ti ho
sentito, Irfan babu, disse, venendo un po’ più vicina. Ora ci
separava solo uno scalino. Dicevi qualcosa? Mi chiese.
Cercando di
restare calmo, cercando di controllare il mio respiro, le risposi
onestamente: no.
No, Irfan babu,
ripetè, facendo un altro passo verso di me in modo che i nostri
corpi tornavano a toccarsi, no?
Quando la cinsi
con le braccia e la baciai goffamente, non fece obiezioni. Il suo odore
era entrato in quella parte profonda della mia anima dalla quale nulla
può essere più cancellato. Sarebbe rimasto lì per
tutta la mia vita, e al momento non m'importava quello che dicevano di
lei. Scostumata? Puttana? Per sentire il suo tocco su di me, per
sentire il suo calore pieno, sarei andato contro tutte quelle lingue.
Lasciai che le
mie mani andassero a toccare il suo seno. Un po’ mi guidò e un
po’ mi spinse pochi metri più in là, sulla porta della
sua camera. Mi resi conto a malapena che ci stavamo muovendo. Non
sapevo se c’era qualcuno a guardarci. O forse sapevo che non c’era
nessuno, perché ricordo di aver osservato il suo sguardo che
scrutava intorno a noi.
Stando
nell’oscurità sbilenca della sua porta, si spinse più
forte contro di me. Diventai più audace e misi la mano a cingere
il suo seno. Fu allora che sentii che mi scioglieva i lacci del pyjama.
Era un’azione inattesa. Era troppo: andava oltre i confini di quel che
mi ero concesso di immaginare. Portò l’eco delle voci dei miei
genitori. Portò un’immagine che avevo colto dal tetto e che non
avevo mai capito: il vecchio guidatore del risciò che una sera
lasciava la camera di lei, guardandosi intorno come se avesse rubato
qualcosa.
Cercai di
respingere la sua mano con la sinistra, mentre la mia destra continuava
a circondare il suo bel seno. Ma lei rise, un riso breve, di scherno,
considerandolo un gioco della reticenza iniziale di un ragazzo, e
fermandomi facilmente il braccio che faceva ostacolo con una mano, mi
slacciò il pyjama e cominciò ad accarezzarmi il pene. Il
suo tocco era allo stesso tempo rozzo e delicato, era incredibilmente
piacevole e terribilmente esperto. Il suo odore era concreto come il
suo tocco. Sei pronto, disse un po' sorpresa.
Fu quando mi
lasciò andare per accovacciarsi sul pavimento e sollevarsi il
sari che raccolsi le stringhe del mio pigiama e fuggii dalla stanza. Il
giorno dopo trovai una scusa per andare a trovare dei cugini a Patna,
pensando che la distanza mi avrebbe fatto uscire il suo odore
dall’anima. Zeenat partì poco dopo, a quanto si dice
perché una notte la vecchia zia scoprì il nipote avvocato
che sgattaiolava fuori dalla stanza di Zeenat. Ha preso un bus privato
per Phansa, disse il vecchio conduttore di risciò, che a quanto
pare aveva visto tutto, partendo così di fretta che era corsa
dietro a un bus in partenza, tenendo il bambino con un braccio e un
fagotto con l’altro, senza l’aanchal sul capo, gridando da quella donna
dozzinale da due cowrie che era. Per sua fortuna, aggiunse il guidatore
di risciò sputando sulla ghiaia, per sua fortuna, il bus si
è fermato.
Ma quella
sull’avvocato era una maldicenza alla quale rifiutai di credere.
Dopo essere
tornato da Patna e aver saputo che Zeenat era partita, continuai per
settimane a sedermi sul tetto della casa dei miei genitori, guardando
giù nel cortile della casa dell’avvocato. C’era chi attraversava
il cortile, a volte il vecchio coriaceo guidatore di risciò in
lungi e camicia, a volte le figlie dell’avvocato in shalwar-kameez, a
volte anche la zia baffuta con un vestito di cui non so il nome. Ma non
c’era più Zeenat a sedere nel sole, col sari tirato su, le gambe
scoperte fino al ginocchio, il suo bambino piagnucoloso a giocare per
terra. Ora per me il cortile era desolato, più di quanto fosse
mai stato, e non sarebbe stato mai più colmato con la
possibilità di un’altra vita.
Puoi liquidarla
come un’infatuazione adolescenziale. Ma ancora oggi quando sono a letto
con donne più belle e più colte di Zeenat, donne che non
hanno bisogno di invisibili permessi di lavoro per entrare nello
stretto paese del mio amore, il motivo per cui sono molto riluttante a
respirare la loro fragranza è che il mio essere è ancora
pieno dell’odore di Zeenat. È un odore che non mi ha mai
lasciato.
Quello, e le sue
piccole risa di scherno che riempivano i corridoi delle case perdute
del nostro passato.
35 –
Chi era quello
che una volta glielo aveva detto, un viso addormentato non ha mai la
stessa età di quando è sveglio?
Alcuni
passeggeri sonnecchiano. Poggiano il capo sulle braccia o sulla
spalliera del seggiolino di fronte al loro o sul vetro e dormono un po’
a singhiozzo. Se si addormentano davvero – per cinque o dieci minuti –
il loro viso cambia. Cominciano a sembrare diversi. Un viso
addormentato non ha mai la stessa età di quando è
sveglio. Sembra più giovane o più vecchio, più
ricco o più povero, più felice o più triste,
perduto o ritrovato.
Quando si
svegliano di soprassalto a volte sono segnati da quel che ha premuto
sul loro viso, pieghe tracciate dal bordo del finestrino o dal
rivestimento del sedile, ancora mezzi avvolti dal sonno. Mangal Singh
riconosce i modelli di queste pieghe alle fermate, quando può
guardarsi intorno e passare in rassegna quelli che sta conducendo alle
loro varie destinazioni, con tutte le loro storie separate che solo in
quei pochi momenti si fondono in una sola storia di sonno e di viaggio,
un romanzo di viaggio, pensa, e ride, facendo di nuovo trasalire le
donne e per rassicurarle questa volta preme un dito contro una narice
cercando di espellere il muco sulla strada che corre. Questa volta non
gli riesce proprio bene: il muco sgocciola lungo la fiancata del bus e
gli tocca strofinare la mano sull’asciugamano.
36 –
Rasmus si
è trovato a gridare senza accorgersene.
“Come può
succedere? Non ti do una bella somma per la manutenzione, mister? Che
razza di autista sei? Non riesci a riparare questo dannato rottame?
Questo può succedere solo con una macchina indiana e un autista
indiano! Nessun senso del tempo, assolutamente nessun senso del tempo.”
A tutto questo
Hari ha risposto umilmente contrito. Si è offerto di andare al
dhabba a prendere una coppa di chai per Rasmus, mentre lavorava a testa
in giù, il corpo mezzo sotto il cofano, sul motore
dell’Ambassador. Rasmus ha gridato un po’ più forte, poi ha
preso la sua valigetta ed è andato allo Stoncrush Dhabba dove si
è comprato una Coca tiepida. Ha mandato all'Ambassador il
ragazzino che serve nel dhabba – lavoro minorile, come sempre, ha
borbottato in Danese – con un bicchiere di chai per Hari. Può
anche essere in India, ma non ha assunto l'aria di superiorità e
l'indifferenza dei datori di lavoro indiani. Non mangia e non beve
senza offrire qualcosa anche al suo dipendente.
È passata
un’ora; Rasmus riesce a sentire la luce del sole che batte sempre
più a perpendicolo, sta quasi per bucarlo attraverso il cappotto
e la camicia di cotone stirata e inamidata. All’inizio il sole lo ha
colpito in questo modo – con la sensazione di punture di spilli o di
spine. Hari stava ancora lavorando alla macchina, per quasi tutto il
tempo con la testa sotto il cofano, urlando imprecazioni contro la
macchina in uno stile che Rasmus trovava un po’ troppo teatrale.
Dopo aver
sorbito la sua seconda Coca con una cannuccia di paglia, per la prima
volta da quando era bambino – era tipico che avessero cannucce di
paglia, qualcosa che lui credeva fuori mercato da decenni – mentre
sorbiva la sua seconda tiepida Coca, ha sentito l’orologio nella sua
testa che batteva colpi sempre più forti. Faceva
tic-tac-tic-Tac-Tic-TAC-TIC-TAC. Anche la valigetta sembrava sempre
più pesante. Vedeva la strada sempre più polverosa e
trafficata. Non c’era altro da fare. Doveva prendere il primo bus per
Phansa che passava di là. Hari in passato era stato un meccanico
e un autista affidabile, almeno fino a un anno prima, e se diceva che
la macchina era rotta voleva proprio dire che era rotta. Non poteva
correre il rischio di aspettare che fosse riparata. Non poteva perdere
l’appuntamento col ministro. Stavolta la sua permanenza in India si era
protratta al di là di ogni previsione; il progetto aveva
continuato a impigliarsi in dettagli burocratici. Doveva andare
all’appuntamento col ministro, o avrebbe rischiato di restare qui anche
il prossimo anno. Un'orribile prospettiva.
Guardò
lungo la strada. C’era qualche macchina e qualche camion che passava,
ma non pensava che gli avrebbero dato un passaggio. E poi aveva con
sé troppi soldi – Rasmus alla fine dovette usare questa parola –
aveva proprio troppi soldi nella valigetta per viaggiare fuori da una
linea regolare. In una zona come questa, aveva bisogno della sicurezza
che viene dal numero. Aspettò. Aspettava più o meno da
quindici minuti quando lo vide. Un bus, dipinto con colori sgargianti,
luccicante di metallo e cromature, con disegni floreali intorno al
tetto... naturalmente un bus privato, non governativo. ‘SPEED’ e ‘50
KM’ erano le scritte sui due lati della griglia del radiatore. Dalla
sua parte, Rasmus riuscì a leggere ‘PURAB TRAVELS’ dipinto in
rosso, e sotto i numeri di telefono in caratteri più piccoli.
Rasmus si mise a correre verso la strada, gridando ad Hari di riparare
quella stupida macchina e di portarla alla pensione di Phansa.
Sventolò il braccio, il bus sembrò esitare e poi
rallentò e si fermò. Sapeva che si sarebbero fermati per
farlo salire. Potevano farlo pagare di più.
37 –
A questa fermata
fa una curva di 180 gradi, e controlla quelli che trasporta dalle
sbarre che somigliano alle matite e separano il suo settore dal resto
del bus. Il bus con i suoi sedili scadenti, rivestiti di plastica,
alcuni strappati, la cordicella di metallo che pende accanto alla porta
d’entrata e di uscita, il finestrino rotto sulla sinistra, il posto
delle donne dietro di lui, il firangi aggrappato alla sua valigetta, il
gruppo dei paesani che litiga sui diritti per l’acqua, il ragazzo che
porta un sari col quale proprio ora sta parlando Rameshwar, gli uomini
più vecchi col segno della casta sulla fronte, gli altri
passeggeri, prevalentemente maschi fra i trenta e i quaranta.
Con questo
rituale Mangal Singh, con questa lenta carrellata sui visi dei suoi
passeggeri, li immagazzina nella mente, li mette in corsivo,
perché gli ricordino questo viaggio.
38 –
Vilaspur
è una fermata di appena due minuti sulla strada
Gaya-Akbarabad-Phansa. Però qualche volta ci vuole di
più, perché la fermata del bus di Vilaspur non serve solo
i pendolari del posto ma anche quelli di altri quattordici paesi delle
vicinanze. Nella prima settimana d’estate, dopo Holi, per esempio,
quando i campi sono spogli e ispidi di stoppie e le messi sono state
già accatastate o vendute, si può trovare a Vilaspur una
folla vera e propria che aspetta il nostro bus. È quando i
piccoli contadini e i braccianti senza terra lasciano il mufassil per
cercare lavoro a Gaya, Phansa o Akbarabad. Una calca di uomini
malvestiti, molti più scuri di me, che puzzano di sudore e
sterco bruciato, stringendo i loro beni avvolti in sporche gamchha o in
vecchi sari. Di solito sono diretti a Phansa, la città
più grande di questa parte dello stato, dove alla fine dormono
sui marciapiedi. Nelle notti d’estate, i marciapiedi della stazione e
le pensiline dei bus a Phansa sono piene di queste figure ammassate. I
più fortunati trovano da portare regolarmente una thella o un
risciò; i meno fortunati vanno in giro a cercare lavori
‘giornalieri’, radunandosi tutte le mattine sotto la torre della
città con la speranza di essere presi da un appaltatore. Tanti,
tanti di questi uomini tornano dalle loro donne e dai loro bambini, che
hanno lasciato nei villaggi, quando le prime nuvole del monsone
scuriscono il cielo meridionale e il vento porta un odore caldo, umido,
come quello di uno scialle indossato da una giovane madre. Tornano per
arare le loro strette strisce di terra frazionate, o a piantare e
seminare per i contadini più ricchi e per i proprietari benaami.
Nelle stagioni
della semina e del raccolto, fanno quello che hanno fatto fin da quando
sono nati. Lavoro nei campi. Faticate da contadini. È quando
sembrano più felici. Quanto a me io sono un cittadino – nato a
Gaya, ho lavorato a Phansa, Hazaribagh, anche a Patna. Devo dire che
non condivido né capisco questo amore per mettere radici fra i
cespugli, vangare la terra, litigare per i canali d'irrigazione. Non
parlano d'altro, neanche mentre vanno o tornano da Phansa. Ma si sa che
le terre si restringono e si guadagna sempre meno a lavorare la terra.
Per questo ogni anno qualcuno non torna. Tirano avanti in qualche modo
a Phansa, trainando risciò, coltivando giardini privati,
lavorando nei cantieri edili o come persone di servizio, e cercano di
risparmiare quanto basta per tirare su una jhuggi perché la
moglie e i bambini possano raggiungerli. Alcuni vanno in giro in altre
città più grandi – Patna, Kalkutta, perfino Dilli. Le
famiglie di molti di questi bighelloni continuano ad aspettare nei
vecchi villaggi, qualche volta dimenticate e ignare di dove si trovi
l'uomo, più spesso vivendo con i miseri vaglia che ricevono da
lui. Ne ho visti tanti di questi uomini – gli uomini che salgono sul
mio bus e ritornano col mio bus, un po’ più magri e con segni
più scavati intorno alla bocca e agli occhi; gli uomini che si
fanno raggiungere dalla famiglia, la moglie che porta un bambino e un
fagotto con tutto quello che possiedono, i genitori anziani impauriti
dalla prospettiva del cambiamento; l’uomo che s’imbarca sul mio vecchio
gaadi, un bus privato, e sparisce, le mogli e le figlie che a volte
vengono alla fermata del bus e stanno là con gli occhi
spalancati. Li ho visti tutti. Li ho fatti salire urlando: “Pullman
espresso privato –
Gaya-Chaakand-Bela-Makhdumpur-Tehta-Dhoda-Akbarabad-Janbagh-Sherpur-Vilaspur-Phansa
... Gaya-Phansa payn-tees rupya, payn-tees rupya, payn-tees rupyaaa!” A
loro ho venduto i biglietti, con loro ho spettegolato, litigato,
qualche volta mi sono anche accapigliato con loro quando cercavano di
pagare meno o di viaggiare gratis. Sono dei dehaati incivili, credete a
me, che cercano sempre di risparmiare un paisa. Devi stare attento con
loro, anche se sembrano stupidi o analfabeti. Sono spesso stupidi, per
dire la verità, ma possono essere estremamente ostinati quando
si tratta di soldi. Li ho traghettati tutti alla loro destinazione, ho
aperto loro la strada battendo la palma della mia mano sul corpo
metallico del bus, gridando a carretti e macchine di levarsi dalla
nostra strada. Il clacson del nostro fedele gaadi è spirato in
pace due anni fa – ora dà, tutt’al più, un gracidio roco
come quello di un rospo – e il maalik non si è mai preoccupato
di farlo riparare. L’autista porta un fischio di metallo, attaccato al
collo con una catenella. Lo suona quando ne ha bisogno. Suppongo che
l’autista, Mangal Singh (e prima di lui Pandey, che non usava nemmeno
il fischio), avrebbe potuto far riparare o cambiare il clacson. Dopo
tutto, Mangal Singh è cugino del maalik o comunque è un
suo parente – ma alla fine chi lo sente un clacson? O anche un fischio,
a che serve? Hai bisogno di un khalaasi, un bigliettaio, che si sporge
dallo sportello, batte sulla lamiera e grida: “Via dalla strada,
attento, attento! Sei sordo o cosa? Arré, tu, disgraziato di un
risciò!”
Quello è
il mio lavoro. È quello che faccio lungo tutti i centoundici
chilometri da qui a Phansa e lungo tutti i centoundici chilometri al
ritorno.
39 –
Le distanze sono
relative. Lo sa ormai da anni – come un chilometro possa allungarsi per
ore o lasciarti una cicatrice nell’anima, e come un altro chilometro
possa balzare nel passato in un attimo, evaporando come uno sbuffo del
tubo di scappamento. Nei giorni in cui leggeva ancora romanzi –
Premchand, Renu, Amritlal, Nagar, Nirmal Verma – in quei giorni di
solito osservava come gli scrittori dedicavano pagine intere, e anche
capitoli, a uno spazio nel quale tracciavano la narrazione mentre un
altro spazio lo saltavano con una frase appropriata.
Ma poi, lo sa,
ci sono distanze che si misurano per tutta la vita. Lui comunque lo sa.
Come Sunita, che ora ha il fiato corto, non sa parlare d’altro che di
proprietà e di bambini, come Sunita che fa quei dieci o undici
passi dalla porta di cucina per portargli una tazza di tè. Viene
sempre fuori a portargli il tè e si informa sulla sua salute –
tiene molto al dovere e al decoro – ma lui sa che non ascolta cosa le
dice lui, potrebbe affermare di essere morto e lei darebbe sempre la
stessa risposta estraniata, sì, sì, Dio è buono,
perché in cuor suo sta già ritornando in cucina dove
l'aspettano ben altre cose da fare, nell'ordine casalingo che è
il suo.
Certe distanze
sono rapporti, pensa, e cambia brutalmente la marcia.
40 –
La vecchia si
concesse una pausa nel racconto della sua storia della divisione. Bevve
un po’ d’acqua da una borraccia e guardò dal finestrino con le
sbarre di metallo. C’erano qua e là paesini e colline, palme da
grog in lontananza e un paio di bambini che defecavano sul pendio lungo
i binari che correvano paralleli alla strada. Tutta la scena era
soffusa da un senso di povertà; copriva gli alberi e i campi
come la polvere che si era depositata sul bus. Dal modo in cui guardava
il paesaggio, avreste pensato che le ispirasse un ineffabile terrore.
Forse conteneva qualcosa che lei voleva che suo figlio e i figli di suo
figlio non conoscessero mai, tutti quei ricordi e quelle paure di
deprivazione che la facevano rifuggire dal viaggiare in taxi e dal
comprare un’automobile perfino nella sua vecchiaia agiata.
Ma, sorella, ora
sembra che ne siate uscita proprio bene, con la bontà di Dio
misericordioso, disse la donna col purdah.
Tutte le donne
stavano ad ascoltare il racconto della vecchia. Solo la ragazzina con
la coda di cavallo aveva lo sguardo fisso al finestrino, sui campi
quasi secchi che vacillavano, i campi grigi che a volte stringevano in
pugno un poggio grigiastro o salivano fino a un villaggio ingrigito, a
capanne rannicchiate una accanto l’altra, a un’eruzione di terra. Ora
il sole era più forte e il bus colmo di odori corporei. Era un
caldo sole invernale, abbastanza caldo da far sentire qualcosa di umido
sotto al colletto, non abbastanza caldo da farti sudare vistosamente.
Questo è
vero, riprese la vecchia. Ma questo successe più tardi. Ci demmo
da fare per ottenere i documenti di proprietà di quella parte
della casa che occupavamo da sette anni. A quel tempo mio marito aveva
imparato a conoscere il commercio al dettaglio dall'a alla zeta.
Venimmo a sapere che c’era un negozio di abbigliamento in vendita a
Phansa. Avevamo cercato qualcosa di quel genere. Non potevamo
permetterci nulla a Delhi, ma a quel punto potevamo permetterci di
comprare un negozio in una città più piccola. Anche se
non avevo voglia di lasciare Delhi per andare in uno stato dove c’erano
pochissimi Sindhi e Punjabi, mio marito vendette immediatamente la
nostra parte della casa di Delhi e comprò il negozio a Phansa. E
così siamo venuti qua, sorella, e, per grazia di Dio, da allora
ce la siamo sempre cavata bene. Se siete di Phansa, forse avete sentito
parlare del nostro negozio: Vaishali Suitings and Garments.
Allora è
vostro, madre!
Ora è di
mio figlio. Io sono vecchia. Perché dovrei possedere qualcosa e
aumentare il peso che mi tiene attaccata a questa terra? Come dice la
Bhagwad Gita –
È un
negozio molto importante, disse la donna che aveva fatto
l'esclamazione, senza rivolgersi a nessuno in particolare,
interrompendo con la sua eccitazione perfino una citazione dalla Gita.
Uno dei due più grandi negozi di abbigliamento di Phansa!
È il
più grande, disse la vecchia, con rapido orgoglio. O almeno lo
era quando era c'era ancora mio marito. Ma Vijay è troppo
giovane e si contenta di quel che ha. Oh, è un bravo uomo
d’affari, mio figlio, ma non vuole stare in negozio più di otto
o nove ore. Questa è la differenza: lui non ha avuto bisogno di
lottare né di risparmiare. Anche quando eravamo poveri – a
parte i primi due anni – non gli abbiamo mai negato nulla di cui
avesse veramente bisogno.
Allora dovete
essere Mrs Mirchandani, continuò la donna che aveva fatto
l’esclamazione.
Mrs Mirchandani
sorrise con un certo regale distacco, mentre tutte cercavamo di non
battere il capo contro il soffitto, dato che il bus aveva preso un
dosso artificiale con più disinvoltura del solito. Alcuni
passeggeri gridarono all’autista di rallentare.
Ahh... disse la
donna che aveva fatto l’esclamazione, dopo che le cose – escandescenze
e passeggeri – erano andate a posto. Aveva lo sguardo appannato che le
eroine dei film assumono quando si trovano per la prima volta davanti
all’eroe o si rivolgono a Dio con una preghiera. Evidentemente il nome
Mirchandani era piuttosto importante a Phansa. Phansa è una
piccola città, ed essere un prosperoso uomini d’affari non vuol
dire che si è milionari. Ma vuol dire una vita agiata e quella
forma di rispetto che in una città di provincia può
ispirare anche chi è non è poi tanto ricco.
Ditemi, sorella,
chiese un’altra donna, che ora sembrava molto curiosa, è vero
che vostro figlio sta per sposare una schoolmasterni anglo-indiana?
Oh, sono
arrivate anche da voi questa chiacchiere? Disse Mrs Mirchandani, senza
la minima sorpresa o irritazione. Enfatizzò la parola
‘chiacchiere’.
Vijay è
sempre innamorato di questa masterni con i capelli appuntati o di
quella doctorni con il decoro appuntato/spuntato. Viene a dirmi:
Mummyji, voglio sposare quella donna in gonna o quell’altra in
pantaloni. Che ne pensi? E io gli dico, ma certo che puoi sposare
quella brutta donna dozzinale. Con quei capelli corti, sembra un uomo,
ma la puoi sposare comunque. Basta che tu aspetti che io muoia.
Di questi tempi,
sorella, gli uomini giovani sono fatti così.
No, no, il mio
Vijay non è così. Sono sicura che non sposerà mai
nessuna senza la mia approvazione. E non è che io voglio che si
sposi secondo la casta. I tempi sono cambiati e io accetterei una
ragazza di un'altra casta, purché non ci sia troppa distanza.
Voglio dire che ci devono essere dei punti d’incontro. Un cigno non
sposa un corvo. Non è che deve essere una Sindhi o venire dal
Sindh o dal Punjab, ma deve essere di buona famiglia, possibilmente
Bramina, o almeno Rajput. E dovrebbe essere in grado di diventare una
buona moglie. Ora, se Vijay scegliesse una donna carina e rispettabile
come questa ragazza – indicò me – io non avrei da fare
obiezioni. Ma lui sceglie sempre queste specie di firangi dozzinali,
con così pochi capelli in testa e ancor meno buon senso. Donne
che lavorano, oltretutto.
Mrs Mirchandani
si voltò verso di me e domandò, Ma perché viaggi
da sola, figlia mia? Tuo marito non pensa che ti dovrebbe accompagnare?
Come ti chiami?
Risposi
cominciando dall’ultima domanda: il mio nome. Diedi il nuovo nome che
avevo assunto per levarmi di dosso Iskander Mian. Una volta Farhana,
ora Parvati: non me ne importava affatto. Erano tutti pseudonimi adatti
a oscurare, per una ragione o per l'altra, la mia identità, il
mio vero nome.
Poi spiegai che
non ero sposata.
A maggior
ragione non dovresti viaggiare da sola. Sei una ragazza carina e
rispettabile, dovresti stare attenta. Ai miei tempi non viaggiavamo mai
da sole, no, nemmeno quando andavamo alle scuole inglesi, disse Mrs
Mirchandani.
Fu allora che
vidi l’opportunità di reclutarla dalla mia parte. Non avevo
piani a lungo termine. Non mi aspettavo niente di più che un
contatto utile, o, al massimo, un aiuto per trovare lavoro in un posto
nuovo. Era una vaga ipotesi, appena la scintilla di un’idea, ma decisi
di prenderla al volo. Giuro che nel preciso momento in cui l’idea ha
preso forma nella mia mente ho sentito il roco scoppio di risa e di
tosse del nostro vecchio suonatore di tabla e maestro di musica.
Non ho nessuno
al mondo, madre mia, risposi, e in un certo senso era vero. Sono
completamente sola, una rifugiata del Kashmir.
La vecchia
dimenticò all'istante tutti gli altri passeggeri e si
concentrò su di me. La parola ‘rifugiata’ bastava a suscitare
tutto il suo interesse e la sua simpatia. Mi fece diverse domande e
nelle due fermate successive imbastii una ricca storia nella quale la
mia famiglia Kashmiri indù (Pundit) veniva attaccata e
sterminata da fondamentalisti islamici. Mio padre, ferito a morte, era
fuggito con me ed eravamo arrivati a Delhi. A Delhi era morto, e da
allora io avevo girato qua e là cercando un impiego adatto e
decoroso. Alla fine della mia storia piansi. E ripetei il racconto
delle atrocità commesse dai musulmani contro la mia famiglia.
Potevo sentire come la donna col purdah si agitava, a disagio per la
mia storia cruenta, ma avevo capito che il modo per conquistare tutta
la simpatia di Mrs Mirchandani era di evocare lo spettro della
crudeltà islamica. Faceva appello alle sue paure e ai suoi
pregiudizi più profondi, mentre la mia storia di perdite e
privazioni suscitava la sua simpatia e il suo affetto. Quando il bus
arrivò alla polverosa affollata Achbarabad avevo raggiunto il
mio scopo: Mrs Mirchandani mi aveva preso sotto le sue ampie ali. Aveva
allungato una mano esitante fino alla mia spalla e l'aveva toccata,
qualcosa tra una pacca e una stretta rassicurante. Asciugandosi una
lacrima all’angolo dell’occhio, aveva detto, Tu non sei più
sola, figliola. C’è tua madre con te.
41 –
Come, pensa
frenando lentamente per parcheggiare il bus su un pezzo di terra
accidentato, come le relazioni definiscono le distanze. Come puoi
allungare un braccio e toccare qualcuno, e all'improvviso, per un
istante, le centinaia di chilometri che separano due esseri umani si
dissolvono. Come quando la vecchia, quella alla quale Shankar leccava
il culo, quella vecchia quando toccava quella ragazza con i capelli
lunghi qualche fermata prima. Quali enormi distanze possono dissolversi
a volte con un gesto così piccolo – un gesto, come toccare la
spalla a qualcuno, oppure, oppure, oppure porgere a qualcuno una tazza
di chai con un sorriso e con qualcosa di diverso dalla solita domanda
che si rivolge per buona educazione.
Basta, si dice,
basta, ho altro da pensare. E ancora una volta comincia a osservare il
mondo, ancora una volta riprende la sua ricerca dell’immagine con la
quale ricorderà questo viaggio. Può vedere di lontano la
piccola fermata di Vilaspur: eccola là, da una parte un’eruzione
di terra e mattoni dove gira la strada, e dietro altre costruzioni di
terra e mattoni, il largo paese di Vilaspur che svanisce lentamente
nell’uniformità dei campi verdi e grigi tutti intorno.
42 –
Sembrava che Mrs
Mirchandani volesse dire di più, ma in quel momento il bus si
fermò con uno scossone, esattamente al centro del nulla, e dopo
qualche istante salì un firangi, attaccato a una valigetta di
vera pelle marrone scuro. Tutti si voltarono a guardare, non era quel
genere di firangi, il genere hippy, che a volte viaggia scomodo su bus
e treni locali. Non ho mai capito perché, ma lo fanno. Era del
genere che viaggia solo nei taxi con l’aria condizionata. Per un attimo
rimase lì impalato con un'espressione perplessa, come se fosse
sul punto di riscendere di corsa. Non c’era ovviamente nessun posto
libero per lui, ma il bigliettaio fece gli occhiacci a un paesano
seduto accanto a noi e lo fece alzare. Tu scendi alla prossima fermata,
no? Disse al paesano. Dopo una breve esitazione il firangi si
accomodò in quel posto. Si sistemò la valigetta fra i
piedi, stringendola bene con le ginocchia, probabilmente per timore che
dei ladri la prendessero e scappassero. Su un bus come questo la
maggior parte dei passeggeri dovettero sembrargli potenziali ladri.
Pareva che la
sua auto si fosse rotta e che lui avesse in mente di scendere ad
Akbarabad, che era a pochi minuti di distanza, per prendere un taxi.
Credo proprio che tutti noi avremmo potuto dirgli che non sarebbe
riuscito a trovare un taxi ad Akbarabad. Non ci sono taxi ad Akbarabad.
Ci sono solo alcuni autorisciò, scooter a tre ruote
sovraccarichi di paesani che portano latte in bidoni di metallo e
galline in gabbie di ferro. Qualche volta ribaltandosi finiscono in un
fosso ma nessuno si fa veramente del male.
Ci fermammo ad
Akbarabad vicino a una fila di dhabba affollati, con le mosche che
ronzavano anche in questo periodo dell’anno. Fili elettrici si
incrociavano sopra le teste, probabilmente i soli a indicare che
ufficialmente Akbarabad è una città. Autorisciò,
trattori, risciò, thella, carretti tirati da muli dall’aria
stanca, la macchina che passava strombazzando impaziente, biciclette,
gente, tutti fluivano intorno al bus. Due venditori ambulanti – un uomo
e una donna – avevano steso dei teli di plastica sul bordo della strada
e offrivano ristoro a diversi tipi di clientela. L’uomo vendeva uova
sode, affettate e guarnite di spezie, fettine di cipolla salate, e la
donna stava friggendo makhana su un piccolo fornello e lo vendeva in
coni di carta.
Ci fermammo per
un quarto d'ora almeno. Un mendicante cercò di salire sul bus,
ma fu scacciato dal bigliettaio e dal ragazzo delle pulizie. Questo non
è un bus phokat ka gavernmint, gli gridarono. Più tardi
il bigliettaio andò a prendere un piatto di samosa – due samosa
inzuppate nel chutney verde – per Mrs Marchandani. Non le permise di
rendergli i soldi. Lei divise le samosa con me.
Il firangi era
stato tutto il tempo fuori dal bus, probabilmente a cercare un taxi, e
quando il bus si rimise in moto non era ancora tornato. Ma poi lo vidi
issarsi a bordo, con l’aria molto demoralizzata, ancora stretto alla
sua valigetta. Il bigliettaio gli aveva tenuto il posto. Si sedette e
nascose il capo fra le braccia. Il suo colletto era già bagnato
di sudore. Il suo cappotto sembrava sgualcito e polveroso, ma lui se lo
mise, forse perché sotto indossava una bella camicia rosa
leggera. Quella camicia non avrebbe mantenuto la freschezza e il colore
per più di dieci minuti su questo bus, se non fosse stata
coperta dal cappotto.
Un ragazzo che
aveva preso il bus a Gaya – l’avevo osservato per via del costoso sari
che aveva – quel ragazzo durante la fermata si era spostato sul
seggiolino accanto al firangi. Era un ragazzo dall'aria irriverente, il
tipo che si fa affascinare da stranieri e babu. Ora, raccogliendo tutto
il suo coraggio, il ragazzo disse al firangi qualche parola in inglese.
Parlava inglese a pappagallo, quel tipo di frasi imparate
meccanicamente che perfino io riesco a padroneggiare. Ma il firangi non
si lasciò trascinare in una conversazione, scosse appena la
testa e restò in silenzio. Forse non aveva capito il ragazzo,
forse aveva capito che il ragazzo non sapeva altro inglese che quello
che aveva già sciorinato.
Mrs Mirchandani
si girò verso di me e mi chiese: Figlia mia, sei istruita?
Le dissi che ero
una BA. Non la ero ma avevo frequentato la scuola e sapevo leggere,
scrivere e badare a me stessa, che è più di quanto sa la
maggior parte dei BA.
Questa è
una buona cosa, disse, le ragazze devono essere istruite. Nell’antica
India, aggiunse, c'era la tradizione di dare un'istruzione alle ragazze.
Il bus aveva
lasciato Akbarabad dopo una caterva di suoni di clacson e di campanelli
da tutte le parti, dopo le urla e le manate sulla carrozzeria del
bigliettaio. Ora attraversavamo uno stretto e profondo nullah di acqua
fangosa, delle bolle futtuavano sulla sua superficie, ed eravamo ancora
una volta fuori, in mezzo a campi aridi. La prossima fermata è
Janbagh, gridò il bigliettaio, Janbagh-Sherpur-Vilaspur-Phansa.
Janbagh-Sherpur-Vilaspur-Phansa.
43 –
A Vilaspur,
Mangal Singh scende dal bus per sgranchirsi le gambe e discutere con
Shankar. È ancora arrabbiato con se stesso per aver pensato a
Sunita, perché, non ha conosciuto tante donne da aver perso il
conto, donne che per lui hanno fatto cose che Sunita non si può
nemmeno sognare? Non ha perso interesse per la maggior parte delle
donne, sì, anche per Sunita? E poi, cosa gli ha mai fatto
Sunita, a parte tenergli le mani furtiva e dargli piccoli baci sulle
guance negli angoli nascosti? Quello che lo irrita – anche se non se ne
rende conto del tutto – non è la sua incapacità di far
tornare il passato nel presente, ma la capacità che ha lei di
cancellare il proprio passato dal presente. Sente che qualcosa è
stato ucciso, qualcosa di indifeso, come un neonato. Ma non sa cosa. E
allora pensa in termini normali – pensa a cosa non ha fatto Sunita per
lui, e a cosa altre donne e uomini hanno fatto per lui. Così
però gli sale una rabbia rancorosa contro se stesso e scende per
discutere con Shankar.
Strano, pensa,
come questo rottinculo di un bigliettaio gli ricordi Sunita
com'è diventata ora – tutta religione, dovere e decoro. Tanto
che ormai, quando viene nella stanza col chai – loro sono parenti alla
lontana e lei lo conosce fin dall'infanzia, e così, come
potrebbe essere tanto sgarbata da farglielo portare da una serva? –
quando entra nella stanza per il tempo dovuto e gli rivolge una domanda
dovuta, il suo decoro contagia anche lui, perfino lui, tanto che non
riesce a guardarla negli occhi e rievoca tutti i viaggi del tè
solo per il colore dei suoi braccialetti, per la tazza e per le forme
delle increspature nella tazza, immagini superficiali devono tenere il
posto di quello che non osa più cercare.
44 –
Da sei anni
faccio sempre lo stesso percorso. Nei primi anni questo bus era guidato
da Pandey, un bracciante agricolo che fu licenziato perché
spillava troppa benzina dal serbatoio e il maalik lo prese con le mani
nel sacco. Fu assunto allora Mangal Singh, un lontano cugino del
maalik, dicono. Era disoccupato da quando sua moglie se n’era andata,
dicono; era – detto fra noi – un poco di buono, un problema per la
famiglia. Mangal bubu non spilla benzina. Però lui ed io abbiamo
un accordo: prendiamo i soldi ma in ogni viaggio non stacchiamo i
biglietti di quattro o cinque passeggeri. Questo ci aiuta a integrare
il salario risibilmente basso che ci paga il maalik. Sì, come
è spilorcio con me è spilorcio anche con Mangal babu. Il
biglietto da Akbarabad a Phansa costa quindici rupie. Da Vilaspur a
Phansa sono sette rupie. Dopo Akbarabad, che ormai è
praticamente una città, non è previsto che ci fermiamo da
nessuna parte tranne che all’incrocio di Janbagh, a Sherpur e Vilaspur
– questo è pur sempre un bus espresso – ma noi di solito ci
fermiamo per tutti quelli che ci fanno segno, finché abbiamo
posto sul bus. Ci siamo fermati proprio ora cinque chilometri dopo
Akhbarabad per far salire il firangi babu. Nelle giornate buone
possiamo fare anche più di cento rupie fra il viaggio di andata
e quello di ritorno. Io e l’autista Mangal Singh ci dividiamo il
ricavato, a parte due rupie che vanno a quello delle pulizie. Questi
ragazzi delle pulizie cambiano di continuo e di solito non sanno del
nostro accordo. Credo che i soldi che gli diamo siano sprecati.
Prendete questo
ragazzo delle pulizie, uno nuovo di cui mi sa fatica ricordare il nome,
quando ho bisogno di lui gli faccio un urlo, ‘ré’ o
‘abbé’. Durante questo viaggio è sgattaiolato via a
spettegolare con uno dei passeggeri, un ragazzo della stessa età
seduto in fondo al bus che si metteva e si levava continuamente un paio
di dozzinali occhiali da sole. Avevo notato il ragazzo quando era
salito a Gaya perché non aveva bagaglio, aveva solo un sari
Banarasi, di quelli molto costosi, un po' incartato con un giornale. Un
ragazzo così, dove lo prende un sari come quello? Deve averlo
rubato da qualche negozio seth, che altro? E il nostro nuovo ragazzo
delle pulizie deve sgattaiolare via per sridacchiare e bisbigliare con
quel ragazzo del sari tutte le volte che sono troppo impegnato per
prenderlo per le orecchie e metterlo a fare qualcosa. No, non voglio
dividere i soldi con questi ragazzi delle pulizie, tutti potenziali
ladri, date retta a me.
È anche
contrario ai sacri precetti del dharma indurre in tentazione e dare il
cattivo esempio ai ragazzi. Io stesso non avrei rubato soldi in questo
modo, giuro su Hanuman che non vorrei, se il maalik mi avesse dato un
salario decente. Ma Mangal babu insiste perché si diano ai
ragazzi una o due rupie. Per quanto mi riguarda, ho il sospetto che la
generosità di Mangal babu abbia altre ragioni più sporche
e profonde. È un uomo sensuale, a casa non ha la moglie,
ingaggia sempre ragazzi carini – con le guance lisce e il corpo snello
– e fa sempre sedere il ragazzo vicino a sé, sulla scatola del
cambio. Non voglio dire altro. Si fa peccato anche solo a pensarle,
certe cose.
È in
posti come Vilaspur che prendiamo la maggior parte dei nostri guadagni
per via. Ad Akhbarabad e Phansa la gente è furba e può
esigere il biglietto o può perfino conoscere il maalik. Quindi,
quando a Vilaspur c’è una folla il bus si ferma ben più
di due minuti. Ci sta tutto il tempo che occorre finché non ha
preso a bordo l’ultimo uomo, donna o bambino che voleva salire –
essendo un bus privato non permettiamo che la gente viaggi sul tetto
con i bagagli.
Non c’era una
gran folla oggi a Vilaspur, c'era da aspettarselo all’inizio
dell’inverno. Cinque uomini, la maggior parte dei quali era salita sul
bus ad Akhabarabad, sono scesi insieme al ragazzo del sari. Sono saliti
due uomini e una donna con una scatola di latta e un neonato
infagottato. Ho staccato il biglietto a uno degli uomini e mi sono
limitato a intascare i soldi dell’altro. Ho staccato il biglietto anche
per la donna, anche se non era altro che una dehaati, una donna
tribale, scura, col naso camuso, non era neanche di Vilaspur (dove non
ci sono tribali) e ho avuto la tentazione di non passarle la matrice.
Invece l’ho fatto. Questo ha provocato una piccola discussione fra
Mangal babu e me. Mi ha chiamato fuori dal bus e mi ha fatto una lavata
di capo dicendo, con le sue parole, che sono uno ‘scemo devoto’. Mangal
babu è piuttosto grosso, flaccido, con pieghe di grasso intorno
al collo. Porta piccoli orecchini d’argento, mastica sempre paan, di
solito ha la barba ispida ed è sempre arrabbiato. Ha un fischio
di metallo appeso al collo come gli istruttori di ginnastica.
Nell’estate (in questi giorni è ancora caldo a mezzogiorno),
guida con addosso solo un lungi e un banyan bianco. Più tardi si
è arrabbiato con me perché mi sono rifiutato di intascare
una somma maggiore del totale incassato con i biglietti. Un paio di
mesi fa ha avuto una discussione con il maalik – affari di famiglia – e
da allora si lamenta ancora di più per come il maalik lo tratta.
Novecento di
salario. Questo è tutto quello che quello spilorcio, quel
miserabile stronzo dà al suo parente. Quel pezzo di merda! -
più tardi il ritornello di Mangal babu era questo. E intanto mi
ha spinto a spostare nelle nostre tasche il venticinque per cento dei
soldi dei biglietti. Mi sono sempre rifiutato di farlo. Non ha senso
mungere una mucca fino a ucciderla. Il maalik non è mica scemo.
Anche lui è stato un autista di bus e ha risparmiato fino a
possedere una flotta di due bus e cinque pulmini. Sa come vanno queste
cose. Ha un’idea piuttosto precisa dei soldi che ci si possono
aspettare da un bus su questo tragitto. Cinque o sei
passeggeri,
più o meno il cinque percento del numero totale, possono passare
inosservati. Oppure possono essere osservati e condonati: chiunque
fregherebbe un po’. Ma il venticinque percento? Perché
rischiare? Sono un uomo religioso: c’è anche un’immagine di
Hanuman sul pannello centrale del bus, l'ho appesa io il mio primo
giorno, e gli offro una noce di cocco al mese. Non sono avido come
Mangal babu. Questo lavoro mi piace. Faccio più soldi di quanti
ne farei con qualunque altro lavoro e non voglio essere mandato via con
un calcio nel sedere ormai che sono un uomo di mezza età. Ma
Mangal babu non vede la cosa in questi termini.
Stiamo lavorando
come negri per un miserabile stronzo, continua a dirmi. Shankar, sei un
dannato scemo se non cerchi di prendere più soldi dal mucchio
del bastardo. Tutti gli altri bigliettai rubano di più ai pezzi
di merda. Di che hai paura? Il tuo Hanuman, non ci farà caso.
Ecco - ho girato il quadro, ora non può vederti!
Ecco che genere
di persona è Mangal Singh: sboccato e senza un briciolo di
pietà né di religione.
45 –
Quando Mangal
Singh rimonta sul bus dopo la discussione con Shankar, si sente molto
meglio. Guarda tutto intorno le persone che sta traghettando verso le
loro svariate destinazioni. Sui loro volti – assonnati o vigili,
spettegolanti o taciturni – sui loro volti vede riflesse le espressioni
di tutti quelli che sono montati sul suo bus in passato, e per un
istante – solo un istante – si concede di sentire che ha visto tutto,
che ha visto tutti.
46 –
I campi davanti
al giovane, dall’altra parte della strada dissestata, erano ispidi per
le stoppie rimaste dalla raccolta della ganna di ottobre, sottili gambi
gialli che spuntano dal suolo bruno e polveroso, piccoli uccelli,
passeri, piccioni, una coppia di hudhud crestati, mynah, a battibeccare
per tutto quello che può essere rimasto fra gli spunzoni e sul
terreno. Più in là, appezzamenti di terreno che si
stavano preparando per la semina del gehun. Ancora più in
là di questi appezzamenti di terreno arato segnati dalle ferite
in via di guarigione che i piani degli uomini avevano inferto, da uno
degli alberi oltre l’ultimo sottile aari di confine che può
scorgere, veniva il canto di un cuculo che pensava ad alta voce.
Cucù cucù cucù quale uccello farò fesso la
prossima volta, cucù cucù cucù quale nido
invaderò con le mie uova, cucù cucù cucù.
Era un paesano, sapeva che questo doveva essere uno degli ultimi canti
del cuculo della stagione.
Era un giovane
spilungone di diciannove o vent’anni, con la delicata peluria dei baffi
appena spuntati che cominciavano a farsi vedere. Indossava una camicia
di terrycot e jeans denim troppo stretti, strappati in un paio di posti
ma rammendati con un abile lavoro rafoo. Accanto a lui, sul muro
sbreccato di mattoni accanto alla fermata del bus, era posato un notes
aperto. C’erano delle altre persone in piedi a una certa distanza da
lui. Evidentemente stavano aspettando un bus. Lui no. Lo sapevi da come
faceva penzolare i piedi, dal filo di paglia che masticava. Doveva
essere uno studente universitario, così avresti pensato.
In parte avresti sbagliato: andava ancora a scuola. I giovani uomini
come lui avevano molte cose a cui pensare a casa e avevano bisogno di
molto tempo per finire la scuola superiore. Se mai la finivano, ecco.
Sì, stava
semplicemente girellando da quelle parti. Conosceva quasi tutti quelli
che vivevano o lavoravano nei dintorni della fermata del bus, il suo
paese era lontano solo tre chilometri. Stava seduto a guardare le
macchine e i bus che di tanto in tanto passavano di là. Aveva
qualche speranza che sarebbe arrivato a gran velocità un taxi
ITDC, uno di quei taxi noleggiati dagli indiani ricchi delle grandi
città o dai turisti stranieri che correvano a Nalanda e Rajgir,
località turistiche minori che potevano essere visitate in un
giorno. Di solito questi taxi non sostavano alle fermate dei bus, anche
se a volte si fermavano per dei paesi completamente cadenti, o per una
mucca con dei colori particolari, per un branco di scimmie, si
fermavano per sputar fuori due o tre turisti, lui sperava che fossero
donne, che avrebbero fatto tanti scatti a quel posto con ogni genere di
macchine fotografiche. Non gli avevano mai scattato una foto. Eppure
una volta ne fatta una ai suoi genitori: suo padre con uno sporco
dhoti, che sfoggiava una specie di baffi a manubrio proprio coem si
deve, e sua madre col sari e un fagotto sulla testa.
Era là a
sedere sul muro diroccato, a dondolare le gambe lunghe e magre,
sperando che si fermasse uno di quei taxi per fargli dare un'occhiata a
donne vestite con abiti occidentali. Non aveva niente di meglio da fare
che aspettare questo genere di spettacolo. Suo padre aveva fatto il
raccolto la settimana prima e per una volta non c'era nessun lavoro ad
aspettarlo. Quel giorno dovevano essere munte le mucche, più
tardi, ma l’avrebbero fatto le sue sorelle.
Aveva guardato
il bus privato che rombava alla fermata. Sputava fumo nero di
scappamento, scaricava qualche passeggero e ne prendeva qualcun altro.
Sapeva riconoscere il bus dal bigliettaio. Riconosceva e classificava
tutti i bus dai bigliettai. Il bigliettaio di questo bus era un uomo
religioso con una lingua tagliente che usava come una frusta contro
quelli che non gli piacevano e di cui non aveva paura. Di solito il
bigliettaio di questo bus non scendeva a Vilaspur, ma questa volta era
sceso per discutere di qualcosa con l’autista. Sembravano arrabbiati.
Più tardi, quando il bigliettaio e l’autista erano risaliti sul
bus, riuscì a sentire il bigliettaio che urlava contro un paio
di passeggeri che, approfittando della breve sosta, erano andati un po'
più in là per pisciare. I passeggeri si affrettarono a
tornare sul pullman, che si mise in moto con una scossa e una serie di
scoppi. Fece pochi metri e poi, con sua grande sorpresa, il bus si
fermò.
Quello fu
l’unico momento in cui era rimasto sorpreso, l’unico di tutto l’evento.
Tutto il resto era accaduto in un'aura di ineluttabilità.
Perfino quando i poliziotti erano arrivati fino alla capanna di suo
padre nel loro villaggio e non avevano chiesto nulla su quello che era
davvero accaduto, anche allora lui non fu affatto sorpreso.
47 –
Ma non è
che Mangal Singh tutte le volte veda tutti. Anche lui perde delle cose.
Così non
ha veramente visto la donna tribale finché non è
scoppiato il casino. La vedeva solo per i soldi che Shankar aveva fatto
cadere nelle casse del maalik.
Non aveva
nemmeno visto che cosa portava. L’aveva visto e non l’aveva visto.
Qualche volta, vedere non basta.
48 –
Oggi il
Guidatore Mangal Singh mi ha fatto pressione ancora di più delle
altre volte.
Shankar, scemo
devoto, morirai di fame, i tuoi figli non potranno pagare la retta
della scuola e tua moglie scapperà col borsaiolo della porta
accanto, se non ti prendi una parte maggiore dal bottino di quel
miserabile pezzo di merda. Sai quanto guadagna quel bastardo tutti i
mesi? Venti, trentamila. E tu quanto prendi? Settecentocinquanta di
stipendio e forse altrettanto dal lungostrada? Cosa sono oggigiorno
millecinquecento rupie? Non bastano nemmeno a comprare uno schifo di
televisore in bianco e nero!
Forse è
come dici tu, babu, risposi (Mangal Singh è un mio pari dal
punto di vista sociale ed economico, ma io lo chiamo ‘babu’ per
rispetto alla sua parentela col maalik. Sono cose come questa che ti
fanno andare avanti nella vita: piccoli dettagli, come comprare la
samosa per la madre di Mirchandani babu). Forse hai ragione, babu, ma
io sono un pover’uomo. Ho paura di prosciugare la mucca a forza di
mungerla.
Shankar, segnati
le mie parole, grugnì. Un giorno la mucca dannata ti darà
un calcio nelle palle. Ammesso che tu ce l'abbia, ovviamente.
Mentre
discutevamo alcuni passeggeri erano scesi dal bus, che dentro si stava
scaldando parecchio perché da un po' non stava andando e
quell'alito di vento era cessato. Qualcuno si stava sgranchendo le
gambe, qualcuno comprava frutta all’unica bancarella (piena solo a
metà di banane ammaccate, arance avvizzite, qualche dolce,
pettini di plastica, biscotti Glaxo, pacchetti di sigarette, mazzetti
di bidi e vecchie riviste), qualcuno sorbiva tè al dhabba con
due panche vicino alla bancarella e un paio di uomini orinavano oltre
il muro sbreccato di mattoni dietro alla fermata del bus. La donna
tribale che era salita a bordo a questa fermata non era riuscita a
trovare un posto. Siccome non era altro che una dehaati tribale – si
sente dall'odore – nessuno le aveva nemmeno offerto un posto. Stava in
piedi accanto alla porta anteriore, stringendo il suo bambino
infagottato come se avesse paura che glielo portassero via.
Perché
devi fare il biglietto a tutti quelli là? Domandò Mangal
babu un'altra volta. Ora era questo oggi l'epicentro della sua
discussione. Mangal babu è avido come il maalik. Probabilmente
è di famiglia – certi caratteri lo sono. Non voleva che
perdessimo nemmeno un passeggero di Vilaspur.
Questi sono
villani pezzi di mota, continuava a dirmi. Non devi aver paura di loro.
Non ti scopriranno mai. Per esempio, quella là, la donna
primitiva, probabilmente un biglietto non l'aveva mai nemmeno visto in
vita sua.
Ma non è
vero che ho paura. Semplicemente non credo nelle esagerazioni. Sii
equilibrato, contentati – è quello che predicano le scritture.
Io leggo le scritture in Hindi. Io do ascolto ai discorsi dei santi
uomini. Non spingerti troppo in là. Se perdi un treno, lascialo
andare, non lo rincorrere. Questi sono i miei principi e mi hanno
portato lontano: ho lavorato con i motori come aiuto meccanico e ce
l'ho fatta a farmi una pukka di due stanze. Ho una famiglia. Ho persino
un conto in banca e se le cose vanno bene, se Hanuman mi fa la grazia,
fra un anno mi compro un pulmino e mi metto per conto mio. Sono un uomo
timorato di Dio e voglio fare tutto in modo equilibrato. Anche la Gita
è tutta sul mantenimento dell’equilibrio. Vado al tempio tutte
le settimane e tutte le mattine recito l’Hanuman Chalisa. Ma questo
Autista Mangal Singh, lui non è così. Rapace, donnaiolo,
ubriacone. Dietro al suo psoto di guidatore ha appeso il poster di
un’attrice; non di Madhubala né di Nargis né di Hema
Malini e nemmeno di Rekha, c'è il poster di una stellina di
oggigiorno mezza nuda. Quando spolvero l'immagine del Signore Hanuman,
non ce la fa a non dirmi: Perché non pulisci anche il poster
della mia dea? Si dice che era già così cattivo anche
prima che sua moglie scappasse con un altro. Ora frequenta i quartieri
a luci rosse di Gaya e di Phansa. È inutile discutere con un
uomo come quello. Così gli ho sorriso in modo conciliante e sono
risalito sul bus, battendo con le mani contro la lamiera e gridando:
Tutti a bordo. Forza! Partiamo!
49 –
E ora, quando
finalmente Mangal Singh si gira a guardare il casino, sa già di
che cosa si tratta. Si tratta della sua incapacità di vedere.
Tutte le immagini impresse a fuoco nella sua memoria dimostrano questa
incapacità. Se solo fosse stato capace di vederle prima, non
sarebbero diventate indelebili. La sua mente non avrebbe avuto bisogno
di metterle in corsivo come un scrittore mediocre al quale le nude
parole non bastano per portare i significati e gli accenti.
Dietro di lui,
oltre le barre che somigliano alle matite e lo isolano dai passeggeri,
la gente si spinge per riversarsi fuori dallo sportello. Il firangi
è attaccato ancora più forte alla valigetta. Ed è
solo ora che Mangal Singh vede veramente cosa portava la donna tribale.
Ma è
appena tornato al suo posto e non ne viene fuori sentendo il casino.
Resta a sedere. Mangal Singh sa con certezza che qualunque cosa faccia
è questo che gli farà ricordare il viaggio.
Non tutti i
ricordi sono volontari. A volte si può scegliere solo di
ricordare.
50 –
Il ragazzo si
è assestato un po' sul muro diroccato, come se volesse mollare
una scoreggia. Il bus privato si è fermato. Dalla parte
dell'autista, sembrava che stesse montando qualcosa come una rissa.
C’era gente che si affollava da quella parte, gesticolando, gridando.
Voleva che si spostassero perché gli nascondevano la vista di
una donna carina seduta accanto a una vecchia grassa vestita con un
costoso sari bianco. Ma in ogni caso non pensava che fosse un problema
sul quale valeva la pena di indagare. Probabilmente una rissa per il
posto a sedere.
Il bigliettaio
del bus è saltato giù dalla porta posteriore ed è
corso a quella anteriore. Doveva essere il modo più veloce per
raggiungere il luogo del litigio. Alcuni passeggeri si erano riversati
fuori anche dall’uscita anteriore.
Era strano.
In quel momento
fu distratto dall'andatura ondeggiante di un teetar. Ormai non ti
capitava tanto spesso di vedere un teetar così vicino a un posto
abitato. Gli tornò in mente una vecchia canzone – teetar
ké do aage teetar, teetar ké do peechché teetar,
aagé teetar, peeché teetar, bolo kitné teetar? –
che aveva cominciato a canticchiare seguendo il movimento ondeggiante
dell'uccello attraverso la strada e in un campo. Questo uccello era
anche diverso dal comune teetar, quello tondeggiante, bruno rossiccio,
che gli ricordava sempre una casalinga cittadina della classe media.
Questo era nero, con una striscia e delle chiazze bianche. Andava
ondeggiando senza fretta per l'ispido campo di canna da zucchero verso
una striscia di bosco di tamerici.
Il ragazzo non
aveva mai mangiato carne di teetar – con l'agiatezza crescente i suoi
genitori stavano lentamente diventando vegetariani, mano a mano che si
muovevano verso l'alto nella gerarchia delle caste, come la maggior
parte delle famiglie Yadav e Kurmi della regione, anche se lui non se
ne rendeva conto – non aveva mai mangiato carne di teetar, ma sapeva
che era considerata una prelibatezza.
Un giorno forse
gli tenderà una trappola nel boschetto di tamerici: ne
ricaverebbe più di quanto prendono sua madre e le sue sorelle
vendendo ai macellai musulmani le galline del pollaio, quando non fanno
più uova.
51 –
Dal suo punto di
vista alto sulla folla che si era riunita intorno ai gradini del bus,
dal suo posto di guidatore, Mangal Singh vedeva di più di quasi
tutti gli altri.
Vedeva gli
uomini che si spingevano, si toccavano: sentiva il sospetto e la
sorpresa nelle loro voci. Sentiva come tutti, maschie e femmine, ognuno
a modo suo, stavano già cercando di assimilare questa cosa nelle
storie più lunghe e separate delle loro vite, le storie che
avevano portato sul bus e che avrebbero continuato a tessere una volta
che ne fossero scesi, sì, non avevano altra scelta che
continuare quelle storie distinte – se necessario, passando sopra a
questa cosa, questa cosa inattesa, questa cosa aliena che altrimenti
fatto debordare le loro storie separate.
52 –
La folla era
agitata. Distrasse l’attenzione del giovane dal teetar. C'erano anche
delle donne che si sporgevano dai finestrini. Una donna, che aveva un
bambino piagnucoloso, era già scesa dal bus, e cercava di farsi
strada nella folla. Non la donna carina, comunque, e nemmeno la vecchia
grassa accanto a lei. Erano ancora sedute, anche se lui avrebbe potuto
dire che la più giovane voleva scendere a vedere cosa stava
succedendo.
La donna col
bambino piagnucoloso all'improvviso spinse via alcuni uomini e si
liberò uno spazio intorno all’uscita anteriore del bus. Fu
allora che lui vide la donna tribale là a sedere, con un fagotto
fra le braccia. Era una ladra che avevano acchiappato? Un ladro era
sempre un divertimento. Domande, scapaccioni, stoccate, scherzi,
minacce, pestaggi. Scese dal muro, chiuse il notes e se lo fece
scivolare nella camicia, scosse la polvere dagli aderenti jeans
rattoppati e si incamminò verso il bus.
53 –
Mangal Singh
vide la donna tribale posare il fagotto come se non avesse nulla a che
fare con lei.
54 –
Ho battuto
più forte la mano sulla fiancata del bus e la piccola fermata
del bus ha risuonato con l'eco della carne sul metallo.
Mangal Singh era
già andato dall’altra parte del bus e si era issato al posto del
guidatore, imprecando fra i denti, probabilmente contro di me.
L’ho visto scherzare col ragazzo delle pulizie: tratta sempre questi
ragazzi in modo amichevole e informale, il che li rende
più pigri, e sfacciati nei miei confronti. Ha messo in moto il
bus.
Sbrigarsi!
Sbrigatevi, voi due! Ho gridato agli uomini che stavano orinando dietro
al muro in rovina. Uno di loro si è risistemato velocemente il
dhoti ed è corso verso il bus. L’altro – doveva venire da una
grande città a giudicare dal colletto inamidato della camicia a
quadri, dai pantaloni in terrycot lucido a zampa di elefante, dai baffi
fini e ben curati e dai capelli impomatati di brillantina – se
l’è presa calma. Sbrigarsi, sbrigarsi! Ho gridato, la Green
Revolution è finita da un pezzo! e sporgendomi dallo sportello
posteriore ho battuto un'altra volta la mano sulla lamiera.
Sbrigarsi per
cosa? Ha detto il giovane uomo sfiorandomi e lisciandosi i baffi fini
come il segno di una matita, quando è salito con tutta calma sul
bus. Aveva una cicatrice sulla guancia sinistra e doveva considerarsi
un duro. Non stiamo mica salendo in aereo, ironizzava.
Ha tirato fuori
dalla tasca un pettine rosso di plastica e ha cominciato a pettinarsi.
Finalmente erano
tutti a bordo. Ho battuto tre colpi sulla fiancata per dare a Mangal
babu il segnale della partenza, ma per una volta lui non aveva avuto
bisogno di essere sollecitato: il bus si stava già allontanando
dalla fermata. Proprio in quel momento c’è stato un casino
accanto allo sportello anteriore. Ho sentito alzarsi la voce di un uomo
che si levava nel trambusto generale. Stava dicendo – Il bambino
è morto. Ti dico che il bambino è morto! Toccagli le
braccia, sono fredde, thanda come il marmo.
Molte voci si
sono inserite, esprimendo sorpresa, indignazione, turbamento,
incredulità, paura, semplice curiosità.
Il bus ha
cominciato a rallentare.
Sono saltato
giù dall’uscita posteriore e sono corso sul davanti. Una folla
si era già riversata fuori, mentre una folla più grande
si trovava intorno all’uscita anteriore e sbirciava dai finestrini
dalla nostra parte. Sullo scalino più alto dello sportello era
seduta la donna tribale. Si stringeva al petto il bambino infagottato.
Il bambino
è morto. Ha un bambino morto con sé, gridava la voce
maschile dominante.
La donna
scuoteva il capo assente, mentre teneva ancora stretto il bambino.
Qualcuno degli uomini ha cercato di toccare il bambino. Non doveva
avere più di un paio di mesi.
È vero,
ha gridato l’uomo che aveva toccato il fagotto. Il bambino non è
vivo. È freddo.
Non respira!
È freddo
come il marmo! Non ha vita.
Il cittadino
impomatato di brillantina con i pantaloni di terrycot a zampa di
elefante che aveva orinato quanto gli era parso, a modo suo si mise a
fare il protettore della donna accovacciata. Toccò il bambino.
Trasudava la falsa autorità di chi deve proprio sapere tutto.
Il tuo bambino
è morto, disse alla donna pacatamente, come un semplice dato di
fatto. Perché porti il suo corpo sul bus?
Morto no, disse
la donna, senza emozione, senza una mossa.
È morto
già da diverse ore, insistette l’uomo di città
impomatato. È freddo come il marmo.
È solo
malato, replicò la donna. Lo sto portando a Phansa, da suo
padre. A Phansa ci sono dottori.
Dove abita tuo
marito?
A Phansa.
Dove a Phansa?
Non so. È
andato via cinque mesi fa. È andato a Phansa.
Un altro di
quelli che spariscono, pensai.
Come fai a
portarlo da suo padre se non sai nemmeno -
Comunque, lo
interruppi, dopo aver avuto il tempo di esaminare il corpicino. Il
bambino è morto. Non ha senso portarlo da nessuna parte.
Questo è
vero, mormorarono alcune voci. Non ha senso portarlo da nessuna parte.
È morto.
Ci volle almeno
un quarto d'ora o anche di più per convincere la donna che il
suo bambino era morto stecchito. Queste donne rurali sono così
ostinate nella loro ignoranza. Ecco perché quando ho deciso di
sposarmi ho cercato una ragazza nata e cresciuta a Phansa – non in
un'enorme città debosciata come Kalcutta o Dilli, ma nemmeno in
un paese. Abbiamo voltato il bambino, abbiamo scoperto il corpo,
abbiamo fatto sentire alla madre il freddo e la mancanza di battiti del
cuore, e le abbiamo fatto anche notare il lieve odore di decomposizione
che cominciava a venire dal cadavere. Finalmente ha smesso di dire
‘morto no’. Ma non piangeva e non andava via. Ha posato il bambino in
terra davanti ai suoi piedi, come se il bambino non le appartenesse
più, ed è rimasta a sedere sugli scalini.
55 –
E allora Mangal
Singh l'ha vista, l’immagine gli sarebbe restata in mente, che avrebbe
preso tanto spazio nella sua immaginazione che il resto del viaggio
sarebbe stato spazzato via dalla sua memoria. La sua mente, avido
autore, gliel'ha messa in corsivo sulle pagine della memoria anche se
lui, per quanto lo riguarda, non racconterà mai quella storia.
Non veramente. Non tutta.
56 –
Prima che gli
uomini cominciassero a urlare eccitati – Rasmus fra l'altro ebbe
bisogno di qualche minuto per capire che cosa stavano dicendo, tanto
erano diversi i dialetti della maggior parte di loro da ogni tipo di
Hindi che avesse sentito fino a quel momento – prima che le urla
irrompessero nei suoi silenziosi calcoli di tempi e doveri, Rasmus era
già vagamente consapevole della molteplicità delle voci,
dei fili che riempivano il bus con un basso ronzio. Le tante
conversazioni che volavano una nell’altra e poi si separavano.
Più tardi pensò che erano come il tilkut che aveva visto
attorcigliare e impastare con manici corti a Gaya intorno a dei pali di
legno. I fili di tilkut si attorcigliavano al palo, si fondevano
e si separavano, si separavano e si fondevano.
Ma ora c’era
improvvisamente una sola realtà di cui parlare sul bus. Morte.
Ma non era proprio il genere di morte che Rasmus riconosceva. Non aveva
l'ordinato decoro, la regolata gravità, la dovuta presenza dei
morti che aveva visto di persona o di cui aveva sentito parlare in
Danimarca. Non si separava chiaramente dalla vita. I fili di questa
morte restavano intrecciati – per Rasmus era raccapricciante – con la
vita sul bus e intorno al bus.
Le persone si
stavano spostando verso la parte anteriore del bus, spintonandosi,
allungando il collo per vedere meglio. Rasmus strinse le dita sulla
valigetta.
57 –
Quel che Mangal
Singh ricorderà di questo viaggio nel modo più vivido
saranno le due mosche che saggiano le cavità delle narici del
bambino, indifferenti al ribollio della vita intorno a loro,
indifferenti al silenzio di morte che come un rossore si è
posato sul viso del bambino.
58 –
Quando il
giovane paesano è arrivato al bus, metà dei passeggeri
era già scesa. Solo tre o quattro uomini più anziani –
col segno della casta sulla fronte – erano ancora sul bus. E la maggior
parte delle donne.
La donna col
bambino piagnucoloso – una donna molto attraente, pensava, ma d’aspetto
dozzinale, che non aveva un aanchal sulla testa – stava ancora
spingendo via gli uomini, e gridava. Fatele un po' di spazio,
lasciatela respirare!
Era deluso.
Forse non era nemmeno un ladro. Sembrava come se qualcuno fosse appena
svenuto. Ma poi ha sentito le voci più distintamente: È
morto; il bambino è morto. Proprio allora la folla intorno alla
portiera del bus si è aperta per lasciar scendere un firangi, un
uomo alto che sembrava decisamente fuori posto nel bus, e il giovane
è riuscito a vedere per un momento il bambino morto fra le
braccia della donna tribale.
Era seduta sul
gradino anteriore del bus.
Le sue braccia
erano tatuate con motivi stilizzati.
Era la sola
macchia di quiete e di silenzio in quella massa ribollente.
59 –
Alla fine era
semplice: Due mosche saggiano le cavità delle narici di un
bambino morto.
60 –
Riporta il corpo
al tuo paese, dissi alla donna tribale, che ora stava dondolando piano
sulle anche, senza parole. Portalo a casa, gli anziani sapranno cosa si
deve fare.
Siccome non
rispondeva lo ripetei.
Là non
c’è nessuno, disse lei.
Nessuno? Chiesi
seccato, un po’ arrabbiato con questa donna, per la sua debolezza di
cervello tribale. Nemmeno uno zio, una nonna, un suocero?
Nessuno,
ripeté lei.
Ma non vedi
donna? Non puoi andare a Phansa con un bambino morto. Non ha senso.
Non volevo
accumulare altro ritardo. Dovevamo fare ancora il viaggio di ritorno e
non è il caso di viaggiare su questa strada col buio e la
regione non è sicura come sembra alla luce del giorno. Ci sono
bande criminali attive che hanno la base in quasi tutti i paesi,
criminali e comuniste. Avevo anche paura di un’inchiesta della polizia
e dei relativi problemi. Meglio stare alla larga dai poliziotti e dalla
legge.
Stava a sedere
in silenzio. Fitta come una notte amavas.
Dovremmo
aiutarla a cremare il bambino, disse il grande uomo di città
impomatato, lisciandosi pensoso i baffi. Era il tipo che deve sapere
tutte le risposte. Sembrava che si gonfiasse per l’importanza della sua
proposta, tanto che si vedevano sporgere le costole dalla sua stretta
camicia a quadri.
I tribali di
questa zona non cremano i giovani. Li seppelliscono, dissi irrompendo
bruscamente, cercando di eliminare questa idea folle e spreca-tempo del
babu di città. Nessuno mi ascoltava. A quel punto il firangi,
che sorprendentemente sapeva un po’ di Hindi, si fece avanti e ci disse
in un Hindi stentato che si doveva chiamare la polizia. Polizia
bullana, polizia bullana, ripeteva. Rule sé kaam karna,
certificate karna, disse. Nessuno dava retta nemmeno a lui.
Allora aiutiamo
a seppellire il bambino, stava dicendo l'uomo di città, e i
paesani lo ascoltavano. Non stavano a sentire me, e nemmeno il firangi
babu; stavano a sentire quel damerino che si dava tante arie con i
baffi sottili e i capelli impomatati!
Seppelliremo noi
il tuo bambino, disse alla donna.
Sì,
sì, ti aiutiamo a seppellire il bambino – dissero in coro alcune
altre voci, la maggior parte delle quali grondanti di suoni campagnoli
e sentimentali dei paesani che, in un'altra occasione, non esiterebbero
a picchiare a morte una persona per deviare un corso d’acqua.
La donna restava
impassibile. Il cittadino fece autoritariamente cenno a un ragazzo di
campagna perché sollevasse il corpo e si mise alla guida di una
processione che partiva dalla fermata del bus e scendeva da una parte
della strada fino alla sottile striscia di terra demaniale che separa
la strada dai campi. Solo alcuni degli uomini vestiti meglio, di questa
o quella città mufassil, e una coppia di anziani paesani col
segno della casta sulla fronte, restarono lontani dal corpo. Mrs
Mirchandani, ovviamente, restò dov’era; e così fece la
donna rispettabile seduta accanto a lei. La piccola processione
incespicava lungo i lati della strada. La striscia di terreno demaniale
era coperta di erba secca ed esili arbusti. C’erano delle chiazze qua e
là, dove il governo aveva tentato di piantare alberi,
proteggendoli con qualche mattone e un po' di filo di ferro, ma la
maggior parte degli alberi erano morti o spogli, le foglie erano state
tutte strappate dalle mucche e dalle capre.
Dov’è una
pala? Qualcuno ha una pala? Gridava il grand'uomo di città. Dopo
un momento di confusione, uno di quelli del posto – un giovane che
avevo visto seduto su un muro sbreccato a guardare la tamasha –
andò di corsa in una stanza dietro al dhabba e tornò con
una pala. Il cittadino impomatato fece cenno a un altro uomo dall’aria
rurale di cominciare a scavare. Era evidentemente quel genere di uomo
che deve avere proprio tutto sotto controllo, completamente pieno di
sé. Fu scavata una fossa poco profonda, ci fu messo il corpo del
bambino e fu coperto. Segnammo il posto con alcuni mattoni del muro
sbreccato alla fermata del bus e con le siepi che il governo aveva
piantato intorno ad alberi inesistenti.
Quando tornammo,
la donna tribale stava ancora a sedere sui gradini. Era rimasta sempre
là. Anche il firangi c'era rimasto, a borbottare qualcosa sulla
legge e sull’ordine, la polizia e i regolamenti. Sapevo come si
sentiva. Anch’io mi sono sentito così con questi assurdi
villani. La donna dozzinale e sfrontata che era saltata giù dal
bus con il bambino moccioso in braccio, anche lei era rimasta con la
donna tribale, seduta sullo stesso scalino, toccandole la testa,
accarezzandole teatralmente i capelli annodati e attorcigliati.
Il suo bambino zampettava per terra lì intorno, cercando di
tirar fuori qualcosa con un bastone, apparentemente trascurato.
L’abbiamo fatto,
dissi io, sperando che la donna tribale si muovesse e ci facesse
continuare il viaggio. Eravamo già in ritardo di due ore e
più. È inutile ora che tu vada a Phansa, aggiunsi.
Si alzò
lentamente. La donna dozzinale col bambino moccicoso le porse la
scatola di latta che la donna tribale portava con sé. La donna
tribale cominciò ad allontanarsi.
Aspetta un
momento.
Era ancora il
grande cittadino impiccione: Non le avete reso i soldi del biglietto!
Sì,
sì, le voci si fecero ancora sentire, lo stesso coro
sentimentale: Dovete restituirle i soldi. Sì, sì, dovete
farlo.
Questo mi mise
in una posizione scomoda. Le avevo rilasciato un regolare biglietto,
l’avevo staccato dal blocchetto, e non c’era modo di convincere il
maalik che il biglietto era stato rimborsato. Avevamo anche un cartello
sul quale era scritto in rosso ‘Nessun rimborso’, proprio dietro la
zona del guidatore. Se avessi restituito i soldi, avrei dovuto tirarli
fuori di tasca mia. Sono un pover'uomo, con moglie e due figli. Non
posso restituire il danaro. Ho già staccato il biglietto.
Allora si accese
un animato dibattito. La donna rimase là in piedi, probabilmente
non poteva farsi strada nella folla che ci circondava, mentre il
cittadino in suo nome diventava sempre più bellicoso.
Mi girai verso
Mangal babu cercando un sostegno. Era rimasto tutto il tempo sul suo
seggiolino di autista, masticando placidamente un paan, sventolandosi
con un asciugamano sporco e seguendo tutto a distanza. Non è
come me e te, non è proprio il tipo che si mette a disposizione
degli altri.
Domanda al sahab
autista! Gridai. Lui sa che non posso restituire i soldi nemmeno se
voglio. I soldi non sono miei. Nemmeno se fosse morta mia madre.
Devi farlo, devi
farlo, anche se di tasca tua, strillava il cittadino, gonfiandosi tanto
che le costole, ora completamente visibili, gli volevano uscire dal
petto, credi a me. Lo devi fare, non puoi sfruttare la povera gente, i
giorni dei Laatsahab con i loro khansamah e i loro ardallis sono
passati, devi rimborsarle il biglietto anche se di tasca tua,
gridò.
Ma certo, gridai
a mia volta. Perché allora non lo fai tu?
Ma mi accorgevo
che la faccenda si stava mettendo male. ‘Sfruttare i poveri’ era
un’espressione efficace, astuta, e il cittadino impomatato lo sapeva.
Mi girai verso
Mangal babu dalla porta anteriore, che era aperta. Il firangi era
già tornato al suo posto, stringendo la sua valigetta.
Finalmente si era anche tolto il cappotto.
Diglielo, Mangal
babu, implorai. Digli che per me è impossibile restituire i
soldi una volta che il biglietto è stato staccato. Devo render
conto di ogni naya paisa!
Invece Mangal
bubu infilò le dita nella sua tasca interna e ne estrasse un
rotolino di biglietti da una e da due rupie. Me li porse senza contarli
e disse lentamente, Daglieli.
Presi i suoi
soldi dopo un attimo di assoluto silenzio. Nemmeno il cittadino
Impomatato se lo sarebbe mai aspettato: il vento smise di soffiare
nelle sue vele. La nave della sua eloquenza socialista traballò.
Le sue costole sparirono sotto la camicia a quadri.
Il biglietto
costa solo sette rupie, dissi, contando le rupie e porgendole alla
donna tribale impassibile. Il giovane con i jeans attillati che era
andato a prendere la vanga cominciò a fare delle sciocche
impertinenti risatine, ma io lo zittii con lo sguardo.
Il resto dei
soldi lo restituii a Mangal babu.
61 –
Ma dove mai?
Solo in India! Ma dove mai? Solo in India!
A Rasmus pareva
di sentire suo padre, Alok Sen alias A. Jensen, che diceva queste
parole. Suo padre le aveva dette in due modi diversi. A Copenhagen era
stata un’affermazione d’orgoglio. Ma dove mai si parlano da un capo
all'altro diciotto, diciooootto lingue ufficiali? Solo in India! Ma
dove mai c'è stata una storia così grande? Solo in India?
Ma dove mai si è potuta ottenere l'indipendenza con la non
violenza? Solo in India! Ahimsa, Ahimsa, ripeteva suo padre,
strascicando la parola. Sapete cosa vuol dire, mister?
Ma appena Alok
Sen alias A.Jensen era atterrato a Delhi, l'accento si era spostato
sulla seconda parte: Solo in India ci sono tanta burocrazia e tanta
inefficienza! Solo in India si può vedere una povertà
come questa! Disgustoso! Criminale! Semplicemente criminale! reclamava.
E ora,
sballonzolato su una strada piena di buche, cercando di evitare che la
sua camicia si sporcasse troppo, Rasmus rivolse il pensiero a suo
padre: Ma dove mai un bus si può fermare a seppellire un bambino
per poi proseguire come se nulla fosse? Solo in India! Niente di
speciale comunque, gli sembrava, a sentire alcune persone discutere di
quello che era successo o la giovane donna che aveva porto
all’aborigena la sua scatola, che ora sbaciucchiava il suo bambino con
una commozione eccessiva.
Dove? Solo nella
tua India, disse Rasmus al suo padre morto. Dove? Solo nell'India
maledetta!
Mister.
62 –
Il viaggio
è stato lungo, più lungo del solito. Ma finalmente siamo
all’angolo vicino al chowk di Phansa dove si ferma il bus privato.
L’angolo è congestionato da bus privati, colorati, metallizzati,
sedili di resina con l’imbottitura sbuzzata, divinità e santi e
versetti del Corano appesi nella cabina di guida, video e impianti
stereo a tutto volume. Il chowk brulica di gente. C’è gente che
si precipita a prendere un bus o un risciò. Ci sono venditori.
Chinniabadaam, chinniabadaam, chinniabadaam, grida il venditore di
noccioline tostate. Ci sono donne che portano il purdah, donne che
portano il sari e donne col shalwar-kameez, una di loro non ha nemmeno
un aanchal. Ci sono uomini con il gathris e uomini con la valigia. Ci
sono bambini. Un bus parte con un rombo. E gli altri autisti gridano.
Ho avuto altri
problemi con il Guidatore Mangal Singh. Lui vuole che ci fermiamo per
due ore, come al solito. Ma abbiamo già accumulato due ore di
ritardo e io voglio tornare a Gaya prima che faccia buio. Il giorno
è cominciato sotto pessimi auspici. Un bambino morto. Cose da
non crederci.
Secondo me si
doveva ripartire dopo un quarto d'ora, ma Mangal Singh deve celebrare
l'unico rito che conosce: mangiare, abbuffarsi. Così partiremo
fra un’ora. Do un colpetto in testa al ragazzo delle pulizie e gli dico
di sbrigarsi. Non limitarti a far sparire vomito e spazzatura da sotto
i sedili, pulisci perbene. Voglio vedere la tua faccia rispecchiata nel
pavimento, gli dico. Poi mi ritiro a bere una tazza di chai al Nizami
Restaurant. Io mi porto sempre da mangiare da casa. Fra qualche minuto
ricomincerò a battere la mano sul bus, gridando le mie litanie a
rovescio: “Pullman espresso privato –
Phansa-Vilaspur-Sherpur-Janbagh-Akbarabad-Dhoda-Tehta-Makhdumpur-Bela-Chaakand-Gaya...,
Phansa-Gaya payn-tees rupie, payn-tees rupiya, payn-tees rupyaaa!”
Un altro
viaggio, altre case. Penso al bus che comprerò se le cose
continuano ad andare bene. Il mio bus. Non devo smettere di pensare al
bus che comprerò. Non posso rischiare di farmi distrarre dalla
farsa della vita che mi circonda, dalle tragedie e dalle commedie della
gente che ha perso di vista la propria destinazione.
63 –
Appena sceso dal
bus, con la mente confusa, Rasmus era andato direttamente dal ministro,
e poi andò alla guest-house per scoprire che Hari era già
là con l’Ambassador. “Ghasmus-sir, Ghasmus-sir, che succede,
sir, bus arrivato molto tardi, sir?” chiese a Rasmus con esagerata
sollecitudine.
La guest-house
con i prati spelacchiati e pochi fiori, e i bungalow freddi con le
travi, a Rasmus la guest-house parve un paradiso. Gli fece quasi
passare di mente l'irritazione nei confronti di Hari.
Rasmus era
particolarmente irritato perché Hari aveva riparato la macchina
ed era riuscito ad arrivare a Phansa poco più tardi del bus. Era
consapevole che questo dato di fatto avrebbe dovuto fargli apprezzare
le capacità di Hari come meccanico, perché prima di
prendere il bus aveva nutrito seri dubbi su queste capacità,
invece non faceva altro che irritarlo ulteriormente. L'Ambassador era
messa tanto male? Gli passò per la mente l'ipotesi che Hari lo
avesse cacciato in tutto questo guaio – senza mettere in conto l’incubo
della sepoltura del bambino – per negligenza o di proposito.
Ma poi
guardò Hari, notò il desiderio dell’uomo di compiacerlo,
piuttosto buffo, e respinse quel pensiero. Rasmus cominciava a sentirsi
più felice, più leggero – lasciando la valigetta alla
segretaria personale del ministro si era liberato da un peso
opprimente. Aveva fatto quello che doveva fare. Ma dove mai? Solo in
India, pensò, poi si strinse nelle spalle ed entrò nella
guest-house per rinfrescarsi e mangiare prima del viaggio di ritorno.
Potevano proprio rientrare in giornata.
64 –
Quella sera il
ragazzo rincasò tardi, molto dopo che le sue sorelle avevano
finito di mungere le mucche. Mangiò il daalchawal che sua madre
gli aveva lasciato su un thali coperto con un pattal nell’angolo della
stanza più piccola che serviva da cucina e da camera da letto
per la madre e le sorelle. Cercò di fare piano per non
svegliarle. Poi ritornò nella stanza esterna, la più
grande, che serviva da baithak di giorno e di notte da camera da letto
per gli uomini. Suo padre dormiva sull’unico charpoy della casa,
russando a intermittenza, ma si svegliò e disse: “Sei tornato?”
per poi girarsi ricominciando a russare a intermittenza.
Le stanze erano
sature dell’odore di bestiame della stalla adiacente. L’odore emanato
da quattro mucche, tre capre e una stia di rete di ferro con sette
galline e un gallo. Delle belle bestie secondo i criteri del loro
paese. Il bufalo era legato fuori dalla stalla. Non aveva bisogno di
essere protetto dalla rugiada o da un acquazzone improvviso.
All’entrata
della stalla c’era un vitello imbalsamato, appoggiato contro il muro di
fango. Il vitello era morto appena nato. Era stato imbalsamato e il suo
muso rigido e scuro veniva portato alla madre due volte al giorno,
perché potesse leccarlo con la sua lingua poderosa e continuare
a produrre più latte del solito.
Nessuno aveva
mai riso di quella mucca.
Si era sentito
come se avesse riso per ore dopo che il bus era ripartito. Ridere, ma
non per qualcosa di gioioso o divertente. Non era in grado di
scandagliare il pozzo di questa voglia di ridere.
Era disteso sul
letto di paglia sparsa sul pavimento, accanto ai suoi due fratelli e al
cugino che viveva con loro perché suo zio aveva meno terra e
altri cinque figli. Si sentiva molto stanco, ma non si
addormentò finché il cielo non cominciò a
diventare sempre più chiaro quando cominciò a sentire
dalla stalla adiacente alla loro casa semi-pukka un tramestio crescente
nella stia delle galline fatta di legno e filo di ferro. Presto il
gallo canterà. Una volta, due volte, tre volte.
65 –
Tutto il resto
venne da sé, con naturalezza, come se non lo avessi progettato
io sul bus. Niente affatto. Quello che era accaduto alla donna tribale
non smise di ossessionarmi fino a Phansa, anche se Mrs Mirchandani era
decisa – forse per il mio bene, perché pensava che non mi fossi
ancora ripresa dalla perdita della mia famiglia – Mrs Mirchandani era
decisa a parlare di tutt’altro. E poi era una donna che non poteva
davvero partecipare alle perdite di chi era troppo diverso da lei, e
per la verità molte di noi lo sono. Parlò di tante cose,
mentre la donna tribale perseguitava la mia mente e i miei pensieri.
No, non ebbi tempo per pensare al mio futuro sul bus. E se ci provai,
tutto quello che desideravo erano un tetto sulla testa e un impiego.
Ma le cose
girarono a modo loro, come avrebbe detto il maestro di tabla, ridendo e
tossendo.
Venne fuori che
Vijay Marchandani era più o meno come me l'ero immaginato: poco
più di quarant'anni, uno che prendeva tutto con calma,
moderatamente religioso, con un viso piacevole, la pelle un po’ scura e
ruvida, il corpo poco tonico, e un'inappagata fame di donna.
Bastarono pochi giorni a fargli dimenticare la sua insegnante
anglo-indiana – che era più probabilmente un'amica che un'amante
– e cominciò a dedicarmi la sua attenzione. Ci sarebbe voluto
più tempo a me per dimenticare la donna tribale.
Una volta che
ebbi realizzato che cosa stava capitando, cominciai ad avvicinarmici
con modi assai pudichi. Mai, nemmeno una volta, gli permisi di pensare
che stessi prendendo io l’iniziativa. Gli preparai il tè e con
pudore risi delle sue battute. Mi strusciai a lui per caso, e arrossii.
Lo guardai e, quando incrociò il mio sguardo, guardai subito da
un'altra parte. Ammesso che Mrs Mirchandani si rendesse conto di quel
che stava succedendo, fece finta di nulla. Forse lei non poteva
immaginare che suo figlio contemplasse l'ipotesi di una cosa duratura
con un'orfana senza un centesimo. E poi era felice di mettere fuori
combattimento la chiacchierata insegnante anglo-indiana, inoltre le
piacevo veramente. Una volta mentre le massaggiavo i piedi, mi fece una
carezza sulla testa e disse: Se tu fossi Sindhi, ti farei sposare
Vijay. Ti comporti con tanta educazione e hai la nostra cultura in ogni
vena e in ogni cellula del tuo corpo. È così raro
incontrare donne come te di questi tempi, figlia mia. Che dio ti
conceda una lunga vita.
Non le dissi che
molte delle sfumature della ‘nostra cultura’ che apprezzava tanto in me
le avevo imparate da un'ustad musulmana e facevano parte proprio della
cultura di quella gente che non avrebbe mai perdonato. Se non voleva
che ci fosse nulla in comune fra lei e quella gente, doveva far
sposare suo figlio con un tipo di donna tribale come quella che quel
giorno era salita a bordo del bus. E anche in questo caso poteva non
riuscirci, perché gli esseri umani sono come pezzi di stoffa
nella pioggia del tempo: porosi. Le culture filtrano in noi:
acquistiamo peso con la nostra storia e con le storie di tutti gli
altri. Avrei potuto dirglielo, ma non volli.
Poi una sera,
mentre Mrs Mirchandani era fuori per uno dei suoi frequenti kirtan o
darshan religiosi, Vijay tornò a casa presto. Camminò
fino a raggiungermi. Ero in cucina, a preparare il pranzo.
Stai
cuu-cuu-cuuu-cinando? Chiese, deglutendo con difficoltà.
Mi risistemai il
pallu del sari in modo che mi coprisse il capo e mi nascondesse una
parte del viso. Nei tempi andati era un gesto che ci si aspettava da
qualunque ragazza perbene.
Perché ti
copri sempre il volto? Disse Vijay, deglutendo con crescente
difficoltà. Hai un volto così carino. Non devi tenerlo
seminascosto. Non dire queste cose,
mormorai, con un'agitazione nella voce.
Perché no?
No e basta.
Perché no?
Lo sai.
Perché
no? Disse ancora lui. Il mio finto imbarazzo aveva prodotto su lui il
giusto effetto: stava diventando più audace e aveva smesso di
deglutire come un pesce rehu.
Non sta bene,
dissi.
Non sta bene?
Cosa c’è di male nel dire a una donna che ha un bellissimo viso?
Dopo un momento
aggiunse, a voce bassa e roca: E il corpo come lo chandan.
A questo punto
Vijay venne più vicino, tanto che il suo corpo toccava il mio.
Mi ritrassi, ma senza allontanarmi troppo. Mi seguì e mi mise un
braccio esitante intorno alla vita. Glielo lasciai fare. Ma quando mi
sollevò il viso per baciarmi, trovò delle lacrime che mi
scendevano piano dagli occhi. Per fortuna avevo appena fritto le
cipolle e le lacrime sembravano naturali. Vijah diventò
apprensivo. Fece un passo indietro e chiese, Cosa c’è di
sbagliato? Non ti piace che ti tocchi?
Che importa,
babu?
Importa eccome!
Non sono mica un mostro!
In questa casa
tu in sei il padrone e io un’orfana senza casa, una serva, una schiava.
Che importa quello che sento io?
È questo
che pensi? Disse Vijay, un po’ sollevato. Credi che io stia solo
facendo lo scemo con te?
Sono troppo
indifesa per credere, babu.
Non sto
scherzando con te. Ti sto guardando da settimane. Mi sono innamorato di
te, dichiarò Vijay.
Solo i ricchi si
innamorano, babu. Che posso dire? Se mi oppongo, tu mi butterai fuori
ora. Se non mi oppongo, mi butterai fuori dopo... quando il tuo amore
finirà. Perderò la sola cosa che mi è rimasta
nella vita: la mia...
Vijay
sembrò preso alla sprovvista da queste parole. Allora disse: E
se ti sposassi?
Tua madre non
sarà d’accordo, replicai.
Lo sarà.
No, non ti
farò fare qualcosa che possa ferire tua madre. È la mia
padrona. È la mia dea.
66 –
Più
tardi, quando l'ufficiale di polizia venne per interrogarlo, lui
mantenne un silenzio idiota, come se non capisse bene. Suo padre era
seduto accanto a lui, come lui accovacciato sul pavimento di fronte
all’ufficiale. L’ufficiale era seduto sul carpoy che era stato tirato
fuori in suo onore, con le gambe accavallate e i piedi in alto. C'erano
due agenti impettiti accanto al charpoy. Sua madre era in piedi dietro
all’ufficiale e agli agenti sulla porta bassa della loro casa
semi-pukka, e dietro a lei tutte le sue sorelle con gli occhi
spalancati.
Aveva pensato
che gli avrebbero chiesto di quel cumulo di terra e calcinacci sul
bordo della strada. Aveva pensato che gli avrebbero chiesto del
bambino che avevano seppellito. Ma questo non li interessava. Cercavano
un ragazzo di nome Chottu che aveva ucciso qualcuno a Patna, una certa
Srimati Prasad, ed era scappato con un mucchio di soldi e di gioielli.
Il ragazzo viveva in uno dei paesi vicini, disse l’ufficiale.
Era chiaro che
per l’ufficiale tutti i paesi della zona erano copie dello stesso
campione sottosviluppato. Non esistevano, come per lui e per la sua
famiglia, come entità distinte, uno noto per le sue coltivazioni
di mango, l’altro per un dolce particolare, uno famoso per
l’irascibilità dei suoi abitanti, l’altro per la
generosità dei paesani.
No, rispose, no,
non conosceva nessuno di quel paese.
Veniva da una
lunga stirpe di paesani che credevano che non si dovesse dire nulla ai
poliziotti a meno che non si fosse più che sicuri che fosse
esattamente quello che la polizia voleva sentire. Non fece parola del
ragazzo che aveva visto sgattaiolare via quando avevano sepolto il
bambino. Il ragazzo che aveva visto non aveva nient'altro che un unico
splendido sari Banarasi. Non disse nulla di quel ragazzo, anche se
più tardi venne a sapere che Chottu lo avevano preso comunque.
Quando l’aveva visto per l’ultima volta Chottu stava tagliando per i
campi, e camminando agilmente sull’aaris. Il modo in cui camminava
diceva che non era estraneo ai confini sottili e ai sentieri angusti
della vita contadina. In qualunque altro giorno, avrebbe prestato
più attenzione a qualcuno che fosse sceso alla fermata e si
fosse incamminato verso il suo paese o verso uno dei paesi limitrofi.
Ma quella volta era impegnato a procurare una pala, e l’ultima cosa che
ricordava di Chottu, o chiunque fosse, era l’immagine di un ragazzo
come lui pochi anni prima, una ragazzo coi pantaloni corti che
camminava veloce sulla stretta aaris, con la luce del sole che
luccicava sulla fibra lussuosa del sari Banarasi che portava
sottobraccio. Quando cercò di nuovo il ragazzo, dopo che il
neonato era stato seppellito, di lui non c’era più traccia di
lui. La distanza l’aveva ingoiato. Eppure gli era parso di vedere
qualcosa che luccicava in lontananza.
67 –
Il telegramma
che Rasmus ricevette dall’ufficio di Delhi pochi giorni dopo gli fece
comprare una bottiglia di whisky per festeggiare con il manager indiano
dell’ufficio di Gaya e con dei turisti danesi che aveva conosciuto a
Bodh-Gaya. Voleva dire che la sua lunga missione in India - quasi un
anno - si sarebbe conclusa entro pochi giorni. La gioia per il
telegramma gli fece dimenticare l’irritazione con la quale aveva
portato la valigetta alla residenza del ministro. Dimenticò
anche il bambino morto e lo ricordò solo un po' di tempo dopo, a
Copenhagen, portandolo ad esempio degli aspetti estremi dell'India. I
tanti fili che vanno nel tilkut, che si torcono e girano, gorgogliano e
si strappano, si fondono e si dividono, sarebbero tutti diventati
invisibili nel tilkut impastato e cotto del racconto che Rasmus avrebbe
servito ai suoi commensali a Copenhagen. Perché non ci scrivi un
romanzo, avrebbe detto la sua ragazza, una cosa cupa e inquietante,
forte e kafkiano, oppure una cosa leggera e irriverente, un realismo
magico carino come quello di comesichiama Rushdie?
Il telegramma
diceva: CONGRATULAZIONI STOP IDEA GITA REGALO EFFICACE STOP ARRIVATO
ORDINE STOP ALLA SIR TAK STOP
L’ultima frase,
pensò Rasmus, doveva essere ‘alle siger tak’ storpiata.
68
Vijay
andò via confuso. Ma tornò molto presto.
Quella sera, il
giorno dopo e tutti i giorni per le tre settimane seguenti, lo
incoraggiai con le parole e con qualche toccata casuale, e all’ultimo
momento lo tenni a bada. Sentivo come diventava disperato. Smise di
radersi. I suoi capelli così lucidi e curati diventarono
incolti. Appena sua madre usciva, arrivava da me e mi ronzava intorno.
E poi, una sera, mentre Msr Mirchandani era fuori per un altro kirtan,
me lo vidi arrivare di corsa e cominciò ad agguantarmi i
vestiti. Io cercai di protestare, ma lui cominciò a baciarmi,
sussurrando, ti sposerò, ti sposerò, ti prometto che ti
sposerò.
Promesse,
promesse, promesse, le ripeteva come un bambino che fa a un altro
bambino una solenne promessa che capisce solo a metà. Ma la sua
voce non era quella di un bambino, era roca e congestionata.
Vijay non
è molto forte - avrei potuto respingerlo se avessi voluto. Ma
mentre continuavo a protestare lasciai che mi prendesse. Come lo fece,
di certo non era mai stato a letto con una donna - a dispetto di tutte
quelle chiacchiere sull’insegnante anglo-indiana. Non c'è da
meravigliarsi: con una madre dominante come quella con tutte le sue
elevate aspettative religiose! Ho dovuto aiutarlo a fare quel che
voleva, senza smettere di fingere di resistergli. Non si è
accorto della differenza. Di nessuna differenza. Alla fine, mi sono
semplicemente seduta e ho pianto. In modo patetico. Umile.
Inconsolabile.
Sapevo che la
sua coscienza avrebbe fatto l'ultima parte del mio lavoro. Il giorno
dopo me ne rimasi nella mia stanza e quando Mrs Mirchandani mi chiese
cosa avevo finsi un mal di testa.
Mancava solo un
giorno, ed era fatta. Ha trovato un pujari del posto e mi ha sposato
senza dire una parola a sua madre. Poi gliel’ha detto. Baap ré,
come strillava la vecchia! Si strappava i capelli, si batteva il petto,
minacciava di lasciare la casa del figlio. Per un istante ho pensato
che tutti gli sforzi che avevo fatto per piacerle fossero stati
spazzati via. Ma la mattina dopo lei era soltanto imbronciata. Una
settimana dopo, mi ha parlato per la prima volta dopo la rivelazione.
Nell’arco di un mese, ha accettato il nostro matrimonio - a condizione
che ci sposassimo un'altra volta con il rito completo e la sua
supervisione.
Vieni, figliola,
mi ha detto, mi sei sempre piaciuta e forse è un bene per tutti.
Dopo tutto, tu sei la mia nuora e sei una pundit Kashmiri. Diventerai
una moglie perfetta. Perdoniamo e dimentichiamo.
Perdonare.
Sì, maaji, è quel che voglio fare. Dimenticare.
Dimenticare chi ero. Dimenticare Chaand. Dimenticare il suono
graffiante di riso e di tosse del maestro di tabla che moriva
sanguinando lentamente. Dimenticare lo sguardo - o la mancanza di
qualunque sguardo riconoscibile - sul viso della donna tribale.
Dimenticare e diventare rispettabile. Sì, maaji,
dimenticherò. Sarò brava a dimenticare.
Ma naturalmente
non ho detto nulla di tutto questo. Sapevo che nella mia nuova vita ci
sarebbero state molte cose che non avrei mai detto. Ho solo fatto
sì col capo quando ha detto un'altra volta: Eri già mia
figlia. Sarai una moglie perfetta.
Ed è quel
che sono ora. C’è stato un tempo in cui avrei potuto essere
custode delle chiavi dell’harem, guardiano del più santo dei
santuari del Medio Oriente, danzatore, spia, studioso, generale a
Delhi. Ora non sono niente di tutto questo. Ma alla fine sono qualcosa
che per tanti è ancora più difficile da raggiungere. Sono
la moglie perfetta.
Non sono
più Farhana Begum o Parvati.
Sono Mrs
Mirchandani.
Non sarò
sepolta da sconosciuti lungo una via. Il mio destino sarà
un’altra storia ... no, non quella.
69 -
La notte che
avvolge il suo villaggio è profonda. Nella sua oscurità
puoi vedere le stelle. Le stelle qua fuori sono più brillanti
che nelle città grandi e piccole.
Sulla terra non
ci sono le stelle. Se ci fosse stata la luce del giorno, avresti potuto
vedere i villaggi vicini. Ma di notte i villaggi non accendono nemmeno
una lampada nelle ore in cui non si veglia. A differenza del cielo, la
terra indossa la notte senza il manto di stelle.
Non ride
più. Dorme. A singhiozzo, come il passeggero di un bus.
ANCORA CASE
Ecco, il bus si è fermato per la notte; siamo tornati tutti a
casa.
Home, casa.
Una parola che,
in inglese o in danese, si dice con una morsa finale delle labbra, come
finestre che si chiudono, come se quello che contiene non fosse
nient'altro che spazio; fanno una mossa come quella di un bambino
possessivo che stringe i suoi giocattoli fra le braccia: home; e che,
in Hindi o in Urdu, si dice con una delicata emissione di fiato, le
labbra che si aprono come porte, una mossa che procede dalla ruvida
gutturale che cattura nella gola al finale rullio della lingua: ghar,
casa.
Ghar, casa,
è anche l'edificio.
Siamo tornati
tutti a casa, o almeno dentro i loro muri. Io ho la casa dei miei
ricordi, quella casa, diciamo, di sessantanove stanze. Dalle finestre
di queste stanze messe a soqquadro ho visto per la prima volta il mondo
che ho cercato di mostrarti, quelle stanze che sono tutte buttate
all'aria - come in un bhoolbhoolaiya, come in una casa cresciuta e
demolita negli anni, come in uno di quegli stati mentali (sognando,
rimemorando o meditando) in cui mancano le cuciture e le cose scorrono
in avanti e all'indietro. Le mie case - fragili, confuse, mostruose -
non le hanno tenute dentro né Ammi kè ayan né
Ghar, anche se ho sempre portato il loro fardello.
Parvati,
Farhana, comunque si chiami, anche lei ha trovato una casa; ha trovato
una casa rispettabile, la casa dei Mirchandani, la casa che veste a
pennello, la casa prêt-à-porter. Hari è tornato,
questa notte almeno, da sua moglie, che lui stanotte non
brontolerà, non ci pensa nemmeno. Rasmus è tornato a Gaya
e presto ritornerà presto dalla sua fidanzata a Hillerød,
nel loro appartamento di tre stanze in un palazzo del diciannovesimo
secolo, alle candele che accendono tutte le sere, ai dipinti in
cornice, alle piante in vaso, all’ordine polveroso della
proprietà. Wazir Mian è nella casa che ha costruito negli
anni, la polemica casa dei suoi figli. Gli auguro una vecchiaia libera
da litigi. Gli auguro campi non divisi in appezzamenti. Gli auguro solo
dolci battibecchi sui canali d'irrigazione. E suo figlio, quello con i
baffi fini a matita e i capelli impomatati, quello con la cicatrice
livida, c’è anche lui, in quella casa di cui si lamenta
perché è in un paese mentre lui preferirebbe vivere in
una città. Tu, tu sei nel tuo appartamento a Patna, con la TV
accesa, senza il sonoro, ad aspettare il tap-sigh-tap dei passi stanchi
di Mr Sharma. Il ragazzo che sarebbe finito da solo in grandi
città dove le donne hanno un buon odore, l’adolescente che una
volta era innamorato della sfacciata Zeenat ha una casa anche lui, e di
sicuro Zeenat e il suo piccolo moccioso troveranno un’altra casa in cui
lavorare. Come sempre. Il bigliettaio, ma sì, il bigliettaio,
sappiamo che ha una casa, una casa che ha costruito con tanta fatica e
tanti sforzi e tanti progetti, una casa con un grande dipinto di Lord
Hanuman incorniciato, inghirlandato, e un agarbatti che gli brucia
accanto; e l’Autista Mangal Singh, anche lui ha la sua kamra nella
quale entrano a volte donne dal trucco sgargiante, donne che mettono un
rossetto scarlatto. Anche il giovane del villaggio che sedeva sul muro
e aveva preso la vanga ha una casa. Io non sono un mago: non posso
portarti proprio dentro alla casa semi-pukka di quella giovinezza, ma
se rallenti un po' te la posso posso indicare. Eccola, eccola
là, accanto all’albero di peepul chino nel riposo del villaggio,
con un pezzo d’aratro che riposa contro il muro di una baracca
semiaperta, su una parete della casa butterata di torte secche di merde
di vacca.
E la donna
tribale, forse mi chiedi. È tornata a casa? E Chottu? È
arrivato a casa con lo scintillante sari Banarasi, il sari che era il
suo compenso, più qualche rupia, per far entrare gli assassini?
Conosceva il destino di Mrs Prasad? Gli importava di quel che le
succedeva in casa sua, in quell’appartamento ricolmo dei simboli
inutilizzati dell’assenza dei suoi bambini, aggeggi che lei trovava
tanto irritanti e che Chottu poteva soltanto agognare?
E il bambino che
era stato sepolto sul bordo della strada? Ha trovato la sua casa,
là sotto la terra e le macerie? O una notte sarà stato
dissepolto dalle volpi e dai cani sopravvissuti al monopolio dell’uomo?
O sarà spazzato via dalla prossima piena, trascinato in un
affluente del Gange e da lì nel Gange e da lì nella Baia
del Bengala? Saranno le acque ancora sconfinate dell’oceano la sua casa?
Ci sono cose che
non posso vedere nei libri.
E poi, forse mi
chiedi, da dove cominciano le case? Cominciano fuori, dalla strada,
dove i mattoni partono per guidarti nel giardino? Cominciano al
cancello? La tua casa è il villaggio, il paese, la città?
È tutta la nazione, e le sue chiavi sono i passaporti stampati e
timbrati, o è soltanto quel piccolo vicinato? È un
fratello, una sorella, una madre, un padre, una moglie, un marito, un
bambino la tua casa, la tua casa sono i tuoi amici? La tua casa
è dove arrivi o da dove parti?
O la tua casa
può essere su un bus? Ci sono bigliettai che dormono più
nei loro bus che nelle loro case di due stanze, con i tetti ondulati
sui quali una pioggerella sembra una cascata. Domanda a Hari, ti
dirà che lui ha passato più notti nel suo taxi Ambassador
che con sua moglie. Domanda a Zeenat. Domanda a Wazir Mian: non ha
passato più anni in varie cucine di quanti ne passerà
nella casa dei suoi figli?
Domandamelo a
me, perfino a me, perché ho conosciuto tante case nella vita.
Case grandi, con le radici, case che un tempo assumevano persone come
Wazir Mian, rubandoli alle loro case, regalando ai loro figli case e
rancore. Ammi ké yahan e Ghar. Ho portato queste case a modo
mio, sulle mie spalle molto più agiate. Ho trovato e perduto,
perduto e trovato anche le mie case. Ho fatto la mia casa su bus e
aeroplani, in hotel e appartamenti in affitto. Anche nel mio caso non
era una scelta del tutto libera. Vengo da un posto in cui le scelte
sono meno libere di quanto sembrano in altri posti.
E in questi
altri posti, si trovano gli indici puntati. Guarda, dicono quelli che
credono di avere case con solide radici, fermati, fermati, gridano
quando passiamo davanti alle loro vetrine e ai loro giardini, guarda,
guarda, guarda, esclamano, perché dopo secoli di sradicamento
gli homeless, les marginaux, i contadini senza terra, gli zingari,
l'ebreo errante, i vagabondi, il lumpenproletariat, dopo secoli in cui
si sono messe a dimora le persone come se fossero alberi, ci tengono
ancora, e così alzano l’indice e gridano, ladro assassino
clandestino immigrante.
Anch’io conosco
la paura dell’indice puntato; anch’io so leggere la parola nella
cornice delle labbra scostate.
Anche se le cose
a volte le cose girano a modo loro, come ti avrebbe detto il maestro di
tabla, ridendo e tossendo, tossendo e ridendo. A volte.