logoCONVEGNO INTERNAZIONALE DEL FORUM LOU SALOMÉ - DONNE PSICANALISTE IN RETE
FIRENZE, 10 NOVEMBRE 2007

La Casa di Parole - Alice Munro
A cura di Adalinda Gasparini

LICHENE p
Da The Progress of Love, 1985 e 1986; Il percorso dell'amore; tr. it. Susanna Basso; pp. 33-58; © Einaudi, Torino, 2005.

HÉLIANE VENTURA
LE TRACÉ DE L'ÉCART OU "L'ORIGINE DU MONDE" RÉINVENTÉE DANS "LICHEN" D'ALICE MUNROp

NOTE DI LETTURAp

GUSTAVE COURBET, L'ORIGINE DU MONDE p









LICHENE

Il padre di Stella l'aveva costruita come casa per l'estate sul promontorio argilloso che domina il lago Huron. In fa­miglia la chiamavano sempre «il villino estivo». Vedendola per la prima volta, David si meravigliò che non possedesse né il fascino nodoso del legno di pino né la grazia raccolta che la definizione evocava. Ragazzo di città, proveniente, co­me dicevano i genitori di Stella, da «un ambiente diverso», che poteva saperne, David, di villini estivi? L'edificio era ed è una costruzione alta e sobria, in legno dipinto di grigio: co­pia esatta delle vecchie cascine della zona, sebbene forse un po' meno solida. Ha di fronte i ripidi calanchi., non tanto so­lidi a loro volta, ma che fino a oggi hanno retto, e un lungo precipizio di scalini che scende alla spiaggia. Sul retro c'è un piccolo orto cintato, dove Stella coltiva vari ortaggi con considerevole talento e dedizione, un breve vialetto sab­bioso, e una giungla di rovi di more selvatiche.

Quando l'auto di David svolta nell'ingresso, dai cespu­gli emerge Stella, con in mano un colino pieno di more. È una donna piccola e grassa, bianca di capelli, in jeans e ma­glietta sporca. Sotto, non porta nulla che sostenga o con­tenga qualsiasi parte del corpo, per quanto David riesce a vedere.

- Guarda Stella come si è ridotta, - dice David furente. - Sembra un troll.

Catherine, che non l'ha mai conosciuta, ribatte cortese­mente: - Be'. Sarà piú vecchia.

- Piú vecchia di chi, Catherine? Della casa? Del lago? Piú vecchia del gatto ?

C'è un gatto che dorme sul sentiero che costeggia l'orto.

Un gattone rosso con le orecchie mutilate in battaglia e un occhio velato di grigio. Si chiama Hercules e risale ai tempi di David.

- Piú vecchia e basta, - replica Catherine con un moto di sfida. Anche quando intende provocare, risulta docile. - Hai capito cosa intendo.

David è convinto che Stella l'abbia fatto apposta. La sua non è solo rassegnazione di fronte al naturale declino fisico, oh no, è molto di più. A Stella è sempre piaciuto strafare. Ma non soltanto a lei. C'è proprio un tipo di donna che sente il bisogno di esplodere dall'involucro femminile a quell'età, di ostentare grasso o una scandalosa magrezza, di coltivare por­ri e peli sulla faccia, di non nascondere gambe grosse e piene di varici, quasi con allegria, come se da sempre non aspettasse che questo. Androfobe, sin dal principio. Anche se di questi tempi una cosa del genere non si può dire a voce alta.

David ha parcheggiato troppo vicino ai rovi, troppo per Catherine, almeno, che è appena scivolata fuori dall'auto dal­la parte del passeggero e già si ritrova nei guai. E piuttosto sottile, ma indossa un abito con la sottana lunga e ampia e le maniche abbondanti: un vestito di garza di cotone, di un ro­sa che sfuma dal pallido al carico, stropicciato da decine di piccole pieghe irregolari simili a rughe. Grazioso, niente da dire, ma decisamente inadatto al regno di Stella. I rovi di mo­re vi si impigliano dappertutto, e Catherine è costretta a di­stricarsi continuamente.

- Certo, David, che potevi anche lasciarle un po' di spa­zio in piú, - dice Stella.

Catherine ride per sdrammatizzare l'imbarazzo. - Non fa niente. Tutto a posto, davvero.

- Stella, Catherine, - dice David, presentandole.

- Prendi qualche mora, Catherine, - ribatte Stella pre­murosamente. - David?

David scuote il capo, Catherine invece ne prende un paio. - Buone, - commenta. - Ancora calde di sole.

- A me viene male soltanto a guardarle ormai, - dice Stella.

Da vicino, l'aspetto di Stella migliora un po'; ha la carna­gione liscia e abbronzata, un taglio di capelli da bambina e grandi occhi castani. China su di lei, Catherine appare alta, esile e ossuta, coi capelli biondi e la pelle delicata. Talmente delicata da non sopportare nemmeno un filo di trucco, una pelle che si arrossa facilmente per raffreddori, cibi piccanti, emozioni. Di recente, Catherine ha cominciato a usare om­bretti azzurri e mascara nero, cosa che David giudica un er­rore. Scurire quei ciuffi radi di ciglia ha l'effetto di sottoli­neare l'azzurro acquoso di occhi che sembrano inadatti a tol­lerare la luce del giorno, e l'aridità della pelle tutto intorno. Al primo incontro con Catherine, circa un anno e mezzo fa, David le aveva dato poco piú di trent'anni. Riconosceva in lei molte tracce della ragazza che era stata; si innamorò del suo incarnato chiaro e della fragilità che le conferiva la sta­tura. Da allora è invecchiata. Del resto, è oggettivamente piú vecchia di quanto avesse pensato: si avvicina ai quaranta.

- Ma che ne fai? - chiede Catherine a Stella. - Marmel­lata ?

- Ne ho già fatti piú o meno cinque milioni di vasetti, - ri­sponde Stella. - Uso quegli stupidi barattoli con il coperchio rivestito di stoffa a quadretti e li distribuisco a tutti i vicini troppo pigri o troppo furbi per mettersi a raccogliere le mo­re. Certe volte mi chiedo perché non lascio che i copiosi frut­ti di madre Natura marciscano tranquilli nella vigna.

- Altro che vigna, - interviene David. - Qui si tratta di quei maledetti rovi che andrebbero estirpati e poi bruciati. Allora sí che ci sarebbe il posto per parcheggiare.

Stella si rivolge a Catherine: - Ma lo senti? Parla ancora come un marito.

Stella e David sono stati sposati ventun anni. Da otto so­no separati.

- Quant'è vero, David, - dice Stella, contrita. - Dovrei ripulire un po'. Ho una bella lista di cose che non trovo mai il tempo di fare. Avanti, entrate; io vado a cambiarmi.

- Dovremo fermarci alla bottiglieria, - dice David. - Non ce l'ho fatta prima.

Una volta all'anno, d'estate, David viene a trovarla, cer­cando di arrivare il piú vicino possibile al compleanno del pa­dre di Stella. Gli porta immancabilmente lo stesso regalo: una bottiglia di whiskey scozzese. Quest'anno il suocero compie novantatre anni. Sta a poche miglia da li, in una casa di ripo­so dove Stella può fargli visita due o tre volte alla settimana.

- Devo solo darmi una lavata, - dice Stella. - E metter­mi addosso qualcosa di colorato. Non per papà: ormai è com­pletamente cieco. Ma ho la sensazione che agli altri piaccia vedermi vestita di rosa, di celeste o che so io; li mette di buon umore, come se vedessero una mongolfiera. Voi due intanto avete giusto il tempo di bere qualcosa. Anzi, perché non ver­sate un bicchiere anche a me?

Procedono in fila indiana sul sentiero verso casa. Hercu­les non si sposta.

- Che scansafatiche di un gatto, - dice Stella. - Sta di­ventando pigro come papà. Secondo te dovrei ridipingere la facciata, David?

- Sì.

- Papà diceva sempre ogni sette anni. Non so: sto pren­dendo in considerazione l'ipotesi di far mettere un rive­stimento. Mi proteggerebbe meglio dal vento. Da quando sverno qui, a volte ho l'impressione di vivere dentro una voliera.

Stella abita in questa casa tutto l'anno. In principio, uno o l'altro dei figli stava spesso con lei. Ma adesso Paul studia Scienze forestali nell'Oregon e Deirdre insegna inglese in una scuola di lingue in Brasile.

- Ma secondo te si riesce a trovare una tinta come questa in un rivestimento? - chiede Catherine. - È un colore bel­lissimo, cosí, un po' sbiadito dal tempo.

- Io avevo in mente una tinta panna, - dice Stella.

 

Sola in questa casa, in questa comunità, Stella conduce una vita piena, di quando in quando caotica. Lo prova il di­sordine che li circonda mentre procedono attraverso il por­tico posteriore e la cucina per arrivare in soggiorno. Ci so­no ad esempio alcune piante che sta rinvasando e i barat­toli di cui parlava: non li regala tutti, spiega; alcuni li tiene per il mercatino e per la fiera d'autunno. C'è l'attrezzatu­ra per il vino e infine, nel lungo soggiorno che affaccia sul lago, la sua macchina da scrivere, circondata da mucchi di libri e pile di carta.

- Sto scrivendo le mie memorie, - dice Stella. Rovescia lo sguardo in direzione di Catherine. - Sono pronta a smet­tere per una cifra in contanti. No, David, scherzo, sto scri­vendo un articolo sul vecchio faro -. E indica il faro a Cathe­rine. - Se ti metti proprio sull'angolo, da questa finestra rie­sci a vederlo. Faccio un pezzo per la Società storica e per la gazzetta locale. La classica scrittrice in erba.

Oltre che la Società storica, aggiunge, frequenta un grup­po di lettura drammatica, un coro parrocchiale, l'associazio­ne vinificatori, nonché un circolo di persone che organizza­no a turno cene informali a prezzo fisso (e conveniente).

- Giusto per mettere alla prova la nostra ingegnosità, - di­ce. - Mai cessare di mettersi alla prova.

E questa non è che la parte piú o meno organizzata della sua vita. Tra i suoi amici ce n'è per tutti i gusti. Gente che si è ritirata qui dopo la pensione, e abita in cascine rimo­dernate o villini estivi attrezzati per l'inverno; persone piú giovani di varia provenienza che si sono sistemate in zona, rilevando vecchie fattorie malandate delle quali i contadini nati e cresciuti da queste parti non hanno piú voglia di oc­cuparsi. E il dentista gay del paese con il suo amico.

- Ormai vige una fantastica tolleranza, qui da noi, - grida Stella che è scomparsa in bagno e comunica quell'informa­zione alzando la voce a coprire lo scroscio dell'acqua. - Non cerchiamo di accoppiare i sessi a tutti i costi. Il che è meglio per noi mogli a riposo. Siamo grosso modo una mezza dozzi­na. Una fa la tessitrice.

Dalla cucina, David strilla: - Non trovo l'acqua tonica.

- Ce l'ho in lattina. Sono per terra, vicino al frigo. Que­sta donna ha le sue pecore. La tessitrice, dico. Ha il suo ar­colaio. Fila la lana e poi la tesse.

- Oh, Gesú, - fa David pensieroso.

Stella ha chiuso il rubinetto; arrivano rumori d'acqua.

- Immaginavo che questa ti sarebbe piaciuta. Come vedi, non sono poi tanto stramba. Io mi limito a fare la marmellata.

Un attimo dopo, esce dal bagno avvolta in un asciugama­no e dice: - Il mio bicchiere dov'è? - I lembi superiori del telo sono ripiegati sotto un braccio, quelli inferiori ondeg­giano, pericolosamente sciolti. Accetta un gin tonic.

- Lo bevo mentre mi vesto. Ho due nuovi completini esti­vi. Uno rosa carico e uno turchese. Posso alternarli o abbi­narli. Sono stupenda, comunque.

Catherine arriva dal soggiorno per prendere il suo drink, e butta giú i primi due sorsi come se fosse un bicchiere d'acqua.

- Mi piace questa casa, - sentenzia con leggera veemenza. - Dico davvero. È cosí primitiva e senza pretese. Piena di lu­ce. Ho cercato di capire che cosa mi ricorda e finalmente lo so. Avete presente quel vecchio film di Ingmar Bergman, quel­lo della famiglia che si trasferisce sull'isola per le vacanze? In una bella casa malandata. La protagonista sta impazzendo. Mi ricordo che al tempo avevo pensato: «Ecco come dovrebbe­ro essere le case di villeggiatura, ma non lo sono mai».

- Era quello in cui Dio è un elicottero, - dice David. - E lei amoreggiava col fratello sul fondo della barca, giusto?

- Be', ho paura che qui non sia mai successo niente di co­sí interessante, - dice Stella da sopra la parete della stanza da letto. - Devo dire che i film di Bergman non mi entusia­smano. Li ho sempre trovati un po' tetri e nevrotici.

- Da queste parti le conversazioni tendono a diventare pubbliche, - dice David a Catherine. - Hai notato che non un solo pannello divisorio arriva fino al soffitto? Tranne quello del bagno, grazie a Dio. Il che ravviva parecchio la vi­ta famigliare.

- Ogni volta che io e David volevamo farci una confi­denza, ci toccava mettere la testa sotto le coperte, - dice Stel­la. Esce dalla stanza con addosso un paio di pantaloni elasti­cizzati turchese e una camicetta smanicata, a fiori e foglie turchese su fondo bianco. Se non altro, sembra che si sia mes­sa un reggiseno. Si intravede una spallina color carne che le incide la curva della spalla.

- Ti ricordi quella sera a letto? - dice. - Quando parla­vamo di cambiare la macchina e ci chiedevamo quanto con­sumasse il modello tal dei tali, ora non so piú quale. Co­munque, papà è sempre stato fanatico di automobili, sape­va tutto, e all'improvviso sentiamo che dice: «Fa i dodici con un litro» o giú di lí, come se fosse sull'altro lato del let­to. Naturalmente non era cosí, se ne stava coricato in ca­mera sua. David reagí da vero signore; si limitò a ribattere: «Grazie infinite », come se papà avesse partecipato al discorso dal principio.

 

Quando David esce dalla bottiglieria in paese, trova Stel­la con il finestrino abbassato; sta chiacchierando con una cop­pia che gli presenta come Ron e Mary. Devono avere passa­to da un pezzo i sessanta, ma sono abbronzati e in gran for­ma. Indossano pantaloni scozzesi identici, felpa bianca e cappellino scozzese.

- Molto piacere, - dice Ron. - Cosí è venuto quassú a vedere come se la passa chi sa vivere, eh ? - Ha il tono di vo­ce gioviale di chi potrebbe accennare per scherzo una mos­sa di pugilato. - Quando pensa di andare in pensione e rag­giungerci ?

Alla domanda David si chiede cosa possa aver raccontato in giro Stella a proposito della loro separazione.

- Non è ancora arrivata l'ora della pensione per me.

- Ci vada prima che può. Prenda esempio da noi. Siamo parecchi qui a esserci sfilati dalla solita routine: sgobbare e fare soldi per poi spenderli.

- Non è il mio caso, - dice David. - Sono un impiegato statale. Di quelli che si intascano i soldi dei contribuenti e cercano di faticare il meno possibile.

- Non è vero! - lo rimprovera Stella, con coniugale au­torevolezza. - Lavora al provveditorato agli studi e si dà mol­to da fare. Solo che non lo ammetterebbe mai.

- Un imboscato statale! - gracida Mary esultante. - La­voravo anch'io nella pubblica amministrazione a Ottawa - secoli fa - e ci chiamavano imboscati statali anziché impie­gati statali.

Mary non è affatto grassa, ma il suo mento ha subito un processo che di solito riguarda il mento delle donne obese. È smottato in una serie di anelli che le scendono sul collo.

- Scherzi a parte, - dice Ron. - Qui si vive che è una me­raviglia. Lei non immagina quante cose troviamo da fare. Le giornate non sono mai abbastanza lunghe.

- Ha molti interessi? - domanda David. È serissimo ades­so, rispettoso e attento.

Il tono di voce mette in guardia Stella che cerca di sviare Mary. - Hai poi deciso che cosa fare di quella stoffa che hai comprato in Marocco?

- Macché. Ci verrebbe un vestito stupendo ma non sa­rebbe proprio il mio stile. Va a finire che ne faccio un copri­letto.

- Ci sono così tanti passatempi che uno può andare avanti all'infinito, - dice Ron. - Prenda lo sci, per esem­pio. Di fondo. Siamo stati fuori ben diciannove giorni nel solo mese di febbraio. Tempo magnifico, quest'anno. Non serve neanche prendere la macchina. Ti infili gli sci nel via­le di casa.

- Cerco anch'io di coltivare i miei interessi, - dice David. - Sono convinto che mantenga giovani. - Altro che, non c'è dubbio !

David infila una mano nella tasca interna della giacca. Estrae qualcosa che tiene racchiuso nel palmo, e lo mostra a Ron con un sorrisetto sprezzante.

- Ecco qua uno dei miei interessi, - dice.

 

- Volete vedere cosa ho mostrato a Ron ? - dice David po­co dopo. Stanno costeggiando la scogliera, diretti alla casa di riposo.

- No, grazie.

- Spero che l'abbia apprezzato, - esclama cordiale David.

Si mette a cantare. Lui e Stella si sono conosciuti cantan­do madrigali all'università. O comunque cosí la racconta Stel­la. Cantavano anche altri generi, non soltanto madrigali. - Da­vid era uno sbarbatello pelle e ossa con una voce soave da te­nore, e io un maschiaccio robusto con il vocione da contralto, - ama dire Stella. - Non poté farci nulla. Era destino.

- O, Mistress mine, where are you roaming? - intona Da­vid, che conserva tuttora un bel timbro da tenore.

 

O, Mistress mine, where are you roaming?

O, Mistress mine, where are you roaming?

O, stay and bear, your true love's coming,

O, stay and bear, your true love's coming,

 Who can sing, both High and Low.

 

Giú sul lido, da un capo all'altro della proprietà di Stella, lunghe scogliere basse imbracate in reti metalliche si allun­gano fin dentro l'acqua. Servono a proteggere la riviera dal­l'erosione. Su una di queste pareti rocciose è seduta Cathe­rine, lo sguardo fisso sul lago, con la brezza che le gonfia il vestito leggero e le scompiglia i capelli lunghi. Sembra quasi in posa per una fotografia. O per una pubblicità, pensa Stel­la: un prodotto molto intimo e magari un po' sgradevole, op­pure qualcosa di rispettabilissimo e altisonante, tipo assicu­razione sulla vita.

- Volevo proprio chiederti, - dice Stella. - Ha qualche problema agli occhi?

- Agli occhi? - fa David.

- Alla vista. Mi sembra che faccia fatica a mettere a fuo­co da vicino. Non so come spiegare.

Stella e David sono davanti alla finestra del soggiorno. Di ritorno dalla casa di riposo, si sono versati entrambi qualco­sa di fresco da bere. Durante il tragitto verso casa, si sono parlati appena, ma il loro silenzio non aveva un sapore osti­le. Si sentono purificati e abbastanza socievoli.

- Non ha nessun problema agli occhi, che io sappia.

Stella va in cucina, tira fuori il tegame per l'arrosto e si mette a preparare la carne di maiale con spicchi d'aglio e fo­glie di salvia fresca.

- Sai, le donne hanno un odore particolare, - dice David, dalla porta del soggiorno, - quando si accorgono che non le desideri piú. Un odore rancido.

Stella rigira la carne rumorosamente.

- Bisogna che mi decida a far cambiare tutte quelle reti, - dice. - In certi punti si sono sfilacciate come ragnatele. Do­vresti vedere. La forza dell'acqua. Riesce a consumare anche il metallo. Devo organizzare un piccozza-party quest'autunno. Basta fare un mucchio di roba da mangiare e invitare una squa­dra di uomini assicurandosi che ce ne siano abbastanza e che siano abbastanza robusti. Da queste parti facciamo tutti cosí.

Infila in forno l'arrosto e si sciacqua le mani.

- Era di Catherine che mi parlavi l'estate scorsa, giusto? Quella che secondo te tendeva a essere un po' svampita.

David fa un mugugno. - Cosa dicevo?

- Che tendeva a essere svampita -. Stella si muove senza grazia, mentre tira fuori patate, mele, cipolle.

- Dài, su, dimmi, - insiste David, entrando in cucina per starle alle calcagna. - Dimmi che cosa dicevo.

- Tutto lí, davvero. Non ricordo nient'altro.

- Stella. Ripetimi tutto quello che dicevo di lei.

- Ti assicuro che non mi ricordo.

Si ricorda eccome, ovviamente. Ricorda il tono esatto con cui diceva «ha la tendenza a essere un po' svampita». La fie­rezza e l'ironia della sua voce. Al colmo di un amore, è un classico per lui parlare della donna amata con tenero di­sprezzo, per non dire stupore. Gli piace dire che è una fol­lia, che non capisce, che vede benissimo come la persona in questione non sia affatto il suo tipo. Eppure, eppure, eppu­re. Eppure è piú forte di lui, irresistibile. Aveva raccontato a Stella che Catherine credeva negli oroscopi, che era vege­tariana, e che dipingeva quadri bislacchi pieni di figurine sottili chiuse dentro bolle di plastica trasparente.

- L'arrosto, - esclama Stella, improvvisamente allarma­ta. - Mangerà la carne?

- Cosa?

- La mangerà, C atherine, la carne?

- Magari non tocca cibo. Potrebbe essere con la testa tut­ta da un'altra parte.

- Comunque preparo anche un pasticcio di mele e ci­polle. Lo faccio abbastanza sostanzioso. Al limite mangia quello.

L'estate scorsa, David aveva detto: - E una superstite de­gli hippy di una volta. Non si è manco accorta che quei tem­pi sono passati. Secondo me non ha mai letto un giornale. Non ha la piú pallida idea di cosa succeda nel mondo. A meno che non glielo dica una cartomante. Il suo concetto di realtà è que­sto. Non credo che sia in grado di consultare una cartina. È puro istinto. Vuoi sapere che cosa ha fatto? E andata fino in Irlanda per vedere il Libro di Kells. Aveva sentito dire che era lí. Perciò è scesa dall'aereo a Shannon, e ha chiesto al pri­mo che le capitava indicazioni per andare a vedere il Libro di Kells. E il colmo è che l'ha trovato!

Stella gli chiese come quella creatura svampita avesse mes­so insieme i soldi del viaggio per l'Irlanda.

- Be', ha un lavoro, - le aveva risposto David. - Una spe­cie di lavoro. Insegna arte a scuola, part-time. Chissà che dia­volo insegna a quei poveretti. Probabilmente a dipingere se­condo l'oroscopo.

Ora invece dice: - Ho conosciuto un'altra. Non l'ho an­cora detto a Catherine. Secondo te l'ha capito? Io credo di sí. Credo che se lo senta.

E appoggiato al ripiano della cucina, e guarda Stella in­tenta a sbucciare le mele. Infila una mano nella tasca inter­na della giacca e, senza lasciare a Stella il tempo di disto­gliere lo sguardo, le mette sotto il naso una foto scattata con la polaroid.

- Ecco la mia nuova ragazza, - dice.

- Sembra un lichene, - commenta Stella, interrompendo il gesto del coltello. - Solo che è un po' troppo scuro. Mi ri­corda del muschio su un sasso.

- Dài, Stella, non fare la scema. Chi vuoi prendere in gi­ro? Si vede benissimo. Le vedi le gambe?

Stella depone obbediente il pelapatate e strizza gli occhi. C'è un seno appiattito in lontananza, verso la linea dell'o­rizzonte. E le gambe aperte in primo piano. Sono proprio spalancate - lisce, dorate, statuarie come colonne. Nel mez­zo, la macchia scura che Stella ha chiamato muschio, o li­chene. In realtà assomiglia piú al pelo di un animale a cui sia­no stati mozzati testa, coda e arti. La scura pelliccia morbi­da di uno sventurato roditore.

- Ah, sí, adesso la vedo, - commenta piena di buon senso.

- Si chiama Dina. Dina, senza l'acca finale. Ha ventidue anni.

Stella non vuole chiedergli di mettere via la foto, e nep­pure di levargliela da sotto gli occhi.

- È una monella, - dice David. - Proprio una gran mo­nella! E andata a scuola dalle monache. Niente di peggio del­le ragazze educate dalle suore, quando si mettono in testa di scatenarsi. Frequentava il liceo artistico dove insegna Cathe­rine. Si è ritirata. Adesso lavora in un cocktail bar.

- Non mi sembra un lavoro cosí scandaloso. Anche Deirdre ha fatto la cameriera in un cocktail bar per un po' ai tempi dell'università.

- Ma Dina non è come Deirdre.

Finalmente, la mano che tiene la foto si abbassa, e Stella riprende il coltellino e torna a sbucciare le mele. David però non ritira la foto. Fa il gesto, ma poi cambia idea.

- Quella streghetta! - commenta. - Mi sta dannando l'a­nima.

Quando parla della ragazza, assume, secondo Stella, un to­no di voce particolarmente artefatto. Ma chi è lei in fondo per dire che cosa di David è artefatto e che cosa no? Quella voce singolare è piuttosto acuta, monotona, insistente e segnata da una dolcezza calcolata, cattiva. Contro chi è indirizzata que­sta cattiveria? Contro Stella, Catherine, la ragazza, se stes­so ? A Stella sfugge un sospiro piú rumoroso ed esasperato di quanto fosse nelle sue intenzioni. Posa una mela sbucciata a metà. Raggiunge il soggiorno e si mette alla finestra.

Catherine sta scendendo dalla scogliera. O quantomeno ci prova. Le si è impigliato il vestito nella rete metallica.

- Quel bel vestitino d'altri tempi le sta creando un muc­chio di problemi oggi, - commenta Stella, sorprendendo se stessa per la cadenza sgradevole e per la nota malevola del suo tono di voce.

- Stella, vorrei che mi tenessi questa foto. - Tenerla io?

- Ho paura di mostrarla a Catherine, altrimenti. Conti­nuo a sentire l'impulso di farlo. Temo che potrei.

Catherine si è districata e li ha intravisti alla finestra. Sa­luta con la mano, e Stella le risponde.

- Ne avrai certamente delle altre, - dice Stella. - Foto­grafie, intendo.

- Non con me. Non è che voglia ferirla.

- E allora non farlo.

- È lei che mi esaspera. Mi ciondola intorno con quegli sguardi afflitti. Si impasticca. Prende degli euforizzanti. Be­ve. A volte ho la sensazione che la cosa migliore sarebbe as­sestarle la mazzata decisiva. Il colpo di grazia. Coup de gràce, Catherine. Ecco fatto. Una sola batosta. Ma poi ho paura di come potrebbe reagire.

- Euforizzanti, - ripete Stella. - Sai che euforia.

- Parlo sul serio, Stella. Quella roba ti ammazza.

- Non è certo acqua fresca.

- Molto spiritosa.

- Non intendevo fare una battuta. Però, tutte le volte che mi scappa qualcosa del genere, fingo di averlo detto apposta. Ci tengo ad accaparrarmi tutto il merito.

 

A cena, queste tre persone si sentono meglio di quanto ciascuna di loro avesse sperato. David, perché si è ricordato che c'è una cabina telefonica davanti alla bottiglieria. Stella, perché sta sempre meglio dopo aver cucinato con buon suc­cesso una cena. Le ragioni del miglioramento di Catherine sono invece di origine chimica.

La conversazione non risulta impacciata. Stella racconta storie apprese durante le ricerche per il suo articolo, avven­ture di naufragi sui Grandi Laghi. Catherine si intende ab­bastanza di naufragi. Un suo fidanzato - un suo ex fidanza­to - faceva il sommozzatore. David vuole mostrarsi galante e sostiene di essere geloso di costui, dicendo che non ha nes­suna voglia di ascoltare il racconto delle sue gesta subacquee. Magari è la verità.

Dopo cena, David annuncia di avere bisogno di fare due passi. Catherine gli accorda il permesso di andare. - Va' pu­re, - dice tutta allegra. - Non abbiamo bisogno di te. Stella e io ce la caveremo benissimo anche da sole.

Stella si domanda da dove arrivi la voce nuova di Cathe­rine, quel tono tra l'impertinente, il civettuolo e il cretino. Non può essere l'alcol. Qualsiasi sostanza abbia assunto, l'ha elettrizzata, anziché smorzarla. È bastata una breve folata di brezza chimica a spazzare via strato su strato di sottile mor­tificazione, timori, speranze, convenevoli titubanti.

Ma quando Catherine si alza e cerca di sparecchiare, di­venta palese che la sferzata di energia non riguarda anche il fisico. Catherine va a sbattere in uno spigolo del ripiano. A Stella viene in mente un mutilato. Non grave, uno che abbia perso la punta delle dita di mani e piedi. Stella non può per­derla di vista, e deve essere pronta a prenderle i piatti prima che le scivolino di mano.

- Hai fatto caso ai capelli? - dichiara Catherine. La voce le va su e giú come la ruota di un luna park: un susseguirsi di tuffi e impennate. - Se li tinge.

- David? - ribatte Stella, sinceramente stupita.

- Ogni volta che se ne ricordava, buttava indietro la te­sta, di modo che tu non riuscissi a vedere bene. Secondo me temeva che dicessi qualcosa. Ha un po' paura di te. In realtà, sono molto naturali.

- Non me ne ero accorta in effetti.

- Ha cominciato un paio di mesi fa. Io gli dicevo, Ma Da­vid, che cosa importa? Avevi già qualche capello bianco quando mi sono innamorata di te, come fai a pensare che pos­sa darmi fastidio adesso? L'amore è strano; fa fare strane co­se. David è proprio un uomo sensibile, una persona vulnera­bile -. Stella mette in salvo un bicchiere di vino, in pericolo tra le dita di Catherine. - Può rendere le persone cattive. L'amore può rendere cattivi. Se hai la sensazione di dipen­dere da un altro, puoi metterti a trattarlo male. Lo vedo suc­cedere in David.

A cena hanno bevuto idromele. Stella non aveva ancora assaggiato la produzione di quest'anno e adesso pensa che è riuscita davvero bene: asciutta e frizzante al punto giusto. Sembrava champagne. Controlla se ne è rimasto un poco nel­la bottiglia. Piú o meno mezzo bicchiere. Se lo versa, appog­gia il bicchiere dietro il miscelatore, e risciacqua la bottiglia.

- Vivi bene qui, - dice Catherine.

- Vivo bene. Sí.

- Sento che ci sarà un cambiamento nella mia vita. Sono innamorata di David, ma mi sono sepolta dentro questo amore per troppo tempo. Troppo. Mi spiego? Ero là fuori a guardare le onde e ho cominciato a ripetermi «m'ama, non m'ama». Lo faccio spesso. Poi ho pensato, Ma non c'è fine alle onde, a differenza di quello che succede con i petali del­le margherite. O persino con le mie impronte, se mi metto a contarle fino alla fine del marciapiede. Ho pensato, Alle onde non c'è mai fine, mai e poi mai. E allora ho capito che era un messaggio per me.

- Lascia stare le pentole, Catherine. Ci penso io dopo. Come mai Stella non dice: « Siediti, preferisco fare da sola»? È una frase che ha ripetuto sovente, e ad aiutanti me­no inette di Catherine. Non la dice perché ha un certo timore a farlo. Lo stato d'animo di Catherine è talmente fragile e delicato. Ostacolarla potrebbe avere delle conseguenze.

- M'ama, non m'ama, - dice Catherine. - Funziona co­sí. All'infinito. Era questo che cercavano di comunicarmi le onde.

- Toglimi una curiosità, - dice Stella. - Tu credi agli oro­scopi?

- Vuoi sapere se me ne sono mai fatta fare uno? No, non proprio. Conosco gente che l'ha fatto. Ci ho anche pensato. Ma suppongo di non fidarmi abbastanza da aver voglia di spenderci dei soldi. Do un'occhiata agli oroscopi sul giorna­le, qualche volta.

- Tu leggi il giornale?

- Solo certe parti. Mi arriva a casa. Non lo leggo tutto.

- E mangi la carne. A cena hai mangiato maiale.

Sembra che a Catherine non dia fastidio questa specie di interrogatorio, anzi che non ci faccia nemmeno caso.

- Be', potrei vivere di insalate, soprattutto in questo pe­riodo dell'anno. Ma ogni tanto mangio anche un po' di car­ne. Sono una specie di vegetariana a intermittenza. Era squi­sito, quell'arrosto. Ci hai messo dell'aglio?

- Aglio, salvia e rosmarino.

- Una delizia.

- Mi fa piacere.

All'improvviso Catherine si siede, e allarga le lunghe gam­be come un maschiaccio, lasciandoci sprofondare in mezzo il vestito. Hercules, che per tutta la cena ha sonnecchiato sul­la sedia vuota, all'altro capo del tavolo, spicca un salto deciso e le atterra giusto in grembo.

Catherine scoppia a ridere: - Pazzo di un gatto.

- Se ti dà fastidio, non hai che da buttarlo giú.

Ormai libera dal compito di sorvegliare Catherine, Stel­la si mette a lavare e impilare i piatti, sciacquare i bicchieri, sparecchiare la tavola, scuotere la tovaglia, pulire il piano di lavoro. Si sente soddisfatta e piena di energia. Beve un sor­so di idromele. Le passa in mente il motivo di una canzone e finché non affiorano anche alcune parole, non si rende  conto che si tratta della stessa canzone che prima cantava David. What's to come is stili unsure!

Catherine russa lievemente e ha un sussulto del capo. Hercules non si spaventa, ma cerca di sistemarsi meglio, affon­dando le unghie dentro il vestito di lei.

- Ero io che russavo? - domanda Catherine.

- Ti ci vuole un caffè, - dice Stella. - Resisti. Forse è meglio se non ti addormenti subito.

- Sono stanca, - ribatte testarda Catherine.

- Lo so. Ma è meglio che tu non dorma subito. Resisti, devi buttare giú un po' di caffè.

Stella estrae dal cassetto uno strofinaccio, lo inzuppa d'acqua fredda e lo appoggia sul viso di Catherine.

- Ecco, cosí, - dice Stella. - Ora tienilo tu, io intanto preparo il caffè. Non vogliamo di certo che tu piombi nel son­no qui, sei d'accordo? Altrimenti David attacca la solfa. Si metterebbe a dire che è stata colpa del mio idromele, della cena, della mia compagnia, o che so io. Resisti, Catherine.

 

Nella cabina telefonica, David compone il numero di Dina. Poi si ricorda che è una interurbana. Deve chiamare il centralino. Fa il numero, si informa sul costo della telefonata, e si svuota le tasche di tutti gli spiccioli. Raduna un dollaro e trentacinque centesimi in quarti di dollaro e monete da dieci e li prepara sulla mensola. Ricomincia a com­porre il numero. Gli tremano le dita; ha le mani sudate. Gambe, pancia e torace sono in preda a un'agitazione crescente. Al primo squillo nel piccolo appartamento di Dina gli si torcono le budella. Questa è pura follia. Incomincia a far scendere le monete da venticinque.

- Le dirò io quando inserire il denaro, - dice l'operatore. - Signore? Le dico io quando mettere le monete -. I pezzi da venticinque precipitano con clangore nel vano del resto e David fatica a recuperarli. Il telefono squilla di nuovo, sulla cassettiera di Dina, in un caos di cosmetici, calze, perline e catene, orecchini di piume, un assurdo bocchino, una collezione di giocattoli a molla. Gli pare di averli davanti agli occhi: il ranocchio verde, l'anatra gialla, l'orso marrone - tutti della stessa misura. Orsi e rane delle stesse dimensioni. Come pure certi mostri spaziali, copiati dai personaggi di un film. Quando li si carica, i giocattoli cominciano a sferragliare e sbandare sul pavimento o sul tavolo, sputando scintille dalla bocca. A Dina piace organizzare gare tra loro, oppure sistemarne un paio in rotta di collisione. Poi si mette a squittire, e a strillare tutta eccitata, mentre li guarda procedere sulle loro traiettorie imprevedibili.

- A quanto pare non risponde nessuno, signore.

- Lasci suonare ancora.

Il bagno di Dina, in comune con un'altra ragazza, è in fondo al corridoio. Se fosse lí, magari dentro la vasca, quanto le ci vorrebbe per decidere se andare a rispondere o no? David stabilisce di contare altri dieci squilli, a partire da adesso.

- Ancora niente, signore.

Altri dieci.

- Signore, vuole magari provare piú tardi?

David aggancia, perché gli è venuta un'idea. Subito compone deciso il numero del servizio informazioni.

- Quale città, prego ?

- Toronto.

- Dica pure, signore.

Chiede il numero di un certo Michael Read. No, non conosce l'indirizzo. Dispone soltanto del nome - quello del­l'ultimo, e magari non del tutto ex, fidanzato di lei.

- Non trovo nessuno a nome Michael Read.

- D'accordo. Provi a guardare Reade, R-E-A-D-E.

In effetti c'è un M. Reade, su Davenport Road. Non è proprio Michael, ma almeno ha l'iniziale M. Allora provi a ricontrollare. C'è per caso un M. Read? Read? Sí. Sí, ecco qui un M. Read, in Simcoe Street. E poi un altro M. Read, R-E-A-D, su Harbord. Ma perché non l'ha detto prima? Sceglie Harbord d'istinto. Non è molto lontano da casa di Dina. La centralinista gli recita il numero. David cerca di memorizzarlo. Non ha niente per scrivere. Gli sembra essenziale non farselo ripetere una seconda volta. Non deve far sapere che si trova dentro una cabina telefonica senza carta e penna. Gli pare che la natura disperata e segreta della sua ricerca risulti già abbastanza evidente, e che in qualsiasi momento potrebbero interrompere la conversazione senza permettergli di ottenere ulteriori informazioni sul conto di M. Read o Reade che sia, di Harbord come di Simcoe o di Da­venport.

E adesso deve ricominciare tutto da capo. Il prefisso di Toronto. Anzi, no, prima l'operatore. Il numero memoriz­zato. Presto, prima di perdere la pazienza o di scordare il nu­mero. Se Dina dovesse rispondere, che le direbbe? Ma è im­probabile che risponda lei, anche se è lí. Risponderà M. Read. A quel punto David dovrà chiedere di parlare con Dina. For­se però non con la sua voce. Magari nemmeno con una voce maschile. In passato riusciva a fare voci diverse al telefono. Una volta è riuscito a ingannare perfino Stella.

Forse potrebbe imitare una donna, con un timbro acuto. Oppure un bambino, una ipotetica sorella minore. C'è Dína?

- Come dice, signore?

- No, niente. Mi scusi.

- Ecco, sta suonando. Le farò sapere quando cominciare a inserire le monete.

E se M. Read fosse una donna? Niente affatto Michael Read. Ma Mary Read, per esempio. Un'anziana pensionata. Una ragazza in carriera. Come mai mi telefona? Molestie ses­suali. Dovrebbe ripassare dal Servizio elenco abbonati. Pro­vi M. Read di Simcoe Street. Provi M. Reade di Davenport. Continui a provare.

- Mi dispiace. Sembra che non risponda nessuno.

Il telefono continua a squillare nell'appartamento, o la ca­sa, o nel monolocale di M. Read. David si appoggia contro la mensola metallica, su cui ha posato le monete. Un'auto si è fermata nel parcheggio della bottiglieria. I due passeggeri a bordo lo stanno osservando. E chiaro che aspettano di po­ter usare il telefono. Fortunato com'è, ora passeranno di lí pure Ron e Mary.

Dina abita sopra il negozio di merce indiana d'importa­zione. Ha sempre i vestiti e i capelli che sanno di curry, no­ce moscata e incenso mescolato a quello che secondo David è il suo odore speciale, di sigarette, erba e sesso. Si tinge di nero corvino. Sulle guance si disegna una striscia di un colo­re violento e ogni tanto si trucca gli occhi di rosso mattone. Una volta ha cercato di avere una parte in un film prodotto da gente che conosceva. Non l'ha avuta perché le faceva sen­so tenersi un ratto addomesticato in mezzo alle gambe. Que­sto insuccesso l'ha mortificata.

Ora David suda, non perché cerchi di coglierla in fallo, ma perché ha bisogno di coglierla e basta, di sentire la sua giovane voce arrochita, con quei tremori inconsapevoli e le immancabili oscenità. Anche se udirla, al momento, signifi­ca sapere che l'ha tradito. Certo che l'ha tradito. Lo fa in continuazione. Se solo rispondesse (David si è quasi scorda­to che a rispondere semmai dovrebbe essere M. Read), po­trebbe sfogarsi urlando, insultandola e, se dovesse proprio toccare il fondo, come di certo succederebbe, potrebbe im­plorarla. È disposto ad accettare di tutto. Qualsiasi cosa. A cena, chiacchierando amabilmente con Stella e Catherine, non ha mai smesso di scrivere il nome Dina col dito sotto il piano del tavolo di legno.

La gente non ha pazienza con questo genere di struggi­mento, e perché dovrebbe del resto? Chi ne soffre deve fa­re a meno della comprensione altrui, rinunciare alla dignità, contenere i danni. E come se non bastasse, qualcuno si pren­derà pure la briga di farti sapere che il tuo non è vero amo­re. Questi accessi di desiderio e dipendenza, venerazione e attaccamento morboso, queste trasformazioni terrificanti sebbene auspicate, non sono vero amore.

Stella gli diceva sempre che a lui l'amore non interessava. - E nemmeno il sesso, peraltro. Io sono convinta che a te del sesso non importi niente, David. Secondo me, ti importa una cosa sola: comportarti da gran canaglia.

Il vero amore: vale a dire continuare a vivere con Stella, oppure sistemarsi definitivamente con Catherine. Un auten­tico esperto in fatto di Vero Amore poteva essere Ron, del premiato binomio Ron-Mary.

David sa bene quello che fa. Questo è il lato interessante della questione, secondo il punto di vista già espresso da Da­vid. Sa bene che Dina in fondo non è così incontenibile, spu­dorata e maledetta come lui ama dipingerla, e come lei stessa a volte finge di essere. Nel giro di una decina d'anni, la vita folle di oggi non l'avrà né distrutta né trasformata in una put­tana di lusso. Sarà una donna come tante, circondata da una nidiata di figli, alla lavanderia a gettoni. L'incantevole ap­pellativo d'altri tempi che adotta per definirla, e cioè « sgual­drina», in realtà non le calza - almeno non piú di quanto quel­lo di «hippy» avesse a che fare con Catherine, della quale or­mai non sopporta nemmeno il pensiero. David sa bene che prima o poi, se Dina permetterà alla propria maschera di in­crinarsi, lui sarà costretto ad andare oltre. E comunque lo dovrà fare lo stesso: dovrà andare oltre.

Tutto questo lo sa e si osserva, ma tale consapevolezza unita all'osservazione non ha alcun effetto sul suo intestino in subbuglio, sulle sue sollecite ghiandole sudorifere, sulle sue fervide preghiere.

- Signore? Vuole continuare a provare?

 

La casa di riposo dove si erano recati poco prima si chia­ma Residenza Balsamo di Gilead. Prende il nome da un al­bero, un tipo di pioppo molto diffuso nelle vicinanze del la­go. La costruzione, un imponente edificio in pietra fatto co­struire da un milionario dell'Ottocento, risulta attualmente deturpata da rampe di scale antincendio.

Un coro di voci provenienti dai gruppi di sedie a rotelle disposte sul prato antistante la villa chiamava Stella. Lei ri­spondeva snocciolando vari nomi di battesimo, e deviando di proposito per andare a stringere mani e distribuire baci. Vibrando qua e là, come un colibrí gigantesco.

Quando raggiunse di nuovo David, si mise a cantare:

 

I’m your little sunbeam, short and stout, Turn me over, pour me out!

 

Poi trafelata disse: - In effetti non dice sunbeam, dice tea­pot. Non credo che troverai papà molto cambiato. Solo che adesso è completamente cieco.

Lo condusse lungo i corridoi dalle pareti verdi, con falsi controsoffitti bassi (per ridurre le spese di riscaldamento), i quadri dipinti in serie, l'immancabile odore di disinfettan­te - e d'altro. Nella veranda sul retro, solo, sedeva suo pa­dre, avvolto in varie coperte e legato alla sedia a rotelle per­ché non cadesse.

Il vecchio disse: - David?

Il suono pareva provenire da una grotta umida sprofon­data negli abissi del suo corpo, anziché articolato da labbra, lingua e mandibole. Infatti, non le si vedeva muovere. An­che la testa era ferma.

Stella si mise dietro la sedia e gli cinse il collo. Lo sfiora­va con grande delicatezza.

- Sí, è David, papà, - disse. - L'hai riconosciuto dal passo?

Il padre non diede risposta. David si chinò per toccare le mani del vecchio che non erano fredde come si aspettava, ma tiepide e asciutte. Vi depose sopra la bottiglia di whiskey.

- Attento. Non riesce a reggerla, - lo avvisò Stella sotto­voce. David tenne le proprie mani sulla bottiglia, mentre Stel­la gli avvicinava una sedia, di modo che potesse accomodar­si di fronte a suo padre.

- Il solito regalo di tutti gli anni, - disse David.

Il padre emise un mugugno di assenso.

- Vado a prendere dei bicchieri, - disse Stella. - Bere al­l'aperto è contro il regolamento, ma di solito riesco a con­vincerle a chiudere un occhio. Dirò che stiamo festeggiando.

Per abituarsi alla vista del suocero, David si sforzava di considerarlo uno sviluppo post-umano, una novità della spe­cie. La longevità non l'aveva solo conservato in vita, l'aveva trasformato. La pelle era grigio-bluastra, a chiazze blu scu­ro, gli occhi velati di bianco, il collo solcato da delicate ca­vità, come un vaso di vetro fumé. Dalle profondità di quel collo vennero altri suoni, un tributo alla conversazione. L'of­ferta si riduceva all'essenza di ciascuna sillaba: fradice voca­li tenute insieme a stento dalle consonanti attigue.

- Tanto... traffico?

David descrisse le condizioni della viabilità sull'autostra­da e sulle statali. Raccontò al suocero di avere da poco cam­biato la macchina, e di averne presa una giapponese. In un primo tempo, gli disse, il consumo di benzina era ben lonta­no da quello pubblicizzato. Lui però aveva sporto reclamo, deciso a non cedere, e aveva riportato l'auto al concessiona­rio. Dopo vari tentativi di intervento, la situazione era mi­gliorata parecchio e al momento i consumi. erano soddisfa­centi, sebbene non coincidessero ancora con quelli promessi.

Questa conversazione parve gradita. Il suocero sembrava seguirla. Annuiva, e sulla sua faccia oblunga, bluastra e post­umana comparvero tracce di antiche espressioni. Il segno di un'acuta attenzione composta, il sospetto nei riguardi della pubblicità, delle vetture straniere e dei rivenditori d'auto. Si insinuò perfino il vago accenno del dubbio - come ai vecchi tempi - che David non sapesse cavarsela a gestire questioni del genere. E subito dopo il sollievo nel constatare che ci era riuscito. Agli occhi del suocero, David non avrebbe mai ces­sato di essere qualcuno che sta imparando a diventare un uo­mo, e che potrebbe non farcela mai, non raggiungere mai la fermezza e il controllo necessari, la conveniente delimita­zione dell'ambito di manovra. David, che preferiva il gin al whiskey, leggeva romanzi, non capiva niente di mercato azio­nario, chiacchierava con le donne, e aveva cominciato la pro­pria carriera come insegnante. David, che aveva sempre gui­dato utilitarie, e per giunta straniere. Ma ormai questo par­ticolare problema era superato. Le auto di piccola cilindrata non significavano piú niente di ciò che indicavano un tem­po. Perfino quassú, sul lago Huron, alle estreme propaggini della vita, certi cambiamenti erano stati registrati, certe tra­sformazioni assimilate anche da un uomo ormai incapace sia di vedere sia di stringere con forza il pugno.

- Sai qualcosa della... Lada?

Fortuna vuole che un collega di David abbia una Lada e che svariati intervalli e pause pranzo se ne siano andati in noiose discussioni sui pregi e i difetti di quella vettura e sul­la difficoltà di reperire i pezzi di ricambio. David riferí tut­to questo e il suocero sembrò soddisfatto.

- Gray. Dort. Una Gray-Dort. La prima macchina che ho guidato. In Yonge Street. Faceva i novanta. Novanta chilo­metri. A... A... all'ora.

- Figurati se in Yonge Street può aver guidato una Gray-­Dort ai novanta all'ora, - commentò Stella dopo aver ri­portato il padre e la sua bottiglia in camera, averlo salutato ed essersi di nuovo avviata con David lungo i corridoi ver­di. - Quando mai? E quale Gray-Dort ? Erano uscite di pro­duzione ben prima che lui avesse messo da parte i soldi per comprarsi una macchina. E non si sarebbe mai fidato con l'auto di un altro. - È una sua fantasia. Ha raggiunto lo stadio in cui le fantasie sono lo svago migliore: risistemare il passa­to facendo in modo che capiti tutto quello che si sarebbe vo­luto. Chissà se ci arriveremo anche noi. E quali saranno le tue fantasie ricorrenti, David? No, non me lo dire.

- E le tue? - chiese David.

- Che tu non te ne fossi andato? Che tu non avessi mai avuto neppure voglia di. farlo? Scommetto che credi sareb­bero queste le mie, ma io non ci giurerei. Papà è stato cosí contento, David. Per lui, la visita di un uomo conta di piú. Sai, credo che se facesse mente locale su noi due, sarebbe co­stretto a stare dalla mia parte, ma non fa nulla, tanto non de­ve starci a pensare.

Alla casa di riposo, Stella pareva avere recuperato in par­te lo smalto e l'agilità di un tempo. Le attenzioni riservate al padre, e perfino al contingente in sedia a rotelle, restituiva­no ai suoi movimenti una certa grazia rispettosa, e alla sua voce una specie di malinconia. David ebbe una visione di lei com'era dodici o quindici anni prima. La vide avanzare su un prato a una festa fuori città, reggendo in mano una teglia. In­dossava un prendisole. Al tempo diceva sempre di essere trop­po grassa per mettersi i pantaloni, anche se era la metà di quello che è diventata. Chissà perché quell'immagine gli. pia­ceva tanto. Stella che avanza sul prato, con i capelli illumi­nati dal sole - i pochi grigi che aveva allora la facevano solo apparire biondo cenere - e le spalle nude abbronzate, e che distribuisce saluti cordiali ai vicini, ride, e millanta chissà qua­li sventure ai fornelli. Ovviamente il piatto che ha cucinato si rivelerà squisito, ma lei non portava soltanto cibo, bensí anche lo spirito della festa atteso da tutti gli invitati. La sua straripante socievolezza fungeva da catalizzatore. E David non provava alcuna irritazione nei suoi confronti, sebbene ci fossero volte in cui certamente le qualità di Stella lo infasti­divano. Le sue impetuose impazienze ad esempio, le esage­razioni, quel modo innocente e scherzoso di andare a caccia di comprensione. A beneficio dello spasso altrui, l'aveva sen­tita romanzare aneddoti della loro vita privata, le piccole di­savventure e i dispetti dei bambini, le visite dal veterinario per il gatto, la prima sbronza del figlio, la persecuzione della falciatrice elettrica, l'impresa di tappezzare il corridoio del piano rialzato. Una moglie affascinante, fantastica in società, con una prospettiva talmente ironica sulle cose. Certe volte era un vero ciclone. Tua moglie è un ciclone.

Ebbene, lui la perdonava - l'amava -- vedendola avanza­re su quel prato. In quel preciso momento, con il piede scal­zo lui stava strofinando il freddo polpaccio scuro e depilato, un tantino pungente, della moglie di un altro vicino, appena uscita dalla piscina e avvolta in un lungo e propizio accappa­toio scarlatto. Una bruna senza figli, accanita fumatrice, in­cline - almeno in quella fase della loro relazione - a silenzi enigmatici. (La sua prima amante, la prima durante il matri­monio con Stella. Rosemary. Nome dolce e tenebroso, per una donna rivelatasi invece alla fine petulante e ordinaria).

Ma non si trattava solo di quello. L'inatteso trasporto pro­vato per Stella cosí com'era, l'insolita sensazione di sentirsi in pace con lei, non dipendevano semplicemente dall'attività illecita del suo alluce. Sembrava profonda, questa rivelazio­ne sul conto di lui e di Stella, sul loro essere dopo tutto in­dissolubilmente legati, tanto che finché fosse riuscito a sen­tirsi cosí benevolo nei suoi confronti, ciò che faceva in se­greto e in separata sede l'avrebbe compiuto in un certo senso con la benedizione di lei.

Ma in seguito si scopri che Stella non condivideva affat­to la tesi. E tanto legati in fondo non erano, o, se lo erano, si trattava di un vincolo che gli toccò comunque spezzare. Siamo stati insieme cosí tanto tempo, gli disse Stella cercan­do di scherzarci sopra, non si potrebbe cercare di tagliar cor­to adesso? Non si capacitava, probabilmente non riusciva an­cora a capire, che proprio quella era una delle ragioni che lo impedivano. Questa donna dai capelli bianchi che gli cam­mina accanto nei corridoi di una casa di riposo si portava ap­presso un tale fardello, non solo di vecchi segreti sessuali, ma anche delle elucubrazioni su Dio che lo tenevano sveglio nel cuore della notte, dei suoi vari dolori al petto di natura psi­cosomatica, delle sue difficoltà di digestione, dei suoi piani di evasione che al tempo prevedevano anche la presenza di lei e riguardavano posti come l'Africa o l'Indonesia. Tutta la sua esistenza, ordinaria e straordinaria - addirittura certi dettagli di cui era improbabile che Stella fosse al corrente - sembravano raccolti dentro la sua persona. David non avreb­be mai potuto sentirsi leggero, mai provare in segreto il sen­so liberatorio della conquista, al fianco di una donna che sa­peva cosí tante cose. Si era gonfiata, con tutto quello che sapeva. Ma David la abbracciò ugualmente. Si abbandona­rono entrambi, senza riserve.

Nel corridoio avanzava intanto una ragazza, spingendo un carrello: era cinese o forse vietnamita, minuta come una bam­bina nella sua uniforme verde chiaro e in compenso truccata su guance e labbra. Sul carrello c'erano bicchieri di carta e caraffe di plastica piene di succo d'arancia e d'uva.

- E l'ora del succo di frutta, - ripeteva la ragazza col suo grazioso cantilenare indifferente. - L'ora del succo. Arancia. Uva. Succo di frutta -. Non fece caso a David e Stella, ma lo­ro due si sciolsero dall'abbraccio e ripresero a camminare. Da­vid provò in effetti un leggero, anzi un leggerissimo disagio al­l'idea di essere stato sorpreso tra le braccia di Stella da una donna giovane e carina. La sensazione non fu forte, anzi gli at­traversò appena il pensiero per un istante, ma Stella, oltrepas­sando la soglia della porta che lui le teneva aperta, disse: - Non te la prendere, David. Potrei essere tua sorella. Potrebbe pen­sare che stessi consolando tua sorella. Maggiore, s'intende.

- Madame Stella, l'illustre indovina.

Era curioso, il modo in cui si dicevano queste cose. Un tempo si scambiavano battute amare e cattive e fingevano, pronunciandole, di trovarle vagamente spassose, sincere, qua­si cordiali. Adesso il tono fasullo di allora si è depositato sul fondo, insinuandosi negli interstizi di ogni sentimento acu­to, perciò l'amarezza, sebbene identica, risulta stantia, for­male, superflua.

  <>Piú o meno una settimana dopo, mentre riordina il sog­giorno per una riunione della Società storica che si svolgerà a casa sua, Stella trova la fotografia, quella scattata con la po­laroid. David gliel'ha lasciata alla fine - nascondendola, an­che se non molto bene, dietro le tende in un angolo della fi­nestra lunga, il punto in cui ci si deve mettere per riuscire a vedere il faro.

A furia di stare al sole è sbiadita, ovviamente. Stella si fer­ma a guardarla, con lo straccio della polvere in mano. La gior­nata è bellissima. Le finestre sono aperte, la casa piacevol­mente in ordine, e una gustosa zuppa di pesce sobbolle sul fornello. Stella si accorge che il pelo nero della foto è scolo­rito in grigio. Un grigio fra l'azzurro e il verdastro. Le torna in mente quello che ha detto vedendola per la prima volta. Ha detto che era un lichene. Anzi, no, che sembrava un li­chene. Ma aveva capito subito che cos'era. Adesso le pare addirittura di averlo saputo da quando David aveva infilato la mano dentro la tasca. Aveva sentito la vecchia caverna ria­prirsi dentro di sé. Ma aveva tenuto duro. Aveva detto: «Li­chene» E ora, guarda, le sue parole sono diventate realtà. Il contorno del seno è svanito. Impossibile riconoscere in quel­le un paio di gambe. Il nero è diventato grigio, la tinta arida e tenue di un vegetale misteriosamente nutrito dalle rocce.

Colpa di David. L'ha lasciata lí al sole.

Le parole di Stella sono diventate realtà. Questo pensiero le tornerà spesso in mente: una sospensione inattesa, un man­camento improvviso del cuore, una breve fitta ribelle nel flui­re di giorni e notti che lei ininterrottamente manda avanti.







Héliane Ventura
Université d’Orléans

Le tracé de l’écart ou  « L’origine du monde » réinventée dans « Lichen » d’Alice Munro
Texte / Image : nouveaux problèmes,  Liliane Louvel, Henri Scetti, (dirs.) Actes du Colloque de Cerisy,  Rennes
Presses de l’Université de Rennes, 2005, 269-281.




La nouvelle d’Alice Munro intitulée « Lichen »  publiée en 1986 dans The Progress of Love nous donne à voir une image photographique scandaleuse et obscène. Cette photographie représente un corps allongé, tronqué, borné de façon à exposer exclusivement les seins, le ventre et le sexe d’une femme aux cuisses écartées. Comme le note Daniel Arasse au sujet du tableau de Courbet « L’origine du monde » : « Dans sa frontalité sidérante, ce détail de nu condense la transgression d’un interdit du regard. » 

Courbet, L'Origine du Monde

(Arasse 362) La comparaison avec « L’origine du monde » s’impose d’emblée, c’est bien le même objet de désir soumis au même cadrage qui est repris ici selon une pratique transpositionnelle. L’hypoicône de Courbet est transposée dans l’hypericône de Munro ou plutôt son hypertexte qui présente un double phénomène de transmodalisation, puisque Munro nous fait passer du mode pictural au mode verbal par l’intermédiaire d’une description de photographie ; la nouvelle de Munro ne reproduit pas le cliché photographique sur la page imprimée, elle le propose et le présente sous forme d’ekphrasis. Le tableau de Courbet est donc transposé en une photographie textualisée c’est-à-dire décrite dans un texte de fiction  mais également en une photographie narrativisée au sens ou le cliché est déroulé de façon discursive en une intrigue qui lui est subordonnée. (HV 1)
Cette transposition d’art qui participe d’un jeu de déplacement/remplacement/développement  repose plus précisément sur une métaphore d’ordre végétal  puisque dès le paratexte, dans le titre même de la nouvelle, le sexe féminin est désigné sous les espèces du  lichen. Au cours du récit proprement dit c’est par une opération de comparaison qui explicite la ressemblance que  la toison est resemantisée dans le champ de la botanique. Cette comparaison ne doit pas être considérée seulement comme une suppléance sémantique d’ordre substitutif, elle peut être envisagée en suivant l’analyse de Paul Ricœur dans La métaphore vive comme une attribution prédicative qui revêtirait la fonction de fable et de redescription du monde. Nous pouvons peut-être aller jusqu’à considérer que la nouvelle de Munro nous convie à l’élaboration d’un mythe eschatologique qui serait aussi un scénario de production auto-réflexif puisque l’homophonie du terme anglais  lichen  qui peut s’écrire avec un « ch » ou un « k » permet d’évoquer à la fois un organisme mixte formé par l’association d’une algue avec un champignon et le mode d’organisation  d’un récit fondé sur une opération de ressemblance : to liken one thing to another.  Cette opération de ressemblance peut se concevoir de façon générale comme la ressemblance à la nature,  similitudo naturae, ou de façon rhétorique en suivant l’analyse de Gérard Genette  comme « la croisée d’une trame métonymique et d’une chaîne métaphorique [qui] assure la cohérence, la cohésion ‘nécessaire’ du texte. » (Genette 60)   La double lecture, mythique et tropique, à laquelle je vais me livrer tentera de mettre en lumière la réversibilité de l’instauration et de la réduction des écarts, qui fonde le récit.

Résumons brièvement l’intrigue. Singulative mais clairement présentée dans un contexte itératif, la nouvelle relate la journée que David tous les ans consent à passer auprès de Stella, l’épouse dont il est séparé depuis huit ans.  C’est d’un éternel retour qu’il est question ici, mais d’un retour limité à un rituel annuel, qui se déroule aux alentours de la date anniversaire de naissance du père de Stella, et qui inclut une visite au vieil homme dans sa maison de retraite ainsi qu’un dîner en compagnie de l’épouse répudiée dans la maison de campagne au bord du lac Huron où elle demeure maintenant de façon permanente. Le jour de la visite,  David est accompagné de sa dernière conquête, Catherine, qu’il présente à Stella. Il devient vite apparent que David est néanmoins las de Catherine et que son intérêt se porte maintenant sur une femme plus jeune, Dina dont il montre un cliché photographique à Stella. C’est ce cliché photographique qui reproduit les mêmes contours que « L’origine du monde » et qui occupe une place privilégiée dans l’économie du récit. On le trouve de façon récapitulative dans le titre,  puis il est mentionné trois fois au cours de la narration. Son existence est d’abord révélée sans que son contenu soit dévoilé,  puis Stella est littéralement contrainte de le regarder et une description en est donnée dont elle est clairement la focalisatrice. Enfin le cliché est retrouvé environ une semaine après le départ de David, par Stella elle-même, sous les plis du rideau devant la fenêtre du salon. L’exposition à la lumière du soleil et le passage du temps ont altéré le cliché et l’analogie est maintenant avérée : le sexe féminin représenté est en tout point semblable à du lichen sur un rocher.

Regardons de façon plus rapprochée la première occurrence du cliché photographique dans le texte :

« David has one hand in the inner pocket of his jacket. He brings out something he keeps cupped in his palm, shows it to Ron with a deprecating smile.
“One of my interests,” he says. » (Munro 39)

Rien n’est encore révélé de la véritable nature de la « chose. » Seule la métaphore du creux de la main, en dessinant un calice à l’orée du récit, exacerbe l’attente du lecteur et programme son parcours de déchiffrement. Elle thématise de façon initiale et prophétique l’enjeu de la nouvelle à la manière d’un signe avant-coureur. C’est avec la description du cliché photographique tel qu’il apparaît pour la première fois aux yeux de Stella que nous assistons à une progressive révélation :

« Stella puts the paring knife down and squints obediently. There is a flattened-out breast far away on the horizon. And the legs spreading in the foreground. The legs are spread wide-smooth, golden, monumental, fallen columns. Between them is the dark blot she called moss or lichen. But it’s really more like the dark pelt of an animal, with the head and tail and feet chopped off. Dark silky pelt of some unlucky rodent. » (Munro 42)

Cette ekphrasis consacre la défaite des femmes. Stella est contrainte de déposer son arme et Dina est également déposée, son piédestal renversé. Toutes deux sont  privées de pouvoir :  soumises, déchues, diminuées comme l’indiquent les participes passés allitératifs : « flattened-out », « fallen », « chopped-off. » Cette dis-position est une dé-position. La reddition de la femme, le renversement de l’icône est thématisé par le remplacement de la tête par le pubis. En coupant la tête et les pieds, le cadrage inflige au corps de la femme une violence symbolique dont on trouve un écho dans la description qui est donnée de Catherine, la compagne que David exhibe à ses côtés : « She makes Stella think of an amputee. Not much cut off just the tips of her fingers and maybe her toes. » (Munro 44(AG 1) Le corps déchu est représenté comme subissant des sévisses ou des supplices. Il y a une mise à l’écart de la femme que l’on peut envisager peut-être de façon métaphorique à l’instar de ces tortures du moyen âge qui consistaient à démembrer les corps et qui se trouveraient ici figurées par la médiation du cadrage photographique qui dé-taille et dé-coupe. La violence du cadrage met également en relief ce que Deleuze appelle « la zone d’indiscernabilité, d’indécidabilité » entre l’humain et l’animal (Deleuze 21). Dans le tableau qui  est offert du corps de la femme, il y a un devenir-végétal qui est également un devenir-animal parce que, pour paraphraser Deleuze, la femme qui souffre est une bête, la bête qui souffre est une femme : « c’est la réalité du devenir. » (Deleuze 21)
Cette ekphrasis, qui souligne la meurtrissure du corps, doit être juxtaposée à celle que nous retrouvons à la fin du récit, lorsque Stella redécouvre ce même cliché photographique derrière les rideaux de la fenêtre du salon, une semaine après le départ de David. On a là la pièce maîtresse du dispositif : la mise en abyme codale et récapitulative du processus de mise à l’écart du corps de la femme, tel qu’il est déployé tout au long de la nouvelle. Il s’agit d’un écart à la puissance trois puisque non  seulement la photographie est celle d’un corps écarté, mais encore elle a été déposée à l’écart, sous le rideau, dans la maison de celle qui est elle-même écartée de la vie de David. On peut  alors envisager la thématisation de  l’écart dans la nouvelle sous trois aspects : la transgression d’un tabou, la dissimulation d’un secret, et l’évincement de ce qui est devenu encombrant. Pourtant l’image que nous retrouvons à la fin du récit n’est plus une image de déperdition, de dégradation ou d’impuissance mais au contraire donne à voir l’affirmation d’une compétence :

« And now, look, her words have come true. The outline of the breast has disappeared. You would never know that the legs were legs. The black has turned to gray, to the soft, dry color of a plant mysteriously nourished on the rocks. » (Munro 55)

Dans cette nouvelle nouvelle version du tableau originel, il y a d’abord la victoire de la parole avérée, l’adéquation du mot et de la chose ; il y a ensuite le ternissement de l’image qui adoucit les contrastes et gomme les contours, ce qui est rendu possible par l’exposition du cliché pendant une semaine à la lumière du soleil ; il y a finalement la victoire du minéral sur l’animal et la symbiose triomphante du végétal et du minéral. Tout se passe comme si la trajectoire décrite traçait le renversement du vulnérable en invulnérable. Avec la transformation de la mutilation de l’animal à la régénération de la plante sur le rocher,  l’économie métaphorique a basculé du régime de la chair au régime de la pierre. En devenant sèche et en se nourrissant sur le rocher, la plante a adhéré à la pierre pour résister à l’entropie. Elle a pris la place du corps de la femme maintenant effacé. Par cet  effacement, on peut peut-être appréhender à la fois le phénomène d’écart et celui de réduction de l’écart du point de vue rhétorique. On peut considérer l’effacement comme un écart maximal, puisque le corps est maintenant projeté au-delà des limites du visible (CFD 1), mais on peut également  le concevoir comme une réduction de l’écart puisque le lichen occupe désormais la place de la toison. Grâce à la resemantisation végétale le corps de la femme a été soustrait à la violence scopique mais il demeure néanmoins présent dans son essence. (CFD 2) Il n’y a pas substitution mais interaction. Selon les mots de Bachelard rapportés par Paul Ricœur, l’image poétique
« devient un être nouveau de notre langage, elle nous exprime en nous faisant ce qu’elle exprime, autrement dit, elle est à la fois un devenir d’expression et un devenir de notre être. Ici l’expression crée de l’être….»  (Ricœur 272)

Cette image poétique qui a permis de « voir » le pubis «  comme » du lichen  a engendré un nouvel être, une nouvelle pertinence sémantique qui autorise le renversement de l’image dégradée en image régénérée par sa recatégorisation. L’exposition à la lumière est un fiat lux qui révèle la vérité en photographie et procède par transformation d’un négatif en positif, pour rédimer l’image tronquée et la réinstaller dans son intégrité.
Ce processus de rédemption du corps de la femme s’articule sur le déploiement tout au long de la nouvelle d’une isotopie (CFD 3) de la restauration et puisque Bachelard nous invite à laisser les mots rêver, autorisons-nous à envisager le terme sous plusieurs de ses acceptions. Il y a d’abord le sens politique avec le « rétablissement au pouvoir d’une dynastie qui était écartée » (Dictionnaire Robert) et c’est sans doute dans ce sens là qu’il faut lire le remplacement du corps mutilé par une espèce végétale prolifique. (AG 2) (CFD 4) C’est moins le remplacement du féminin par le végétal que la consécration du principe de fertilité primitive. Mais il y a également le sens littéral de remise en bon état, qui peut se moduler de façon figurée sous la forme d’une réparation psychique au sens ou Mélanie Klein l’entend. Au cours d’un dialogue entre Stella et David qui concerne le muret construit en épi sur la plage pour retenir le sable, la possibilité d’une réparation littérale est évoquée. L’épi a été érodé et Stella envisage d’inviter un groupe d’amis pour l’aider à le colmater. Le terme qui désigne l’épi est « groin », terme polysémique, qui se rapporte également à l’aine et par conséquent au pubis. Autour du cliché photographique qui représente le corps tronqué de la femme,  Munro met en scène le travail de l’érosion. Elle crée une constellation figurale autour du vieillissement des corps, de l’usure des sentiments, et de la décrépitude des choses mais simultanément, de façon inversement symétrique, elle met sur pied des stratégies de réparation. (CFD 5)  (AG 3) La maison de retraite du père de Stella s’appelle « The Balm of Gilead » qui désigne l’onguent sacré destiné à guérir les blessures, l’épi va connaître une réfection et le cliché final dans lequel s’avère l’analogie de la toison avec le lichen participe d’une stratégie de réhabilitation, de restauration de pouvoir. C’est l’instauration d’une nouvelle pertinence sémantique, le phénomène du « voir comme », l’intuition métaphorique qui est à l’origine de la restauration et c’est bien ce phénomène qui est en jeu dans l’activité à laquelle se livre le père de Stella. Il invente des souvenirs qui deviennent de nouveaux êtres de langage : « He’s reached the stage where that’s his big recreation-fixing up the past so that anything he wishes had happened did happen. » (Munro 52)  Le père de Stella répare le passé pour restaurer sa puissance perdue. Par la magie de l’invention langagière, sa récréation favorite se trouve commuée en re-création du monde. Loin de la futilité d’un divertissement relativement proche de la sénilité, son pouvoir inventif se trouve élevé au rang démiurgique par sa contextualisation dans le paradigme de la restauration métaphorique. (AG 4)

Il est un autre sens du terme restauration qui nous intéresse ici : c’est reprendre des forces en mangeant. Or la nouvelle consiste essentiellement en un dîner rituel qui réunit Stella et David une fois par an autour d’un repas qu’il faut peut-être mettre en rapport avec le lichen, organisme d’un type original unique dans la nature, fondé sur une symbiose, c’est-à-dire un état d’équilibre entre les deux partenaires. Cette symbiose peut être de l’ordre du mutualisme ou du commensalisme. Dans ce dernier cas les partenaires s’alimentent ensemble à la même source. (Encyclopedia Universalis, 21, 932 ) La représentation de Stella et David partageant ce repas rituel peut donc être envisagée comme participant de la redescription du monde sous-tendue par l’opération métaphorique. La métaphore du lichen permet d’iconiciser leur relation puisque la notion de symbiose incarnée par le lichen concerne «  toutes les formes de relations interspécifiques depuis l’union réciproquement profitable jusqu’à l’antagonisme parasitaire. » (Encyclopedia Universalis, 21, 932)
A ce titre la symbiose lichénique peut également metaphoriser la relation du texte à l’image et constituer un commentaire auto-réfléxif sur l’engendrement de l’iconotexte. Ce que Munro propose à travers le déplacement du tableau de Courbet et son remplacement par le cliché photographique d’un lichen sur le rocher, c’est une fable sur le devenir végétal de la femme et le devenir image du texte. Cependant, l’activité symbiotique plus ou moins bénéfique aux deux partenaires met peut-être en relief l’intuition d’une forme de prédation d’un élément sur l’autre ou d’une structure d’angoisse liée à la crainte de la castration ou la dévoration.  Du cliché initial représentant le corps amputé au cliché final proposant le lichen à sa place nous sommes passés du renversement d’un acte de violence en acte de restauration dont le cannibalisme n’est peut-être pas exclu. Le mythe de reviviscence végétale proposé par Munro suggère peut-être une vérité qui touche à l’inconscient. De cette vérité, Lacan a montré qu’elle ne se supportait que d’un mi-dire : « le mi-dire est la loi interne de toute espèce d’énonciation de la vérité, et ce qui l’incarne le mieux, c’est le mythe. » (Marret 301) La transformation du corps en végétal, l’utilisation du lichen pour dé-couvrir la véritable nature de la toison, pour permettre la déclosion de l’être, participe d’un processus de réversibilité fondatrice qui laisse subsister à la fois la violence et la réparation, l’auto-engendrement et l’auto-effacement, le trauma initial et la catastrophe finale.
L’explicit de la nouvelle souligne bien la participation conjointe de David et de Stella dans ce double mouvement de déclosion ainsi que la violence de cette ouverture :

«  This is David’s doing. He left it there in the sun.
Stella’s words have come true. This thought will keep coming back to her- a pause, a lost heartbeat, a harsh little break in the flow of the days and nights as she keeps them going. » (Munro 55)

La dé-couverte de l’image est un recouvrement de l’image. Munro saisit le moment où l’image advient et disparaît dans le texte. L’exposition à la lumière est l’agent d’un change de forme qui marque la venue de l’image au monde mais elle est aussi un aveuglement dont on sait qu’il est, dans l’imaginaire, lié à la castration, au manque, à la disparition.  (AG 5) Les dernières lignes de la nouvelle sont indéniablement dysphoriques et ouvrent une brèche dans le continuum espace temps. C’est d’un arrêt sur image qu’il s’agit ici, mais c’est aussi le rendu de la coupure de l’image, de la syncope dans le battement de la figure, l’interruption momentanée de la diastole/systole, qui permet la présentation d’une essence dans sa violence fondatrice, la naissance du lichen sur le rocher dans sa blessure initiale annonciatrice des traumatimes ultérieurs. Cette oeuvre comm-une en tant qu’œuvre matérialisée par le cliché photographique métamorphosé au soleil et décrit dans la nouvelle érige un monde. Comme le dit Heidegger dans  « L’origine de l’œuvre d’art » : « la vérité n’advient que si elle s’institue elle-même dans le combat et dans l’espace de jeu qui s’ouvre par elle. » (Heidegger 68)  Cette œuvre enchâssée dans la nouvelle, qui interagit avec une autre œuvre  « L’origine du monde » de Courbet,  est comme elle une création qui thématise le principe de création.  L’audace de Munro dans la présentation de ce mythe de création de l’être rejoint celle de Courbet en ce sens que, comme lui, elle récrit l’histoire des origines racontée dans la genèse en substituant à la côte d’Adam le pubis d’une femme, sublimé, transfiguré par une analogie avec le lichen. De même que Courbet en donnant le titre « L’origine du monde » à son tableau tentait de détourner l’attention du contenu érotique (CFD 6) pour proposer un mythe d’origine, (AG 6) Munro en intitulant sa nouvelle « Lichen », et en transformant le pubis en végétal, s’écarte de l’érotisme de « la chose. »  Elle tient à distance la scopophilie, c’est-à-dire l’investissement érotique du regard pour se recentrer sur la pulsion qui, comme le montre Peter Brooke, lui est directement associée :  l’épistémophilie, c’est-à-dire l’investissement érotique dans le désir de connaitre. (Peter Brooke 122) En d’autres termes, lorsqu’elle intitule sa nouvelle « Lichen » et qu’elle met en exergue la fécondité de la polysémie,  Munro récrit un mythe d’origine, qui ne s’appuie sur la nudité du corps que pour mieux mettre à nu les ressorts tropiques du discours dans l’engendrement du récit.
S’il nous a d’abord été possible d’interpréter cette co-nnaissance à partir du principe de ressemblance qui reliait le sexe féminin à l’espèce végétale soit à partir d’un  effet métaphorique, il semble nécessaire de l’envisager maintenant à partir d’un principe métonymique car si le lichen est nécessairement l’enjeu de la nouvelle, ce n’est peut-être qu’en tant que trace, c’est-à-dire en tant que secret. Ce qui est désigné dans le tableau de Courbet sous le nom « L’origine du monde » et  ce qui est désigné dans la nouvelle de Munro plus obliquement sous le titre « Lichen », c’est ce qui est contigu au pubis sans être rendu visible, c’est-à-dire la matrice, celle qui a le pouvoir d’engendrement des générations (l’origine du monde) et celle qui a le pouvoir d’engendrement de la fiction (l’origine de l’œuvre d’art.) (CFD 7) A l’instar d’Albert Dürer, Munro situe l’origine de l’œuvre d’art dans la nature : « Car en vérité l’art y est dans la nature et celui qui d’un trait peut l’en faire sortir, il le tient. » (Dürer cité par Heidegger 79) (AG 7) En traçant la figure du sexe féminin sous les traits d’un lichen, Munro a renversé les conventions du portrait féminin ; elle a iconicisé la matrice sans toutefois la rendre visible mais en la désignant obliquement par glissement métonymique. Elle s’est arrêtée au seuil de la représentation, sur le limen/lichen qui n’est qu’une empreinte et qui  « fait de l’absence quelque chose comme une puissance de forme. » (Didi Huberman 39) La matrice qui est l’objet essentiel de la nouvelle est au secret, elle n’est désignée que dans le tracé d’un double écart : l’écart métaphorique entre toison et lichen et l’écart métonymique entre pubis et utérus, qui tous deux façonnent la nouvelle icône, le calice dont l’ostension est inter-dite. La scénographie de la présentation de la nouvelle icône dans le dernier paragraphe de la nouvelle renforce sa sacralité. Le cliché photographique est retrouvé derrière les plis du rideau. C’est bien du tabernacle dont il est question ici et si nous retraçons le parcours de l’icône depuis sa première instauration dans le texte, nous retrouvons bien les stades du drame mythologique élémentaire tel que décrit par René Girard. (AG 8) Le cliché photographique est d’abord représenté dans toute sa distorsion persécutrice avant de subir une véritable volte-face sacralisante qui consacre sa valeur fondatrice.
Si les plis du rideau derrière lequel le cliché photographique est retrouvé ne manquent pas d’évoquer la mise à l’écart de la victime sacrificielle à la fois impure et sacrée, ils peuvent également acquérir une valeur de parerga. Les plis du rideau cachent le cliché photographique mais permettent son dévoilement. Le dévoilement du cadre duplique le dévoilement de l’œuvre, le parergon redouble l’ergon,  puisque ce que les plis du rideau laissent entre-voir, ce sont les plis du sexe qui eux-mêmes désignent et dissimulent la matrice. Pour tenter de reprendre l’analyse de Derrida, ce qui constitue les plis du rideau en parerga :

« ce n’est pas seulement leur extériorité de surplus, c’est le lien structurel interne qui les rive au manque à l’intérieur de l’ergon. Et ce manque serait constitutif de l’unité même de l’ergon. Sans ce manque, l’ergon n’aurait pas besoin du parergon. Le manque de l’ergon est le manque du parergon, du vêtement ou de la colonne qui pourtant lui restent extérieurs. » (Derrida 69)

Aux vêtements et à la colonne utilisés comme exemples par Derrida pour désigner les parerga, il faut ajouter ici les plis du rideau qui, tout en restant extérieurs à l’œuvre, s’inscrivent dans un champ contigu qui en duplique la problématique. La question posée par la présence du rideau est la même que celle posée par le cadre : « Où le cadre a-t-il lieu. A-t-il lieu. Où commence t-il. Où finit-il. Quel est sa limite interne. Externe. Et sa surface entre les deux limites. » (Derrida 73) Dans la nouvelle de Munro le problème du cadre est rendu plus complexe par la démultiplication du pli, le pli du corps dans le pli du monde. La nouvelle présente une configuration visant à déplier la vie de trois femmes, qui ont accompagné successivement David. Comme dans le mythe d’Er de Platon, il y a Stella/Lachesis pour représenter le passé, Catherine/Clotho pour incarner le présent et Atropos/Dina pour symboliser l’avenir et toutes trois sont repliées dans un devenir-végétal semblable qui assure leur pérennité sous la forme du lichen primitif. (République, X, 6-7)
Il semblerait qu’à cette configuration féminine orientée sur le devenir-végétal commun des trois compagnes co-fondues réponde une configuration masculine centrée sur la description du père de Stella, comme figure emblématique :

«  To get used to looking at his father-in-law, David tried to think of him as a post-human development, something new in the species. Survival hadn’t just preserved, it had transformed him. Bluish gray skin, with dark blue spots, whitened eyes, a ribbed neck with delicate deep hollows, like a smoked-glass vase. Up through this neck came further sounds, a conversational offering. It was the core of each syllable that was presented, a damp vowel barely held in shape by surrounding consonants. » (Munro 51)

De façon identique mais symétriquement inversée par rapport à la description du sexe féminin sur le cliché photographique, la gorge du vieil homme est représentée grâce à un motif chromatique.  Le prédicat « bluish gray skin » est associé à la peau ridée, plissée du vieil homme et on le retrouve de façon similaire dans la description de la toison :  « She sees that the black pelt in the picture has changed to gray. It’s a bluish or greenish gray. »  ( Munro 55)
Par un phénomène de relance et d’écho différé, nous voyons se mettre en place des isotopies figurales qui permettent de relier le lichen sur le rocher à la gorge du vieil homme. La comparaison explicite de la gorge avec un vase en verre fumé relève d’un processus de  minéralisation que l’on avait déjà noté dans le cas du lichen nourri sur le rocher. Le couple paronomastique implicite vowel/bowel signale également le processus d’appariement entre les deux sites épiphaniques de couleur gris-bleue. Dans un essai intitulé « Bâtir, habiter, penser » Heidegger propose le pont comme le site, le lieu emblématique (ort) « qui organise autour de lui le Geviert, le Quadriparti, le Ciel et la terre, les dieux et les mortels en un monde. C’est le lieu de la déclosion de l’être autour de quoi un monde, pas seulement un umwelt personnel, mais un paysage, c’est-à-dire un cosmos se constitue. » (Lecercle 185) Ici dans cette gorge en forme de vase d’où s’échappent quelques mots, dans ce lieu grisâtre qui ressemble étrangement à du lichen sur un rocher, on pourrait peut-être parler d’une remontée vers l’origine du langage, d’un site épiphanique, qui organise autour de lui les quatre éléments pour présider à l’engendrement des mots et du monde : la terre serait représentée par la cave humide à laquelle la gorge du vieillard est comparée et le ciel par le motif chromatique gris-bleu tandis que les mortels, si âgés, si faibles, convoqueraient les dieux pour user de leur prérogative, l’acte de nomination du monde. Que dit le père de Stella du fond de cette caverne humide d’où émane son offrande lyrique ? « Gray. Dort. Gray-Dort. First car-ever drove. »  (Munro 52)  Dans cette profération langagière syncopée, un monde est en train de naître. Le vieil homme fait allusion à un souvenir du passé dont sa fille doute de l’exactitude : la première voiture qu’il ait conduite au cours de sa vie, une voiture canadienne des années vingt appelée du nom de ses deux constructeurs la Gray-Dort. {Impossibile cogliere il doppio senso e l‘assonanza in Italiano: ma il padre di Stella, che come dice lei fa più caso alle visite degli uomini, ricorda la prima macchina che ha guidato - come la prima donna - a novanta all’ora...} Au-delà de l’exactitude ou de l’inexactitude de la référence, il faut peut-être autoriser la langue à parler pour entendre ce que Jean-Jacques Lecercle a appelé « le retour du reste. » Comment ne pas entendre sous « Gray-Dort » les mots précédemment employés pour décrire le pubis : « dark blot », « the black has turned to gray », en d’autres termes comment ne pas entendre « gray dot » 1 ou  « grau ort », ce lieu gris, ce site fondateur qui résonne dans toute la nouvelle quand on sait au demeurant que Stella, le nom du personnage féminin de la nouvelle, signifie également en allemand le lieu, l’endroit et que « dort » veut dire « là-bas » ? Ce « lieu là bas » qui est devenu  « gris » sous l’effet de la lumière est l’objet de la nouvelle qui met en scène le sujet et le monde mais aussi le monde et le langage dans leur instauration originelle. (AG 9)
Cette instauration passe par un lieu épiphanique qui renverse l’ort-hodoxie puisque la parole naît de la gorge fripée du vieillard et que le pubis de la jeune fille devient semblable à la toison desséchée de l’épouse répudiée, non pas dans un mouvement d’entropie étendu à toutes les femmes, mais au contraire dans un parcours de réparation qui rédime le corps féminin et lui restitue son pouvoir générationnel. Comme l’érosion du pubis est simultanément soulignée et rédimée par la comparaison avec le lichen, le flétrissement du cou est racheté par la comparaison avec le vase en verre fumé. Dans les deux cas il s’agit de ce que Lacan appelle  « la quadrature inépuisable des recollements du moi » (Lacan 97) et il semblerait que ce soit précisément ce que la nouvelle mette en jeu sur la chaîne métaphorique grâce à la resémantisation du pubis et de la gorge et sur la trame métonymique grâce au glissement vers la matrice originelle. (AG 10) Par le  biais d’une double métaphore métonymique exactement symétrique et inversée,  Munro relie la toison de la jeune fille au lichen et la gorge du vieillard à un vase en verre fumé, pour indirectement convoquer dans le texte le creuset, le calice où s’origine le monde. On peut considérer que cet accomplissement provient de la réduction de l’écart entre « Sujet et Objet [ qui]  primitivement disjoints par une ‘discrétisation’  qui les fait naître, retournent à une sorte d’indistinction première et tendent à ne faire plus qu’un. » (Quéré 159)  En paraphrasant Henri Quéré parlant de Dylan Thomas,  on pourrait dire que Munro surmonte l’écart entre  « les êtres et les choses », entre « matière et  âme »,  entre espèces animées et  espèces inanimées, entre « éléments contraires », entre le haut et le bas, entre le masculin et le féminin pour finalement jeter un pont, créer un lieu épiphanique entre les « pôles extrêmes » de « la voûte » stellaire et de « l’ici-bas » des rochers et des plantes. (Quéré 166) (AG 11)  (CFD 8)
 
 En traçant le parcours de Stella dans son rapport de filiation directe avec son père et son rapport d’alliance discontinue avec David,  Munro a dessiné les inflexions du « stelle ». Elle a mis en lumière l’identité et la différence entre le lieu du haut et le lieu du bas en les représentant comme inversement symétriques l’un par rapport à l’autre. En renversant les attributions prédicatives du masculin et du féminin, elle a permis à l’un de fusionner avec l’autre par métaphores interposées pour désigner obliquement le lieu véritable qui est interdit de représentation. Cette entreprise de dévoilement et de dissimulation, de découverte et de recouvrement a mis en jeu les limites entre le parergon et l’ergon, entre le sujet et le monde, entre la langue et les lèvres, dans l’invagination originelle et tourbillonnaire d’un lichen sur le rocher qui ressemble à un vase de couleur bleuâtre d’où s’échappent de confuses paroles. Cette nouvelle a plié, déplié et replié le tableau de Courbet pour faire prendre corps au langage, pour inscrire des lèvres sur un livre et un livre sur des lèvres, dans un chiasme fondateur, figuré par le double lieu épiphanique où s’exprime le monde. Elle a utilisé la transposition photographique (et la possibilité de vieillissement accéléré qu’offre le cliché exposé au soleil) pour cautionner la transformation métaphorique, cette transformation que Paul Ricœur définit ainsi :

« Considérée formellement en tant qu’écart la métaphore n’est qu’une différence dans le sens ; rapportée à l’imitation des actions les meilleures, elle participe à la double tension qui caractérise celle-ci : soumission à la réalité et invention fabuleuse ; restitution et surélévation. Cette double tension constitue la fonction référentielle de la métaphore en poésie. » ( Ricœur 57) 

De la métaphore initiale du creux de la main, à la métaphore finale de la syncope, en passant par la double métaphore inversée du rocher convexe féminin et du vase concave masculin, Alice Munro a tracé l’écart entre l’être et le néant, entre ecce mulier et memento mori, et par un double système de donation réciproque et de renversement symétrique, elle a mis en tension métonymique le site à partir duquel s’évide l’image et s’érige le texte pour bâtir le monde ab ovo.  (AG 12)  CFD 9

Ouvrages cités
Arasse, Daniel. Le Détail Pour une histoire rapprochée de la peinture. Paris : Flammarion, 1996.
Brooks, Peter. Body Work : Objects of Desire in Modern Narrative. Cambridge: Harvard University Press, 1993.
Didi Huberman,George. L’empreinte, Paris: Centre Georges Pompidou, 1997.
Deleuze, Gilles. Francis Bacon  Logique de la sensation. Paris : Editions de la différence, 1996.
Derrida, Jacques. La vérité en peinture. Paris : Flammarion, 1978.
Genette, Gérard. Figures III. Paris : Seuil, 1972.
Girard, René. Le Bouc émissaire. Paris : Grasset, 1982.
Heidegger, Martin. Chemins qui ne mènent nulle part. Paris : Gallimard, 1962. [1949]
Lacan, Jacques. Ecrits. Paris : le Seuil, 1966.
Lecercle, Jean Jacques. « La Chair de l’escargot » in Tle, Figuralité et cognition, n° 9, 1991.
Munro, Alice. The Progress of Love. Toronto: McClelland and Stewart, 1986.
Quéré, Henri. « Portée de la figure et agir figural » in Tle, Figuralité et cognition, n° 9, 1991.
Ricœur, Paul. La métaphore vive. Paris : Seuil, 1975.
Stoichita, Victor. L’instauration du tableau. Genève : Droz, 1999.
Teyssèdre, Bernard. Le roman de l’origine. Paris : Gallimard, 1996.

Note di lettura


HV, Héliane Ventura, marzo 2007
AG, Adalinda Gasparini, aprile 2007
CFD, Catherine Fava-Dauvergne, giugno 2007



HV 1, marzo 2007
Invio un dipinto di Gustave Courbet di 1867 che ha dato scandalo in Francia. Lacan lo ha comprato e nascosto sotto una tenda. Alice Munro lo ha utilizzato nel racconto chiamato "Lichen" (Lichene) ( The Progress of Love, 1986)  e utilizza questo dipinto, credo,  per parlare della nascita del racconto anche delle donne. Forze le tue colleghe lacaniane saranno interessati da questo dipinto ? mi sembra che Munro utilizza delle immagini nascoste sotto il testo, delle hypo-icone, che sono como le matrice del testo. Utilizza anche delle anamorfosi: non so come renderli uno strumento di riflessione anche per altri perché non conosco abbastanza bene il lavoro delle psicanaliste. Ma trovare le immagini nascoste, le risonanze segrete delle parole, queste cose possiamo fare insieme, mi sembra.... Sara un piacere di ascoltare e scoprire.
Non voglio invadere col mio lavoro ma ho scritto un articolo sull' origine del mondo e ti lo invio ma non so como essere utile a questo punto.
Sono molto felice di partecipare a questo lavoro affascinante. [e-mail di Héliane Ventura a Adalinda Gasparini]




AG 1, aprile 2007
La mutilazione è castrazione. Per una analisi di questo motivo, vedi anche Cenerentola, nella versione dei Grimm (A. G., 1999, La luna nella cenere, in particolare: Né il coltello della madre...) Le sorellastre, su indicazione della loro madre, per indossare la scarpetta, si tagliano una l’alluce, una il tallone. Tanto, dice la madre, una volta regine - sposate - non avranno più bisogno di camminare. Sposarsi significa in questa accezione rinunciare alla propria autonomia. Da interpretare in questo senso la pratica cinese volta a ridurre le dimensioni dei piedi femminili, e il successo della scarpetta e del piede della versione di Perrault: si crede che Cenerentola abbia, e abbia sempre avuto, un piede piccolissimo, e che la sua scarpa sia quindi la più piccola possibile, e fragilissima, di cristallo, quindi adatta a un essere quasi senza peso, senza corpo... Nelle versioni antiche e popolari di Cenerentola, la scarpa è semplicemente della misura giusta, e per questo solo la protagonista può indossarla: accade durante la prova che per una sorella sia troppo piccola, per l’altra troppo grande. Inoltre la scarpa di vetro - verre - potrebbe venire a Perrault dalla scarpa di vaio, di pelliccia, omofona in francese - vair. Nella versione secentesca di Basile la ‘scarpetta’ è no chianiello, una calzatura con una zeppa alta anche venti centimetri, come voleva la moda napoletana del tempo. Una mutilazione non grave..., not much cut off... sembra pensare la matrigna di Cenerentola facendo amputare il piede alle sue figlie. Non è così anche per le pratiche arcaiche, tuttora diffuse, volte a mutilare il genitale femminile? Nel patriarcato si vuole una rappresentazione della donna come priva di un piacere autonomo, nella sessualità o nella libertà di movimento. (AG)



CFD 1, giugno 2007
C’est toute la question du féminin qui est ici, espace moebien où présence et absence sont contemporains, le « flouté » comme semi-effacement, mi-effacement, comme en mi-dire, où la vérité se situe dans l’équivoque.



CFD 2, giugno 2007
La question du spéculaire pour le corps, et plus particulièrement le corps féminin, de ce qui échappe immanquablement, de ce qui n’est pas saisi par le regard spéculaire, qui échappe même au regard de l’Autre, à la saisie possible par l’Autre.Pour une femme, ce qui est montré, est ce qui ne se voit pas, transposé, le corps ferait comme métaphore de ce qui ne se voit pas.C’est le sexe d’une femme qu’un homme est intéressé à voir, , e la « fascinante origine manquante », image sur l’autre , l’Autre, de la castration elle-même sur laquelle il peut se décharger de la sienne. Ce qui m’est venu, de «  la fascinante origine manquante, est ce qui pourrait aussi conjoindre, pour un homme, sur le corps d’une femme, en « l’origine du monde », conjoindre le féminin au maternel.Où, pourrait-on émettre l’hypothèse que si LA femme n’existe pas c’est dans dans la (non) conjonction du féminin et du maternel.



CFD 3, giugno 2007
On peut envisager l’isotopie comme synchronie, équivoque .



AG 2, aprile 2007
Il lichene è la forma di vita che compare in condizioni in cui altre forme sono impossibili. Introducendo la vita, crea le condizioni per forme di vita più complesse. (AG)



CFD 4, giugno 2007
È anche la forma più sensibile di vitalità, c’est comme une vigilance de la supportabilité de la vie : sa présence témoigne que la vie est possible, sans toxiques.



CFD 5, giugno 2007
Par l’écriture notamment puisque autant l’héroine qu’A. Munro l’acte



AG 3, aprile 2007
Per tollerare la vicinanza della donna, per quanto ne sappiamo, l'uomo ha bisogno di delimitarla, come un geografo ha bisogno di disegnare mappe per descrivere la terra. L'isterica costringe Freud a inventare la psicoanalisi, perché Freud non può - non vuole, non sa - misconoscere il suo disagio, o non occuparsene, come fa il medico. Anche se questo non gli impedisce di isolare parti della donna, ad esempio quando la considera caratterizzata da una specie di masochismo congenito - e gli fa eco Helene Deutsch... - lo sguardo di Freud sulla donna isterica spazza via la certezza della medicina e apre una via d'indagine lungo la quale, più tardi, donne come Klein o Kristeva parleranno in proprio, non calandosi nei le forme pensate da altri, come il gesso liquido negli stampi. Dopo Klein si può dire che i suoi allievi Bion e Winnicott abbiano lavorato per mettere un po’ d’ordine - per contenere - le geniali trippe della maestra. E Lacan non si perde nel labirinto delle trippe grazie al Nome-del-Padre: comprensibile che acquisti il quadro di Courbet e lo metta dietro a una tenda. Una cosa che apprezzo grandemente in Munro è la mancanza di condanna per l’uomo che ha bisogno di delimitare la donna, David in questo caso, anche perché osserva che alla fine non ci riesce. Contrapporsi al fallo è comunque una posizione fallica: Munro evita il tranello (CFD: molto giusto), e guadagna la comprensione di qualcosa che esprime alla fine di questo racconto:

Le parole di Stella sono diventate realtà. Questo pensiero le tornerà spesso in mente: una sospensione inattesa, un mancamento improvviso del cuore, una breve fitta ribelle nel fluire di giorni e notti che lei ininterrottamente manda avanti.



AG 4, aprile 2007
Ho avuto modo di osservare, durante una degenza all'ospedale l'estate scorsa, per una frattura, questa specie di confabulazione negli anziani, nelle anziane, anzi, perché c'erano nella mia stanza altre cinque donne. La loro età non era inferiore agli ottant'anni, ed erano là prevalentemente per una frattura al femore. Non avevano difficoltà a parlare, anzi, lo facevano di continuo, e una persona che non comprende la lingua italiana, se le avesse ascoltate, avrebbe pensato che la loro conversazione fosse normale: invece, a partire dalle visite dei medici, dei parenti, dal cibo, da qualunque cosa, reinventavano la realtà. Un donna molto simpatica si raccomandava a tutti gli infermieri che la rimandassero a casa, o che facessero entrare suo marito, che era nel corridoio - in realtà era a casa e non poteva venire a trovarla. Accanto a me un'altra donna, di Empoli, aeìveva le braccia legate al letto, per evitare che si strappasse le flebo e il catatere. Per tutto il giorno chiedeva a tutti, dando del lei e con fare popolano e cortese, un paio di forbici, perché delle persone poco perbene l'avevano legata. le altre degenti le rispondevano, anche se laconversazione di necessità cadeva nel nulla. Una sera venne il caposala a portare i termometri, e lei lo rimise sul comodino dopo un po', da dove il paramedico lo prese. Poi gridò perentoria: "O lei! mi ridia i' mi' termometro!" Alle proteste divertite e pazienti dell'uomo, che spiegava come i termometri fossero della ASL, replicava: "Sie! Gli è della mi' mamma qui' termometro, me lo ridia! se un glielo porto domattina, sto fresca! tiene più a' i' termometro che a me! Badi! sennò domattina fo venì' la mi mamma, così poi... e se n'accorge!" e così via, finché il caposala le ridiede il termometro. Dopo esserselo girato fra le mani, ricomiciò: "Sie! e unn'è i' termometro della mi' mamma, questo gli è piccino, invece i' suo... gli era un termometro bello... grosso... ci giocava tanto volentieri anche i' bambino! mi ridia i' termometro della mi' mamma!"  E siccome non veniva accontentata, lo scaraventò in terra.
I discorsi degli psicotici che is trovano da molto tempo in strutture psichiatriche sono sbagliati, dissonanti, nella musica, nel ritmo della frase, come nelle parole, nel senso. I discorsi delle mie compagne di quella settimana all'ospedale avevano invece il testo sbagliato, ma la musica giusta. E un orecchio allenato, o anche semplicemente attento, sensibile, riconosceva il nesso tra il loro comprensibile desiderio e la distorsione del racconto.
La cosa interessante è che questa espressività bizzarra può scomparire appena queste persone tornano a casa, così come può essere comparsa per la prima volta al momento del loro ricovero. Le signore ultraottantenni sottoposte a un dolore e a una paura che non possono tollerare, ci insegnano su una scala macroscopica che ciò che non si sopporta si trasforma, anche se il prezzo è la perdita della 'vera realtà’. L’ancoraggio alla vera realtà viene effettuato e mantenuto perché si spera di trarne dei vantaggi: appena si scopre, a torto o a ragione, che non c’è nulla da guadagnare, si entra nel delirio, o nella psicosi. È straordinario che si parli poco di questi fenomeni, che invece mi sembrano interessantissimi, e che sono molto diffusi. Si preferisce comunemente parlare di demenza senile, per evitare proprio quella ferita narcisistica di cui Freud era consapevole, avendola sperimentata in prima persona. Bisogna riconoscere che il misconoscimento è normale, nel senso di usuale, tenendo conto della potenza della rimozione: misconoscendo il method nel delirio degli anziani, più o meno temporaneo, difendiamo il nostro mito della ‘vera realtà‘. Condivisa, certo, ma non meno della loro frutto di un desiderio misterioso. Alice Munro esprime una tolleranza, forse più accessibile al femminile, alla mancanza di un netto confine tra il discorso normale e il delirio. (AG)



AG 5, aprile 2007
David lascia a Stella la foto, come la lascia al nulla, come la lascia al sole. La lascia a Stella, la donna che non ha paura di sapere che il lichene, la forma più primitiva di vita, è la stessa cosa dell‘oggetto del desiderio maschile: David non vuole saperlo, perché lo sa, o, meglio, è consapevole di questa sapienza - l'ha in sé, come Yhaveh ha in sé Sophia, la Shekhinah - di Stella. Alla quale David deve lasciare il suo tesoro, perché perdendosi si avveri, come il suo seme, che si perde nella donna, e torna come figlio. Come si avverano alla fine le parole di Stella (Stella’s words have come true), secondo il racconto di una donna, diverso oggi da quello che poteva narrarsi nel patriarcato, quando durava saldo come un immaginario intramontabile, un mito intatto, fino al Novecento. (AG)



AG 6, aprile 2007
Credo il maschile possa raramente pensare allo stesso tempo la donna intera e l‘origine del mondo che il suo corpo contiene. La pulsione scopica permette all’uomo di avvicinare la donna, nel momento stesso in cui ne isola delle parti.



CFD 6, giugno 2007
Si Courbet le fait comme acte créateur mythique, en nommant  son tableau ainsi, tentant de conjoindre féminin et maternel, chez Munro il me semble qu’il n’en est rien car « lichen » est un mot argotique pour nommer le pubis féminin, la « toison », l’érotique y est donc explicitement, sans référence au maternel, à l’origine, ,d’autant que la charge érotique y est : c’est « en douce » que David montre la photo à un autre homme, et aussi la charge « névrotique » du héros car c’est d’une autre femme, une deuxième, dont le sexe est ce qui l’intéresse, il divise ainsi « névrotiquement » amour et désir, féminin et maternel. Pour moi çà n’est donc pas une création du registre de la peinture de Courbet, çà serait plus du registre de l’allégorie que de la métaphore)

CFD 7, giugno 2007
Là je ne suis pas d’accord, voir le double sens de « lichen » qui ne désigne pas obliquement mais plus étroitement que Courbet, par contre la nomination de Courbet, du côté nettement maternel et qui vient en contradiction avec ce qu’il peint, le sexe d’une femme, cette contradiction entre scopique (imaginaire) et symbolique(nomination), vient trouer  le réel.



AG 7, aprile 2007
Il mio piacere e la mia sorpresa per questa lettura di Héliane Ventura di Lichen di Munro, e del (suo) femminile, hanno raggiunto una particolareDurer, Zolla erbosa intensità quando ho trovato questa citazione da Dürer. L’ho letta ai tempi del liceo accanto all’acquerello ‘La zolla erbosa’ in un catalogo di riproduzioni d'arte: "Dann warhafftig steckt die kunst inn der natur / wer sie herauß kann reyssen der hat sie." (AG)



AG 8, aprile 2007
Ho tenuto una conferenza a Gradiva, Istituto per la ricerca in psicoanalisi, col titolo: « L’urna molle e segreta. Le cose difficili da nominare » La prima parte del titolo è tratta da Il gelsomino notturno di Giovanni Pascoli, interpretata di solito come frutto della sessuofobia luttuosa del poeta. La mia ipotesi è che quelle parole nominino in maniera efficace ciò che il grembo femminile contiene e nasconde, nella rappresentazione patriarcale che è ancora la nostra. (AG)


AG  9, aprile 2007
C’è un immaginario nominabile insieme a Melanie Klein, riletta magistralmente da Julia Kristeva (Melanie Klein ou le matricide comme douleur et comme créativité. Le génie féminine, t. ii, La folie;    Librairie Arthème Fayard, Paris 2006; La madre, la follia, tr. it. Monica Guerra; Donzelli Editore, Roma 2006). Ma nel caso di Alice Munro, che nomina qualcosa usualmente rappresentato in modo confuso e liquidato come trippe, Lacan non potrebbe parlare di una geniale trippaiola. Klein non aveva, come Freud, abilità narrativa o letteraria. D’altra parte Lacan aveva qualche problema con la scrittura... (AG)



AG 10, aprile 2007
Una suggestiva catena mitico-metaforica: il vaso di Pandora, la gola come luogo del cibo e del respiro, e poi Zeus che ingoia Métis (Intelligenza, Astuzia, la dote del pensiero che permette di non soccombere di fronte a un nemico più forte), già incinta di Athena, per evitare che generi il figlio che, essendo più forte dle padre, lo spodesterebbe:

Zeus la inghiottì e se la chiuse nel ventre,

                                        perché la dea gli indicasse il bene e il male.
                                        (Teogonia, vv. 899-900)



AG 11, aprile 2007
Non sono sicura di capire bene il testo francese: « Sujet et Objet [ qui]  primitivement disjoints par une ‘discrétisation’  qui les fait naître, retournent à une sorte d’indistinction première et tendent à ne faire plus qu’un. » Quéré vuol dire che alla fine si ricompone l’uno? non è più corrispondente ai racconti di Munro l'ipotesi che la soggettivazione femminile, come la scienza del Novecento, destrutturi l’Uno, che se continua a esistere, non può farlo a spese del due, del molteplice, che non è riducibile a uno, come gli infiniti di Cantor non sono contenibili in un unico infinito?



CFD 8, giugno 2007
 « Discrétisation » est un néologisme à partir du terme mathématique discret qui signifie qu’une grandeur est constituée d’unités distinctes, c’est donc bien ce que tu en as compris, d’un retour à l’Un, mais çà crée une confusion, la citation de Quéré car il y a mélange des langues, des catégories, il me semble qu’il ne parle pas des mêmes choses et nous, on l’entend dans la suite de Lacan.



AG 12, aprile 2007
Credo che la donna non abbia bisogno di ricostruire il mondo, perché se la donna trova, come Munro, i nomi per la propria soggettivazione, racconta che il mondo esiste senza che ci sia bisogno di costruirlo. Le interpretazioni brutali che Melanie Klein  dava ai bambini in analisi, ricostruivano il mondo perché offrivano nomi a fantasmi distruttivi del bambino, fatti di chissà quale sostanza, forse anche simili ai licheni, che attraverso la nominazione affiorano, la cui esistenza non dipende dai nomi. Hanno anzi la possibilità di impedire il linguaggio, l'ingresso nel mondo comune a tutti.



CFD 9, 12 giugno 2007, e-mail di CFD ad AG
...Trovo molto interessante [queste] proposte, può essere il punto di partenza [...] d'una riflessione, lavoro, sul femminile e la creazione scritta o dipinta, quel paragone fra lichene e l'origine du monde, apre quello che già m'interessa molto, dipingere, atto dal pintore che cerca col suo sguardo, per rappresentare quell'enigma del femminile; e lo scritto, autore e autori, il rapporto col signifiante, altra ricerca ? il femminile in atto...



phomepage  Munro
  p homepage Adalinda Gasparini


ultima revisione: 7 ottobre 2007

Alice Munro Forum Lou Salome Convegno Canada letteratura psicoanalisi psicanalisi racconti Héliane Ventura Courbet Origine du mondecritica leteraria femminile maschile psicanaliste psicoanaliste scrittrici