Mia madre mi stava
facendo un vestito. Per tutto il mese di novembre, tornando da scuola,
la
trovavo in cucina, circondata da tagli di velluto rosso e modelli di carta velina.
Lavorava su una vecchia
macchina a pedale accostata alla finestra per vederci meglio, ma anche per guardare fuori, oltre i campi di stoppie e
gli orti spogli, e vedere chi passava per la strada. Raramente
passava
qualcuno.
Il velluto era una stoffa
-
difficile da cucire, tirava; mia madre, inoltre, aveva scelto un
modello
complicato. Non era una sarta molto abile. Le piaceva confezionare
vestiti, il
che è diverso. Cercava di evitare i lavori come imbastire e
stirare e a
differenza di mia zia e mia nonna non
andava affatto fiera di quelle che sono le finezze della sartoria, come
la
rifinitura delle asole e il sopraffilo
delle
cuciture. Lei partiva con un’ispirazione, un’idea fastosa e
abbagliante; da
quel momento in poi,il piacere andava
scemando. Per cominciare, non riusciva mai a trovare un modello che la
soddisfacesse. Non c’era da meravigliarsi: non
esistevano modelli che corrispondessero alle
idee che
sbocciavano nella sua testa. Nel corso degli anni mi aveva fatto:
un vestito
di organza a fiori accollato, con un colletto di pizzo che mi dava
prurito e
un cappello uguale a larghe tese; un completo scozzese con una giacca di velluto e un berretto
anch’esso scozzese; una camicetta ricamata con le maniche a sbuffo da
portare
con un’ampia gonna rossa ed un corpino nero ornato di merletti. Ai
tempi in cui
ero ignara del giudizio del mondo portavo questi abiti con
docilità, a nche con piacere. Ora che mi
ero fatta più
avveduta, desideravo vestiti come quelli che la mia amica Lonnie
acquistava al
negozio di Beale.
Dovevo provarlo. A volte Lonnie veniva a casa con me dopo la
scuola e si
sedeva sul divano a osservare le prove. Mi imbarazzava il modo in
cui mia
madre mi girava furtivamente intorno, le ginocchia scricchiolanti, il
respiro
affannoso. Parlottava tra sé e sé. Quando era in
casa non portava corsetto né calze,
ma scarpe con la zeppa e calzini alla caviglia; aveva le gambe solcate
da vene
sporgenti verdeazzurre. Mi sembrava volgare in quella posizione
accoccolata,
quasi oscena; cercavo di parlare a Lonnie in continuazione, per
distogliere la
sua attenzione quanto più possibile da mia madre. Lonnie
aveva dipinta in
viso quella sua espressione educata, composta, piena di stima che
costituiva il
suo travestimento in presenza di adulti. In loro assenza, rideva di
loro e li
scimmiottava ferocemente, e nessuno lo veniva mai a sapere.
Mia madre mi strattonava a
destra e a manca riempiendomi di spilli. Mi
faceva
voltare, allontanare, stare ferma immobile. « Che cosa ne dici,
Lonnie? » chiedeva
con la bocca piena di spilli. « È bellissimo »
rispondeva Lonnie in tono pacato
e sincero. La madre di Lonnie era morta. Lei viveva con suo padre
che non si
accorgeva neppure della sua presenza, e questa circostanza, ai
miei occhi, la
rendeva al tempo stesso vulnerabile e privilegiata.
« Sarà bellissimo,
se riesco ad azzeccare la misura » replicava mia madre. «
Mah, » diceva poi in
tono enfatico, raddrizzandosi in mezzo a un deprecabile concerto
di sospiri e
scricchiolii, « chissà se lo apprezza ». Mi
faceva rabbia quando parlava in
quel tono con Lonnie, come se lei fosse adulta e io ancora una bambina.
« Sta
ferma » diceva, sfilandomi il vestito imbastito e pieno di
spilli dalla testa.
Avevo la testa avvolta dal velluto, il corpo esposto, coperto
soltanto da una
vecchia sottoveste di cotone di quelle che usavo per andare a
scuola. Mi
sentivo come un grosso ammasso di carne cruda, goffa e con la pelle
d’oca.
Avrei voluto essere come Lonnie, con le ossa sottili, pallida e magra;
era nata
cianotica.
« A me nessuno mi
faceva
i vestiti quando andavo alle superiori » disse mia madre.
«Me li facevo da
sola, oppure ne facevo a meno. » Temevo che avrebbe
ricominciato con la solita
solfa di quando doveva farsi dieci chilometri a piedi per andare
in città e si
era dovuta trovare un lavoro come cameriera in una pensione per pagarsi
la
scuola. Tutte le storie sulla vita di mia madre, che un tempo trovavo
interessanti, avevano cominciato ad apparirmi melodrammatiche,
insignificanti e
noiose.
« Una volta mi
regalarono un vestito »
disse. «Era di cachemire bianco panna con i bordi blu oltremare e
degli
splendidi bottoni di madreperla. Mi chiedo che fine avrà fatto.
»
Quando
ci liberavamo Lonnie ed io salivamo in camera mia. Faceva freddo, ma
stavamo
lassù. Parlavamo dei ragazzi della
nostra classe e procedendo con ordine ci chiedevamo a vicenda,
«Ti piace? Ti
piace un pochettino? Lo detesti? Usciresti con lui se te lo chiedesse?
»
Nessuno ce lo aveva mai chiesto. Avevamo tredici anni e avevamo
cominciato le
superiori da due mesi. Facevamo i test delle riviste per scoprire se
avevamo
personalità e se saremmo state ragazze richieste. Leggevamo
articoli che
spiegavano come truccarsi per mettere in risalto i punti forti, come
condurre
una conversazione al primo appuntamento e che cosa fare quando un
ragazzo
cercava di spingersi troppo in là. Leggevamo anche articoli
sulla frigidità in
menopausa, sull’aborto e sui motivi che spingono i mariti a cercare
distrazioni
fuori casa. Quando non eravamo a occupate con i compiti, passavamo la
maggior
parte del tempo a discutere informazioni sul sesso. Avevamo fatto il
patto di
dirci tutto. Ma c’era una cosa che non
le avevo detto: il ballo di Natale della scuola, per il quale mia madre
mi
stava facendo un vestito. Non gliel’avevo detto detto perché non
ci volevo
andare.
A
scuola non mi sentivo mai a mio agio, neppure per un minuto. Non so
Lonnie.
Prima di un esame, lei aveva le mani gelate e le palpitazioni, ma io
ero
prossima alla disperazione in ogni momento. Quando in classe mi
rivolgevano una
domanda, una semplice domandina qualsiasi, mi usciva una voce
stridula, oppure
rauca e tremante. Quando mi chiamavano alla lavagna ero sicura di avere
la
gonna macchiata di sangue – anche in periodi del mese in cui non poteva
essere.
Quando dovevo adoperare il compasso alla lavagna, le mani mi
sudavano. Non
riuscivo mai a prendere la palla quando si giocava a pallavolo; dover
fare
qualcosa davanti agli altri faceva venire meno tutti i miei riflessi.
Odiavo
pratica aziendale, perché dovevamo tracciare delle righe sui
registri contabili
e quando l’insegnante veniva a controllare il mio lavoro mi venivano
fuori
delle righe tutte storte e tremolanti. Odiavo le scienze: stavamo
appollaiati
sugli sgabelli sotto luci sgradevoli, davanti a tavoli carichi di
strane,
fragili attrezzature e il nostro insegnante era il preside della
scuola, un
uomo dalla voce fredda e compiaciuta - tutte
le mattine leggeva le sacre scritture - e
un grande talento per infliggere umiliazioni. Odiavo la
letteratura perché i
ragazzi giocavano a tombola in fondo all’aula mentre l’insegnante, una
ragazza
corpulenta e gentile, lievemente strabica, leggeva Wordsworth. Lei
li
minacciava, li supplicava, il viso rosso e una voce altrettanto
priva di
efficacia quanto la mia. I ragazzi si scusavano con fare burlesco e
quando lei
riprendeva a leggere assumevano un atteggiamento rapito,
ostentavano
espressioni estatiche, incrociavano gli occhi e si portavano le mani al
cuore.
A volte l’insegnante scoppiava a piangere, non poteva farci nulla,
doveva
scappare fuori. Allora i ragazzi iniziavano a muggire
rumorosamente; le nostre
risate fameliche - oh, anche le mie - la inseguivano fino in corridoio.
In quei
momenti regnava nell’aula un’atmosfera carnevalesca e brutale, che
spaventava
le persone deboli e sospette come me.
Ma quello che accadeva in
realtà a
scuola non aveva nulla a che vedere con pratica aziendale, scienze, o
inglese:
era qualcos’altro a dare alla vita la sua smania e
vivacità. Quel vecchio
edificio, con il suo seminterrato umido di pietre nude, i
guardaroba oscuri e
i quadri di regnanti morti ed esploratori dispersi, era pregno
della tensione
e dell’eccitazione della competizione sessuale; e nonostante i
sogni ad occhi
aperti di strepitosi successi, avevo il presentimento di una
totale sconfitta.
Doveva accadere qualcosa che mi tenesse lontana da quel ballo.
Con dicembre venne la neve
ed ebbi
un’idea. Avevo già preso in considerazione di cadere dalla
bicicletta e
storcermi una caviglia, e ci avevo anche provato, tornando a casa per
quelle
strade di campagna gelate e piene di solchi profondi.
Ma era troppo difficile,
tuttavia,
ero debole di gola e di bronchi: perché non cercare di
ammalarmi? Cominciai ad
alzarmi di notte e aprire un poco la finestra. Mi inginocchiavo e
lasciavo che
il vento, a volte misto a un nevischio pungente, furoreggiasse intorno
alla mia
gola scoperta. Mi toglievo la giacca del pigiama. “Blu dal freddo” mi
dicevo,
mentre in ginocchio, gli occhi chiusi, immaginavo che il petto e
la gola mi
diventassero blu, di quel blu freddo e grigiastro che hanno le vene
sotto la
pelle. Rimanevo così finché
non
resistevo più, poi prendevo una manciata di neve dal davanzale e
me la spalmavo
su tutto il petto, prima di riabbottonarmi il pigiama. La neve si
sarebbe
sciolta al contatto con la flanella e io avrei dormito con il pigiama
bagnato,
la cosa peggiore che si potesse fare. Al mattino, appena sveglia,
mi raschiavo
la gola per vedere se mi facesse male, tossivo un paio di volte a
titolo di
prova, piena di speranza, mi toccavo la fronte per vedere se avevo la
febbre.
Tutto inutile. Tutte le mattine, compreso il giorno del ballo, mi
alzavo
sconfitta, in perfetta salute.
Il giorno del ballo mi
arricciai i
capelli con bigodini di metallo. Non l’avevo mai fatto, perché
avevo i capelli
naturalmente ricci, ma quel giorno avevo bisogno della protezione di
tutti i
possibili rituali femminili. Stavo sdraiata sul divano della cucina,
leggendo Gli ultimi giorni di Pompei e
desiderando essere laggiù. Mia madre, mai contenta, stava
cucendo un colletto
di pizzo bianco sul vestito: aveva deciso che, senza, l’abito
sarebbe
risultato troppo da adulta. Guardavo l’orologio. Era uno dei giorni
più corti
dell’anno. Sopra il divano, sulla carta da parati, c’erano le tracce di
vecchie
partite a tris, disegni e scarabocchi che mio fratello ed io avevamo
fatto
quando eravamo costretti a casa con la bronchite. Guardandoli,
desideravo
ardentemente poter ritornare al sicuro
dentro i confini dell’infanzia.
Quando mi tolsi i
bigodini, i
capelli, sia per loro natura, sia per lo stimolo artificiale, saltarono
in
tutte le direzioni in un esuberante cespuglio lucido. Li bagnai, li
pettinai,
li frustai con la spazzola e me li tirai con forza lungo le guance. Mi
misi la
cipria: sul mio viso accaldato, sembrava gesso. Mia madre
tirò fuori la sua
acqua di Colonia, che non usava mai, e mi permise di spruzzarmela sulle
braccia. Poi mi chiuse la cerniera del vestito e mi fece voltare verso
lo
specchio. Era un abito stile princesse, con un corpino molto aderente.
Vidi i
miei seni, nel loro nuovo reggipetto rigido, risaltare in modo
sorprendente,
con matura autorevolezza, sotto i fronzoli infantili del colletto.
« Oh, quanto mi
piacerebbe farti una
foto! » disse mia madre. « Sono proprio orgogliosa di
quel vestito. E potresti
anche dirmi grazie. »
« Grazie »
dissi.
La prima cosa che disse
Lonnie quando le aprii la porta fu: « Gesù, che cosa ti
sei fatta ai capelli? »
« Ho messo i
bigodini. »
« Sembri una
zulù. Oh,
non ti preoccupare. Prendi un pettine, ché ti piego la
frangia in sotto. Ti
starà bene, ti farà anche sembrare più
grande. »
Sedetti di fronte allo
specchio
mentre Lonnie, in piedi alle mie spalle, mi aggiustava i capelli. Mia
madre
sembrava incapace di lasciarci sole. Avrei voluto che lo facesse.
Guardava i
miei capelli prendere forma e diceva: « Sei bravissima, Lonnie.
Dovresti fare
la parrucchiera »
« È un’idea
» rispose
Lonnie. Indossava un vestito di crespo celeste, con una fascia e un
fiocco in
vita; era molto più da adulta del mio, anche senza colletto. Era
riuscita a farsi
i capelli lisci come quelli della ragazza sulla confezione delle
forcine.
Avevo sempre segretamente pensato che Lonnie non potesse essere carina
perché
aveva i denti storti, ma ora capivo che, denti storti o no, il suo
vestito
alla moda e i suoi capelli lisci mi facevano assomigliare un po’ a
uno
spaventapasseri, infagottata nel velluto rosso, i capelli in tutte le
direzioni, un accenno di delirio negli occhi sgranati.
Mia madre ci
accompagnò alla porta e
ci gridò nel buio: « Au reservoir! » Era un gioco
tra Lonnie e me; in bocca a
mia madre, il saluto risultava sciocco e
squallido ed ero così arrabbiata perché l’aveva
usato che non risposi.
Soltanto Lonnie rispose allegramente, in tono incoraggiante:
« Buona notte! »
La palestra della scuola
odorava di
pino e di cedro. Campane rosse e
verdi
di carta crespa erano appese ai canestri del basket; le alte finestre
munite di
sbarre erano nascoste da rami verdi. Alcune delle ragazze del
quarto e del
quinto anno avevano portato ragazzi già diplomati, giovani
uomini d’affari.
Questi giovanotti fumavano nella palestra, nessuno poteva
impedirglielo, erano
liberi. Le ragazze stavano al loro fianco, la mano abbandonata con
noncuranza
su una manica maschile, i visi annoiati, distaccati e belli. Avrei
voluto
essere come loro. Si come se soltanto loro, le più grandi,
fossero al ballo,
come se le ragazze più piccole, tra cui si aggiravano
guardandosi intorno,
fossero, se non invisibili, inanimate; quando fu annunciato il primo
ballo - una
canzone di Paul Jones – si avviarono verso la pista con movimenti
languidi,
sorridendosi l’un l’altra come se le avessero invitate a
partecipare a qualche
gioco infantile ormai quasi dimenticato. Tenendoci tremanti per mano,
tutte
ammassate, Lonnie ed io e le altre ragazze del primo anno le seguimmo.
Non
osavo guardare le mie compagne quando mi passavano accanto, per
timore di
vederle affrettarsi in modo poco educato. Quando la musica finì
rimasi dov’ero
e, alzando appena gli occhi da terra, vidi un ragazzo di nome
Mason Williams
dirigersi con aria riluttante verso di me. Sfiorandomi appena la vita e
la
mano, si mise a ballare con me. Avevo le gambe molli, il braccio mi
tremava
tutto e non sarei riuscita a dire una parola. Questo Mason Williams era
uno
degli eroi della scuola: giocava a basket e a hockey e girava per i
corridoi
con un’aria da principe scontroso, intrisa di barbaro sdegno. Dovere
ballare
con una nullità come me era altrettanto offensivo per lui
che dovere imparare
a memoria un brano di Shakespeare. Avvertivo tutto questo con la
stessa
chiarezza con cui doveva avvertirlo lui e immaginai che si stesse
scambiando
occhiate disperate con i suoi amici. Mi guidò inciampando verso
il margine
della pista. Mi tolse la mano dalla vita e lasciò cadere il mio
braccio.
« Ci vediamo »
disse e se ne andò.
Ci misi un minuto o due a
rendermi
conto di ciò che era accaduto e a capire che non sarebbe
tornato. Andai verso
la parete e rimasi lì in piedi da sola. L’insegnante di
educazione fisica, di
passaggio mentre danzava energicamente tra le braccia di un ragazzo di
seconda,
mi lanciò un’occhiata indagatrice. Era l’unica insegnante della
scuola che si
servisse dell’espressione “socializzare” e temevo che avesse
assistito alla
scena, o che scoprisse che cosa era accaduto, e facesse qualche
orribile
tentativo pubblico per costringere Mason a terminare il ballo con me.
Io non
ero arrabbiata con Mason, o sorpresa: accettavo la sua posizione,
e la mia,
nel mondo della scuola e capivo che ciò che aveva fatto era la
cosa più
realistica da fare. Lui era un Eroe Naturale, non un eroe del tipo
Rappresentante degli Studenti, destinato al successo oltre la scuola;
uno così
avrebbe ballato con me affabilmente e con condiscendenza, senza
per questo
farmi sentire meglio. Ad ogni modo, speravo che non troppa gente avesse
assistito alla scena. Detestavo che la gente vedesse. Cominciai a
mordicchiarmi
il pollice.
Quando la musica tacque
raggiunsi lo
sciame di ragazze in fondo alla palestra. Fa’ finta che non sia
successo nulla,
dissi a me stessa. Fa’ finta che tutto cominci ora.
Il gruppo
ricominciò a suonare. Ci fu
un rimescolio nella folla dal nostro lato della pista. Le file si
assottigliarono rapidamente; i ragazzi arrivavano e invitavano le
ragazze a
ballare. Lonnie fu invitata. L’altra ragazza che mi stava a fianco fu
invitata.
Nessuno invitò me. Mi venne in mente un articolo di una rivista
che Lonnie ed
io avevamo letto, che diceva Siate allegre! Fate vedere ai
ragazzi che vi
brillano gli occhi, fate udire le vostre risate! Semplice, ovvio,
ma quante
ragazze se ne dimenticano! Era vero, me n’ero dimenticata. Avevo
le
sopracciglia corrugate per la tensione, dovevo apparire brutta e
spaventata.
Respirai a fondo e cercai di assumere
un’espressione rilassata. Sorrisi. Ma mi sentivo ridicola, lì a
sorridere al
muro e mi accorgevo che le ragazze sulla pista da ballo, le ragazze
più
ricercate, non sorridevano; molte
avevano un’espressione sonnolenta, immusonita e non sorridevano mai.
Le ragazze continuavano ad
andare a
ballare. Alcune, disperate, ballavano tra loro, ma la maggior parte
ballava con
i ragazzi.
Ragazze grasse, ragazze
piene di brufoli, una ragazza povera che
non possedeva
un vestito buono ed era venuta al ballo in gonna e maglione; tutte
venivano
invitate, tutte andavano a ballare. Perché loro e non io?
Perché chiunque altro
e non io? Io ho un vestito di velluto rosso, mi sono arricciata i
capelli, mi
sono deodorata e profimata con acqua di Colonia. Prega, pensai. Non
potevo
chiudere gli occhi, ma continuavo a ripetere mentalmente, ti
prego, ti prego, incrociando le dita dietro la schiena in un
segno molto più potente di quello della croce, lo stesso segno
segreto cui
Lonnie ed io ricorrevamo per non essere chiamate alla lavagna nell’ora
di
matematica.
Non funzionava. Ciò
che avevo temuto
si stava avverando. Sarei stata lasciata
in disparte. C’era un qualcosa di misterioso che non andava in me,
qualcosa a
cui non si poteva porre rimedio, come l’alito cattivo, come i brufoli,
e tutti
lo sapevano, come lo sapevo io: l’avevo sempre saputo. Ma fino a quel
momento
non l’avevo saputo con sicurezza, avevo sperato di sbagliarmi. La
certezza
montò in me come un’ondata di nausea. Mi affrettai verso i
bagni, lasciandomi
alle spalle una o due ragazze che nessuno aveva invitato a ballare, e
andai a
nascondermi in un gabinetto
Rimasi lì. Tra un
ballo e l’altro le
ragazze andavano e venivano rapidamente dal bagno. C’erano parecchi
gabinetti:
nessuna si accorse che il mio era sempre occupato. Durante i balli,
ascoltavo
la musica che mi piaceva ma in cui non avevo più parte,
perché non avevo alcuna
intenzione di tentare ancora.
Volevo solo rimanere
lì nascosta,
uscire senza vedere nessuno, andarmene a casa.
Ad un certo punto, dopo
che la musica
era ricominciata, qualcuno rimase indietro. Fece scorrere l’acqua a
lungo, si
lavò le mani con calma, si pettinò. Avrebbe trovato
strano se fossi rimasta là
dentro ancora a lungo. Era meglio uscire e lavarsi le mani; nel
frattempo,
forse, lei se ne sarebbe andata.
Era Mary Fortune. La
conoscevo di
nome, perché era una dirigente della Società atletica
femminile, era sull’albo
d’onore ed era sempre impegnata a organizzare eventi vari. Aveva
qualcosa a
che fare anche con l’organizzazione del ballo; era venuta in giro per
le classi
alla ricerca di volontari per decorare la palestra. Faceva la
terza o la
quarta.
« È bello
fresco, qui dentro » disse.
« Sono venuta a rinfrescarmi un po’. Mi è venuto un
caldo... »
Quando ebbi finito di
lavarmi le mani
si stava ancora pettinando. « Ti piace il gruppo? »
chiese.
« Abbastanza.
» Non sapevo che cosa
dire. Ero sorpresa che una ragazza più grande si mettesse a
chiacchierare con
me.
« A me no. Non lo
sopporto. Detesto
ballare quando non mi piace il gruppo. Sentili, non sanno che cosa sia
il
ritmo. Per ballare così, preferisco quasi non ballare. »
Cominciai a pettinarmi.
Lei si
appoggiò al lavabo, osservandomi. « Non ho voglia di
ballare ma non ho neppure
una gran voglia di rimanere qui dentro. Andiamo a fumarci una
sigaretta. »
« Dove? »
« Vieni, ti faccio
vedere. »
In fondo ai bagni c’era
una porta. Non era chiusa a chiave; conduceva in uno stanzino buio
pieno di
secchi e strofinacci. Mi chiese di tenere la porta aperta per fare luce
mentre
cercava la maniglia di un’altra porta. Questa seconda porta si
apriva sulla
completa oscurità.
«Non posso accendere
la luce,
altrimenti qualcuno potrebbe vederla » disse. «
È la stanza del bidello. » Pensai
che gli atleti sembravano sempre saperne più degli altri sulla
scuola in quanto
edificio; sapevano dove venivano custodite le cose e li si vedeva
sempre uscire
da porte proibite con un’aria spavalda e assorta. « Guarda dove
metti i piedi »
disse. « Laggiù ci sono delle
scale che
portano ad uno sgabuzzino al secondo piano. La porta in cima è
chiusa a chiave,
ma c’è una specie di divisorio tra le scale e la stanza.
Così, se ci sediamo
sui gradini, anche se per caso qualcuno dovesse entrare qui dentro non
ci
vedrebbe. »
« E l’odore di funo?
» chiesi.
«Oh, be’... Bisogna
vivere
pericolosamente. »
Sulle scale c’era una
finestra alta
da cui ci giungeva un po’ di luce. Mary Fortune aveva in borsetta
sigarette e
fiammiferi. Non avevo mai fumato prima, se non le sigarette che Lonnie
ed io ci
facevamo da sole con le cartine ed il tabacco rubati a suo padre, che
si
aprivano sempre nel mezzo; queste erano molto meglio.
« Guarda, 1’unico
motivo per cui sono
venuta stasera, » disse Mary Fortune, « è che sono
responsabile delle
decorazione e volevo vedere che effetto
facevano una volta arrivata la gente e tutto quanto. Altrimenti
perché
prendersi la briga di venire? Non mi interessa correre dietro ai
ragazzi. »
Alla luce dell’alta
finestra riuscivo
a distinguere il suo viso allungato, sprezzante, la sua pelle scura
butterata
dall’acne, gli incisivi accavallati, che le davano un’aria adulta ed
autorevole.
« La maggior parte
delle ragazze non
pensa ad altro, l’hai notato? In questa scuola c’è la più
alta concentrazione
di ragazze che corrono dietro ai maschi. »
Le ero grata per
l’attenzione, la
compagnia e la sigaretta. Dissi che anch’io la pensavo così.
« Come questo
pomeriggio. Questo
pomeriggio stavo cercando di far sì che appendessero le campane
e le altre
cianfrusaglie e loro non facevano altro
che salire sulle scale e fare le sceme con i ragazzi. Non gliene
importava
nulla delle decorazioni. Era solo una scusa. Fare le sceme con i
ragazzi è
l’unico scopo che hanno nella vita. Per me sono delle idiote. »
Parlammo degli insegnanti,
delle cose
di scuola. Disse che avrebbe voluto fare l’insegnante di educazione
fisica e
che per questo sarebbe dovuta andare all’università, ma i suoi
genitori non
avevano abbastanza soldi. Disse che aveva intenzione di lavorare per
pagarsi
gli studi, voleva essere indipendente, Comunque, avrebbe lavorato
nella
caffetteria e d’estate in qualche fattoria, magari raccogliendo
tabacco.
Ascoltandola, sentii che la fase acuta della mia crisi
d’infelicità stava
passando. Ecco una ragazza che aveva subito la mia stessa sconfitta -
me ne
rendevo conto - ma che era piena di energie e rispetto per se stessa.
Aveva
pensato ad altre cose da fare. Avrebbe raccolto tabacco.
Rimanemmo
lì a parlare e fumare durante tutta la lunga pausa di riposo del
gruppo, mentre
in palestra venivano distribuiti caffè e ciambelle. Quando
la musica
ricominciò Mary disse: « Senti, dobbiamo starcene qui
ancora molto? Prendiamo
i cappotti e andiamocene. Possiamo andare da Lee a berci una cioccolata
calda e
parlare sedute comodamente, perché no?»
Attraversammo la stanza
del bidello a
tentoni, portandoci dietro i mozziconi delle sigarette e la cenere.
Arrivate
nello stanzino delle scope accostammo l’orecchio alla porta per
sincerarci che
nei bagni non ci fosse nessuno. Tornammo alla luce e gettammo la
cenere nel
gabinetto. Per arrivare al guardaroba, che era oltre la porta
esterna,
dovevamo uscire e attraversare la pista da ballo.
Proprio allora, stava
iniziando un
nuovo ballo. « Gira intorno al bordo della pista »
disse Mary. « Non ci vedrà
nessuno. »
La seguii. Non guardai
nessuno. Non
cercai Lonnie. Lonnie probabilmente non sarebbe stata più mia
amica, non quanto
prima, almeno. Lonnie era una di quelle che correvano dietro ai
ragazzi, come
avrebbe detto Mary.
Scoprii di non essere
così
spaventata, ora che mi ero decisa a lasciare il ballo. Non aspettavo
più che
qualcuno mi scegliesse, avevo i miei
progetti. Non c’era più bisogno che
sorridessi o incrociassi le dita. Non m’importava più. Stavo
andandomene a bere
una cioccolata calda, con la mia amica.
Un ragazzo mi disse
qualcosa. Era di
fronte a me. Pensai che mi stesse dicendo che mi era caduto qualcosa, o
che non
si poteva andare da quella parte, o che il guardaroba era chiuso a chiave. Non capii che mi stava chiedendo di
ballare finché non lo ripeté per la seconda volta. Era
Raymond Bolting, un
ragazzo della mia classe a cui non avevo mai rivolto la parola.
Pensò che
avessi accettato. Mi appoggiò una mano sulla vita e quasi senza
volere mi misi
a ballare.
Ci spostammo al centro
della pista.
Stavo ballando. Le mie gambe si erano dimenticate di tremare e le mie
mani di
sudare. Stavo ballando con un ragazzo che mi aveva invitato. Nessuno
gli aveva
detto di farlo, non era obbligato, mi aveva semplicemente invitato. Era
davvero
possibile, potevo crederci, non c’era nulla che non andasse in me, dopo
tutto?
Pensai che avrei dovuto
dirgli che
c’era un malinteso, che stavo andando via, a bere una cioccolata calda
con una
mia amica. Ma non dissi nulla. Il mio viso stava subendo lievi
mutamenti,
assumendo senza sforzo quella espressione grave e distratta di quelle
che
venivano scelte, di quelle che ballavano. Fu questo il viso che Mary
Fortune
vide quando guardò fuori dalla porta del guardaroba, la sciarpa
già avvolta
intorno alla testa. Le feci un debole cenno con la mano appoggiata alla
spalla
del ragazzo, un cenno che significava che mi scusavo, che non sapevo
che cosa
fosse successo e anche che era inutile che mi aspettasse. Poi voltai la
testa e
quando guardai ancora non c’era più.
Raymond Bolting mi accompagnò a casa, mentre Harold Simons
accompagnava Lonnie. I ragazzi ebbero una discussione su una partita di
hokey,
che Lonnie ed io non riuscivamo a seguire. Quando poi ci separammo,
Raymond
continuò con me la stessa conversazione; non sembrava rendersi
conto che stava
parlando con me, ora. Un paio di volte dissi, « Be’, non so, non
ho visto la
partita » ma dopo un po’ decisi di limitarmi ad annuire: non
sembrava fosse
necessario altro.
Raymond disse anche
un’altra cosa: « Non
pensavo che abitassi così lontano ». Tirò su
col naso. Anche a me colava un pochino
il naso a causa del freddo e mi frugai in tasca, tra le carte di
caramella,
alla ricerca di un fazzolettino di carta spiegazzato. Non sapevo
se dovevo
offrirglielo o no, ma tirava su col naso così rumorosamente che
alla fine gli
dissi: « Ho solo questo, probabilmente non è neppure
pulito, dev’essere
macchiato d’inchiostro. Ma se lo divido a metà ce n’è un
pezzetto per tutti e
due ».
« Grazie »
disse. « Ne ho sicuramente
bisogno. »
Era stato un bene, pensai,
che
gliel’avessi offerto, perché arrivati al cancello, quando gli
dissi, « Be’, buona notte »,
mi rispose, « Oh, già,
buona notte » e poi si chinò verso di me e mi
baciò, brevemente, con l’aria di
uno che sa qual è il suo dovere, sull’angolo della bocca.
Poi se ne tornò in
città, senza sapere che mi aveva salvato, che mi aveva
riportato dal territorio
di Mary Fortune nel mondo normale. »
Mia madre guardò
fuori da una grande finestra ad arco di quelle che si trovavano nelle
vecchie magioni o negli edifici pubblici all’antica. Contemplò
prati e cespugli, steccati, giardini e alberi, tutti coperti di mucchi
e cuscini di neve, ancora non livellata o scomposta dal vento. Il
bianco di quella neve non feriva gli occhi come quando ci batte il
sole. Era il bianco di neve sotto un cielo sereno poco prima dell’alba.
Ogni cosa era ferma; pareva la Betlemme di “Tu scendi dalle stelle”,
solo senza le stelle.
Eppure qualcosa non
andava. C’era un errore in quello scenario. Tutti gli alberi, tutti i
cespugli e le piante erano carichi di foglie estive. L’erba
sottostante, nei punti riparati dalle fronde, era fresca e verdissima.
La neve era caduta nottetempo sul rigoglio della piena estate. Un
cambiamento di stagione inspiegabile, inatteso. E poi, se n’erano
andati via tutti — anche se non avrebbe saputo dire chi
fossero “tutti” — e mia madre era sola in una casa alta e
spaziosa sprofondata nei suoi giardini alberati e solenni.
Pensò che qualunque
cosa fosse successa, presto l’avrebbero messa al corrente. Non arrivava
nessuno, pero. Il telefono non squillava; nessuno alzava il paletto del
cancello. Non sentiva i rumori del traffico, e non sapeva neppure da
che parte fosse la strada — o il viottolo, se il posto era in aperta
campagna. Doveva uscire di casa, l’aria era tanto immota e pesante.
Quando fu fuori, si
ricordò. Ricordò di aver lasciato un neonato da qualche
parte, prima che incominciasse a nevicare. Un bel po’ prima. Quel
ricordo, quella certezza, la travolse di orrore. Era come svegliarsi da
un sogno. Dentro il sogno si svegliava da un sogno, per ritrovarsi di
fronte alla consapevolezza di una responsabilità e di un errore.
Aveva lasciato fuori per tutta la notte la sua bambina, se l’era
dimenticata. L’aveva lasciata esposta alle intemperie, come una bambola
della quale si fosse stancata. E forse non era accaduto la sera prima,
forse era passata una settimana, un mese magari. Per un’intera stagione
o per molte stagioni aveva lasciato fuori la sua bambina. Era stata
distratta da altro. Poteva persino aver viaggiato lontano ed essere
appena tornata, dimentica della ragione del proprio ritorno.
Vagò dappertutto
cercando sotto le siepi e le chiome larghe degli alberi. Immaginava
come sarebbe stata avvizzita la bambina. Morta, avvizzita e scura, la
testa come una noce, e sulla piccola faccia serrata, un’espressione
nemmeno di angoscia, ma di lutto, di un antico dolore paziente. Nessuna
condanna di lei, sua madre: solo l’immagine della pazienza inerme con
la quale aveva aspettato la salvezza o il destino fatale.
La pena che invase mia
madre era per l’attesa di quella bambina ignara di aspettare lei, sua
sola speranza, che invece l’aveva completamente scordata. Una bambina
talmente piccola e nuova da non potersi nemmeno sottrarre alla neve. La
pena quasi le toglieva il respiro. Non ci sarebbe più stato in
lei spazio per nient’altro. Nient’altro che la coscienza di quello che
aveva commesso.
Fu dunque come la
sospensione di una pena capitale, trovare la bambina nella sua culla.
Sdraiata prona, la testa girata dilato, la pelle pallida e morbida come
neve e la nuca arrossata come l’aurora. Capelli rossi come i suoi,
sulla piccola perfettamente al sicuro e innegabilmente sua. Che gioia
scoprirsi perdonata.
La neve e i giardini
frondosi e la villa arcana erano tutti spariti. L’unico avanzo di
bianco era la copertina nella culla. Una coperta da neonato di lana
soffice e bianca, che si arricciava a metà della schiena della
piccola. Dato il calore, il reale calore dell’estate, la bambina
indossava soltanto un pannolino e un paio di mutandine di gomma per
riparare il lenzuolo. Le mutandine avevano un disegno di farfalle.
Mia madre, di certo ancora
pensando alla neve e al freddo che sempre l’accompagna, tirò la
coperta sulla schiena e le spalle della piccola, sulla testolina
ombreggiata di rosso.
E’ mattino presto quando
questo accade nel mondo reale. Il mondo del luglio 1945. A
un’ora in cui, in qualsiasi altra mattina, la piccola richiederebbe a
gran voce la prima poppata del giorno, oggi continua a dormire. La
madre, sebbene in piedi e con gli occhi aperti, ha il cuore ancora
troppo addormentato per stupirsene. Mamma e bambina sono sfinite dopo
una lunga battaglia, ma la madre ha persino scordato questo, al
momento. Alcuni circuiti nervosi sono bloccati; la calma più
inesorabile si è depositata sul suo cervello e su quello della
piccola. La madre — mia madre — non si capacita della
luce che aumenta di istante in istante. Non capisce che il sole si alza
mentre lei è in piedi. Nessun ricordo del giorno prima,
né di quel che è successo intorno alla mezzanotte, la fa
trasalire. Tira la coperta sulla testa della bambina, sul suo profilo
dolce, appagato e dormiente. Torna senza far rumore in camera sua e
crolla sul letto dove, in capo a un minuto, perde di nuovo i sensi.
La
casa in cui questo accade non ha nulla a che fare con quella del sogno.
E’ una villetta di legno a un piano e ammezzato, piccola
ma dignitosa, con una veranda che sporge fino quasi al marciapiede, e
un bovindo in sala da pranzo che affaccia su un cortiletto cintato. Si
trova in una via secondaria e tranquilla di una cittadina non
distinguibile — agli occhi di un forestiero — da un mucchio di altri
piccoli centri nel raggio di quindici, venti chilometri nella zona
agricola un tempo densamente popolata del lago Huron. In questa casa
sono cresciuti mio padre e le sue sorelle. Queste ultime, insieme alla
madre, vi abitavano ancora quando arrivò mia madre — e io con
lei, ormai grossa e vivace nella sua pancia —, dopo la morte di mio
padre, ucciso nelle ultime settimane di guerra, in Europa.
Mia madre — Jill —
sta in piedi accanto al tavolo in sala da pranzo, nella luce
intensa del tardo pomeriggio. La casa è piena di invitati, dopo
il servizio funebre in chiesa. Bevono tè e caffè e si
arrangiano a tenere in mano tramezzini minuscoli, o fette di pane alla
banana, alle noci o alla frutta candita. Le tartine alla crema e
all’uvetta, data la friabilità della pasta, si dovrebbero
mangiare con la forchetta da dolce sui piattini di ceramica che la
suocera di Jill ha decorato a violette quando era appena sposata. Jill
però prende tutto con le mani. Qualche briciola di pasta frolla,
un acino di uva passa le sono caduti addosso macchiandole il vestito di
velluto verde. Tiene troppo caldo quell’abito per una giornata come
questa, e non è affatto premaman, ma solo una specie di tunica
morbida confezionata per gli spettacoli, le occasioni in cui Jill suona
il violino in pubblico. L’orlo le sale sul davanti, per causa mia. Ma
è l’unica cosa abbastanza larga e abbastanza elegante da mettere
al funerale di suo marito.
Come mai mangia tanto. La
gente non può fare a meno di notarlo. — Mangia per due, — dice
Ailsa a un gruppo di ospiti per evitare che la scavalchino dicendo
qualcosa o tacendo sul conto di sua cognata.
Jill ha avuto la nausea
tutto il giorno, finché in chiesa, improvvisamente, mentre
pensava quanto fosse stonato l’organo, si è resa conto di avere
una fame da lupo. Per tutta la durata dell’inno “Oh, cuori intrepidi”,
non ha fatto altro che pensare a un grosso hamburger grondante sugo di
carne e maionese, e adesso sta cercando di scoprire quale mistura di
noci e uva passa e zucchero grezzo, quale squisitezza guastadenti di
glassa al sapore di cocco, quale fondente boccone di pane alla banana o
cucchiaiata di crema potrebbe bastare a sostituirlo. Non basterà
nulla, ovviamente, ma lei non si dà per vinta. Quando la sua
fame reale è soddisfatta, rimane attiva quella immaginaria, e
ancora di più una frenesia quasi vicina alla crisi nervosa che
la costringe a ingozzarsi senza nemmeno sentire il gusto di ciò
che ha in bocca. Non saprebbe descrivere questa inquietudine se non
forse dicendo che ha a che fare con un senso di prurito e di tensione.
La fitta siepe di crespino nella vivida luce del sole fuori dalla
finestra, la sensazione del velluto che le si appiccica alle ascelle
sudate, le ciocche ricciute — dello stesso colore dell’uva
sulle tartine — ammassate sulla testa della cognata Ailsa, persino le
violette dipinte che sembrano crosticine da grattare con l’unghia dal
piattino, tutte queste cose le paiono orrende e opprimenti, anche se sa
che sono normalissime. Ma a lei pare contengano un messaggio riguardo
alla sua imprevedibile vita futura.
Perché
imprevedibile? È’ da un pezzo che sa di me e ha anche sempre
saputo che George Kirkham poteva morire in guerra. In fondo, era in
aviazione. (E intorno a lei, in casa Kirkham, oggi pomeriggio, la gente
ripete — magari non proprio a lei, la sua vedova, o alle sorelle — che
George era giusto il tipo del quale si sa che non tornerà a
cassassi riferiscono al fatto che era un bell’uomo, allegro, il vanto
della famiglia, quello su cui si concentravano le speranze di tutti. Lo
sapeva anche lei, ma ha continuato a fare la vita di sempre, a
trascinarsi appresso il violino sul tram nelle mattine buie d’inverno,
per arrivare al conservatorio dove si esercitava per ore e ore non
lontano dagli altri, ma tutta sola in una stanzetta squallida con
l’unica compagnia del baccano del radiatore, con le mani anchilosate
dal freddo prima, e poi screpolate dall’aria secca del riscaldamento.
Ha continuato a vivere in una stanza d’affitto con la finestra che
chiudeva male e lasciava entrare mosche in estate e spruzzate di neve
in inverno, sempre sognando — quando le passava la nausea —
salsicce e pasticci di carne e tocchi di cioccolato amaro. Al
conservatorio la gente trattava la sua gravidanza con grande riserbo,
come se fosse un tumore. Era rimasta invisibile per molto tempo,
comunque, come spesso succede alle prime gravidanze, specie di una
ragazza robusta e larga di bacino. Persino quando già le facevo
le capriole dentro la pancia, continuava a suonare in pubblico.
Maestosamente ispessita, con il cespuglio di capelli rossi sulle
spalle, la faccia larga e luminosa assorta in un’espressione di intensa
concentrazione, aveva suonato l’assolo più importante della sua
carriera. Il Concerto per Violino di Mendelssohn.
Prestava un po’ di
attenzione anche al mondo: sapeva che la guerra stava finendo. Pensava
che George sarebbe potuto tornare poco dopo la mia nascita. Sapeva che
non avrebbe potuto continuare a vivere in una camera d’affitto, a quel
punto, che si sarebbe dovuta trasferire da qualche parte con lui. E
sapeva che ci sarei stata io, ma pensava alla mia nascita più
come alla fine che all’inizio di qualche cosa. La fine di tanto
scalciare in quel punto dolente sul fianco e delle fitte ai genitali
ogni volta che si alzava in piedi e il sangue affluiva (come se avesse
un impacco bollente là sotto). La fine dei capezzoli grandi,
scuri e sporgenti, e la fine delle bende elastiche intorno alle vene
gonfie su tutte le gambe ogni volta che lasciava il letto. La fine del
bisogno di urinare ogni mezz’ora, e dei piedi che non entravano
più in nessun paio di scarpe normali. Una volta fuori, secondo
lei, non le avrei più dato tanti problemi.
Alla notizia che George
non sarebbe tornato, pensò di tenermi un poco in quella stanza.
Si procurò un libro sui neonati. Comprò gli oggetti
indispensabili di cui avrei avuto bisogno. C’era una vecchia signora
nel palazzo che avrebbe potuto occuparsi di me mentre lei suonava. Le
sarebbe spettata una pensione da vedova di guerra e in capo ad altri
sei mesi si sarebbe diplomata al conservatorio.
Poi Ailsa venne a
prenderla con il treno. Ailsa disse:
— Non potremmo mai lasciarti
qui da sola. Già tutti si chiedono come mai non ti sei
trasferita da noi quando George è partito. Adesso è ora
che tu venga
— La mia è una
famiglia di matti, — le aveva detto George. — Iona è un
disastro e Aisla doveva fare il sergente maggiore. Mia madre invece
è arteriosclerotica.
Le disse anche: — Ailsa ha
una buona testa, ma ha dovuto lasciare gli studi e andare a lavorare
alle Poste quando è morto nostro padre. A me era toccata la
bellezza, e così per la povera Iona non era rimasto più
niente se non una pelle orrenda e nervi deboli.
Jill incontrò le
sorelle di lui la prima volta quando vennero a Toronto per vederlo
partire. Al matrimonio, due settimane prima, non erano venute. Non
c’era nessuno del resto, a parte George, Jill, il pastore, la moglie
del pastore e un vicino di casa invitato come secondo testimone. C’ero
anch’io, già infilata dentro la pancia di Jill, ma non ero il
motivo di quel matrimonio, e al tempo nessuno sapeva della mia
esistenza. Dopo la cerimonia, George volle a tutti i costi fare qualche
foto con Jill, tutti e due con espressione imperscrutabile, in una di
quelle cabine fai-da-te. — Così imparano, — disse,
guardando le foto. Jill si chiese se, così dicendo, avesse in
mente qualcuno in particolare. Ailsa? O le ragazzine, le belle ragazze
spigliate che gli erano corse dietro, scrivendogli lettere d’amore e
confezionandogli calzettoni di lana a rombi bicolori. Lui si metteva le
calze quando poteva, intascava i regali e leggeva le lettere ad alta
voce nei bar per farsi due risate.
Jill non aveva fatto
colazione prima del matrimonio, e in piena cerimonia pensava a
frittelle e pancetta affumicata.
Le due sorelle avevano
un’aria più normale di quello che Jill si aspettava. Anche se
era vero che la bellezza era andata tutta a George. Aveva capelli
biondo scuro, ondulati e serici, un bagliore gioioso negli occhi e
lineamenti di taglio invidiabile. Il solo difetto era la statura un
tantino modesta. Quanto bastava comunque per guardare Jill negli occhi.
E per diventare pilota nell’aviazione.
— Non vogliono gente
altissima in aviazione, — diceva. Li ho fregati, quei bastardi
di stangoni. Un mucchio di attori del cinema sono bassi. Si mettono in
piedi sulle cassette per baciare l’attrice.
Al cinema George diventava
sfrenato. A volte fischiava la scena del bacio. Non lo appassionava
granché neanche nella vita vera. Passiamo all’azione, diceva.
Anche le sue sorelle non
erano alte. Le avevano battezzate con nomi di località della
Scozia, dove i genitori erano stati in luna di miele prima che la
famiglia subisse il tracollo economico. Ailsa aveva dodici anni
più di George, e Iona nove. In mezzo alla folla della stazione
apparivano tozze e sbigottite. Indossavano entrambe abiti e cappelli
nuovi, come se fossero loro le spose novelle. E tutte e due erano
sottosopra perché Iona aveva scordato sul treno i guanti buoni.
Era vero che Iona aveva una brutta pelle, anche se in quel momento non
era infiammata, e forse i giorni dell’acne erano finiti. Restava
butterata di vecchie cicatrici e grigia sotto la cipria rosa. I capelli
le fuoriuscivano in riccioli molli dal cappello e gli occhi erano umidi
di lacrime, forse perché Ailsa l’aveva rimproverata, o forse
perché suo fratello partiva in guerra. I capelli di Ailsa erano
invece acconciati in grumi di riccioli ottenuti con permanenti
aggressive, sovrastati da un cappellino da equitazione. Aveva occhi
pallidi e perspicaci dietro lenti cerchiate di chiaro, e rosee guance
rotonde ai lati del mento inciso da una fossetta. Sia lei sia Iona
avevano un corpo gradevole: seni alti, vita sottile e fianchi floridi —
solo che su Iona quel fisico pareva uno sbaglio, come se l’avesse
rubato e adesso cercasse di mascherarlo incurvando le spalle e
incrociando le braccia. Ailsa gestiva le proprie curve con
determinazione ma senza provocazione, come se fosse fatta di ceramica
solida. Entrambe poi avevano i capelli dello stesso biondo scuro di
George, ma senza la sua lucentezza. Altra cosa che non parevano
condividere con il fratello era il senso dell’umorismo.
— Allora, io vado, — disse
George. — Me ne vado a morire da eroe sul campo di
Passchendaele —. E Iona disse:
— Dài,
smettila. Non parlare così—. Ailsa stringeva le labbra color
lampone.
— Da qui si vede l’insegna
dell’ufficio oggetti smarriti, disse. — Ma non capisco se è solo
per le cose che uno perde in stazione, o anche per quelle che si
trovano a volte sui treni. Passchendaele era nella Prima Guerra
Mondiale.
— Ma dài. Sicura? —
rispose George, battendosi una mano sul petto.
E qualche mese dopo
saltò in aria durante un volo di addestramento sorvolando il
Mare d’Irlanda.
Ailsa non fa che
sorridere. Dice: — Certo che sono orgogliosa. Eccome. Ma non
sono la sola ad aver perso qualcuno. Ha fatto il suo dovere —. Alcune
persone trovano la sua risolutezza un po’ sconveniente. Ma altri
dicono: — Povera Ailsa —. Tutte quelle premure per George,
tutte le economie per fargli studiare legge, e poi lui si fa beffe di
tutto e si arruola; se ne va e si fa ammazzare. Come se non vedesse
l’ora.
Le sue sorelle gli hanno
sacrificato la propria istruzione. Persino le cure dentistiche — hanno
sacrificato anche quelle. Iona ha frequentato una scuola per
infermiere, ma alla resa dei conti le sarebbe convenuto invece farsi
mettere a posto i denti. Ora lei e Ailsa si ritrovano con un eroe. Lo
riconoscono tutti: un eroe. I più giovani tra i presenti pensano
che sia importante avere un eroe in famiglia. Sono convinti che la
solennità di questo momento durerà, che rimarrà
per sempre con Ailsa e Iona. Che “Oh, cuori intrepidi”
continuerà a levarsi intorno a loro per sempre. I più
vecchi, che si ricordano dell’altra guerra, sanno bene che non
resterà altro che un nome inciso su un cenotafio. Perché
alla vedova, alla ragazza che si sta ingozzando, andrà la
pensione.
Ailsa è
nervosissima, in parte perché è stata in piedi due notti
di fila, a pulire. Non che la casa non fosse presentabile anche prima.
Ciononostante ha sentito il bisogno di lavare ogni singolo piatto,
tegame e suppellettile, di lucidare il vetro di ogni quadro, di
allontanare il frigo dalla parete e sfregare il pavimento anche dietro,
lavare la scala che va in cantina e rovesciare disinfettante nel
contenitore della spazzatura. Persino il lampadario che fa luce sul
tavolo della sala da pranzo ha dovuto essere smontato e immerso, pezzo
a pezzo, in acqua e sapone, sciacquato, asciugato e risistemato al suo
posto. E a causa dell’impiego all’ufficio postale, Ailsa non ha potuto
incominciare a pulire che dopo cena. Ormai è la direttrice,
poteva anche prendersi un giorno di congedo, ma essendo Ailsa non lo
avrebbe mai fatto.
Adesso è accaldata
sotto la cipria, irrequieta dentro il vestito di crepe blu scuro con il
colletto di pizzo. Non riesce a star ferma. Continua a riempire i
piatti da portata e a farli girare tra gli ospiti, si preoccupa che il
tè di qualcuno possa freddarsi e si precipita a prepararne
un’altra teiera. Piena di premure nei riguardi degli ospiti, si informa
sui reumatismi di uno e sui piccoli malanni dell’altro, offrendo alla
tragedia un volto sorridente, senza stancarsi di ripetere che non ha il
diritto di lamentarsi, perché siamo in tanti sulla stessa barca,
e poi George non avrebbe voluto vedere i suoi amici affranti, ma
piuttosto riconoscenti al cielo per la fine della guerra. Il tutto nel
tono di voce acuto ed enfatico, venato di bonario rimprovero, al quale
sono avvezzi i frequentatori dell’ufficio postale. Cosicché
ciascuno rimane nell’incertezza di aver detto la cosa sbagliata, come
alla posta la gente finisce per rendersi conto che la sua grafia
sarà di certo un problema o che il pacco spedito non è
stato imballato a dovere.
Ailsa sa bene che sta
alzando troppo la voce, che sorride eccessivamente e che ha riempito
altre tazze di tè anche a chi ne aveva rifiutato l’offerta. In
cucina, dove è andata per riscaldare la teiera, dice: — Che mi
succede? Sono carica come una sveglia.
L’ospite al quale lo dice
è il dottor Shantz, il vicino la cui casa confina con il loro
cortile.
— Passerà presto, —
replica lui. — Vuoi un calmante?
La sua voce subisce un
cambiamento, all’aprirsi improvviso della porta che dà sulla
sala da pranzo. La parola “calmante” esce dalle sue labbra decisa e
professionale.
Cambia anche la voce di
Ailsa, che da depressa si fa animata. Dice: — Oh no, ti
ringrazio. Cercherò di cavarmela con le mie forze.
Il compito di Iona
dovrebbe essere quello di badare alla madre, di vedere che non si
rovesci il tè addosso — le può capitare, non per
goffaggine, ma per distrazione — e che non rimanga tra gli altri se
appena incomincia a tirare su col naso e a dare in singhiozzi. In
realtà i modi della signora Kirkham sono per lo più
garbatissimi e mettono gli ospiti a loro agio assai più di
quelli di Ailsa. Per un quarto d’ora alla volta è in grado di
afferrare la situazione — o di dare quell’idea — e di
esprimersi con coraggio e coerenza su come il figlio le mancherà
per tutta la vita, ma sia grata al cielo di avere ancora le figlie:
Ailsa così efficiente e affidabile, la solita meraviglia di
sempre, e Iona, la quintessenza della bontà. Si ricorda persino
di nominare la giovane nuora, sebbene dia forse un indizio riguardo
alla propria confusione
mentale facendo parola di ciò che la maggior parte delle signore
della sua età non menzionerebbe in pubblico, specie in presenza
di uomini. Con lo sguardo rivolto a Jill e a me, dice: — E poi tra non
molto avremo tutti un conforto.
Dopodiché, passando
di stanza in stanza o di ospite in ospite, si guarda attorno e dice: —
Perché siamo qui? Quanta gente! Che cosa si festeggia? —
E intuendo che tutto il trambusto abbia in qualche modo a che fare
con George, aggiunge: — E il matrimonio di George? — Insieme
all’aggiornamento su quanto accade, ha smarrito anche parte della sua
gentile discrezione. — Non sei tu che ti sposi, vero?
— domanda a Iona. — No. Ne
ero certa. Tu non hai mai avuto un fidanzato, dico bene?— Nella
sua voce è venuta insinuandosi una nota di praticità, un
senso di ognuno-per-sé-e-Dio-per-tutti. Quando intravede Jill
scoppia a ridere.
— Non sarà forse
quella la sposa? Oh oh. Adesso si, è tutto chiaro.
La verità
però torna ad affacciarsi alla sua mente, improvvisa come quando
se ne è allontanata.
— Abbiamo notizie? — chiede.
— Notizie di George? — Ed è allora che ha inizio
il pianto temuto da Ailsa.
— Portala via se incomincia
a dare spettacolo, — aveva detto Ailsa.
Iona non è in grado
di allontanare sua madre - non è mai riuscita a
esercitare la minima autorità su nessuno in vita sua — ma
la moglie del dottor Shantz afferra la vecchia per un braccio.
— George è morto? —
domanda la signora Kirkham terrorizzata, e la signora Shantz dice: —
Si, purtroppo. Ma sua moglie aspetta un bambino, sa?
La signora Kirkham si
appende al suo braccio, curva le spalle e dice con un fu di voce. —
Posso avere il mio tè?
Dovunque mia madre si giri
in quella casa, le pare di non vedere altro che foto di mio padre.
L’ultima, quella ufficiale in divisa, sta su un centrino appoggiato
sopra la macchina da cucire chiusa, nel bovindo della sala da pranzo.
Iona ci ha sistemato intorno dei fiori, ma Ailsa li ha tolti. Dice che
davano a George l’aria di un santo cattolico. Appesa sulle scale invece
ce n’è una di quando aveva sei anni. E fuori sul marciapiede, in
ginocchio su un carretto, mentre nella stanza dove dorme Jill ce
n’è un’altra di lui accanto alla bici, con la sacca dei giornali
a tracolla. La camera della signora Kirkham ospita quella in costume
per l’operetta della terza media, con in testa una corona di cartone
dorato. Non sapendo cantare, non era stato possibile affidargli un
ruolo da protagonista, ma la scelta era ovviamente caduta su di lui per
la parte secondaria più prestigiosa, quella del re.
La foto dipinta a mano
sulla credenza lo ritrae all’età di tre anni, un bimbetto
biondissimo e un po’ sfocato che si trascina appresso una bambola di
stracci tenendola per una gamba. Ailsa aveva pensato di toglierla,
quella, perché poteva sembrare strappalacrime, ma alla fine ha
preferito lasciarla anziché mostrare la chiazza sulla
tappezzeria. E nessuno ha fatto commenti tranne la signora Shantz, che
fermandosi in quel punto ha esclamato qualcosa che aveva già
detto altre volte in passato, e non in tono addolorato bensì con
aria vagamente sognante.
— Ah, Christopher Robin.
La gente è abituata
a non badare granché alle parole della signora Shantz.
In tutte le foto George
appare allegrissimo. Una ciocca di capelli biondi gli scende
immancabilmente sulla fronte, a meno che a fermarla non ci sia il
berretto da ufficiale, o la corona di carta. E persino quando era poco
più di un infante sembrava sapere di essere un tipo vivace,
scaltro e seducente. Il genere di persona che non delude mai nessuno,
che riesce a strappare una risata a chiunque. A proprie spese di quando
in quando, ma raramente. Guardandolo, Jill si ricorda di come beveva
senza mai sembrare ubriaco e di come si divertiva a ubriacare gli altri
per farsi poi confidare le loro paure, prepotenze, verginità e
doppi giochi che avrebbe in seguito utilizzato per inventare battute o
soprannomi umilianti che le vittime fingevano di trovare divertenti.
Perché aveva schiere di amici e seguaci, che forse si
accompagnavano a lui per timore —o forse solo perché,
come dicevano tutti, animava le situazioni. Lo spazio occupato da
George diventava il centro di ogni stanza, e l’aria circostante
crepitava di scariche minacciose ed esaltanti.
Come poteva capirlo, Jill,
uno spasimante del genere? Aveva diciannove anni, e nessuno l’aveva mai
corteggiata prima. Non avrebbe saputo dire, lei come tutti gli altri,
che cosa l’avesse attratto. Lei rappresentava un enigma per la maggior
parte delle persone della sua età, ma un enigma noioso. Una
ragazza dedita allo studio del violino, priva di ogni altro interesse.
Il che non
era del tutto vero. Si rannicchiava sotto il vecchio piumone e
fantasticava un amore. Mai però con qualcuno bello e brillante
come George. Aveva in mente un tipo affettuoso e orsacchiottesco,
oppure un musicista più vecchio di lei di dieci anni e
già leggendario, dotato di un’irresistibile autorevolezza. La
sua idea dell’amore era operistica, sebbene non fosse quello il genere
di musica che prediligeva. George invece scherzava anche mentre faceva
l’amore; saltellava per la stanza subito dopo e rumoreggiava come un
bambino maleducato. Le sue rapide prestazioni le procuravano un piacere
inferiore a quello che conosceva dai solitari assalti sul proprio
corpo, ma non avrebbe potuto dirsi precisamente delusa.
Stordita dalla
velocità degli eventi, piuttosto. E carica di aspettative di
felicità — felicità e gratitudine — quando
la sua mente riusciva a mettersi al passo con la realtà fisica e
sociale. Le attenzioni di George, e il matrimonio, rappresentavano una
sorta di radiosa estensione della sua vita. Stanze luminosissime piene
di uno splendore stupefacente. Poi arrivò la bomba o l’uragano,
il non imprevedibile disastro che cancellò d’un colpo
quell’estensione di luce. Spazzata via, dileguata, lasciandola a fare i
conti con il medesimo spazio e le stesse opzioni di prima. Aveva
perduto qualcosa, ovviamente. Ma qualcosa di cui non si era mai del
tutto impossessata, qualcosa che aveva inteso soltanto come un
ipotetico risvolto del futuro.
Adesso ha mangiato
abbastanza. Ha male alle gambe, a furia di stare in piedi. La signora
Shantz si avvicina e le dice: — Hai avuto occasione di conoscere
qualcuno degli amici d’infanzia di George?
Si riferisce ai giovani
che se ne stanno appartati nell’ingresso. Un paio di belle ragazze, un
giovanotto ancora in divisa della marina, altri. Mentre li osserva,
Jill pensa chiaramente che a nessuno dispiace davvero. Ad Ailsa forse,
ma Ailsa ha le sue ragioni personali. A nessuno dispiace davvero che
George sia morto. Nemmeno alla ragazza che piangeva in chiesa e che
dà l’impressione di voler piangere ancora. Adesso può
ricordarsi di essere stata innamorata di George e convincersi che lui
ricambiasse il suo amore — a dispetto di tutto — senza più
temere di essere sconfessata da qualsiasi cosa lui possa dire o fare. E
nessuno dei presenti dovrà più chiedersi, ogni volta che
il gruppo che fa capannello intorno a George scoppia a ridere, di chi
stiano ridendo, né quale sia l’argomento della conversazione in
corso. Nessuno dovrà più sforzarsi di tenergli testa, o
inventarsi dei modi per mantenersi nelle sue grazie.
Non le viene in mente che,
se fosse vissuto, George sarebbe forse diventato un uomo diverso,
perché non pensa di poter cambiare nemmeno lei.
Risponde con un “No”
talmente privo di entusiasmo che la signora Shantz è portata a
ribattere: — Lo so. E difficile conoscere gente nuova.
Soprattutto... se fossi in te, credo che andrei a coricarmi.
Jill era quasi certa che
avrebbe detto, “andrei a bere qualcosa di forte”. Ma da queste parti
non offrono niente, soltanto tè e caffè. Jill comunque
è pressoché astemia. Ma sa riconoscere l’alcool nel fiato
della gente, e le è parso di sentirlo in quello della signora
Shantz.
— Perché non fai
così? — dice la Shantz. — Queste cose stancano
troppo. Lo dico io ad Ailsa. Tu va’.
La signora Shantz è
una donnina con bei capelli grigi, occhi luminosi e una faccia rugosa e
triangolare. Tutti gli anni in inverno trascorre un mese da sola in
Florida. I soldi ce li ha. La casa che si sono costruiti lei e il
marito, alle spalle di quella dei Kirkham, è lunga, bassa, di un
bianco accecante, con angoli smussati e grandi vetrate. Il dottor
Shantz ha tra i venti e i venticinque anni meno di lei: un uomo
tarchiato, giovanile, di aspetto gradevole, fronte spaziosa e capelli
ricci e chiari. Non hanno figli. Si dice che lei ne abbia, da un primo
matrimonio, ma che non vengano mai a trovarla. Anzi la diceria vuole
che il dottor Shantz fosse un amico del figlio, portato a casa dal
college: si innamorò della madre dell’amico e la madre
dell’amico si innamorò di lui, ci fu un divorzio, e ora eccoli
sposati, nella loro casa di lusso, nel loro tacito esilio.
Jill ha proprio sentito
odore di whisky. La signora Shantz se ne porta sempre dietro una
bottiglietta, quando partecipa a eventi sociali che definisce senza
speranza. Bere non la fa vacillare né biascicare, cercare la
rissa né buttare le braccia al collo della gente. La
verità è che forse è sempre un po’ alticcia, ma
mai sbronza del tutto. Ha l’abitudine di mettersi l’alcool in corpo in
dosi ragionevoli e rassicuranti, di modo che il suo cervello non ne
è mai fradicio e nemmeno astinente. L’unico indizio rimane il
fiato (che molte persone in questa città di astemi attribuiscono
a certi farmaci, se non addirittura a una pomata che deve spalmarsi sul
petto). Il fiato dunque, e forse la perentorietà del suo dire,
quel modo che ha di scandire le frasi come se volesse liberare uno
spazio intorno a ogni parola. Naturalmente dice cose che una signora
cresciuta da queste parti non direbbe mai. Racconta di sé. Di
come certe volte le capiti di essere scambiata per la madre di suo
marito. Dice che quasi sempre le persone hanno una specie di crisi
quando si accorgono dell’errore. Che si imbarazzano da morire. Ma
alcune donne — che so, cameriere ad esempio — le
lanciano occhiate oscene, come a dire, Ma perché mai un uomo
cosi dovrebbe sprecarsi con una come te?
Al che la signora Shantz
si limita a dire: — Lo so. Non è giusto. Ma nemmeno la
vita lo è; tanto vale farsene una ragione.
Oggi pomeriggio non trova
il modo di sorseggiare il suo whisky a intervalli adeguati. La cucina e
persino l’angusta dispensa alle sue spalle sono luoghi nei quali le
donne di casa potrebbero andare e venire in qualunque momento. E
costretta a salire in bagno, ma non può permettersi una
frequenza eccessiva. Quando decide di farlo, nel tardo pomeriggio, poco
dopo che Jill ha lasciato gli ospiti, trova la porta chiusa a chiave.
Pensa di sgattaiolare in una delle camere da letto e si domanda quale
possa essere vuota e quale occupata da Jill. Poi però sente la
voce di Jill provenire dal bagno e dire: — Un momento, — o
qualcosa del genere. Una frase banale, solo che il tono di voce risulta
teso, spaventato.
La signora Shantz si fa un
bel sorso veloce direttamente nel corridoio, senza lasciarsi sfuggire
la scusa di un’emergenza.
— Jill? Ti senti bene?
Puoi farmi entrare?
Jill è a terra,
carponi, e sta cercando di asciugare una pozza sul pavimento del bagno.
Ha letto della rottura delle acque — come ha letto di
contrazioni, dilatazione, pre-travaglio e placenta - ciononostante
quel flusso di liquido caldo l’ha sorpresa. E costretta a usare della
carta igienica, perché Ailsa ha portato via tutti gli
asciugamani normali e li ha sostituiti con pezzuole di lino ricamato
definite asciugamani per gli ospiti.
Si aggrappa al bordo della
vasca nel tentativo di mettersi in piedi. Sfila il fermo della porta ed
è in quel momento che la prima fitta la sbalordisce. Non le
toccherà un solo dolore lieve, nessuna anticipazione né
ritmico avvertimento da fase di pre-travaglio; si tratterà di un
assalto spietato e di un lacerante parto precipitoso.
— Tranquilla, — dice
la signora Shantz, sostenendola meglio che può. — Dimmi
solo qual è la tua stanza, che ti mettiamo coricata.
Ancor prima che riescano a
raggiungere il letto, le unghie di Jill penetrano nel braccio sottile
della signora Shantz con una violenza da lasciarlo livido.
— Quanta fretta, — dice
la signora Shantz. — Per essere il primo, è proprio un tipo
impaziente. Vado a cercare mio marito.
Sono nata così,
direttamente in casa, con circa dieci giorni di anticipo, a voler dar
credito ai calcoli di Jill. ilsa fece appena in tempo a congedare gli
ospiti prima che le stanze si riempissero del baccano di Jill, delle
sue grida incredule e dei rochi grugniti impudenti che le seguivano.
Anche quando una madre
veniva colta di sorpresa e dava alla luce il bambino in casa, era ormai
consuetudine trasferire lei e il piccolo in ospedale, dopo il parto. Ma
girava una specie di influenza estiva in città, e l’ospedale era
affollato dei casi peggiori, perciò il dottor Shantz decise che
Jill ed io saremmo state meglio dove eravamo. Dopo tutto Iona aveva
completato una parte del corso per infermiere, e poteva prendersi le
sue due settimane di vacanza ora per occuparsi di noi.
Jill non sapeva davvero
nulla di come si vive in famiglia. Era cresciuta in orfanotrofio. Dai
sei ai sedici anni il suo letto era stato in un dormitorio. Le luci
venivano accese e spente a ore fisse, la caldaia non funzionava mai
prima o dopo la data prestabilita. Un lungo tavolo coperto con una
cerata per mangiare e fare i compiti, e una fabbrica dirimpetto. A
George era piaciuto sentirglielo raccontare. Sono cose che forgiano il
carattere di una ragazza, diceva. Che la rendono autonoma, tenace e
solitaria. Non certo il tipo bisognoso di smancerie romantiche. Ma
l’istituto non era gestito in modo così disumano come forse
pensava lui, e le persone che lo dirigevano non si erano mostrate
ingenerose. A dodici anni Jill venne portata con altri a un concerto,
dove decise seduta stante che avrebbe imparato a suonare il violino.
All’istituto aveva già incominciato a strimpellare un po’ il
pianoforte. Qualcuno si interessò abbastanza alla cosa da
procurarle un violino di seconda mano e di second’ordine, oltre ad
alcune lezioni che si conclusero con una borsa di studio al
conservatorio. Ci fu un saggio per i direttori e i benefattori, un
ricevimento in abito lungo, con tanto di punch alla frutta, discorsi e
dolci. Jill dovette dire qualcosa a sua volta, per esprimere la propria
gratitudine, ma la verità era che considerava tutto quanto quasi
un atto dovuto. Era convinta dell’esistenza di un legame innato,
fatale, tra lei e il violino, un legame che li avrebbe ricongiunti
anche senza alcun intervento esterno.
In dormitorio aveva delle
amiche, ma se ne andarono tutte presto per lavorare in fabbrica o in un
ufficio, e Jill le dimenticò. Alla scuola superiore dove
venivano iscritti gli ospiti dell’orfanotrofio, un’insegnante volle
parlarle. Nel suo discorso saltarono fuori parole come
“normalità” e “completezza”.A quanto pare l’insegnante
considerava la musica come una fuga o un surrogato. Di sorelle,
fratelli, amici e corteggiatori. Consigliò a Jill di distribuire
le proprie energie, anziché concentrarle su un solo interesse.
Di rilassarsi, giocare a pallavolo, entrare nell’orchestra della
scuola, se il punto era fare un po’ di musica.
Jill prese a evitare
quell’insegnante; si nascondeva su per le scale o faceva il giro
dell’isolato pur di non doverle parlare. E smise anche di leggere una
sola pagina nella quale saltassero agli occhi parole come “completezza”
o “normalità ”.
Al conservatorio fu tutto
più facile. Vi incontrò persone incomplete, ossessive
almeno quanto lei. Si costruì alcune amicizie piuttosto
distratte e competitive. Una di queste amiche aveva un fratello
maggiore in aviazione e il caso volle che costui rientrasse nella
cerchia delle adoranti vittime di George Kirkham. Lui e George si
presentarono a cena a casa una domenica sera, quando anche Jill era
stata invitata. Fu così che George conobbe Jill. Che mio padre
conobbe mia madre.
Doveva esserci sempre
qualcuno in casa, per badare alla signora Kirkham. Perciò Iona
faceva il turno di notte in pasticceria. Decorava torte — anche
le più complicate torte nuziali — e si occupava della
prima infornata di pane al mattino alle cinque. Le sue mani, tremanti
al punto che non riusciva a servire a nessuno una tazza di tè,
diventavano forti, esperte e pazienti, quasi ispirate, quando
svolgevano un lavoro solitario.
Una mattina, dopo che
Ailsa era uscita per andare in ufficio — questo accadde nel breve
periodo del soggiorno di Jill in casa prima della mia nascita — Iona
vide Jill passare davanti alla sua camera da letto e la chiamò
in un sussurro. Come se avesse da dirle un segreto. Ma chi poteva mai
esserci in casa a quell’ora che non dovesse sentire?
Non certo la signore
Kirkham.
Iona si affannava ad
aprire un tiretto del cassettone che si era bloccato. — Uffa!
— disse, ridendo. — E apriti, maledetto. Oh, finalmente.
Era pieno di vestiti da
neonato — non solo semplici camicini e pigiami, come quelli che Jill
aveva comprato al negozio di roba usata e scarti di fabbrica di
Toronto, ma anche cuffie di lana, maglie, scarpette e bavaglini,
completi minuscoli cuciti a mano. Di tutte le possibili tinte pastello,
unite e non — senza alcun pregiudizio nei riguardi di rosa e di azzurri
—, con rifiniture all’uncinetto e piccoli ricami a fiori,
agnelli e uccellini. Il genere di corredo del quale Jill quasi ignorava
l’esistenza. L’avrebbe scoperta, se avesse compiuto un’indagine
accurata nel reparto neonati di un grande magazzino, o se avesse
sbirciato dentro le carrozzine, ma non l’aveva fatto.
— Ovviamente non so che cosa
hai già, — disse Iona. —Magari hai tantissime
cose, e magari non ti piace la roba fatta a mano, non so —. Usava certe
risatine infantili come una sorta di punteggiatura del dire e come
prolungamento del suo tono di scuse. Tutto ciò che diceva, ogni
sguardo, ogni gesto, pareva impedito, coperto da uno spesso strato di
miele appiccicoso o impastato di scuse, e Jill non sapeva come reagire.
— E’ molto carino, — disse
senza convinzione.
— Oh no, non sapevo neppure
se l’avresti voluto. Se l’avresti gradito.
— E’ bello.
— Non l’ho fatto tutto io;
certe cose le ho comprate. Sono stata al bazar della parrocchia e a
quello del Centro Assistenziale. Ho pensato che sarebbe stato carino,
ma se non ti piace o se non ne hai bisogno, posso benissimo riportare
tutto alla raccolta missionaria.
— Ne ho bisogno, — disse
Jill. — Non ho niente del genere.
— Sul serio? Quello che ho
fatto io non sarà granché, ma forse le cose della
parrocchia o quelle del centro, magari quelle ti vanno bene.
Si riferiva a questo,
George, quando definiva Iona un disastro psicologico? (Secondo la
versione di Ailsa, il crollo nervoso alla scuola per infermiere era
dovuto da una parte al suo eccesso di sensibilità e dall’altra
ai modi un po’ troppo duri della sovrintendente del corso).C’era da
credere che fosse a caccia di rassicurazioni, ma qualunque
incoraggiamento si cercasse di offrirle non pareva mai sufficiente, non
sembrava nemmeno sfiorarla. Jill aveva la sensazione che le parole di
Iona, le sue risatine, il suo tirar su col naso e le occhiate umide di
pianto (doveva avere umide anche le mani, di sicuro) fossero creature
decise a strisciarle addosso — a lei, Jill — come acari che tentassero
di insinuarsi sotto pelle.
Ma a questo fenomeno col
tempo imparò ad abituarsi.
O forse Iona
andò moderandosi. Tanto lei quanto Iona provavano sollievo —
come quando il maestro esce di classe — ogni mattina dopo
che la porta si era chiusa alle spalle di Ailsa. Presero l’abitudine di
bere un secondo caffè, mentre la signora Kirkham lavava i
piatti. Procedeva lentissima in quel lavoro — cercando
all’intorno il cassetto o il ripiano di ogni singola stoviglia — e non
senza qualche errore. Ma con alcuni rituali anche, immancabili, come
quello di rovesciare i fondi del caffè su un cespuglio appena
fuori della porta della cucina.
— E’ convinta che il
caffè lo faccia crescere, — bisbigliò Iona. — Anche
se lo mette sulle foglie e non sulla terra.
Ogni giorno ci tocca poi
prendere la pompa e pulire.
A Jill pareva che Iona
assomigliasse alle ragazze più vessate dell’orfanotrofio.
Avevano sempre una gran voglia di vessare qualcuno a loro volta. Ma se
riuscivi a superare la sua catena di scuse nervose o le barricate di
umili accuse (“ Ovviamente sono l’ultima persona che consulterebbero
giù al negozio”, “Ovviamente Ailsa non vuole nemmeno ascoltarlo,
il mio parere”, “Ovviamente George non ha mai fatto mistero di
disprezzarmi” allora potevi anche farla parlare di argomenti abbastanza
interessanti. Raccontò a Jill della casa che un tempo era
appartenuta al nonno e che ormai era il corpo centrale dell’ospedale,
di certi commerci poco puliti che avevano causato il licenziamento del
padre, e della tresca in corso tra due persone sposate alla
pasticceria. Accennò anche ai presunti trascorsi di casa Shantz,
e persino al fatto che Ailsa aveva un debole per il dottore. La terapia
di elettroshock alla quale Iona era stata sottoposta in seguito
all’esaurimento nervoso pareva aver aperto una breccia nella sua
discrezione, e la voce che fuoriusciva da quella breccia — una
volta spurgata dei cascami di mascheramento —era maligna e
allusiva.
Del resto, tanto valeva
che Jill passasse il proprio tempo a ciarlare — aveva comunque
le dita troppo rotonde per suonare il violino.
E poi nacqui io e tutto
cambiò, specie per Iona.
Jill dovette stare a letto
una settimana, e anche quando si alzò, si muoveva come una
vecchia anchilosata e respirava prudentemente ogni volta che si
accasciava sopra una sedia. Era tutta un dolore a causa dei punti, e
aveva ventre e petto fasciati stretti come una mummia — secondo il
costume di allora. Il latte arrivò copioso; le colava fuori
dalle bende fino a bagnare il lenzuolo. Iona allentò la fascia e
cercò di avvicinare la mia bocca al capezzolo. Ma io non ne
volevo sapere. Mi rifiutavo di prendere il seno di mia madre. Urlavo,
cianotica, come un’ossessa. Si sarebbe detto che mi proponessero il
muso curioso di un animale, anziché quel gran seno turgido. Iona
mi prese in braccio. Mi diede un po’ d’acqua bollita e io mi calmai.
Perdevo peso, però. Non potevo vivere d’acqua. E così
Iona mescolò l’acqua con del latte in polvere e mi tolse alle
braccia di Jill tra le quali mi irrigidivo strillando. Iona mi
ninnò consolandomi e mi sfregò sulla guancia la
tettarella di gomma che si rivelò di mio gradimento. Bevvi
avidamente il latte artificiale senza rigurgitarlo. Le braccia di Iona.
e la tettarella che mi preparava divennero il mio nido. Il petto di
Jill fu fasciato ancora più stretto, e lei dovette rinunciare ad
assumere liquidi (non dimentichiamo che tutto ciò avveniva in
piena estate) e sopportare il dolore fino a quando non si interruppe la
produzione di latte.
— Che scimmietta, che
scimmietta, — canticchiava Iona a mezza voce. — Sei proprio
una scimmietta, non vuoi nemmeno il buon latte della tua mamma.
Mi feci presto più
robusta e grassoccia. Urlavo più forte. Urlavo ogni volta che
qualcuno che non fosse Iona faceva il gesto di prendermi in braccio.
Rifiutavo Ailsa e il dottor Shantz con le mani premurosamente scaldate
all’uopo, ma fu il mio rifiuto per Jill a destare maggiore attenzione,
come è ovvio.
Quando Jill poté
alzarsi, Iona la sistemò sulla sedia dove di solito sedeva lei
per darmi da mangiare; le aggiustò una sua camicetta intorno
alle spalle e le mise il biberon tra le mani.
Niente da fare, non ci
cascai. Sbattei la guancia contro la bottiglia, stirai le gambe e
irrigidii l’addome come un tamburo. Non volevo accettare la
sostituzione. Strillavo. Non intendevo cedere.
I miei erano ancora pianti
acuti da neonata, ma disturbavano tutta la casa, e Iona era l’unica che
avesse il potere di farli cessare. Se qualcun altro faceva tanto di
toccarmi o parlarmi, piangevo. Se mi mettevano a letto, ma a cullarmi
non era Iona, piangevo fino all’esaurimento, dormivo dieci minuti e mi
svegliavo pronta a ricominciare. Non avevo momenti buoni e momenti
cattivi. Avevo i momenti con Iona e i momenti senza Iona che potevano
diventare — ah, sempre peggio — i momenti con gli
altri, soprattutto con Jill.
Come avrebbe dunque potuto
Iona tornare al lavoro, una volta finite le due settimane di ferie?
impossibile. Era fuori questione. Alla pasticceria dovevano trovarsi
qualcun altro. Dalla persona più insignificante di famiglia,
Iona era diventata la più importante; era lei quella che stava
tra gli altri e la perenne discordia, il lamento implacabile. Doveva
rimanere alzata a tutte le ore per garantire alla casa una sorta di
quiete. Il dottor Shantz era in pensiero; persino Ailsa lo era.
— Iona, non devi stancarti
troppo.
Eppure si era verificato
un cambiamento straordinario. Iona era pallida, ma la sua pelle
diventò luminosa, come se fosse finalmente uscita
dall’adolescenza. Riusciva a sostenere lo sguardo di chiunque. Niente
più tremori, quasi nessuna risatina, nessuna incrinatura
allusiva nel tono della sua voce, che si era fatta autorevole come
quella di Aisla, ma più gioiosa. (Mai tanto gioiosa come quando
mi rimproverava per il mio atteggiamento nei riguardi di Jill).
— Iona è al settimo
cielo.., l’adora proprio quella bambina, — diceva Ailsa alla gente. Ma
in realtà il comportamento di Iona pareva troppo disinvolto
perché si potesse parlare di adorazione. Non le importava quanto
baccano dovesse fare per placarmi. Si precipitava su per le scale
urlando a perdifiato: — Arrivo! Arrivo! Ferma la musica!— Girava
per le stanze con me incollata a una spalla, reggendomi con una mano,
mentre con l’altra svolgeva qualche incombenza legata alla cura della
mia persona. La cucina era diventata il suo regno: il fornello per lo
sterilizzatore, il tavolo per mescolare la polvere di latte
artificiale, il lavandino per farmi il bagno. Imprecava allegramente,
anche in presenza di Ailsa, se le capitava di sbagliare o versare
qualcosa.
Sapeva di essere l’unica
persona a non trasalire, l’unica a non sentire un remoto senso di
minaccia paralizzante al mio primo vagito di avvertimento. Al
contrario, lei era quella il cui cuore batteva più forte, quella
che si sentiva addosso la voglia di mettersi a ballare, per la
sensazione di forza e di gratitudine.
Una volta levate le bende,
e dopo aver constatato la recuperata piattezza del ventre, Jill si
diede un’occhiata alle mani. Tutto il gonfiore sembrava sparito. Scese
da basso, prese il violino dall’armadio e lo estrasse dalla custodia.
Era pronta a esercitarsi con qualche scala.
Accadde una domenica
pomeriggio. Iona si era coricata per un sonnellino, con un orecchio
sempre teso a sentire il mio pianto. Dormiva anche la signora Kirkham.
Ailsa si dava lo smalto alle unghie in cucina. Jill incominciò
ad accordare il violino.
Mio padre e la sua
famiglia non avevano alcun reale interesse per la musica. Ma non lo
sapevano. Erano convinti che l’intolleranza, per non dire
l’ostilità che provavano nei confronti di un certo tipo di
musica (evidente persino nel modo in cui pronunciavano l’aggettivo
“classica”) si basasse semplicemente su una sorta di forza di
carattere, su un’integrità e una determinazione a non farsi
menare per il naso. Come se la musica che scaturiva da una semplice
melodia cercasse di insinuare qualcosa dentro, e tutti quanti lo
sapessero, in fondo, ma alcuni — per presunzione, per mancanza
di modestia e di onestà — non fossero mai disposti ad
ammetterlo. E come se da quell’ipocrisia, da quella morbosa indulgenza
nascesse il mondo stesso delle orchestre sinfoniche, della lirica, del
balletto classico e dei concerti che facevano addormentare il pubblico.
La maggior parte della
gente in città la pensava allo stesso modo. Ma non essendo
cresciuta da quelle parti, Jill non comprendeva la profondità di
quel sentimento, né quanto per molti rappresentasse un dato di
fatto. Mio padre non se n’era mai troppo vantato come di una
virtù, perché le virtù non lo appassionavano
granché. Gli era piaciuta l’idea che Jill fosse una musicista —
non per la musica in sé, ma perché faceva di lei una
compagna originale, come i suoi abiti, il suo modo di vivere e i suoi
capelli. Scegliendo lei, dimostrava alle altre in quale considerazione
le tenesse. Gliela faceva vedere a quelle ragazze che avevano sperato
di agganciarlo. Gliela faceva vedere a Ailsa.
Jill aveva chiuso le porte
a vetri coperte di tende in soggiorno e accordava piano il violino.
Forse non trapelò nemmeno un suono. Oppure, se Ailsa udì
qualche cosa in cucina, pensò che giungesse da fuori, da una
radio della zona.
Poi Jill prese a suonare
le scale. Le dita non erano più gonfie, in effetti, ma le
sentiva ancora rigide. Il suo intero corpo le dava quell’impressione,
la postura era innaturale, e lo strumento le pareva appoggiato alla
spalla in modo inaffidabile. Ma era decisa, voleva provare quelle
scale. Era certa di essersi già sentita così in passato,
dopo un ‘influenza, o quando era troppo stanca per aver esagerato con
gli esercizi, o persino senza alcun motivo.
Mi svegliai senza un
vagito di malcontento. Nessun preavviso, nessun segnale. Semplicemente
uno strillo, anzi una cascata di strilli che si rovesciò in
tutta la casa, un urlo senza uguali. Lo sfogo di un nuovo flusso
inatteso di angoscia, un dolore che castigava il mondo con le sue
ondate piene di sassi, la scarica di patimenti gettata dalle finestre
di una camera delle torture.
Iona si alzò
all’istante, per la prima volta allarmata da un rumore prodotto da me,
e gridò: -Che c’è? Cosa è stato?
E Ailsa, me tre si
affrettava a sprangare tutte le finestre, urlava: — E’ il
violino. E’ il violino —. Spalancò le porte del soggiorno.
— Jill. Jill. E terribile.
E’ terribile. Ma non senti la tua bambina?
Dovette sfilare la
zanzariera sotto la finestra del soggiorno, per poterla tirar
giù. Era rimasta in vestaglia per farsi le unghie, e in quel
momento un ragazzino che passava in bicicletta guardò dentro e
vide il kimono aprirsi mostrando la sottoveste.
— Mio dio, — disse.
Non perdeva quasi mai il controllo fino a quel punto. — Ti
spiace mettere via quell’aggeggio?
Jill depose il violino.
Ailsa usci nell’ingresso
per chiamare Iona.
— È
domenica. Non puoi farla smettere?
Jill lasciò la
cucina in un silenzio determinato, e incontrò la signora Kirkham
che, scalza, si aggrappava alla mensola.
— Che ha Ailsa? — chiese.—
Che ha fatto Iona?
Jill andò fuori e
sedette sul gradino della porta di servizio. Guardò il muro
bianchissimo sul retro di casa Shantz, abbagliante di sole. Tutto
intorno c’erano altri cortili afosi, e i muri caldi di altre
abitazioni. Dentro, persone di cui conosceva i nomi, l’aspetto e la
storia. Se poi ci si spingeva tre isolati a est, o cinque a ovest, sei
a sud o dieci a nord, si potevano raggiungere muretti di prati estivi
con l’erba già alta, campi cintati di frumento o granoturco. Il
rigoglio della campagna. Non un filo d’aria respirabile per il fetore
che saliva da messi stipate, stalle e bestie ruminanti. Mucchi di legna
in lontananza come miraggi di ombra, di pace e frescura, ma in
realtà infestate dal brulichio degli insetti.
Come posso spiegare cosa
significa la musica per Jill? Lasciamo stare paesaggi, visioni e
discorsi. Si tratta più di un problema, direi, di qualcosa che
deve affrontare con scrupolo e audacia, e che nella vita si è
assunta come una responsabilità. Immaginiamo dunque che le
vengano portati via gli strumenti per lavorare al problema.
Quest’ultimo non cessa di esistere, anzi è là in tutta la
sua imponenza, e altre persone continuano a occuparsene, mentre a lei
è stato sottratto. Per lei resta solo il gradino di casa, il
muro abbacinante e il mio pianto. Il mio pianto è un coltello
che taglia dalla sua vita tutto quello che non è utile. A me.
— Vieni dentro, — le
dice Ailsa dalla porta. — Avanti, rientra. Non avrei dovuto gridare a
quel modo. Dài vieni,
può vederti
qualcuno.
Entro sera l’intero
episodio poté essere riferito con leggerezza. — Dovete aver
sentito un baccano del diavolo oggi da queste parti, — disse
Ailsa agli Shantz. L’avevano invitata nel loro patio, mentre Iona mi
metteva a dormire.
— A quanto pare la piccola
non va matta per il violino. Non ha preso dalla madre.
Rise persino la signora
Shantz.
— Un gusto
acquisito.
Jill li senti. O quanto
meno udì le loro risa, e ne indovinò la ragione. Era
sdraiata sul letto a leggere Il ponte di San Luis Rey, che si
era preso dalla libreria, senza pensare di chiedere il permesso ad
Ailsa. Ogni tanto perdeva traccia delle vicende del romanzo e sentiva
soltanto le voci ridenti nel cortile di casa Shantz, o il
chiacchiericcio adorante di Iona nella stanza accanto, e allora
prendeva a sudare senza motivo. In una fiaba, si sarebbe alzata dal
letto con la forza di una giovane gigantessa e si sarebbe messa a
girare per la casa facendo a pezzi arredi e persone.
Quando ebbi quasi sei
settimane, Ailsa e Iona dovettero accompagnare la madre a Guelph, dove
ogni anno si recava per una notte a far visita a certi cugini. Iona
voleva portarmi. Ma Ailsa fece venire il dottor Shantz per convincerla
che non era una buona idea sottoporre una neonata a un viaggio del
genere nella canicola. A quel punto Iona voleva restare a casa.
— Io non posso guidare e
occuparmi della mamma contemporaneamente, — disse Ailsa.
Aggiunse che Iona si stava
lasciando assorbire eccessivamente da me, e che un giorno e mezzo a
badare alla sua bambina non sarebbe stato troppo nemmeno per Jill.
— Dico bene, Jill?
— Sì, —
disse Jill.
Iona provò a
fingere di non voler rimanere a casa per me. Disse che viaggiare nel
caldo le dava il mal d’auto.
— Non devi nemmeno guidare,
basta che te ne stai li seduta, — ribatté Ailsa. — Che
dovrei dire io? Non lo faccio certo per divertimento. Lo faccio
perché ci aspettano.
Iona dovette sedersi
dietro, cosa che secondo lei avrebbe solo peggiorato il mal d’auto. Ma
Ailsa disse che mettere dietro la mamma sarebbe parso sconveniente. La
signora Kirkham sostenne che a lei non importava. Ailsa disse di no.
Iona abbassò il finestrino, mentre Ailsa avviava il motore.
Puntò lo sguardo sulla finestra del piano rialzato dove mi aveva
messa a dormire dopo la poppata e il bagno del mattino. Ailsa
salutò con la mano Jill, che stava sulla porta.
— Arrivederci, mammina, —
disse, con una voce allegra e provocatoria che in qualche modo
ricordò a Jill quella di George. La prospettiva di lasciare la
casa e la minaccia imminente dello sconvolgimento che poteva avervi
luogo, pareva aver risollevato l’umore di Ailsa. E forse le faceva
anche bene — forse la rassicurava — riavere Iona al posto di
sempre.
Erano circa le dieci
quando se ne andarono, e quella che seguì sarebbe stata la
giornata più lunga e peggiore nella vita di Jill. Nemmeno il
giorno in cui nacqui, nemmeno l’incubo del travaglio reggeva il
confronto. Prima ancora che l’auto raggiungesse il paese successivo, mi
svegliai disperata, come se avessi sentito che Iona mi era stata
sottratta. Iona mi aveva dato da mangiare da così poco che Jill
non poté credere si trattasse di fame. Ma scopri che ero bagnata
e, benché avesse letto che non è necessario cambiare un
neonato ogni volta che si bagna perché in genere non è
quella la ragione del pianto, decise di farlo ugualmente. Non era la
prima volta, ma non le era mai stato agevole, tanto che Iona era quasi
sempre intervenuta a concludere il lavoro da lei iniziato. Feci del mio
meglio per renderle le cose impossibili: agitavo gambe e braccia,
marcavo la schiena, cercavo in tutti i modi di girarmi e, ovviamente,
tenevo alto il volume del pianto. Le mani di Jill tremavano, faceva
fatica a infilare la spilla da balia dentro la stoffa. Fingeva di
essere calma, cercava di parlarmi imitando il linguaggio infantile e le
blandizie di Iona, ma non ci fu nulla da fare. La sua goffa
insincerità non ottenne altro scopo che quello di farmi
infuriare di più. Mi tirò su quando ebbe assicurato con
la spilla il pannolino, cercò di sistemarmi tra il petto e la
spalla, ma io mi irrigidii come se il suo corpo fosse fatto di aghi
incandescenti. Si sedette, provò a cullarmi. Si alzò, mi
fece saltellare. Mi cantò le parole dolci di una ninnananna
attraversate dal tremito della sua esasperazione, della sua rabbia e di
qualcosa che poteva ben cominciare a chiamarsi odio.
Eravamo mostri l’una per
l’altra. Io e Jill.
Alla fine mi mise
giù, più gentilmente di quanto avrebbe voluto, e io mi
rilassai, quasi provassi sollievo per essermi allontanata da lei. Jill
lasciò la stanza in punta di piedi. Ma non ci volle molto prima
che ricominciassi.
Andò avanti cosi.
Non è che piansi ininterrottamente. Mi prendevo degli intervalli
di due, cinque, dieci, persino venti minuti. Quando fu ora di
allattarmi, accettai il biberon, rigida tra le sue braccia tra un
avvertimento e l’altro di pianto imminente. A metà bottiglia,
tornai all’attacco. Finii col buttar giù il biberon intero,
quasi distrattamente, tra accessi di strilli. Sprofondai nel sonno e
Jill mi mise a letto. Scese furtiva le scale; si fermò
nell’ingresso come se dovesse decidere dov’era più saggio
andare. Sudava per la fatica e per la calura del giorno.
Attraversò quel silenzio fragile e prezioso, entrò in
cucina e osò mettere la caffettiera sul fuoco.
Prima ancora che il
caffè salisse, io le scaraventai sulla testa un urlo lancinante.
Jill si rese conto di aver
dimenticato qualcosa. Non mi aveva fatto fare il ruttino dopo la
poppata. Si diresse spedita di sopra, mi prese e incominciò a
camminare battendomi piano la schiena arrabbiata; di lì a poco
ruttai, senza però smettere di piangere, e a quel punto cedette
e mi rimise giù.
Che ci sarà nel
pianto di un neonato da renderlo cosi forte, capace di rompere l’ordine
dal quale si dipende esteriormente e interiormente? E’ come un
temporale — insistente, eccessivo, eppure in un certo senso anche puro,
spontaneo. Sa più di rimprovero che non di supplica: scaturisce
da una rabbia implacabile, una rabbia innata e scevra d’amore come di
compassione, pronta a farti saltare il cervello dentro la scatola
cranica.
Jill non può fare
altro che andare avanti e indietro. Su e giù per il tappeto del
soggiorno, intorno al tavolo in sala da pranzo e poi in cucina, dove
l’orologio le ripete con quanta inesorabile lentezza stia passando il
tempo. Non riesce a star ferma più del necessario per bere un
sorso di caffè alla volta. Quando le prende fame, non è
in grado di farsi nemmeno un panino e si riempie la bocca di fiocchi
d’avena a manciate, lasciando la scia per tutta la casa. Mangiare e
bere, compiere qualsiasi gesto banale, sembra rischioso come se si
trovasse in piena tempesta, a bordo di una piccolissima barca, o dentro
una casa le cui travi si incrinano sotto un vento terribile. Non le
è possibile distrarsi dalla tempesta a meno di voler vedere
lacerate le ultime difese. Nel tentativo di non impazzire, cerca di
concentrarsi su un dettaglio insignificante di ciò che ha
intorno, ma le urla del vento — le mie — riescono ad abitare
un cuscino come un disegno sulla moquette e il minuscolo vortice sul
vetro della finestra. Io non concedo scampo.
La casa è chiusa
come una scatola. Un po’ del senso del pudore di Ailsa ha contagiato
anche Jill, oppure è riuscita a fabbricarsene uno suo personale.
Una madre che non è in grado di calmare la propria bambina; che
cosa può esserci di più vergognoso? Jill tiene porte e
finestre sprangate. E non accende nemmeno il ventilatore portatile
perché in effetti se n’è scordata. Non ragiona più
in termini di sollievo pratico. Non le viene in mente che questa
è una delle domeniche più afose dell’estate e che forse
potrebbe essere quello il mio problema. Una madre esperta o impulsiva
mi avrebbe senz’altro fatto prendere un po’ d’aria, anziché
attribuirmi una volontà diabolica. Avrebbe pensato al caldo
irritante, non a semplice angoscia.
A un certo punto del
pomeriggio, Jill prende una decisione stupida, o forse solo disperata.
Non esce di casa lasciandomi sola. Bloccata nella prigione che io ho
costruito, inventa uno spazio per sé, una fuga interiore. Estrae
il violino, che non ha più toccato dal giorno delle scale, il
tentativo che Ailsa e Iona hanno trasformato in un aneddoto divertente.
La musica non può svegliarmi perché sono già
sveglissima, e come potrebbe farmi arrabbiare più di così?
In un certo senso mi rende
onore. Basta con l’ipocrisia di tante carezze, basta con le ninnananne
fasulle e il pensiero di un mal di pancia, basta con questi sciocchi
cosa-c’è-che-non-va. Suonerà invece il Concerto per
Violino di Mendelssohn, il brano del saggio, lo stesso che dovrà
suonare all’esame finale per il diploma al conservatorio.
Ha scelto Mendelssohn —
anziché il Concerto per Violino di Beethoven, al quale
riserva un’ammirazione più appassionata — perché
è convinta che Mendelssohn le farà avere voti più
alti. Pensa di poterlo apprendere — di averlo appreso — in
modo più completo; è sicura di riuscire a esibirsi e a
impressionare gli esaminatori senza la minima paura di una catastrofe.
Questo non è un lavoro che le darà del filo da torcere
per tutta la vita, ha stabilito; non è qualcosa con cui abbia
intenzione di combattere e di mettersi alla prova per sempre.
Lo suonerà e basta.
Accorda lo strumento,
esegue alcune scale, si sforza di non ascoltarmi. Sa di non essere
sciolta, ma questa volta è preparata all’idea. Si aspetta un
miglioramento del problema, con il procedere della musica.
Incomincia a suonare, e
poi continua, avanti e avanti, fino alla fine del brano. E suona
malissimo. Un vero tormento. Non cede, però, è convinta
che questo debba cambiare, pensa di farcela, ma non ce la fa. E’ tutto
sbagliato, l’esecuzione non è meno atroce di quella di un comico
impegnato in una parodia. Il violino è stregato, la odia. Le
restituisce un’ostinata distorsione di tutto quello che lei ha in
mente. Non potrebbe esserci nulla di peggio; è persino peggio
che guardarsi allo specchio e vedere la propria faccia di sempre
all’improvviso scavata, dolente e maligna. Uno scherzo del destino al
quale non potrebbe credere, e che cercherebbe di scongiurare
distogliendo lo sguardo per poi guardare di nuovo, e di nuovo,
innumerevoli volte. Ed è così che continua a suonare,
cercando di porre fine all’inganno. Ma senza riuscirci. Anzi
peggiorando, semmai; il sudore le cola sul viso e le braccia e
giù, lungo il corpo, e la mano le scivola — semplicemente
non c’è limite alla sua inettitudine.
Finito. Ha proprio finito.
Il pezzo che mesi fa conosceva e che era andata perfezionando, al punto
da cancellarne ogni difficoltà e ogni malizia di esecuzione,
l’ha definitivamente sconfitta. L’ha rivelata a se stessa come una
persona del tutto svuotata, devastata. Derubata di ogni cosa nottetempo.
Non demorde. E’ decisa a
toccare il fondo. In questo stato di disperazione, ritenta;
proverà a suonare Beethoven. E ovviamente è un disastro,
peggio che mai, e le pare di ululare dentro di sé, scossa da
lunghi singhiozzi. Depone l’archetto e il violino sul divano del
soggiorno, poi li riprende e li scaraventa sotto il mobile, per
toglierseli dagli occhi, perché nella mente si è vista
farli a pezzi contro lo schienale della sedia con disgustosa
teatralità.
Non ho mollato neanch’io,
nel frattempo. Come avrei potuto, in un tale clima di competizione?
Jill si conca sul rigido
divano di broccato celeste sul quale nessuno si sdraia mai e nemmeno si
siede, se non quando ci sono visite, e in effetti si addormenta. Si
risveglia dopo chissà quanto, con la faccia accaldata
schiacciata contro la stoffa che le ha inciso il disegno sulla guancia;
la bava, colandole dalla bocca, ha macchiato il tessuto celeste. Il mio
baccano prosegue, o ha ripreso, in altalenanti crescendo e diminuendo
simili al martellare di un emicrania. Infatti ha anche mal di testa. Si
alza e si fa strada a forza — la sensazione è questa —
nell’aria bollente, fino all’armadietto della cucina dove Ailsa
tiene gli analgesici.
La densità
dell’aria le ricorda miasmi da fogna. Perché no, del resto?
Mentre dormiva mi sono sporcata, e l’intenso fetore ha avuto tempo di
diffondersi per la casa.
Analgesico. Scalda un
altro biberon. Sale le scale. Mi cambia il pannolino senza tirarmi su
dalla culla. Anche il lenzuolo è imbrattato. Gli analgesici non
hanno ancora fatto effetto e l’emicrania aumenta di ferocia ogni volta
che abbassa la testa. Pulisce l’impiastro, mi lava le parti bruciate
dal lungo contatto, assicura con una spilla il pannolino pulito, e
porta lenzuolo e pezze lorde nel bagno per eliminare il grosso nel
gabinetto, prima di mettere il tutto dentro il secchio del
disinfettante già pieno fino all’orlo perché oggi del
bucato della bambina non si è occupato nessuno. Poi viene da me
con il biberon. Mi calmo di nuovo succhiando. Sembra un miracolo che io
abbia ancora la forza di farlo, eppure è così. La poppata
è in ritardo di almeno un’ora, perciò e autentica fame ad
aggiungersi — ma forse anche a sovvertire — alla mia
risorsa di lamentele. Succhio decisa, finisco il biberon, poi mi
addormento sfinita, e questa volta, finalmente, resto addormentata.
Il mal di testa di Jill si
attenua. Mezza intontita, si mette a lavare pezze, camicini, lenzuoli e
pigiami. Li sfrega e risciacqua e fa anche bollire i pannolini per
scongiurare la possibilità di eritemi, ai quali sono soggetta.
Torce ogni cosa a mano. Stende in casa perché il giorno dopo
è domenica, e Ailsa, al suo ritorno, non vorrà vedere
panni stesi fuori. Jill stessa preferisce non uscire, comunque, specie
adesso che la sera si va addensando e la gente incomincia a sedersi
all’aperto per approfittare del fresco. Ha il terrore di essere vista
dai vicini — persino di essere salutata con cordialità
dai coniugi Shantz — dopo quello che tutti devono aver sentito
oggi.
E il giorno impiega cosi
tanto tempo a finire. Così tanto, le lunghe dita di luce e le
ombre sottili a cedere al buio, e il caldo monumentale a fremere un
poco aprendosi in dolci brecce di frescura. Poi tutto a un tratto, le
stelle escono a grappoli e gli alberi spalancano come nubi le chiome,
scrollando a terra la pace. Ma non per molto, e non per Jill. Ben prima
della mezzanotte, ecco un flebile pianto —non lo si direbbe
esitante, ma flebile sì, incerto, come se, a dispetto
delI’allenamento recente, avessi perso il talento. O come se mi stessi
chiedendo se ne valga davvero la pena. Una breve pausa perciò,
un falso rinvio, una resa insincera. Ma subito dopo, l’inesorabile,
angosciosa, determinata ripresa. Proprio quando Jill si è messa
a preparare dell’altro caffè, a combattere coi residui del mal
di testa, pensando stavolta di potersi sedere al tavolo a berlo.
Spegne la fiamma.
E’ quasi ora dell’ultima
poppata. Se la precedente non avesse subito ritardi, sarei già
pronta. E forse lo sono lo stesso? Mentre il latte si scalda, Jill
pensa che si concederà un altro paio di analgesici. Poi cambia
idea: forse non basteranno; le ci vuole qualcosa di più forte.
Nell’armadietto del bagno trova del Pepto-Bismol, qualche lassativo,
talco mentovato, farmaci su ricetta che non oserebbe toccare.
Ma sa che Ailsa prende roba forte per i dolori mestruali, e va in
camera sua a guardare dentro i cassetti finché non trova un
flacone di pillole, logicamente, sopra una pila di assorbenti. Anche
questi sono farmaci da ricetta medica, ma il bugiardino ne illustra con
chiarezza l’utilizzo. Ne prende due e torna in cucina, dove trova
l’acqua che bolle intorno al biberon e il latte ormai troppo caldo.
Tiene il biberon sotto il
rubinetto per raffreddarlo — le mie grida intanto le piovono addosso
come il chiasso di uccelli da preda su un fiume in piena — guarda
le pillole sulla credenza e pensa, sii . Afferra un coltello e
grattugia via qualche granello dalla pasticca, svita la tettarella dal
biberon, raccoglie i granuli sulla lama del coltello e li scioglie —
appena un pizzico di polvere bianca — nel latte. Poi
ingoia i sette ottavi, o forse undici dodicesimi, se non addirittura
quindici sedicesimi di pasticca rimasti, e porta su il biberon. Solleva
il mio corpo subito rigido e mi infila la tettarella nella bocca
allenata a succhiare. Il latte è ancora un po’ troppo caldo per
i miei gusti e dapprima glielo risputo addosso. Ma dopo un poco decido
che può andare bene, e lo butto giù tutto quanto.
Iona sta urlando. Jill si
risveglia in una casa inondata di luce maligna e delle grida di Iona.
Secondo i programmi,
Ailsa, Iona e la madre avrebbero dovuto rimanere dai parenti di Gueiph
fino al tardo pomeriggio, evitando di viaggiare nelle ore calde della
giornata. Ma dopo colazione Iona ha incominciato a fare storie. Voleva
tornare dalla bambina, diceva di non aver chiuso occhio tutta la notte
per la preoccupazione. Era imbarazzante continuare a discutere con lei
davanti ai cugini, e così Ailsa ha ceduto e sono arrivate a casa
in tarda mattinata. Aprendo la porta, le ha accolte un grande silenzio.
Ailsa ha commentato: —
Baah! C’è sempre questo odore qui dentro, solo che ci
abbiamo fatto il naso e non lo sentiamo più.
Iona ha abbassato la testa
e si è precipitata su per le scale. Adesso sta urlando.
E’ morta. Morta. Assassina!
Non sa nulla della
pastiglia. Perché gridare “Assassina”? E per la coperta. Vede la
coperta tirata sulla testa. Soffocamento. Niente veleno. Non ci ha
messo un minuto, nemmeno mezzo secondo, per passare da “morta” ad
“assassinata”.Un unico balzo. Mi afferra dalla culla, avvolta nella
coperta omicida, e premendosi addosso il fagottino, esce di corsa e
raggiunge la stanza di Jill.
Jill sta lottando stordita
per uscire da un sonno di dodici, tredici ore.
— Hai ucciso la mia bambina,
— le urla in faccia Iona. Jill non la corregge, non precisa, la
mia. Iona mi tiene a braccia tese per mostrarmi con fare
accusatorio, ma prima ancora che Jill possa guardarmi, mi ha già
strappata via. Iona urla e si piega in due come se le avessero sparato
nello stomaco. Sempre con me in braccio, barcolla giù per le
scale, imbattendosi in Ailsa che sta salendo. La getta quasi per terra;
Ailsa si aggrappa al corrimano e Iona nemmeno ci fa caso; sembra che
stia cercando di infilare il fagotto che mi contiene all’interno di una
nuova terrificante cavità del suo corpo. Le parole le escono di
bocca tra un gemito e l’altro.
Piccola. Amore mio.
Tesoro. Ooh. Oh. Chiamala. Soffocata. La coperta. Piccola. Polizia.
Jill ha dormito senza
coperte e senza cambiarsi per la notte. Indossa ancora i pantaloncini e
la maglietta scollata di ieri, e non saprebbe dire se si è
svegliata da un sonno notturno o da un riposino. Non saprebbe dire dove
si trova, né che giorno è. E che cosa ha detto Iona?
Brancolando fuori da una vasca di tiepida lana, vede, più che
sentire, le urla di Iona, che assomigliano a lampi rossastri, vene
caldissime pulsanti sotto le palpebre. Si aggrappa con la mente al
privilegio di non dover capire, ma alla fine sa di avere invece capito.
Sa che la cosa riguarda me.
Ma Jill è convinta
che Iona abbia commesso un errore.
Che si sia introdotta nel
sogno dalla parte sbagliata. Quella parte è finita.
La bambina sta bene. Jill
se ne è presa cura. E’ uscita fuori, ha trovato la piccola e
l’ha coperta. Tutto a posto.
Nell’ingresso al piano di
sotto, Iona raccoglie le forze e grida alcune parole di seguito. — Le
ha tirato la coperta sulla testa. L’ha soffocata.
Ailsa scende da basso,
senza staccarsi dal corrimano.
— Mettila giù, — dice.
— Mettila giù.
Iona mi stringe emettendo
un gemito. Poi mi mostra ad Ailsa e le dice: — Guarda. Guarda.
Ailsa allontana di scatto
la testa. — No, — dice. — Non voglio vedere.
Iona le si avvicina per
spingermi sotto la sua faccia — sono ancora tutta avvolta
nella coperta, ma Ailsa non lo sa e Iona non ci fa caso o non gliene
importa.
Adesso è Ailsa che
grida. Attraversa di corsa la sala da pranzo urlando: — Mettila
giù. Mettila giù. Non voglio guardare un cadavere.
La signora Kirkham arriva
dalla cucina e dice: — Ragazze. Su, ragazze. Che avete da litigare? Non
lo sopporto, lo sapete. —
Guarda, — dice Iona, dimenticandosi Ailsa e girando
intorno al tavolo per mostrarmi a sua madre.
Ailsa raggiunge il
telefono dell’ingresso e dà all’operatore il numero del dottor
Shantz.
— Oh, un bebè, —
esclama la signora Kirkham, spostando dilato la copertina.
— L’ha soffocata, — dice
Iona.
— Oh, no, — dice la
signora Kirkham.
Ailsa sta parlando al
telefono con il dottor Shantz, al quale chiede con voce tremante di
venire subito. Si volta a guardare Iona, inghiotte per prendere fiato e
dice: — Adesso basta. Calma, sta’ zitta.
Iona emette uno strillo
indignato e scappa via, attraversando l’ingresso di corsa per entrare
in soggiorno. Mi sta ancora tenendo stretta.
Jill si è
affacciata in cima alla scala. Ailsa la vede.
Dice: —
Vieni giù.
Non ha idea di quello che
intende farle, né dirle, quando sarà scesa. A guardarla
si direbbe che voglia prenderla a schiaffi. — Adesso non serve mettersi
a fare scene isteriche, — dice.
La maglietta scollata di
Jill le si è attorcigliata addosso, così che ora ha un
seno quasi del tutto scoperto.
— Mettiti in ordine, — dice
Ailsa. — Hai dormito vestita? Sembri ubriaca.
A Jill pare di vedersi
ancora camminare nella luce di neve del sogno. Un sogno che adesso
però è stato invaso da questa gente dissennata.
Ailsa ora riesce a far
mente locale su alcune cose che vanno fatte. Comunque sia andata,
nessuno dovrà pronunciare la parola omicidio. I neonati muoiono,
a volte, senza ragione, nel sonno. L’ha sentito dire. Niente polizia.
Nessuna autopsia: solo un piccolo funerale mesto e tranquillo.
L’ostacolo adesso è Iona. Il dottor Shantz potrebbe
somministrarle un calmante che la faccia dormire. Ma non può
continuare a sedarla giorno dopo giorno.
La cosa da fare è
spedire Iona a Morrisville. E l’ospedale dei pazzi che un tempo si
chiamava manicomio e che in futuro si chiamerà ospedale
psichiatrico, e infine Unità Sanitaria di Igiene Mentale. Ma
quasi tutti lo chiamano semplicemente Morrisville, come il paese vicino.
Andare a Morrisville, dice
la gente. L’hanno portata a Morrisville. Continua così e finirai
a Morrisville.
Iona c’è già
stata in passato e potrebbe tornarci. Il dottor Shantz è in
grado di farla internare e di tenercela fin quando non la ritenga
pronta ad uscire. Traumatizzata dalla morte della bambina. Stato
allucinatorio. Una volta stabilito questo, non rappresenterà
più alcuna minaccia. Nessuno darà più retta a
quello che dice. Avrà avuto un esaurimento nervoso. In effetti
potrebbe persino esser vero —sembra già sulla buona
strada verso l’esaurimento nervoso, con quegli strilli e quelle corse
per casa. Potrebbe durare per sempre. No, è probabile di no. Ci
sono cure di ogni genere al giorno d’oggi. Farmaci per calmarla, e
l’elettroshock qualora fosse meglio cancellare certi ricordi, e poi
fanno anche un’operazione, se è necessario, sugli individui che
sono ostinatamente confusi e depressi. Non la fanno li a Morrisville;
li devono portare in città.
Per tutto questo, che le
è passato in mente in una frazione di secondo, Ailsa
dovrà fare conto sul dottor Shantz. Su una certa dose di cortese
discrezione da parte sua e sulla disponibilità a vedere le cose
dal punto di vista di lei. Il che non dovrebbe costituire un problema
per chiunque sappia che cosa ha passato. Chiunque sia al corrente degli
investimenti che ha fatto per il buon nome della sua famiglia, e dei
colpi che ha dovuto subire, dalla incerta carriera del padre, alle
discutibili facoltà mentali della madre, al crollo nervoso di
Iona durante il corso per infermiere, fino a George che è
partito per andare a farsi ammazzare. Merita forse uno scandalo in
più, la povera Ailsa: articoli sul giornale, magari anche una
cognata in galera?
Il dottor
Shantz risponderebbe di no. E non solo perché sarebbe in grado
di enumerare tutte queste ragioni in base a quanto ha osservato come
vicino di casa e amico. Non solo perché riesce a comprendere
come chiunque debba cavarsela senza una buona reputazione possa prima o
poi sentirsi isolato.
Le ragioni che ha per
aiutare Ailsa sono tutte presenti nella sua voce mentre si precipita in
casa dalla porta di servizio e la chiama per nome, attraversando di
corsa la cucina.
Jill, dal fondo della
scala, ha appena detto: — La bambina sta bene.
E Ailsa di rimando: —Tu
sta’ zitta finché non ti dico come devi parlare.
La signora Kirkham sta
sulla soglia tra la cucina e l’ingresso, esattamente sul percorso del
dottor Shantz.
— Oh, che piacere vederla, —
dice. — Ailsa e Iona stanno litigando. Iona ha trovato un
bebè sulla porta e adesso dice che è morto.
Il dottor
Shantz solleva la signora Kirkham e la sposta di lato. Ripete: — Ailsa?
— e le tende le braccia, ma finisce per appoggiargliele solo di
colpo sulle spalle. Iona esce dal soggiorno a mani vuote.
Jill dice: — Che
ne hai fatto della bambina?
— L’ho nascosta, — dice
Iona con voce meccanica, e atteggiando la faccia a una smorfia di
quelle che solo una persona terrorizzata potrebbe fare, se cercasse di
apparire cattiva.
— Il dottor Shantz ora ti fa
un’iniezione, — dice Ailsa. Così starai tranquilla.
A questo punto si verifica
una scena grottesca, con Iona che corre, lanciandosi verso la porta
d’ingresso — dove Ailsa l’aspetta — e poi su per le scale,
dove il dottor Shantz si mette cavalcioni su di lei e l’afferra per le
braccia dicendo: — Su, su, su, Iona. Da brava. Ora vedrai che
sistemiamo tutto —.E Iona strilla, poi geme e si calma. I versi che
emette e il suo sguardo inquieto, gli sforzi per liberarsi, sembrano
solo una recita. Come se, pur essendo in effetti sull’orlo di un crollo
di nervi, trovasse talmente impossibile recuperare la forza per tener
testa ad Ailsa e al dottor Shantz da non poter offrire altro che una
parodia dei propri gesti. Il che rende palese, ma forse è
appunto questo che Iona intende dimostrare, come non stia affatto
cercando di tener loro testa, ma stia al contrario crollando. E
crollando in modo quanto più vergognoso e sconveniente
possibile, mentre Ailsa le grida: — Dovresti vergognarti.
Praticandole l’iniezione,
il dottor Shantz dice: — Questa si che è una
brava ragazza. Ecco fatto.
E senza voltarsi del
tutto, aggiunge, rivolto ad Ailsa:
— Bada a tua madre. Falla
sedere.
La signora Kirkham si
asciuga le lacrime con la mano.
— Sto bene, tesoro, — dice
ad Ailsa. — Vorrei solo che voi due non litigaste. Avresti
dovuto dirmelo che Iona aveva un bambino. Dovevi lasciarglielo tenere.
La signora Shantz, con
indosso un kimono giapponese
sopra il pigiama estivo,
entra in casa dalla porta di servizio.
— State tutti bene? — domanda.
Vede il coltello sulla
credenza in cucina e ritiene prudente ritirarlo dentro un cassetto.
Quando la gente fa sceneggiate, l’ultima cosa di cui si ha bisogno
è un coltello a portata di mano.
In mezzo a tutto il
trambusto, Jill ha l’impressione di sentire un accenno di pianto. Ha
scavalcato alla meglio Iona e il dottor Shantz — prima era
corsa fin quasi a metà della scala, vedendo Iona lanciarsi in
quella direzione — ed è scesa da basso. Attraversa la doppia
porta ed entra in soggiorno dove in un primo tempo non vede traccia di
me. Ma il gemito si fa sentire di nuovo, e Jill ne segue il suono verso
il divano e guarda sotto.
Eccomi là, spinta
accanto al violino.
Durante il breve tragitto
dall’ingresso al soggiorno, Jill ha ricordato ogni cosa, ed è
come se il fiato le si fermasse in gola e l’orrore le si affollasse in
bocca. Poi un lampo di gioia le rimette in moto la vita, quando come
nel sogno ritrova il bambino vivo e non il rugoso cadaverino con la
testa ridotta a una noce moscata. Mi prende in braccio. Io non mi
irrigidisco, non scalcio e non marco la schiena. Sono ancora un po’
assonnata per il sedativo nel latte che mi ha stordita tutta la notte e
metà del giorno dopo, e che, in dosi maggiori — forse
nemmeno tanto maggiori, se è per questo — mi avrebbe
davvero levata di mezzo.
La coperta non c’entra
affatto. Chiunque l’avesse osservata bene, avrebbe capito che era
talmente leggera e traforata da non potermi di certo impedire di
inalare tutta l’aria di cui avevo bisogno. Attraverso quella coperta
avrei potuto respirare come sotto una rete da pesca.
Lo sfinimento invece
può aver avuto una parte nella vicenda. Un’intera giornata di
strilli, una simile impresa di furiosa manifestazione della mia
volontà, potrebbe avermi stremata. Quello, e la polvere bianca
caduta dentro il mio latte, mi avevano sprofondato in un sonno talmente
profondo che Iona non era più riuscita a individuare il mio
respiro. Verrebbe da pensare che avrebbe dovuto notare che non ero
fredda, e verrebbe anche da credere che con tutte quelle grida,
strepiti e andirivieni avrei dovuto svegliarmi subito. Non so come mai
non sia andata cosi. Credo che Iona non abbia notato questi particolari
a causa del panico e dello stato mentale nel quale versava ancor prima
di trovarmi, ma non saprei dire perché io non piansi prima. O
forse lo feci, ma nello scompiglio nessuno mi udì. O forse Iona
mi udì, invece, e mi guardò, e mi infilò sotto il
divano perché a quel punto ormai era tutto perduto.
Poi a sentirmi fu Jill.
Jill, proprio lei.
Iona venne portata su
quello stesso divano. Ailsa le sfilò le scarpe per non sporcare
il broccato, e la signora Shantz salì a prendere un plaid
leggero da buttarle addosso.
— So che non ne ha bisogno
per il freddo, - disse. — Ma quando si sveglia credo
che le farà piacere trovarsi coperta.
Prima però,
ovviamente, si erano tutti radunati per constatare che io ero viva.
Ailsa si stava rimproverando di non essersene accorta subito. Detestava
ammettere di aver avuto paura di guardare la bambina.
— I nervi di Iona devono
essere contagiosi, — disse. —Avrei proprio dovuto
saperlo —. Si rivolse a Jill come se stesse per dirle di andare a
infilarsi qualcosa su quella maglietta. Poi ricordò di averla
trattata malissimo, a quanto pareva senza alcun motivo, e perciò
tacque. Non cercò nemmeno di convincere sua madre del fatto che
Iona non aveva nessun bambino, anche se, a mezza voce, bisbigliò
alla signora Shantz: — Benone, potrebbe essere il pettegolezzo
del secolo.
— Sono così contenta
che non sia successo niente di brutto, — disse la signora
Kirkham. — Per un minuto ho pensato che Iona l’avesse
ammazzata. Ailsa, devi cercare di non prendertela con tua sorella.
— Certo, mamma, — disse
Ailsa.— Adesso andiamo a sederci in cucina.
C’era un biberon di latte
in polvere pronto, che di norma avrei dovuto richiedere e bere ore
prima. Jill lo mise a scaldare, tenendomi dentro il nido del braccio
per tutto il tempo.
Aveva subito cercato il
coltello, entrando in cucina, e si era molto meravigliata della sua
assenza. Riusciva però a distinguere una polvere leggerissima
sulla credenza, o così le pareva. La pulì con la mano
libera, prima di aprire il rubinetto per prendere l’acqua e mettere a
scaldare il biberon.
La signora Shantz si dava
da fare a preparare il caffè. Aspettando che bollisse, mise lo
sterilizzatore sul gas e lavò i biberon del giorno precedente.
Voleva mostrarsi efficiente e premurosa, ma riusciva appena a
nascondere il fatto che tutto quello sfacelo e quello scompiglio
emotivo l’avevano rianimata.
— Credo proprio che Iona
fosse ossessionata da quella bambina, — disse. — Era
destino che prima o poi succedesse una cosa del genere.
Voltandosi dal fornello
per rivolgere quelle ultime parole al marito e ad Ailsa, sorprese il
dottor Shantz nell’atto di togliere le mani di Ailsa dalla posizione in
cui le teneva, ai lati del capo. Fu troppo veloce e colpevole, lo
scatto che fece il dottore per distogliere le proprie mani. Se non
l’avesse fatto in quel modo, sarebbe sembrato semplicemente un gesto
consolatorio. Come dottore poteva di certo permetterselo.
— Sai, Ailsa, credo che
anche tua madre dovrebbe andare a coricarsi, — disse sollecita
la signora Shantz, senza scomporsi. — Cercherò di convincerla.
Se riesce a dormire, può darsi che le passi tutto di mente. E
che passi anche a Iona, se abbiamo fortuna.
La signora Kirkham era
uscita dalla cucina quasi subito dopo esserci entrata. La Shantz la
trovò nel soggiorno che osservava Iona, e trafficava con il
plaid per assicurarsi che fosse ben coperta. Non aveva voglia di
coricarsi. Voleva che le spiegassero — sapeva che la sua
interpretazione doveva essere un tantino fuori quadro. E voleva che la
gente le parlasse come una volta, anziché in quella maniera
stranamente gentile e compiaciuta con la quale ormai tutti le si
rivolgevano. Ma a causa della sua consueta amabilità, e della
consapevolezza di contare pochissimo in quella casa, permise alla
signora Shantz di accompagnarla di sopra.
— Ecco, — sussurrò
come fosse un segreto.— Sta’ ferma. Si inginocchiò e
cercò con la mano il violino, estraendolo dal nascondiglio.
Trovò la custodia e lo rimise a posto. Io non mi mossi — non
essendo ancora capace di rigirarmi da sola — e restai in
silenzio.
Rimasti soli in cucina,
Ailsa e il dottor Shantz probabilmente non colsero quell’occasione per
abbracciarsi, limitandosi invece a scambiarsi un’occhiata. Carica di
consapevolezza, e vuota di promesse come di disperazione.
Iona ammise di non aver
tentato di sentire il polso. E non aveva mai sostenuto che fossi
fredda. Rigida, aveva detto. Poi cambiò idea, non rigida, ma
pesante. Talmente pesante, disse, da farle immediatamente pensare che
non potessi essere viva. Come un fagotto, un peso morto.
Credo che ci fosse del
vero. Non credo di essere stata morta, ma in un luogo lontano
sì, un luogo dal quale potevo tornare come non tornare. Credo
che l’esito della vicenda fosse incerto, e che coinvolgesse in qualche
misura la volontà. Che dipendesse da me, voglio dire, prendere
una strada anziché un’altra.
E l’amore di Iona, di
sicuro il più sincero che mai mi capiterà di ricevere,
non determinò la mia scelta. Le sue grida e quel suo stringermi
a sé non funzionarono, non si rivelarono decisivi. Perché
non era di Iona che dovevo accontentarmi. (Potevo saperlo, potevo
sapere che alla fine non sarebbe stata Iona a darmi il bene più
grande?) Era di Jill. Dovevo accontentarmi di Jill e di quello che
potevo ottenere da lei, anche se dava l’idea di essere poco.
Soltanto allora presi la
decisione di essere femmina, credo. So bene che la questione era stata
risolta molto prima della mia nascita e che era evidente a tutti sin
dal principio della mia vita, ma sono convinta che fu nel momento in
cui decisi di tornare indietro, quando rinunciai alla guerra contro mia
madre (che doveva significare la lotta per la sua resa incondizionata)
e quando scelsi in effetti la sopravvivenza alla vittoria (la morte
sarebbe stata una vittoria), che accolsi la mia natura femminile.
E cosi in un certo senso
anche Jill accolse la sua. Ormai placata e riconoscente, incapace
persino di soffermare il pensiero su quanto aveva appena evitato, prese
ad amarmi, perché l’alternativa era disastrosa.
Il dottor Shantz ebbe
qualche sospetto, ma lasciò perdere. Domandò a Jill come
ero stata il giorno precedente. Irrequieta? Sì, disse lei, molto
irrequieta. Lui replicò che i neonati prematuri, anche se di
pochissimo, sono soggetti a traumi, e che occorre fare molta attenzione
con loro. Le raccomandò di coricarmi sempre sulla schiena.
Per Iona non fu necessario
l’elettroshock. Il dottor Shantz la curò con i farmaci. Disse
che si era affaticata eccessivamente occupandosi di me. La donna che
aveva preso il suo posto alla pasticceria voleva lasciarlo: non le
piacevano i turni di notte. Perciò Iona poté tornare.
Questo è ciò
che ricordo meglio delle visite estive alle zie, all’età di sei,
sette anni. L’essere portata giù al negozio nell’orario strano e
solitamente proibito della mezzanotte e guardare Iona infilarsi la
cuffia e il grembiule bianco, osservarla manipolare la grande massa di
pasta chiara che si muoveva e ribolliva come una cosa viva. Poi
tagliare i biscotti e darmi gli avanzi da mangiare, oppure, in certe
occasioni speciali, scolpire una torta nuziale. Come era candida e
luminosa, la grande cucina, con la notte che ne riempiva ogni finestra.
Io ripulivo la ciotola della glassa di copertura: lo zucchero molle,
dolcissimo, irresistibile.
Ailsa pensava che non
avrei dovuto restare sveglia fino a quell’ora, e mangiare tutti quei
dolci. Ma non faceva nulla per impedirmelo. Si chiedeva cosa ne avrebbe
detto mia madre — come se fosse Jill l’ago della bilancia, e
non lei. Ailsa esigeva il rispetto di certe regole che in casa mia non
vigevano — appendi quella giacca, risciacqua il bicchiere
prima di asciugano, altrimenti rimane macchiato —ma io non riconobbi
mai in lei la persona severa e persecutoria che Jill ricordava.
Nessuno disse mai nulla di
offensivo sulla musica di Jill. Dopo tutto, ci si guadagnava da vivere.
A conti fatti, Mendelssohn non l’aveva sconfitta definitivamente.
Conseguì il diploma; si laureò al conservatorio. Si
tagliò i capelli e dimagri. Riuscì ad affittare un
bilocale nei pressi di High Park a Toronto, e ad assumere una donna che
badasse a me parte della giornata, perché riceveva la pensione
come vedova di guerra. Poi si trovò un lavoro in un’orchestra
radiofonica. Doveva essere fiera del fatto di essere sempre riuscita,
in tutta la sua carriera professionale, a ottenere impieghi come
musicista, senza dovere mai ripiegare sull’insegnamento. Sapeva di non
essere una grande violinista, di non avere alcun dono miracoloso
né destino segnato, ma se non altro era in grado di mantenersi
facendo quello che voleva fare. Anche dopo il matrimonio con il mio
patrigno, dopo che si furono trasferiti a Edmonton (lui era geologo),
continuò a suonare nell’orchestra sinfonica del posto.
Suonò fino a una settimana prima della nascita di entrambe le
mie sorelle. Era fortunata, diceva: suo marito non la ostacolava.
Iona ebbe in effetti
ancora un paio di crisi, la più grave delle quali quando io
avevo circa dodici anni. La internarono a Morrisville per parecchie
settimane. Credo che la curassero con l’insulina: tornò a casa
grassa e loquace. Andai da loro, durante la sua assenza, e Jill venne
con me, portandosi la mia prima sorellina, che era nata da molto poco.
Capii dai discorsi di mia madre e Ailsa che non sarebbe stato opportuno
portare in casa un bebè se Iona fosse stata li; avrebbe potuto
scatenare “una ricaduta”.Non saprei dire se l’episodio che l’aveva
fatta finire a Morrisville avesse in qualche modo a che fare con un
bebè.
Mi sentii messa da parte
nel corso di quella visita. Sia Jill che Ailsa avevano incominciato a
fumare, e se ne stavano sedute fino a tardi in cucina con le sigarette
accese, mentre aspettavano la poppata dell’una di notte. (Mia madre
allattava al seno la bambina — fui contenta di sapere che quel
genere di intimità a base di pasti a temperatura corporea mi era
stata risparmiata).Ricordo che scendevo imbronciata perché non
riuscivo a dormire, e poi diventavo ciarliera, dicevo un mucchio di
stupidaggini, cercando di infilarmi nei loro discorsi. Mi rendevo conto
che parlavano di cose che non volevano io ascoltassi. Erano diventate,
imprevedibilmente, buone amiche.
Afferrai una sigaretta, e
mia madre disse: — Avanti, dài, lasciale stare. Non vedi che
stiamo parlando?— Ailsa mi disse di prendermi qualche cosa da
bere nel frigo, una Coca-cola o un ginger ale. Così feci, e
anziché portarmelo di sopra, uscii.
Sedetti sul gradino di
casa, ma le voci delle due donne si fecero subito troppo basse
perché potessi udire qualcosa di quei sussurrati rimpianti e
delle loro consolazioni. Allora mi misi a vagare per il cortile, oltre
la chiazza di luce proiettata dalla porta a vetri.
La lunga casa bianca era
occupata da nuovi inquilini. Gli Shantz si erano trasferiti, adesso
restavano in Florida tutto l’anno. Spedivano alle mie zie certe arance
che, a detta di Ailsa, ti facevano guardare disgustata qualsiasi
arancia riuscissi a trovare in Canada. I nuovi residenti avevano fatto
costruire una piscina, per lo più utilizzata dalle graziose
figlie adolescenti — due ragazzine che mi ignoravano
completamente quando ci incontravamo per strada — e dai loro
corteggiatori. Certi arbusti erano cresciuti parecchio tra il cortile
delle zie e il loro, ma riuscivo lo stesso a guardarle correre intorno
alla piscina e spingersi a vicenda dentro l’acqua, tra grida e spruzzi
copiosi. Disprezzavo le loro bravate perché prendevo la vita
molto seriamente, allora, e avevo un’idea assai più nobile e
tenera dell’amore romantico. Ma mi sarebbe ugualmente piaciuto attirare
la loro attenzione. Avrei voluto che una di loro scorgesse il mio
pigiama pallido muoversi nel buio e si mettesse a strillare forte,
pensando di avere visto un fantasma.